Rosso
e Nero
Vogliamo tentare di dare uno sguardo ai duri fatti polacchi, dimenticando, per un po', i soliti stantii cliché della stampa, della radio, della TV, dei politici senza fantasia? Cliché, dopo tutto, monotoni. Sempre gli stessi. Non un tentativo di andare più nel profondo delle cose; capire che cosa è accaduto, perché è accaduto e, soprattutto, che cosa può capitare. Il primo fattore, parrà paradossale, ma è così, da esaminare è il pontificato di Albino Luciani. Tutto parte da lì. Trentatre giorni di vita, poi la morte. È parso un fatto da nulla. Un episodio. Invece, senza Papa Luciani, sarebbe stato impossibile, innaturale, incomprensibile Wojtyla. Perché? Perché Papa Luciani veniva dopo il pontificato di Paolo VI, il Papa del dubbio. Non è senza significato che il cardinale Montini assurga a Papa nel 1963 (avvento del centrosinistra in Italia) e tessa la sua vita e le sue opere in sintonia con tempi che dovevano segnare la più profonda degradazione, non solo politica, ma cristiana, dell'Italia. È sotto il suo pontificato di Re-tentenna che il popolo italiano diventa, in collaborazione con la DC, il popolo meno cristiano d'Europa. Ed ecco Papa Luciani. Pare un Papa da nulla, da due soldi, ed invece è un grande Papa. Senza di lui, lo abbiamo scritto all'inizio, Papa Wojtyla (che scuote il mondo) non troverebbe spiegazione. Per quale significato? Perché al Papa «intellettuale», al Papa signore della più raffinata cultura, al Papa sapiente, al Papa padrone della parola, contrappone, appena eletto, la sua semplicità contadina. E non si perde in filosofemi. Dice alle folle, con semplicità: «Io ci credo, potete crederci anche voi». Ed uno dei suoi primi accenni di credente, è rivolto proprio alla Madonna. A Luciani sono bastati 33 giorni per chiudere e far dimenticare l'epoca dei dubbi. Chi sarebbe venuto dopo di lui non avrebbe poggiato i piedi sullo scetticismo alla democristiana, ma su un atto di fede. Poi, d'un tratto, la sua scomparsa. Passato, come una stella filante. Dopo di Lui, Papa Wojtyla. Alla semplicità, la robustezza del pensiero senza dubbi, l'amore dell'uomo e per l'uomo che solo la passione di un «patriota» può capire e interpretare. Ciò che è accaduto dopo è di una semplicità straordinaria. Come lo era la fede di Papa Albino Luciani. Miracolo e dramma insieme. Così, come ai tempi di Gesù. Quando le idee tornano a muoversi, piaccia o no, il sangue torna a scaldarsi. Il pendolo della storia fermo, immobile da quarant'anni, comincia ad oscillare, a muoversi, a battere il ritmo della vita. Un occidente mercantile, dedito ai piaceri dello «stomaco». I suoi santuari all'ONU e a Strasburgo. Un comunismo all'Est pietrificato nell'arroganza, nell'arbitrio, nella barbarie. L'uno condizionava l'altro. E nel mezzo una gioventù senza speranza. O i paradisi artificiali dell'eroina o il terrorismo, in Occidente. Manicomi per «criminali politici» ad Est. Pareva la fine. Barbarie ad Occidente, barbarie all'Est. Ora il pendolo della storia torna a muoversi. E le folle vanno incontro al Papa, espresso da un paese retto dal comunismo. In nome di che cosa? Di Carlo Marx? Di Lenin? O dell'ONU? O di Strasburgo? No. In nome di Dio, della Patria, della libertà. In nome di un Papa «barbaro» che riporta, nel mondo, fieramente, le insegne di Roma. Ed il mondo di Yalta scricchiola. Il comunismo, intollerante surrogato della religione, arrogante formula del tutto spiegato, si sbriciola davanti a Dio e alla Patria. Fateci caso. Il generale polacco Jaruzelski, nel tentativo disperato di catturare le simpatie del popolo polacco, a che cosa è ricorso? Forse al marxismo-leninismo? Forse al «moderatismo» di Breznev? Forse al «comunismo dal volto umano»? Forse alla «via nazionale al comunismo»? Niente di tutto questo. Se avesse fatto cenno, sia pure larvatamente, al comunismo comunque inteso, non avrebbe trovato nemmeno un soldato a dargli ascolto. Ed allora a che cosa ha dovuto fare appello? Alla Patria, prima di tutto. Fate attenzione, ha detto ai Polacchi, rispettate l'esercito, simbolo della Nazione, altrimenti arrivano i russi. A che cosa ha fatto appello? Alla bandiera rossa della rivoluzione d'ottobre? No. Anzi. Ha ordinato di ammainarla. Ed ha issato, sul più alto dei pennoni, la bandiera nazionale polacca. A che cosa è ricorso? Forse allo strumento dello sciopero, contro coloro che riteneva i nemici della Nazione? No. È ricorso alla logica del lavoro. Per salvare la Patria, ha detto. Si è forse servito della burocrazia del partito comunista per gestire i servizi essenziali? No. Ha messo in galera anche alcuni burocrati del partito comunista. I comunisti della radio e televisione polacca erano talmente impresentabili che il generale ha dovuto cacciarli via e, per farsi ascoltare, ha dovuto ricorrere ad uomini in uniforme. Solo l'esercito, in Polonia, riscuote credito. Il resto è menzogna, è inganno, è perfidia.
