Rosso
e Nero Rubrica curata da Beppe Niccolai sulle pagine del
"Secolo d'Italia"
Gennaio 1982
Vogliamo tentare di dare uno sguardo ai duri fatti polacchi, dimenticando, per un po', i soliti stantii cliché della stampa, della radio, della TV, dei politici senza fantasia? Cliché, dopo tutto, monotoni. Sempre gli stessi. Non un tentativo di andare più nel profondo delle cose; capire che cosa è accaduto, perché è accaduto e, soprattutto, che cosa può capitare. Il primo fattore, parrà paradossale, ma è così, da esaminare è il pontificato di Albino Luciani. Tutto parte da lì. Trentatre giorni di vita, poi la morte. È parso un fatto da nulla. Un episodio. Invece, senza Papa Luciani, sarebbe stato impossibile, innaturale, incomprensibile Wojtyla. Perché? Perché Papa Luciani veniva dopo il pontificato di Paolo VI, il Papa del dubbio. Non è senza significato che il cardinale Montini assurga a Papa nel 1963 (avvento del centrosinistra in Italia) e tessa la sua vita e le sue opere in sintonia con tempi che dovevano segnare la più profonda degradazione, non solo politica, ma cristiana, dell'Italia. È sotto il suo pontificato di Re-tentenna che il popolo italiano diventa, in collaborazione con la DC, il popolo meno cristiano d'Europa. Ed ecco Papa Luciani. Pare un Papa da nulla, da due soldi, ed invece è un grande Papa. Senza di lui, lo abbiamo scritto all'inizio, Papa Wojtyla (che scuote il mondo) non troverebbe spiegazione. Per quale significato? Perché al Papa «intellettuale», al Papa signore della più raffinata cultura, al Papa sapiente, al Papa padrone della parola, contrappone, appena eletto, la sua semplicità contadina. E non si perde in filosofemi. Dice alle folle, con semplicità: «Io ci credo, potete crederci anche voi». Ed uno dei suoi primi accenni di credente, è rivolto proprio alla Madonna. A Luciani sono bastati 33 giorni per chiudere e far dimenticare l'epoca dei dubbi. Chi sarebbe venuto dopo di lui non avrebbe poggiato i piedi sullo scetticismo alla democristiana, ma su un atto di fede. Poi, d'un tratto, la sua scomparsa. Passato, come una stella filante. Dopo di Lui, Papa Wojtyla. Alla semplicità, la robustezza del pensiero senza dubbi, l'amore dell'uomo e per l'uomo che solo la passione di un «patriota» può capire e interpretare. Ciò che è accaduto dopo è di una semplicità straordinaria. Come lo era la fede di Papa Albino Luciani. Miracolo e dramma insieme. Così, come ai tempi di Gesù. Quando le idee tornano a muoversi, piaccia o no, il sangue torna a scaldarsi. Il pendolo della storia fermo, immobile da quarant'anni, comincia ad oscillare, a muoversi, a battere il ritmo della vita. Un occidente mercantile, dedito ai piaceri dello «stomaco». I suoi santuari all'ONU e a Strasburgo. Un comunismo all'Est pietrificato nell'arroganza, nell'arbitrio, nella barbarie. L'uno condizionava l'altro. E nel mezzo una gioventù senza speranza. O i paradisi artificiali dell'eroina o il terrorismo, in Occidente. Manicomi per «criminali politici» ad Est. Pareva la fine. Barbarie ad Occidente, barbarie all'Est. Ora il pendolo della storia torna a muoversi. E le folle vanno incontro al Papa, espresso da un paese retto dal comunismo. In nome di che cosa? Di Carlo Marx? Di Lenin? O dell'ONU? O di Strasburgo? No. In nome di Dio, della Patria, della libertà. In nome di un Papa «barbaro» che riporta, nel mondo, fieramente, le insegne di Roma. Ed il mondo di Yalta scricchiola. Il comunismo, intollerante surrogato della religione, arrogante formula del tutto spiegato, si sbriciola davanti a Dio e alla Patria. Fateci caso. Il generale polacco Jaruzelski, nel tentativo disperato di catturare le simpatie del popolo polacco, a che cosa è ricorso? Forse al marxismo-leninismo? Forse al «moderatismo» di Breznev? Forse al «comunismo dal volto umano»? Forse alla «via nazionale al comunismo»? Niente di tutto questo. Se avesse fatto cenno, sia pure larvatamente, al comunismo comunque inteso, non avrebbe trovato nemmeno un soldato a dargli ascolto. Ed allora a che cosa ha dovuto fare appello? Alla Patria, prima di tutto. Fate attenzione, ha detto ai Polacchi, rispettate l'esercito, simbolo della Nazione, altrimenti arrivano i russi. A che cosa ha fatto appello? Alla bandiera rossa della rivoluzione d'ottobre? No. Anzi. Ha ordinato di ammainarla. Ed ha issato, sul più alto dei pennoni, la bandiera nazionale polacca. A che cosa è ricorso? Forse allo strumento dello sciopero, contro coloro che riteneva i nemici della Nazione? No. È ricorso alla logica del lavoro. Per salvare la Patria, ha detto. Si è forse servito della burocrazia del partito comunista per gestire i servizi essenziali? No. Ha messo in galera anche alcuni burocrati del partito comunista. I comunisti della radio e televisione polacca erano talmente impresentabili che il generale ha dovuto cacciarli via e, per farsi ascoltare, ha dovuto ricorrere ad uomini in uniforme. Solo l'esercito, in Polonia, riscuote credito. Il resto è menzogna, è inganno, è perfidia.
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"L'Espresso", arrivando su una notizia che "Rosso e Nero" aveva anticipato da molto tempo, scrive che l'ex-deputato livornese Emo Danesi della DC, braccio destro dell'ex-ministro Bisaglia, si è piazzato all'ENI. Dalla P2 all'ENI, titola "L'Espresso" (13.12.1981). Il lettore ci perdonerà se torniamo sul caso Danesi, se continuiamo a sparare su un uomo (politicamente) morto, ma ci corre il dovere di farlo perché occorre rendere giustizia ad un nostro caro amico di periferia, ad Altero Matteoli, segretario provinciale del MSI-DN di Livorno, che di Danesi è stato il primo a capirne le... funzioni, a smascherarle, a denunciarle, quando (in testa i comunisti) gli altri tacevano o, addirittura, lo difendevano. Risale esattamente ad un anno fa, quando Emo Danesi, nel fulgore della sua potenza (la vicenda della P2 e il resto erano ancora da venire), si faceva pubblicare dal quotidiano (comunista) "il Tirreno" (14.12.1980), una sprezzante lettera, con la quale, volendo replicare alle circostanziate accuse che Matteoli, contro di lui, aveva portato in Consiglio comunale, annunciava una sua querela. «Mi corre l'obbligo di precisare», scriveva Danesi, «che se fosse soltanto una questione di rispetto verso Matteoli e la sua parte politica che rappresenta, non avrei, caro direttore, perduto tempo, avendo per Matteoli e la sua parte politica la più completa disistima e disprezzo. Informo perciò il signor Altero Matteoli di aver presentato, nei suoi riguardi, querela con la più ampia facoltà di prora, ritenendo le di lui affermazioni lesive della mia dignità». «La mia dignità». Questo era il 14.12.1980. È passato un anno. Dove è andata a finire, ex-onorevole Danesi, la sua dignità? Se non lo sa, lei è il primo deputato che nella pur lunga storia parlamentare, si fa buttare fuori dal Parlamento. Fidava, è vero, nel solito giochetto. Date le dimissioni (accompagnate da una... nobile lettera), il Parlamento, come prassi, le avrebbe respinte. Non è andata così. La Camera dei Deputati ha sentito tale schifo per ciò che accadeva che, capitatale l'occasione di levarselo dai piedi, non ha perduto tempo. E ha buttato fuori lei e tutto ciò che rappresentava (carrierismo, clientelismo, affarismo, corruzione). Si può dire: in pochi minuti. Ecco che cosa capita a tipi come lei che, dall'alto della propria presunzione e arroganza, parlano di disprezzo per il MSI-DN e i suoi uomini. Sono proprio gli uomini (puliti) del MSI-DN che, anticipando di gran lunga le decisioni dei Parlamento, lo mettono alla porta. È capitato a lei e ha fatto... storia. Capiterà ad altri.
* * * Per la sesta volta il candidato del PSI alla Corte Costituzionale, il giurista Federico Mancini (per la verità una persona per bene), è stato bocciato dal Parlamento. Alla buvette di Montecitorio, subito dopo la votazione, c'è stato questo scambio di battute fra Craxi e l'on. Mammì dei PRI. Craxi: «Va prima a casa il Parlamento che Federico Mancini». Mammì: «Perché lo dici a me, e con codesto tono?». Craxi: «Perché tu hai rivolto a Mancini un pubblico invito a ritirare la sua candidatura». Mammì: «È il minimo che Mancini possa fare, a questo punto». Craxi: «Non lo fa, e non lo farà». Mammì: «Vuol dire che non glielo consentite?» Craxi: «Andrete prima a casa tu e il Parlamento che Federico Mancini!» Questo il dialogo. Gli «esperti» dovrebbero ora dirci se tutto ciò fa parte del costume democratico, restaurato 36 anni fa. Grazie alla resistenza.
* * * È noto che stiamo difendendo, con tutti i mezzi a disposizione, le nostre esportazioni che ci servono, grazie alla valuta pregiata, a comprare petrolio. Uno dei nostri mercati prediletti sono le Americhe latine. Ebbene I'...ineffabile presidente del Consiglio che ti fa? Si reca da Lama, al Congresso della rossa CGIL. E pronuncia la seguente invettiva: «Corriamo il rischio di diventare come il Sudamerica», ha proseguito Spadolini, «significa, non soltanto la corruzione esteriore, il saccheggio del pubblico denaro, le commistioni fra centri di potere economico e settori della burocrazia; Sudamerica è anche il dilagare dello stato assistenziale, oltre ogni limite, oltre ogni remora... Sudamerica è la spirale dei consumi disinvolta non meno della tecnica dei terroristi derivata da quella dei tupamaros. E lasciatemi dire», ha terminato il presidente dei Consiglio, «talvolta mi sembra di intravedere, dietro le cospirazioni affaristiche, gli squadroni della morte». Così il presidente dei Consiglio di una Nazione dissanguata dai ladri, dissestata dai profittatori, infestata dai porta-borse, crocefissa da assassini di Stato. Così un presidente del Consiglio sputtana noi, e le nostre industrie, verso Stati con i quali abbiamo in corso commesse di miliardi. Non lo hanno cacciato. Anzi. Ha avuto elogi. Anche da Pertini.
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La «diversità» del PCI, in queste ultime settimane (Polonia a parte), ha avuto delle smentite non indifferenti. Infatti davanti alla Magistratura di Novara è finita la giunta (rossa) dell'Amministrazione provinciale. Ha appaltato lavori a geometri (compiacenti), anziché ad ingegneri, così come prescrive la legge. Si tratta di lavori per centinaia di milioni. * * * "Rosso e Nero", tempo fa, si occupò della vicenda del signor Carlo Caramassi, sindaco comunista di Venaria Reale (1972-1979), un comune vicino Torino. La Procura della Repubblica di Torino ha emesso una comunicazione giudiziaria, per reato di ricettazione contro Maddalena Longo, moglie dell'ex-primo cittadino di Venaria. Infatti la signora ha depositato sul conto dell'illustre consorte, aperto presso il Monte dei Paschi di Siena, 35 milioni. Fin qui nulla di male. È che fra le banconote versate figurano pezzi da 100.000 provenienti dai riscatti pagati in seguito ai sequestri di persona di Emanuela Trapani e Mario Botticelli. Evviva la diversità dei militanti dei PCI.
* * * Un ex-comunista ed ex-agente dell'UNIPOL di Foggia ha mandato in galera, prima il presidente dell'Amministrazione provinciale (PCI) e la sua segretaria, poi Pasquale Carbonaro, segretario amministrativo del PCI di Foggia. Si tratta di polizze di assicurazione contratte dall'Amministrazione provinciale di Foggia a favore dell'UNIPOL (società di assicurazione notoriamente legata al PCI), dietro pagamento di tangenti. Il presidente dell'Amministrazione provinciale, avvocato Francesco Kuntze, è risultato legale dell'UNIPOL. Il fatto -dicono i giornali- ha provocato un terremoto (politico) nel foggiano. Non esageriamo. Se la magistratura toscana avesse... tempo, ma soprattutto volontà, di mettere gli occhi sui rapporti UNIPOL-Amministrazioni locali, in Toscana, accadrebbe non un terremoto ma un cataclisma. E di proporzioni gigantesche.