"L'Espresso", arrivando su una notizia che "Rosso e Nero" aveva anticipato da molto tempo, scrive che l'ex-deputato livornese Emo Danesi della DC, braccio destro dell'ex-ministro Bisaglia, si è piazzato all'ENI. Dalla P2 all'ENI, titola "L'Espresso" (13.12.1981). Il lettore ci perdonerà se torniamo sul caso Danesi, se continuiamo a sparare su un uomo (politicamente) morto, ma ci corre il dovere di farlo perché occorre rendere giustizia ad un nostro caro amico di periferia, ad Altero Matteoli, segretario provinciale del MSI-DN di Livorno, che di Danesi è stato il primo a capirne le... funzioni, a smascherarle, a denunciarle, quando (in testa i comunisti) gli altri tacevano o, addirittura, lo difendevano. Risale esattamente ad un anno fa, quando Emo Danesi, nel fulgore della sua potenza (la vicenda della P2 e il resto erano ancora da venire), si faceva pubblicare dal quotidiano (comunista) "il Tirreno" (14.12.1980), una sprezzante lettera, con la quale, volendo replicare alle circostanziate accuse che Matteoli, contro di lui, aveva portato in Consiglio comunale, annunciava una sua querela. «Mi corre l'obbligo di precisare», scriveva Danesi, «che se fosse soltanto una questione di rispetto verso Matteoli e la sua parte politica che rappresenta, non avrei, caro direttore, perduto tempo, avendo per Matteoli e la sua parte politica la più completa disistima e disprezzo. Informo perciò il signor Altero Matteoli di aver presentato, nei suoi riguardi, querela con la più ampia facoltà di prora, ritenendo le di lui affermazioni lesive della mia dignità». «La mia dignità». Questo era il 14.12.1980. È passato un anno. Dove è andata a finire, ex-onorevole Danesi, la sua dignità? Se non lo sa, lei è il primo deputato che nella pur lunga storia parlamentare, si fa buttare fuori dal Parlamento. Fidava, è vero, nel solito giochetto. Date le dimissioni (accompagnate da una... nobile lettera), il Parlamento, come prassi, le avrebbe respinte. Non è andata così. La Camera dei Deputati ha sentito tale schifo per ciò che accadeva che, capitatale l'occasione di levarselo dai piedi, non ha perduto tempo. E ha buttato fuori lei e tutto ciò che rappresentava (carrierismo, clientelismo, affarismo, corruzione). Si può dire: in pochi minuti. Ecco che cosa capita a tipi come lei che, dall'alto della propria presunzione e arroganza, parlano di disprezzo per il MSI-DN e i suoi uomini. Sono proprio gli uomini (puliti) del MSI-DN che, anticipando di gran lunga le decisioni dei Parlamento, lo mettono alla porta. È capitato a lei e ha fatto... storia. Capiterà ad altri.
* * * Per la sesta volta il candidato del PSI alla Corte Costituzionale, il giurista Federico Mancini (per la verità una persona per bene), è stato bocciato dal Parlamento. Alla buvette di Montecitorio, subito dopo la votazione, c'è stato questo scambio di battute fra Craxi e l'on. Mammì dei PRI. Craxi: «Va prima a casa il Parlamento che Federico Mancini». Mammì: «Perché lo dici a me, e con codesto tono?». Craxi: «Perché tu hai rivolto a Mancini un pubblico invito a ritirare la sua candidatura». Mammì: «È il minimo che Mancini possa fare, a questo punto». Craxi: «Non lo fa, e non lo farà». Mammì: «Vuol dire che non glielo consentite?» Craxi: «Andrete prima a casa tu e il Parlamento che Federico Mancini!» Questo il dialogo. Gli «esperti» dovrebbero ora dirci se tutto ciò fa parte del costume democratico, restaurato 36 anni fa. Grazie alla resistenza.