* * * Al processo contro 118 croupiers e clienti specializzati, accusati di aver sottratto 100 miliardi al Casinò di San Remo, Sergio Semeria, 50 anni, croupier, ha fatto i primi nomi tabù, cioè dei politici (che avrebbero intascato). Non poteva mancare Il democristiano: Osvaldo Vento, sindaco di San Remo. Il socialista nemmeno: Bruno Marra, vicesindaco. Potevano i socialdemocratici essere estranei? Che dite mai? Ed infatti, nell'elenco, ecco Enzo Ligato del PSDI, assessore al patrimonio. In ultimo la... sorpresa (non per noi, ma per il «diverso» on. Enrico Berlinguer). Infatti eccoti Gino Napolitano, capogruppo del PCI al Consiglio comunale di San Remo. Intascava (il diverso!) anche lui secondo le accuse. Tutti all'ombra della fatidica formula dell'arco costituzionale.
* * * «A Milano il magistrato competente, incaricato dell'istruttoria sul crack di Sindona ha verbalizzato le mie accuse riguardanti 100 milioni di lire date al settimanale del PCI "Giorni - Vie Nuove" dall'avv. Bovio, per incarico e per conto di Michele Sindona. L'amministrazione di quella rivista del PCI fece anche affiggere a Milano un manifesto per pubblicizzare i rapporti di Sindona con il Banco di Roma. Il dott. Viola ne è al corrente, anche perché raccolse prove con una perquisizione nello studio dell'avv. Bovio». (Luigi Cavallo, intervista del 29.6.1980). Chi è Luigi Cavallo? Ex-partigiano comunista, ex-redattore de "l’Unità", poi passato con Edgardo Sogno e con lui arrestato, dal giudice torinese Luciano Violante, oggi deputato del PCI, per il cosiddetto «golpe bianco». Invano, di questa testimonianza, troverete traccia fra le carte della Commissione di inchiesta parlamentare sul caso Sindona. Il PCI è sacro. Non si tocca.
* * * Tempo fa "l’Unità", con titoli di scatola, annunciava che «l'ignobile manovra» contro il presidente della SIPRA Vito Damico (SIPRA, società che gestisce in regime di monopolio la pubblicità radiotelevisiva), accusato di avere sperperato denaro pubblico a vantaggio dei giornali e riviste di partito, era finita a danno degli incauti accusatori. Vito Damico risultava puro e immacolato. Non è così. Il procedimento penale contro 30 amministratori della SIPRA, compreso il comunista Vito Damico, continua. Intanto, alla Camera, sono arrivate dalla Procura di Torino due richieste di autorizzazione a procedere contro Franco Bassanini, consigliere di amministrazione della SIPRA, e Claudio Lenoci, sindaco effettivo della concessionaria. Entrambi, anche se Bassanini non fa più parte del PSI, sono di provenienza socialista. Se a questi nomi si aggiunge Gennaro Acquaviva, vicepresidente della SIPRA, craxiano e i democristiani Gianni Pasquarelli ed Ettore Bernabei, ci si rende conto che dovunque si... posino comunisti, socialisti e democristiani, altra funzione non hanno se non quella di «rubare» a vantaggio di Sua Maestà il partito. Le accuse non sono lievi: falso in bilancio, peculato pluriaggravato. Quest'ultimo reato deriva dal fatto che il reato è stato compiuto da più persone. Un reato da sette anni di reclusione, come minimo. Bisogna riconoscerlo: gli appartenenti all'arco costituzionale non si muovono per nulla. Quando le cose le fanno, le... fanno, davvero, con serietà e passione. Ma che bravi.
* * * Roberto Calvi, banchiere dell'Ambrosiano, piduista di stellare grandezza, non solo ha finanziato il PSI (20 miliardi di lire), ma anche il PCI, attraverso il suo quotidiano "Paese Sera" (dieci miliardi). Infatti il giudice Luciano Infelisi, che si occupa dell'affare, sospetta che i quattrini, anziché a "Paese Sera" siano andati al PCI. "Paese Sera" sarebbe solo servito per aggirare la legge sul finanziamento dei partiti. C'è di più. Quando fu siglato l'accordo fra l'Ambrosiano e la Società Editoriale Rinnovamento, la società attraverso la quale il PCI controllava "Paese Sera", le garanzie concesse dal PCI alla banca di Calvi per la restituzione dei 10 miliardi, si basavano, in gran parte, sulle provvidenze della legge sull'editoria, in quel momento non ancora approvata dal Parlamento. Il prestito quindi -si chiede il giudice- era davvero garantito? O siamo davanti ad una violazione della legge bancaria? E perché Calvi -se così è- rischiava l'incriminazione pur di aiutare il PCI? Quale favore, in cambio, riceveva dal PCI?
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Il deputato radicale Roberto Cicciomessere ha inviato una lettera all'ufficio di presidenza della Camera perché sia bloccata la vendita alla buvette di Montecitorio di bevande alcooliche nei giorni di seduta, al fine di «ridurre, non solo la diffusione dell'alcoolismo tra i deputati, ma anche gran parte dei comportamenti poco onorevoli che avvengono alla Camera». Cicciomessere, per chi non lo sapesse, è quel deputato che, con balzo felino e senza mancare l'obiettivo, saltò a pie’ pari, sul banco del governo. Va bene per l'alcoolismo. Ma ci sarà anche un controllo antidoping?
* * * Il deputato radicale Aiello Mario, sul problema della fame del mondo (promotore Marco Pannella) dà questo giudizio: «Questo di andare a salvare la gente mi pare un atteggiamento fideistico. Di gente che muore di fame ce n'è sempre stata e non è mai fregato nulla a nessuno, chissà perché oggi dovrebbe essere diverso. Io penso che stia avvenendo un processo d'ideologizzazione. Mi spiego: così come è successo con l'ostruzionismo e coi referendum noi rischiamo di fallire la battaglia politica finendo per ideologizzare solo lo strumento, in questo caso la fame. Perché giudico debole questo modo di andare a salvare la gente affamata? Perché i grandi organismi internazionali che se ne dovrebbero occupare, Bradford Morse e Pnud compresi, sono quelle stesse persone che hanno fallito in questi vent’anni. Mi si dice: ma ora hanno dei piani, giurano che funzioneranno, basta che i soldi vengano stanziati dai governi. E ci credo! A quei signori basta prendere soldi poi sa cosa gli importa del Terzo mondo! Perché, ditemi: con quale criterio andiamo a scegliere i tre milioni da salvare? Come li salviamo? Chi gli costruisce industrie, strade, ponti? Suvvia, ho la sensazione che questa battaglia rischi di esaurirsi nella costruzione di un ennesimo campo profughi dove poi quelli che muoiono di fame non riescono mai ad entrare...». ("L'Espresso", 8.12.1981)
* * * «Io», ha detto Fanfani ("Panorama", 6.12.1981), «di fronte a progetti di rinnovatori avventati, dico che se uno nasce bischero, tale resta, e nessuno può illudersi di fargli abbandonare la bischeraggine». Il «bischero» di Fanfani è diretto al deputato democristiano Giuseppe Costamagna. Fanfani è toscano. Nel "Dizionario moderno" di Alfredo Panzini, alla parola «bischero», trovo: «Legnetto congegnato nel manico degli strumenti musicali per tendere le corde. In Toscana, pene e, per estensione, stupido, buono a nulla». A Costamagna la scelta. Fanfani, per chi lo ignorasse, è presidente del Senato, la seconda autorità della Repubblica, dopo Sandro Pertini.