* * * È noto che stiamo difendendo, con tutti i mezzi a disposizione, le nostre esportazioni che ci servono, grazie alla valuta pregiata, a comprare petrolio. Uno dei nostri mercati prediletti sono le Americhe latine. Ebbene I'...ineffabile presidente del Consiglio che ti fa? Si reca da Lama, al Congresso della rossa CGIL. E pronuncia la seguente invettiva: «Corriamo il rischio di diventare come il Sudamerica», ha proseguito Spadolini, «significa, non soltanto la corruzione esteriore, il saccheggio del pubblico denaro, le commistioni fra centri di potere economico e settori della burocrazia; Sudamerica è anche il dilagare dello stato assistenziale, oltre ogni limite, oltre ogni remora... Sudamerica è la spirale dei consumi disinvolta non meno della tecnica dei terroristi derivata da quella dei tupamaros. E lasciatemi dire», ha terminato il presidente dei Consiglio, «talvolta mi sembra di intravedere, dietro le cospirazioni affaristiche, gli squadroni della morte». Così il presidente dei Consiglio di una Nazione dissanguata dai ladri, dissestata dai profittatori, infestata dai porta-borse, crocefissa da assassini di Stato. Così un presidente del Consiglio sputtana noi, e le nostre industrie, verso Stati con i quali abbiamo in corso commesse di miliardi. Non lo hanno cacciato. Anzi. Ha avuto elogi. Anche da Pertini.
La «diversità» del PCI, in queste ultime settimane (Polonia a parte), ha avuto delle smentite non indifferenti. Infatti davanti alla Magistratura di Novara è finita la giunta (rossa) dell'Amministrazione provinciale. Ha appaltato lavori a geometri (compiacenti), anziché ad ingegneri, così come prescrive la legge. Si tratta di lavori per centinaia di milioni. * * * "Rosso e Nero", tempo fa, si occupò della vicenda del signor Carlo Caramassi, sindaco comunista di Venaria Reale (1972-1979), un comune vicino Torino. La Procura della Repubblica di Torino ha emesso una comunicazione giudiziaria, per reato di ricettazione contro Maddalena Longo, moglie dell'ex-primo cittadino di Venaria. Infatti la signora ha depositato sul conto dell'illustre consorte, aperto presso il Monte dei Paschi di Siena, 35 milioni. Fin qui nulla di male. È che fra le banconote versate figurano pezzi da 100.000 provenienti dai riscatti pagati in seguito ai sequestri di persona di Emanuela Trapani e Mario Botticelli. Evviva la diversità dei militanti dei PCI.
* * * Un ex-comunista ed ex-agente dell'UNIPOL di Foggia ha mandato in galera, prima il presidente dell'Amministrazione provinciale (PCI) e la sua segretaria, poi Pasquale Carbonaro, segretario amministrativo del PCI di Foggia. Si tratta di polizze di assicurazione contratte dall'Amministrazione provinciale di Foggia a favore dell'UNIPOL (società di assicurazione notoriamente legata al PCI), dietro pagamento di tangenti. Il presidente dell'Amministrazione provinciale, avvocato Francesco Kuntze, è risultato legale dell'UNIPOL. Il fatto -dicono i giornali- ha provocato un terremoto (politico) nel foggiano. Non esageriamo. Se la magistratura toscana avesse... tempo, ma soprattutto volontà, di mettere gli occhi sui rapporti UNIPOL-Amministrazioni locali, in Toscana, accadrebbe non un terremoto ma un cataclisma. E di proporzioni gigantesche.
* * * Al processo contro 118 croupiers e clienti specializzati, accusati di aver sottratto 100 miliardi al Casinò di San Remo, Sergio Semeria, 50 anni, croupier, ha fatto i primi nomi tabù, cioè dei politici (che avrebbero intascato). Non poteva mancare Il democristiano: Osvaldo Vento, sindaco di San Remo. Il socialista nemmeno: Bruno Marra, vicesindaco. Potevano i socialdemocratici essere estranei? Che dite mai? Ed infatti, nell'elenco, ecco Enzo Ligato del PSDI, assessore al patrimonio. In ultimo la... sorpresa (non per noi, ma per il «diverso» on. Enrico Berlinguer). Infatti eccoti Gino Napolitano, capogruppo del PCI al Consiglio comunale di San Remo. Intascava (il diverso!) anche lui secondo le accuse. Tutti all'ombra della fatidica formula dell'arco costituzionale.
* * * «A Milano il magistrato competente, incaricato dell'istruttoria sul crack di Sindona ha verbalizzato le mie accuse riguardanti 100 milioni di lire date al settimanale del PCI "Giorni - Vie Nuove" dall'avv. Bovio, per incarico e per conto di Michele Sindona. L'amministrazione di quella rivista del PCI fece anche affiggere a Milano un manifesto per pubblicizzare i rapporti di Sindona con il Banco di Roma. Il dott. Viola ne è al corrente, anche perché raccolse prove con una perquisizione nello studio dell'avv. Bovio». (Luigi Cavallo, intervista del 29.6.1980). Chi è Luigi Cavallo? Ex-partigiano comunista, ex-redattore de "l’Unità", poi passato con Edgardo Sogno e con lui arrestato, dal giudice torinese Luciano Violante, oggi deputato del PCI, per il cosiddetto «golpe bianco». Invano, di questa testimonianza, troverete traccia fra le carte della Commissione di inchiesta parlamentare sul caso Sindona. Il PCI è sacro. Non si tocca.
* * * Tempo fa "l’Unità", con titoli di scatola, annunciava che «l'ignobile manovra» contro il presidente della SIPRA Vito Damico (SIPRA, società che gestisce in regime di monopolio la pubblicità radiotelevisiva), accusato di avere sperperato denaro pubblico a vantaggio dei giornali e riviste di partito, era finita a danno degli incauti accusatori. Vito Damico risultava puro e immacolato. Non è così. Il procedimento penale contro 30 amministratori della SIPRA, compreso il comunista Vito Damico, continua. Intanto, alla Camera, sono arrivate dalla Procura di Torino due richieste di autorizzazione a procedere contro Franco Bassanini, consigliere di amministrazione della SIPRA, e Claudio Lenoci, sindaco effettivo della concessionaria. Entrambi, anche se Bassanini non fa più parte del PSI, sono di provenienza socialista. Se a questi nomi si aggiunge Gennaro Acquaviva, vicepresidente della SIPRA, craxiano e i democristiani Gianni Pasquarelli ed Ettore Bernabei, ci si rende conto che dovunque si... posino comunisti, socialisti e democristiani, altra funzione non hanno se non quella di «rubare» a vantaggio di Sua Maestà il partito. Le accuse non sono lievi: falso in bilancio, peculato pluriaggravato. Quest'ultimo reato deriva dal fatto che il reato è stato compiuto da più persone. Un reato da sette anni di reclusione, come minimo. Bisogna riconoscerlo: gli appartenenti all'arco costituzionale non si muovono per nulla. Quando le cose le fanno, le... fanno, davvero, con serietà e passione. Ma che bravi.
* * * Roberto Calvi, banchiere dell'Ambrosiano, piduista di stellare grandezza, non solo ha finanziato il PSI (20 miliardi di lire), ma anche il PCI, attraverso il suo quotidiano "Paese Sera" (dieci miliardi). Infatti il giudice Luciano Infelisi, che si occupa dell'affare, sospetta che i quattrini, anziché a "Paese Sera" siano andati al PCI. "Paese Sera" sarebbe solo servito per aggirare la legge sul finanziamento dei partiti. C'è di più. Quando fu siglato l'accordo fra l'Ambrosiano e la Società Editoriale Rinnovamento, la società attraverso la quale il PCI controllava "Paese Sera", le garanzie concesse dal PCI alla banca di Calvi per la restituzione dei 10 miliardi, si basavano, in gran parte, sulle provvidenze della legge sull'editoria, in quel momento non ancora approvata dal Parlamento. Il prestito quindi -si chiede il giudice- era davvero garantito? O siamo davanti ad una violazione della legge bancaria? E perché Calvi -se così è- rischiava l'incriminazione pur di aiutare il PCI? Quale favore, in cambio, riceveva dal PCI?
Il deputato radicale Roberto Cicciomessere ha inviato una lettera all'ufficio di presidenza della Camera perché sia bloccata la vendita alla buvette di Montecitorio di bevande alcooliche nei giorni di seduta, al fine di «ridurre, non solo la diffusione dell'alcoolismo tra i deputati, ma anche gran parte dei comportamenti poco onorevoli che avvengono alla Camera». Cicciomessere, per chi non lo sapesse, è quel deputato che, con balzo felino e senza mancare l'obiettivo, saltò a pie’ pari, sul banco del governo. Va bene per l'alcoolismo. Ma ci sarà anche un controllo antidoping?
* * * Il deputato radicale Aiello Mario, sul problema della fame del mondo (promotore Marco Pannella) dà questo giudizio: «Questo di andare a salvare la gente mi pare un atteggiamento fideistico. Di gente che muore di fame ce n'è sempre stata e non è mai fregato nulla a nessuno, chissà perché oggi dovrebbe essere diverso. Io penso che stia avvenendo un processo d'ideologizzazione. Mi spiego: così come è successo con l'ostruzionismo e coi referendum noi rischiamo di fallire la battaglia politica finendo per ideologizzare solo lo strumento, in questo caso la fame. Perché giudico debole questo modo di andare a salvare la gente affamata? Perché i grandi organismi internazionali che se ne dovrebbero occupare, Bradford Morse e Pnud compresi, sono quelle stesse persone che hanno fallito in questi vent’anni. Mi si dice: ma ora hanno dei piani, giurano che funzioneranno, basta che i soldi vengano stanziati dai governi. E ci credo! A quei signori basta prendere soldi poi sa cosa gli importa del Terzo mondo! Perché, ditemi: con quale criterio andiamo a scegliere i tre milioni da salvare? Come li salviamo? Chi gli costruisce industrie, strade, ponti? Suvvia, ho la sensazione che questa battaglia rischi di esaurirsi nella costruzione di un ennesimo campo profughi dove poi quelli che muoiono di fame non riescono mai ad entrare...». ("L'Espresso", 8.12.1981)
* * * «Io», ha detto Fanfani ("Panorama", 6.12.1981), «di fronte a progetti di rinnovatori avventati, dico che se uno nasce bischero, tale resta, e nessuno può illudersi di fargli abbandonare la bischeraggine». Il «bischero» di Fanfani è diretto al deputato democristiano Giuseppe Costamagna. Fanfani è toscano. Nel "Dizionario moderno" di Alfredo Panzini, alla parola «bischero», trovo: «Legnetto congegnato nel manico degli strumenti musicali per tendere le corde. In Toscana, pene e, per estensione, stupido, buono a nulla». A Costamagna la scelta. Fanfani, per chi lo ignorasse, è presidente del Senato, la seconda autorità della Repubblica, dopo Sandro Pertini.