* * * «Insomma tutto da rifare, professor Giannini?» «Esattamente, tutto da rifare. Si devono ripensare le strutture e su questa base e solo su questa base scegliere il personale». «È un disegno, professor Giannini, che rischia di diventare la grande illusione del XX secolo. Da quanto tempo in Italia si parla di riforma della pubblica amministrazione?» «Ci avviciniamo ai 100 anni se ci riferiamo al primo tentativo di Crispi, che peraltro intelligentemente provò a riordinare i ministeri prima del personale. Poi i tentativi e gli insuccessi, ricominciarono con Giolitti». «E da allora le cose sono andate sempre peggio?» «Più o meno» «Tanto da farci rimpiangere la pubblica amministrazione dell'epoca fascista che era indubbiamente più efficiente di quella di oggi?» «È senz'altro così: allora le amministrazioni erano poche e si specializzavano. C'erano solo gli Interni, il Tesoro e le Corporazioni». ("La Notte", 5.12.1981, Massimo Severo Giannini, già ministro per la riforma della Pubblica amministrazione, amministrativista di prima grandezza, professore universitario, partigiano, socialista).
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L'inchiesta di Bologna, sulla strage orrenda del 2 agosto si è dissolta nel nulla. Decine e decine di arrestati sono via via usciti dall'inchiesta. Gli ultimi due, appena pochi giorni fa, scagionati. Per quegli 85 morti non ci sono, allo stato attuale, né imputati né indiziati. Si riparte da zero, scrive la stampa. Non una parola sull'episodio, non certo secondario, che si è tenuta in prigione (e che prigione!), per mesi e mesi, tanta gente, sotto l'accusa di un reato infame, per poi arrivare a dire: fuori, siete innocenti. Erano «neri» e quindi non c'è da chiedere scusa. Il garantismo, che questa Repubblica, nata dalla resistenza, riserva a ladri, corrotti, drogati, assassini di stato e di sinistra, cessa davanti a colui che si dice di destra. Il razzismo torna, in questi casi, a vigoreggiare. Comunque qual'è l'insegnamento che si ricava da questa triste vicenda di dolore e di morte? Tutto parte dal questore Russomanno, pezzo grosso dei servizi... riformati che, in galera per il verbale di interrogatorio Peci-figlio di Donat Cattin, il terrorista, raccolse le confessioni di un suo... collega di cella, certo Farina, ladro e mitomane, confessioni grazie alle quali partì la grande inchiesta contro i «fascisti». Ci si domanda ora: quelle dichiarazioni del teste Farina erano... farina del suo sacco o erano imbeccate? Se lo chiedano, soprattutto, i familiari delle vittime; 350 persone che da un anno ormai bussano a tutte le porte per non far dimenticare i loro morti e i loro feriti, per chiedere giustizia.
* * * Una sola cosa è certa, ed è che da Portella della Ginestra (1947) in poi, tutte le stragi che si sono verificate in Italia, restano sì avvolte nel mistero, ma sempre, puntuali, in mezzo al sangue, vi compaiono gli uomini dei «servizi» che, anziché essere al... servizio del Paese e della sua sicurezza, vengono impiegati, dalla partitocrazia imperante, a protezione dei suoi interessi (sporchi e malvagi). È duro a scriverlo, ma va detto. Con tutta la chiarezza possibile. Con l'avvento, in Italia, di questo regime partitocratico, lo Stato non è più esistito. Sono esistite le bande che sullo Stato si sono accampate. Ed è così che anche i servizi, cioè uno dei settori più delicati per la difesa dello Stato, si sono fatti bande. Al servizio di questo o di quel capo-banda che, per coprire soprusi, arbitri, delitti, non si fermava dall'utilizzare settori dello Stato, i più delicati. Se non si capisce questa elementare e palmare realtà, ci si impedisce di capire che cosa è avvenuto, cosa sta avvenendo. Ci si impedisce la possibilità di trovare i rimedi per uscire dal tunnel di tutte le congiure.
* * * Il bandito Giuliano viene assassinato nel sonno (5.7.1950) perché non parlasse. E ad ucciderlo fu la mafia, ma per espresso incarico della «partitocrazia» che, in Sicilia, aveva cominciato ad utilizzare lo Stato per i suoi non puliti intrighi. Al punto che, mentre carabinieri e polizia si facevano la guerra fra loro, banditi come Pisciotta e Salvatore Ferreri, detto «fra Diavolo», giravano indisturbati, per tutta l'isola con i lasciapassare rilasciati loro dagli Ispettori capi Verdiani e Messana. Tutto ciò che è accaduto dopo (Piazza Fontana, Piazza della Loggia, l'Italicus, il due agosto 1980) ha quelle stesse stigmate: il sangue che fa da coagulante del quadro politico, lo Stato distrutto, e al suo posto le bande che pur di conservare il potere ricorrono al delitto e alla strage. Mai la verità, sempre la menzogna infamante.