* * * «Insomma tutto da rifare, professor Giannini?» «Esattamente, tutto da rifare. Si devono ripensare le strutture e su questa base e solo su questa base scegliere il personale». «È un disegno, professor Giannini, che rischia di diventare la grande illusione del XX secolo. Da quanto tempo in Italia si parla di riforma della pubblica amministrazione?» «Ci avviciniamo ai 100 anni se ci riferiamo al primo tentativo di Crispi, che peraltro intelligentemente provò a riordinare i ministeri prima del personale. Poi i tentativi e gli insuccessi, ricominciarono con Giolitti». «E da allora le cose sono andate sempre peggio?» «Più o meno» «Tanto da farci rimpiangere la pubblica amministrazione dell'epoca fascista che era indubbiamente più efficiente di quella di oggi?» «È senz'altro così: allora le amministrazioni erano poche e si specializzavano. C'erano solo gli Interni, il Tesoro e le Corporazioni». ("La Notte", 5.12.1981, Massimo Severo Giannini, già ministro per la riforma della Pubblica amministrazione, amministrativista di prima grandezza, professore universitario, partigiano, socialista).
L'inchiesta di Bologna, sulla strage orrenda del 2 agosto si è dissolta nel nulla. Decine e decine di arrestati sono via via usciti dall'inchiesta. Gli ultimi due, appena pochi giorni fa, scagionati. Per quegli 85 morti non ci sono, allo stato attuale, né imputati né indiziati. Si riparte da zero, scrive la stampa. Non una parola sull'episodio, non certo secondario, che si è tenuta in prigione (e che prigione!), per mesi e mesi, tanta gente, sotto l'accusa di un reato infame, per poi arrivare a dire: fuori, siete innocenti. Erano «neri» e quindi non c'è da chiedere scusa. Il garantismo, che questa Repubblica, nata dalla resistenza, riserva a ladri, corrotti, drogati, assassini di stato e di sinistra, cessa davanti a colui che si dice di destra. Il razzismo torna, in questi casi, a vigoreggiare. Comunque qual'è l'insegnamento che si ricava da questa triste vicenda di dolore e di morte? Tutto parte dal questore Russomanno, pezzo grosso dei servizi... riformati che, in galera per il verbale di interrogatorio Peci-figlio di Donat Cattin, il terrorista, raccolse le confessioni di un suo... collega di cella, certo Farina, ladro e mitomane, confessioni grazie alle quali partì la grande inchiesta contro i «fascisti». Ci si domanda ora: quelle dichiarazioni del teste Farina erano... farina del suo sacco o erano imbeccate? Se lo chiedano, soprattutto, i familiari delle vittime; 350 persone che da un anno ormai bussano a tutte le porte per non far dimenticare i loro morti e i loro feriti, per chiedere giustizia.
* * * Una sola cosa è certa, ed è che da Portella della Ginestra (1947) in poi, tutte le stragi che si sono verificate in Italia, restano sì avvolte nel mistero, ma sempre, puntuali, in mezzo al sangue, vi compaiono gli uomini dei «servizi» che, anziché essere al... servizio del Paese e della sua sicurezza, vengono impiegati, dalla partitocrazia imperante, a protezione dei suoi interessi (sporchi e malvagi). È duro a scriverlo, ma va detto. Con tutta la chiarezza possibile. Con l'avvento, in Italia, di questo regime partitocratico, lo Stato non è più esistito. Sono esistite le bande che sullo Stato si sono accampate. Ed è così che anche i servizi, cioè uno dei settori più delicati per la difesa dello Stato, si sono fatti bande. Al servizio di questo o di quel capo-banda che, per coprire soprusi, arbitri, delitti, non si fermava dall'utilizzare settori dello Stato, i più delicati. Se non si capisce questa elementare e palmare realtà, ci si impedisce di capire che cosa è avvenuto, cosa sta avvenendo. Ci si impedisce la possibilità di trovare i rimedi per uscire dal tunnel di tutte le congiure.
* * * Il bandito Giuliano viene assassinato nel sonno (5.7.1950) perché non parlasse. E ad ucciderlo fu la mafia, ma per espresso incarico della «partitocrazia» che, in Sicilia, aveva cominciato ad utilizzare lo Stato per i suoi non puliti intrighi. Al punto che, mentre carabinieri e polizia si facevano la guerra fra loro, banditi come Pisciotta e Salvatore Ferreri, detto «fra Diavolo», giravano indisturbati, per tutta l'isola con i lasciapassare rilasciati loro dagli Ispettori capi Verdiani e Messana. Tutto ciò che è accaduto dopo (Piazza Fontana, Piazza della Loggia, l'Italicus, il due agosto 1980) ha quelle stesse stigmate: il sangue che fa da coagulante del quadro politico, lo Stato distrutto, e al suo posto le bande che pur di conservare il potere ricorrono al delitto e alla strage. Mai la verità, sempre la menzogna infamante.
* * * State ad ascoltare. È il 15 dicembre 1981. La Corte di Assise di Appello di Brescia ha davanti a sé Angiolino Papa, condannato a dieci anni per la strage del 28.5.1974 (Piazza della Loggia), otto morti e 101 feriti. «È vero», gli chiede il presidente della Corte, «quello che disse in istruttoria ("sono colpevole", N.d.R..)?». «Signor presidente, la verità è che sono innocente. Non so niente della strage. In istruttoria ho detto un sacco di balle e ho assecondato il gioco degli inquirenti». Presidente: «Ma perché, come lei dice, assecondare gli inquirenti?». Papa: «Mi erano stati promessi 10 milioni, la libertà provvisoria e un passaporto. Però, alla fine, non ho avuto né i dieci milioni, né la libertà provvisoria, né il passaporto». Presidente: «Lei, in fondo, vuol dire che gli inquirenti le suggerivano quel che doveva raccontare?». Papa: «Sì, stavo al loro gioco». Presidente: «Perché?». Papa: «Non ne potevo più dell'isolamento. Avrei fatto qualunque cosa». Per l'ennesima volta -prosegue il "Corriere della Sera" del 15.12.1981- tornano in superficie i misteri e gli errori di una istruttoria tormentata. E Angiolino quando ha ripetuto che «erano i giudici a guidarmi», che «mi suggerivano i nomi» e «mi mostravano le fotografie che a loro interessavano», il presidente della Corte d'Assise d'Appello ha avuto uno scatto: «Papa, se i magistrati hanno fatto quello che lei dice, dovrebbero essere messi sotto processo. Si rende conto della gravità di ciò che sta accadendo?». Papa: «Perfettamente, ma è la verità». ("Corriere della Sera", 15.12.1981)
* * * Il giorno dopo questo interrogatorio. È la volta del fratello di Angiolino Papa, Raffaele (assolto in primo grado), ad essere ascoltato dalla Corte d'Assise di Appello di Brescia. Dice Papa: «Li odio, Signor Presidente, odio gli inquirenti perché mi hanno rovinato la vita». Presidente: «Ascoltando le sue dichiarazioni mi sembra di vivere in un altro mondo». Papa: «Volevano, a tutti i costi, che raccontassi cose che non sapevo, non conoscevo. Volevano che coinvolgessi persone che non conoscevo. Mi facevano vedere le fotografie. Volevano che parlassi. E, se dicevo no, mi spiace, non so niente, insistevano ancora. Uno dei giudici si è messo a piangere... L'altro soprattutto voleva due nomi». Presidente: «Quali nomi?». Papa: «Mi dicevano: se riconosci Nando Ferrari e Mauro Ferrari (due imputati del processo, N.d.R..) ti lasciamo libero». Presidente: «Altrimenti?». Papa: «Altrimenti l'ergastolo. Me l'hanno ricordato un sacco di volte. Se non collabori, c'è l'ergastolo. Eppure sono innocente, Signor Presidente. Della strage non so nulla... Sì, sono innocente. Quante volte ho invocato Gesù, i santi, i morti di Piazza della Loggia. Ho invocato anche i giudici: volevo che mi sottoponessero alla prova del siero della verità». Presidente: «E i giudici che cosa risposero?». Papa: «Mi risero in faccia». ("Corriere della Sera", 16.12.1981).
* * * Da Giuliano ai tempi nostri. La tecnica non è mutata. «Volevano che parlassi. Volevano che dicessi quello che a loro faceva comodo». «Volevano soprattutto dei nomi, quei nomi». «Parla e ti diamo dieci milioni». «Se non parli c'è l'ergastolo». L'Italia si è fatta così. Dal 1943, cioè dall'anno in cui Giuliano muove i suoi primi passi di bandito, ad oggi sono passati quasi quarant'anni. Già, nel 1943, le porte dell'ergastolo si erano aperte in America -che era allora in guerra contro di noi e che la guerra conduceva con tutti i mezzi per vincerla- per Lucky Luciano, assassino e trafficante di droga. Libertà. Alla condizione di cooperare allo sbarco alleato del 9 luglio 1943. Così fu. L'Italia odierna è plasmata di mafia perché dalla mafia è nata.