* * * State ad ascoltare. È il 15 dicembre 1981. La Corte di Assise di Appello di Brescia ha davanti a sé Angiolino Papa, condannato a dieci anni per la strage del 28.5.1974 (Piazza della Loggia), otto morti e 101 feriti. «È vero», gli chiede il presidente della Corte, «quello che disse in istruttoria ("sono colpevole", N.d.R..)?». «Signor presidente, la verità è che sono innocente. Non so niente della strage. In istruttoria ho detto un sacco di balle e ho assecondato il gioco degli inquirenti». Presidente: «Ma perché, come lei dice, assecondare gli inquirenti?». Papa: «Mi erano stati promessi 10 milioni, la libertà provvisoria e un passaporto. Però, alla fine, non ho avuto né i dieci milioni, né la libertà provvisoria, né il passaporto». Presidente: «Lei, in fondo, vuol dire che gli inquirenti le suggerivano quel che doveva raccontare?». Papa: «Sì, stavo al loro gioco». Presidente: «Perché?». Papa: «Non ne potevo più dell'isolamento. Avrei fatto qualunque cosa». Per l'ennesima volta -prosegue il "Corriere della Sera" del 15.12.1981- tornano in superficie i misteri e gli errori di una istruttoria tormentata. E Angiolino quando ha ripetuto che «erano i giudici a guidarmi», che «mi suggerivano i nomi» e «mi mostravano le fotografie che a loro interessavano», il presidente della Corte d'Assise d'Appello ha avuto uno scatto: «Papa, se i magistrati hanno fatto quello che lei dice, dovrebbero essere messi sotto processo. Si rende conto della gravità di ciò che sta accadendo?». Papa: «Perfettamente, ma è la verità». ("Corriere della Sera", 15.12.1981)
* * * Il giorno dopo questo interrogatorio. È la volta del fratello di Angiolino Papa, Raffaele (assolto in primo grado), ad essere ascoltato dalla Corte d'Assise di Appello di Brescia. Dice Papa: «Li odio, Signor Presidente, odio gli inquirenti perché mi hanno rovinato la vita». Presidente: «Ascoltando le sue dichiarazioni mi sembra di vivere in un altro mondo». Papa: «Volevano, a tutti i costi, che raccontassi cose che non sapevo, non conoscevo. Volevano che coinvolgessi persone che non conoscevo. Mi facevano vedere le fotografie. Volevano che parlassi. E, se dicevo no, mi spiace, non so niente, insistevano ancora. Uno dei giudici si è messo a piangere... L'altro soprattutto voleva due nomi». Presidente: «Quali nomi?». Papa: «Mi dicevano: se riconosci Nando Ferrari e Mauro Ferrari (due imputati del processo, N.d.R..) ti lasciamo libero». Presidente: «Altrimenti?». Papa: «Altrimenti l'ergastolo. Me l'hanno ricordato un sacco di volte. Se non collabori, c'è l'ergastolo. Eppure sono innocente, Signor Presidente. Della strage non so nulla... Sì, sono innocente. Quante volte ho invocato Gesù, i santi, i morti di Piazza della Loggia. Ho invocato anche i giudici: volevo che mi sottoponessero alla prova del siero della verità». Presidente: «E i giudici che cosa risposero?». Papa: «Mi risero in faccia». ("Corriere della Sera", 16.12.1981).
* * * Da Giuliano ai tempi nostri. La tecnica non è mutata. «Volevano che parlassi. Volevano che dicessi quello che a loro faceva comodo». «Volevano soprattutto dei nomi, quei nomi». «Parla e ti diamo dieci milioni». «Se non parli c'è l'ergastolo». L'Italia si è fatta così. Dal 1943, cioè dall'anno in cui Giuliano muove i suoi primi passi di bandito, ad oggi sono passati quasi quarant'anni. Già, nel 1943, le porte dell'ergastolo si erano aperte in America -che era allora in guerra contro di noi e che la guerra conduceva con tutti i mezzi per vincerla- per Lucky Luciano, assassino e trafficante di droga. Libertà. Alla condizione di cooperare allo sbarco alleato del 9 luglio 1943. Così fu. L'Italia odierna è plasmata di mafia perché dalla mafia è nata.
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A Palazzo Baracchini il ministro della Difesa, Lelio Lagorio, ha consegnato i diplomi delle medaglie d'argento e di bronzo al V.M. a Rosario Bentivegna. La motivazione suona così: «Durante l'occupazione nazista della capitale emergeva al comando di un GAP per capacità organizzativa, indefessa attività, intrepido ardimento. Nelle vie e nelle piazze dell'Urbe e particolarmente il 18.12.1943 e il 23.3.1944 combatteva contro i nazifascisti in una lunga serie di scontri e di agguati che diedero larga risonanza al suo nome «Lunga serie di scontri e di agguati», così la motivazione. Di che si tratta? Attilio Tamaro, nella sua opera "Due anni di storia: 1943-1945", volume 3°, alle pagine 533-535, racconta, dettagliatamente, l'agguato-strage di Via Rasella del 23.3.1944, perché di questo episodio si tratta. «La giunta militare del CLN», scrive Tamaro, «di cui facevano parte Lussu, Bauer (due puri, due integri, che avevano fatto dell'odio e della violenza una mistica, un assoluto domenicano) e Pertini, aveva pensato che i "gapisti" dovessero portare la strage in mezzo al previsto corteo fascista (23.3.1944), e quando questi mancò, indicò altri innocenti: una colonna di soldati della Sudtiroler Polizei che passava ogni giorno per via Rasella recandosi al Viminale. Giorgio Amendola trasmise l'ordine della Giunta ai gapisti e il dott. Carlo Salinari organizzò l'azione. Fu calcolato -è sempre Tamaro che parla- cronometricamente il tempo che la colonna degli altoatesini impiegava per raggiungere un determinato punto e lo studente Rosario Bentivegna che, vestito da spazzino, insieme ad Alfio Marchini, stava presso ad un carro di immondizie carico di esplosivo, quando Franco Calamandrei gli fece il segnale togliendosi il cappello, accese la miccia e fuggì. L'effetto fu terribile: trentadue soldati e alcuni civili, tra cui un bimbo, giacevano morti e un gran numero di feriti vicino ad essi». La motivazione delle medaglie a Bentivegna reca che il gapista «combatteva contro i nazifascisti in una lunga serie di scontri e di agguati». Non è così. Lasciamo ancora parlare Attilio Tamaro: «Non vi fu nessun combattimento, né vi poteva essere: risulta invece che, ben lontani dall'affrontare i tedeschi e le loro armi (se le portavano), i gapisti avevano agito proditoriamente, sorprendendoli al varco e fuggendo appena compiuta l’imboscata. Bauer ha detto che la libertà doveva essere conquistata con la lotta aperta: ma quella