A Palazzo Baracchini il ministro della Difesa, Lelio Lagorio, ha consegnato i diplomi delle medaglie d'argento e di bronzo al V.M. a Rosario Bentivegna. La motivazione suona così: «Durante l'occupazione nazista della capitale emergeva al comando di un GAP per capacità organizzativa, indefessa attività, intrepido ardimento. Nelle vie e nelle piazze dell'Urbe e particolarmente il 18.12.1943 e il 23.3.1944 combatteva contro i nazifascisti in una lunga serie di scontri e di agguati che diedero larga risonanza al suo nome «Lunga serie di scontri e di agguati», così la motivazione. Di che si tratta? Attilio Tamaro, nella sua opera "Due anni di storia: 1943-1945", volume 3°, alle pagine 533-535, racconta, dettagliatamente, l'agguato-strage di Via Rasella del 23.3.1944, perché di questo episodio si tratta. «La giunta militare del CLN», scrive Tamaro, «di cui facevano parte Lussu, Bauer (due puri, due integri, che avevano fatto dell'odio e della violenza una mistica, un assoluto domenicano) e Pertini, aveva pensato che i "gapisti" dovessero portare la strage in mezzo al previsto corteo fascista (23.3.1944), e quando questi mancò, indicò altri innocenti: una colonna di soldati della Sudtiroler Polizei che passava ogni giorno per via Rasella recandosi al Viminale. Giorgio Amendola trasmise l'ordine della Giunta ai gapisti e il dott. Carlo Salinari organizzò l'azione. Fu calcolato -è sempre Tamaro che parla- cronometricamente il tempo che la colonna degli altoatesini impiegava per raggiungere un determinato punto e lo studente Rosario Bentivegna che, vestito da spazzino, insieme ad Alfio Marchini, stava presso ad un carro di immondizie carico di esplosivo, quando Franco Calamandrei gli fece il segnale togliendosi il cappello, accese la miccia e fuggì. L'effetto fu terribile: trentadue soldati e alcuni civili, tra cui un bimbo, giacevano morti e un gran numero di feriti vicino ad essi». La motivazione delle medaglie a Bentivegna reca che il gapista «combatteva contro i nazifascisti in una lunga serie di scontri e di agguati». Non è così. Lasciamo ancora parlare Attilio Tamaro: «Non vi fu nessun combattimento, né vi poteva essere: risulta invece che, ben lontani dall'affrontare i tedeschi e le loro armi (se le portavano), i gapisti avevano agito proditoriamente, sorprendendoli al varco e fuggendo appena compiuta l’imboscata. Bauer ha detto che la libertà doveva essere conquistata con la lotta aperta: ma quella non era lotta aperta, bensì massacro commesso con la sicurezza di non subire danni in quel momento. Amendola ha cercato un'altra scusa: bisognava ed era urgente, far capire ai tedeschi, che dovevano sgombrare per evitare i bombardamenti. È vero invece che proprio allora i tedeschi, e i romani lo sapevano, avevano finito di evacuare la città, dove non si trovavano più se non i pochi appartenenti al comando locale e quelli in servizio di polizia. Poi, come risultò al processo Kappler, quel battaglione aveva compiti di ordine pubblico compatibili con le norme che regolavano il funzionamento della Città aperta, e girava disarmato». Dopo quello dello storico Attilio Tamaro, ecco il giudizio, sulla vicenda, del partigiano, antifascista Ripa di Meana. Lo svolge a caldo (4.4.1944) sul foglio clandestino "l’Italia Nuova": «Per Roma intiera la deplorazione dell'attentato fu unanime; perché assolutamente irrilevante ai fini della guerra contro i tedeschi nella quale il nostro Paese è impegnato; perché insensato, dato che il maggior danno ne sarebbe inevitabilmente derivato alla popolazione italiana; per quell'ampio senso di umanità che distingue noi latini e che non si estingue neppure durante gli orrori di una guerra, e per la quale ogni inutile strage non può trovare la sua giustificazione nell'odio, ma solo nella necessità. Per la prima volta dopo l'8 settembre i tedeschi avevano segnato un punto, ed avuto dalla loro l'opinione pubblica della Capitale». Non lo si dimentichi mai: l'attentato di Via Rasella provoca, per rappresaglia, il massacro delle Fosse Ardeatine. Trecentoventisei Italiani persero la vita. Rosario Bentivegna che, presentandosi, avrebbe potuto salvare quelle vite, non lo fece. A diversità dell'eroico carabiniere Salvo D'Acquisto, stette alla macchia. Oggi ha anche le medaglie. «Quando l'oltraggio ai decorati al Valor militare di tutte le guerre diventa ignominia, non si può far altro che restituire le medaglie guadagnate sui campi di battaglia. Non intendo confondermi con i vili che oggi, in una Repubblica come la nostra, riscuotono l'incondizionata stima di un ministro della Difesa. Dopo quanto è accaduto non mi meraviglierei più se venisse istituita una decorazione al valor militare anche per brigatisti pentiti». Così il generale Giuseppe Palumbo, già comandante della brigata Folgore, a Sandro Pertini. Ma che può fare Pertini se quell'agguato non solo condivise, ma ordinò?