non era lotta aperta, bensì massacro commesso con la sicurezza di non subire danni in quel momento. Amendola ha cercato un'altra scusa: bisognava ed era urgente, far capire ai tedeschi, che dovevano sgombrare per evitare i bombardamenti. È vero invece che proprio allora i tedeschi, e i romani lo sapevano, avevano finito di evacuare la città, dove non si trovavano più se non i pochi appartenenti al comando locale e quelli in servizio di polizia. Poi, come risultò al processo Kappler, quel battaglione aveva compiti di ordine pubblico compatibili con le norme che regolavano il funzionamento della Città aperta, e girava disarmato». Dopo quello dello storico Attilio Tamaro, ecco il giudizio, sulla vicenda, del partigiano, antifascista Ripa di Meana. Lo svolge a caldo (4.4.1944) sul foglio clandestino "l’Italia Nuova": «Per Roma intiera la deplorazione dell'attentato fu unanime; perché assolutamente irrilevante ai fini della guerra contro i tedeschi nella quale il nostro Paese è impegnato; perché insensato, dato che il maggior danno ne sarebbe inevitabilmente derivato alla popolazione italiana; per quell'ampio senso di umanità che distingue noi latini e che non si estingue neppure durante gli orrori di una guerra, e per la quale ogni inutile strage non può trovare la sua giustificazione nell'odio, ma solo nella necessità. Per la prima volta dopo l'8 settembre i tedeschi avevano segnato un punto, ed avuto dalla loro l'opinione pubblica della Capitale». Non lo si dimentichi mai: l'attentato di Via Rasella provoca, per rappresaglia, il massacro delle Fosse Ardeatine. Trecentoventisei Italiani persero la vita. Rosario Bentivegna che, presentandosi, avrebbe potuto salvare quelle vite, non lo fece. A diversità dell'eroico carabiniere Salvo D'Acquisto, stette alla macchia. Oggi ha anche le medaglie. «Quando l'oltraggio ai decorati al Valor militare di tutte le guerre diventa ignominia, non si può far altro che restituire le medaglie guadagnate sui campi di battaglia. Non intendo confondermi con i vili che oggi, in una Repubblica come la nostra, riscuotono l'incondizionata stima di un ministro della Difesa. Dopo quanto è accaduto non mi meraviglierei più se venisse istituita una decorazione al valor militare anche per brigatisti pentiti». Così il generale Giuseppe Palumbo, già comandante della brigata Folgore, a Sandro Pertini. Ma che può fare Pertini se quell'agguato non solo condivise, ma ordinò?
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«Per un anno e mezzo ho comprato eroina da Parodi e dalla Baldasso. Li avevo conosciuti tramite alcuni amici. Trattavo quasi sempre con lei, ma una volta mi accordai anche con il marito, stabilendo quantità e prezzo. La mia misura era di una dose al giorno, ma di media consumavo dieci dosi la settimana. Le pagavo 200 mila lire l'una. Il mio rapporto con Barbara Baldasso era solo di compravendita» (Dalla deposizione resa (6.1.1982) ai giudici della 1ª Sezione del Tribunale di Genova dall'on. Canepa Antonio Enrico, capolista nella circoscrizione Genova-Imperia-La Spezia-Savona per il PSI. Canepa ha preso il posto di Sandro Pertini).
* * * «I 150 milioni che avevo in banca? Non c'erano da molto, la maggior parte ci sono arrivati dopo che avevo conosciuto l'on. Canepa. Io ero la sua amante, lui mi chiamava a Roma perché voleva vedermi, io portavo la roba per me e per lui, abbiamo "bucato" insieme. In genere le dosi settimanali per lui erano dieci, quando doveva partire o stare fuori, anche quindici. Mi faceva pure dei regali. Una volta la borsa, un'altra la pelliccia, ma soprattutto denaro» (Dalla deposizione di Barbara Baldasso, arrestata per traffico di droga, sotto processo presso la 1ª Sezione del Tribunale penale di Genova. Nella vicenda, anche la morte di un ragazzo, Franco Monti, ucciso da una overdose di eroina e trovato cadavere sulle colline di Genova). «Ma è possibile», ha chiesto il presidente del Tribunale Lino Monteverde, «otto milioni al mese di droga e ancora denaro in regali?» La Baldasso è stata categorica: «Lo ripeto, mi dava i soldi, io compravo la droga e "bucavamo insieme" ("la Repubblica", 6.1.1982). Non risulta che Sandro Pertini, il quale ha preteso e ottenuto la testa del senatore socialista (e piduista) Fossa Francesco, aspirante alla presidenza del Consorzio del Porto di Genova, abbia chiesto le dimissioni dal Parlamento del deputato Canepa Antonio Enrico, suo pupillo.
* * * Natale Rimi, 44 anni, ex-funzionario della Regione Lazio, al centro di un grosso scandalo nel luglio 1971, dovrà soggiornare obbligatoriamente, per la durata di cinque anni, nel comune di Montefano, in provincia di Macerata. Lo ha stabilito il Tribunale di Trapani. L'accusa: attività mafiose. Natale Rimi è latitante. È figlio di Vincenzo Rimi e fratello di Filippo Rimi, stelle di prima grandezza del Gotha mafioso. Vincenzo, il padre, morto alcuni anni fa, viene indicato come il giustiziere del bandito Giuliano. Quando Pisciotta viene avvelenato in carcere, Vincenzo Rimi si trova, anche lui, nel carcere dell'Ucciardone di Palermo. Sulla sua detenzione, nella fase della sua condanna all'ergastolo, esiste una fitta corrispondenza ministeriale (il fascicolo del Ministero di Grazia e Giustizia si trova fra i documenti della Commissione antimafia) perché al Rimi fosse riservato il privilegio, non consentito dalla legge, di stare nello stesso carcere con il figlio Vincenzo. Di questa «pratica» se ne occuparono i sottosegretari alla Giustizia Pellicani (PSI), Dell’Andro (DC), Pennacchini (DC); i senatori Corrao (PCI) e Cifarelli (PRI) e il ministro d; Grazia e Giustizia in persona, Oronzo Reale. E ciò contro il parere del Centro nazionale di coordinamento delle operazioni di polizia criminale che, in data 27.5.1971, scrive al Ministro di Grazia e Giustizia, affermando che la vicenda delle raccomandazioni ha suscitato viva perplessità tenuto conto che, trattandosi di individui pericolosissimi e tuttora capaci di «organizzare qualsiasi attività illecita, anche dal carcere, sarebbe stato più opportuno evitare che essi si incontrassero». Come si può constatare lo sfascio delle carceri, da parte dei ministri di Grazia e Giustizia, data da tempo.
* * * Lotta al coltello per il rinnovo della «deputazione» del Monte dei Paschi di Siena, gruppo ormai mondiale dopo l'acquisto del Credito Lombardo, del Credito Commerciale e il controllo della Banca Toscana. Mentre il PCI, la DC, il PLI hanno designato i propri «giannizzeri» (4 «deputati» del Monte vengono designati dal Consiglio comunale di Siena), nel PSI infuria la polemica fra due opposte fazioni, quella di Bettino Craxi e quella della Federazione di Siena che in Bettino non si riconosce. Le accuse reciproche sono di ordine morale. E dato che gli attuali tre personaggi in carica per conto del PSI (Sergio Simonelli, vicepresidente, Giovanni Buccianti «deputato», e Marco Baglioni sindaco) sono craxiani e i tre che si propongono dalla Federazione per la sostituzione di quelli in carica sono uomini del Monte cioè dipendenti, potete benissimo immaginare quale sia la conduzione di questa Banca di interesse mondiale. Un vero e proprio «casino». E che vi fosse «casino» lo avevano ben capito i deputati del MSI che, fin dal maggio 1980, a firma del presidente del gruppo parlamentare Alfredo Pazzaglia, presentavano l’interrogazione che si riporta, diretta al Ministro dei Tesoro, e riguardante la più alta autorità amministrativa della Banca: «Premesso che nella sentenza n° 154 del Tribunale penale di Firenze del 20.1.1978, sentenza che condannava alla reclusione esponenti di vertice del mondo politico fiorentino per reati contro la pubblica amministrazione, è detto che Cresti Giovanni, all'epoca Direttore Centrale del Monte dei Paschi di Siena, amico di tutti gli imputati, si adoperò, servendosi delle strutture del grande Istituto di Credito che amministrava, per distaccare dalla Banca Nazionale del Lavoro di Firenze, due dei tre libretti al portatore di cinque milioni ciascuno, intestati rispettivamente «amico1», «amico2», «amico3», e aperti dal cittadino Nucci, al fine di ottenere dagli amministratoti comunali di Firenze l'edificabilità sui suoi terreni; premesso che il Cresti Giovanni, Direttore Centrale del Monte dei Paschi di Siena, spinge la propria solerzia di alto dirigente bancario nel far scomparire i libretti che costituivano prova di reato, al punto da consegnare la somma in contanti, che i funzionari del Banco su suo ordine gli portavano alla propria moglie perché costei aprisse, in Firenze, altri due libretti al portatore presso il Banco di Sicilia e la Cassa di Risparmio di Firenze, convenzionalmente intestati «21.3.1973» e «20.3.1973», e ciò per dare modo alla DC fiorentina di riscuotere le somme senza lasciare tracce; si chiede di interrogare il ministro, per sapere come sia possibile, davanti a così incredibile episodio, che il Cresti Giovanni, Direttore generale del Monte dei Paschi e Provveditore generale dell'Ente, sia ancora al suo posto». Cresti Giovanni è rimasto al suo posto. Anche dopo che il suo nome è apparso, a chiare lettere, fra le carte del venerabile Licio Gelli. Tessera n° 1626, codice E 1977, gruppo G. Quello coordinato dallo stesso Gelli. L'Italia repubblicana affida, come si vede, le banche di interesse mondiale, a persone sul conto delle quali nulla c'è da dire. Cresti Giovanni, per chi lo ignorasse, è fanfaniano.
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L'articolo 3 del regolamento della previdenza dei deputati stabilisce che l'assegno vitalizio spetta ai deputati cessati dal mandato parlamentare che abbiano compiuto sessanta anni. Il vitalizio spetta altresì (articolo 4) ai deputati cessati dal mandato, qualunque età essi abbiano, i quali provino di essere divenuti inabili al lavoro in modo permanente. L'on. Luigi Pintor, attuale direttore del "Manifesto", ha potuto godere del beneficio previsto dall'art. 4 nel 1975, all'età di 50 anni, perché dichiarato inabile permanente a qualsiasi proficuo lavoro. Fummo molto preoccupati, allora, quando avemmo modo di leggere le motivazioni per cui la Commissione medica riteneva Luigi Pintor impossibilitato ad attendere, con continuità, alle proprie attività lavorative. Tememmo, allora, di avere perso una intelligenza fertile, soprattutto un carattere. Così non è stato e la cosa ci fa piacere. Vederlo arzillo direttore del "Manifesto", un giornale impegnato e di battaglia; constatare la sua assidua presenza al dibattito politico; vederlo partecipare a conferenze, a incontri culturali, a dibattiti arroventati; vederlo farsi conferenziere lui stesso, ci rallegra. Pensate, sette anni fa non poteva intraprendere viaggi, non poteva allontanarsi da casa da solo e per lungo tempo, doveva essere costantemente sorvegliato. Non un vitalizio, ma due, in quelle condizioni, pareva dire la documentazione medica. Tutto superato. Un recupero davvero spettacolare. Ma guarda tu, che miracoli ti fa il vitalizio parlamentare.
* * * Il biglietto di auguri che Giulio Andreotti ha inviato ad amici, estimatori e porta borse, reca questa frase: «Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce». Molte accuse ad Andreotti. Non certo quella di coltivare di sé un alto concetto.
* * * I grandi accusatori del gruppo Rizzoli-Tassan Din hanno le carte in regola? Le hanno, per esempio "la Repubblica" e "L'Espresso" di Scalfari e di Caracciolo, questo interpartito che asseconda il PCI nelle sue manovre di potere? E quale sia, nel settore dell'informazione, questa manovra del PCI è chiara: controllare la stampa italiana attraverso un solo ed unico gruppo di potere. La manovra fu già tentata un paio di anni fa. I tre principali editori (Rizzoli, Caracciolo-Scalfari, Mondadori) si trovarono d'accordo, sia nel circuire i partiti perché il Parlamento approvasse la norma cosiddetta «cancella debiti», per cui Rizzoli si sarebbe salvato; sia nel disegnare un'azione di accaparramento in comune de "Il Messaggero". I soldi -è stato detto- li avrebbe forniti Calvi. E in quei giorni che viene firmato il patto di non aggressione tra Caracciolo-Scalfari e Rizzoli-Tassan Din, accordo che poi verrà trovato tra le carte di Gelli. Ed era quella la stagione in cui, non solo al PCI tutto stava bene, ma Visentini si presentava come il «consigliori» di Angelo Rizzoli e Bruno Tassan Din. Al punto di presiedere a Venezia il convegno per il lancio del quotidiano "L'Occhio". È saltato tutto, è vero. Ma chi ci dice che, sotto sotto, non ci sia ora la stessa manovra? I fili sono gli stessi: PCI, plutocrazia (Visentini-De Benedetti), forte spruzzatina laico-massonica. Bella, no, la scena?
* * * La Commissione Inquirente, dopo 12 anni dall'esplosione dello scandalo, si avvierebbe ad archiviare il ladrocinio ANAS. Prepariamoci, dunque, a vedere assolti Mancini, Lauricella e Natali. Scandalo nello scandalo. Acqua (abbondante) al mulino delle BR e di tutto il terrorismo, il cui primo assioma, non lo si dimentichi, è questo: «Questo paese è da buttare». Intanto il presidente dell'Inquirente, il socialdemocratico on. Alessandro Reggiani, malgrado il petroliere Musselli («Lo abbiamo in pugno!»), continua, imperterrito, a presiedere. Forse ha ragione lui: è degno dell'Inquirente.
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Leo Valiani, nel suo articolo dedicato al maestro Arturo Toscanini ("Toscanini e la libertà", "Corriere della Sera", 16.1.1982) a 25 anni dalla sua morte, parte mettendo vistosamente le mani avanti. Infatti, dovendo scrivere in chiave antifascista la ricorrenza e non potendo evitare di dire che il maestro fu in lista, insieme con Benito Mussolini, nelle elezioni politiche del 1919, ne cerca subito le giustificazioni. «Anche Arturo Toscanini», scrive Valiani, «subì il fascino di quello che pareva un pronunciamento di libertà nei confronti d'una classe politica paralizzante, corrosa dagli intrighi e si lasciò (bello questo «si lasciò»!, N.d.R..) portare candidato nella lista presentata da Mussolini alle elezioni generali del novembre 1919». Valiani, dopo averci descritto I'«infortunio» fascista di Arturo Toscanini, viene a descrivere il suo antifascismo, culminato con il rifiuto di dirigere, in un teatro di Bologna, l'esecuzione dell'inno delle camicie nere. «Uno squadrista», scrive Valiani, «ebbe la brutale impudenza di schiaffeggiarlo. Alla prepotenza, il maestro poteva reagire solo indirettamente, trasferendosi all'estero». È stato questo un episodio intorno al quale l'antifascismo ha sempre fatto un gran rumore. Lo schiaffo a Toscanini è divenuto storia. È vero, ma è anche vero che la vicenda non piacque nemmeno ai fascisti. Gli archivi ci restituiscono testimonianze al riguardo, fra le quali la seguente lettera di un anonimo fascista a Mussolini. Essa dice: «Domando se nell'anno IX dell'Era Fascista sia permesso a un pinco pallino qualsiasi schiaffeggiare il maestro Toscanini, reo di non aver voluto suonare "Giovinezza" in una celebrazione in cui questo inno, pur tanto caro agli Italiani, c'entrava come il cavolo a merenda. In questo periodo di capovolgimento di valori morali ci si può aspettare di vedere schiaffeggiato anche Marconi perché non radiotrasmette qualche discorso sonnifero di qualche gerarca in diciottesimo». Allora il maestro dichiarò che non aveva suonato gli inni nazionali (perché di questo si trattava, oltre "Giovinezza" Toscanini doveva suonare la "Marcia Reale") in quanto l'orchestra poteva, tecnicamente, soffrirne. Il maestro, tanti anni dopo (aprile 1944), non ebbe più di questi scrupoli. Infatti al Carnegie Hall di New York diresse un concerto a beneficio delle spese di guerra degli Stati Uniti. Si precisava che, con il ricavato del concerto, sarebbero state costruite due navi Liberty e due Fortezze volanti. «Le Fortezze volanti», precisava una nota della corrispondenza repubblicana del 23 aprile 1944, «per definizione volano, e siamo certi che per l'ammirevole attenzione degli Stati Uniti, quelle due Fortezze voleranno nel cielo della Patria di Toscanini ed eseguiranno azioni di guerra... Un ignoto, durante i 45 giorni badogliani, tracciò sui muri della Scala l'invocazione: Toscanini torna! Toscanini ora torna. Col sinistro rombo delle Fortezze volanti, col sangue degli innocenti, col pianto dei superstiti». * * * Il senatore Renato Guttuso, in occasione del suo 70° compleanno, ha ricevuto da Enrico Berlinguer un telegramma, nel quale, fra l'altro, è detto: «La lunga lotta dei comunisti italiani, il prestigio, la forza che si è conquistato in Italia e nel mondo il PCI, si sono avvalsi e sono frutto anche dell'opera di combattenti artisti come te, che hai intrapreso la milizia politica nelle nostre file fin dal 1935 e l'hai poi continuata ininterrottamente mantenendo intatta la tua dedizione alla causa dell'emancipazione del lavoratore e dei popoli». Ora si dà il caso che Renato Guttuso, nel 1940, esaltasse sulle pagine di "Primato", la rivista diretta dal ministro Bottai, una scultura di Enzo Biggi, intitolata "l'Eccidio di Sarzana" del 1921 (18 fascisti furono uccisi dai socialisti), di cui, poco tempo fa, abbiamo veduto in TV la rievocazione. Dopo aver definito l'opera -veramente notevole-, Guttuso afferma che essa «avrebbe potuto commuovere come evocazione e per il suo contenuto«, ma commuoveva «anche in termini di scultura». E giù con altri elogi. Così Guttuso nel 1940. Ora Enrico Berlinguer, nel suo telegramma, afferma che la milizia politica nel PCI, Renato Guttuso l'ha intrapresa «ininterrottamente dal 1935 ai giorni nostri». Una pausa c'è, comunque, stata. Nel 1940. Quando si mise a fare gli elogi di una scultura raffigurante il sacrificio di sangue dei fascisti a Sarzana. In verità poi non è la sola... pausa. Ce n'è un'altra. Questa in periodo antifascista. Quando Renato Guttuso viene fermato nel 1973, nei pressi di Varese, e trovato in possesso di documenti bancari dai quali risultava che aveva depositato all'estero 600 milioni (valore 1973). Anche questo «a gloria del PCI»?
* * * Quarantanove giornalisti di "Paese Sera" hanno ricevuto la lettera di licenziamento. Le proteste scarse e senza nerbo. E che il direttore del quotidiano, il senatore comunista Giuseppe Fiori, prima di dimettersi dall'incarico, abbia assunto nell'organico redazionale di "Paese Sera" il proprio futuro genero (Attilio Gatto), non desta né stupore né schifo. Tutto regolare. I comunisti sono davvero diversi. |