«Per un anno e mezzo ho comprato eroina da Parodi e dalla Baldasso. Li avevo conosciuti tramite alcuni amici. Trattavo quasi sempre con lei, ma una volta mi accordai anche con il marito, stabilendo quantità e prezzo. La mia misura era di una dose al giorno, ma di media consumavo dieci dosi la settimana. Le pagavo 200 mila lire l'una. Il mio rapporto con Barbara Baldasso era solo di compravendita» (Dalla deposizione resa (6.1.1982) ai giudici della 1ª Sezione del Tribunale di Genova dall'on. Canepa Antonio Enrico, capolista nella circoscrizione Genova-Imperia-La Spezia-Savona per il PSI. Canepa ha preso il posto di Sandro Pertini).
* * * «I 150 milioni che avevo in banca? Non c'erano da molto, la maggior parte ci sono arrivati dopo che avevo conosciuto l'on. Canepa. Io ero la sua amante, lui mi chiamava a Roma perché voleva vedermi, io portavo la roba per me e per lui, abbiamo "bucato" insieme. In genere le dosi settimanali per lui erano dieci, quando doveva partire o stare fuori, anche quindici. Mi faceva pure dei regali. Una volta la borsa, un'altra la pelliccia, ma soprattutto denaro» (Dalla deposizione di Barbara Baldasso, arrestata per traffico di droga, sotto processo presso la 1ª Sezione del Tribunale penale di Genova. Nella vicenda, anche la morte di un ragazzo, Franco Monti, ucciso da una overdose di eroina e trovato cadavere sulle colline di Genova). «Ma è possibile», ha chiesto il presidente del Tribunale Lino Monteverde, «otto milioni al mese di droga e ancora denaro in regali?» La Baldasso è stata categorica: «Lo ripeto, mi dava i soldi, io compravo la droga e "bucavamo insieme" ("la Repubblica", 6.1.1982). Non risulta che Sandro Pertini, il quale ha preteso e ottenuto la testa del senatore socialista (e piduista) Fossa Francesco, aspirante alla presidenza del Consorzio del Porto di Genova, abbia chiesto le dimissioni dal Parlamento del deputato Canepa Antonio Enrico, suo pupillo.
* * * Natale Rimi, 44 anni, ex-funzionario della Regione Lazio, al centro di un grosso scandalo nel luglio 1971, dovrà soggiornare obbligatoriamente, per la durata di cinque anni, nel comune di Montefano, in provincia di Macerata. Lo ha stabilito il Tribunale di Trapani. L'accusa: attività mafiose. Natale Rimi è latitante. È figlio di Vincenzo Rimi e fratello di Filippo Rimi, stelle di prima grandezza del Gotha mafioso. Vincenzo, il padre, morto alcuni anni fa, viene indicato come il giustiziere del bandito Giuliano. Quando Pisciotta viene avvelenato in carcere, Vincenzo Rimi si trova, anche lui, nel carcere dell'Ucciardone di Palermo. Sulla sua detenzione, nella fase della sua condanna all'ergastolo, esiste una fitta corrispondenza ministeriale (il fascicolo del Ministero di Grazia e Giustizia si trova fra i documenti della Commissione antimafia) perché al Rimi fosse riservato il privilegio, non consentito dalla legge, di stare nello stesso carcere con il figlio Vincenzo. Di questa «pratica» se ne occuparono i sottosegretari alla Giustizia Pellicani (PSI), Dell’Andro (DC), Pennacchini (DC); i senatori Corrao (PCI) e Cifarelli (PRI) e il ministro d; Grazia e Giustizia in persona, Oronzo Reale. E ciò contro il parere del Centro nazionale di coordinamento delle operazioni di polizia criminale che, in data 27.5.1971, scrive al Ministro di Grazia e Giustizia, affermando che la vicenda delle raccomandazioni ha suscitato viva perplessità tenuto conto che, trattandosi di individui pericolosissimi e tuttora capaci di «organizzare qualsiasi attività illecita, anche dal carcere, sarebbe stato più opportuno evitare che essi si incontrassero». Come si può constatare lo sfascio delle carceri, da parte dei ministri di Grazia e Giustizia, data da tempo.
* * * Lotta al coltello per il rinnovo della «deputazione» del Monte dei Paschi di Siena, gruppo ormai mondiale dopo l'acquisto del Credito Lombardo, del Credito Commerciale e il controllo della Banca Toscana. Mentre il PCI, la DC, il PLI hanno designato i propri «giannizzeri» (4 «deputati» del Monte vengono designati dal Consiglio comunale di Siena), nel PSI infuria la polemica fra due opposte fazioni, quella di Bettino Craxi e quella della Federazione di Siena che in Bettino non si riconosce. Le accuse reciproche sono di ordine morale. E dato che gli attuali tre personaggi in carica per conto del PSI (Sergio Simonelli, vicepresidente, Giovanni Buccianti «deputato», e Marco Baglioni sindaco) sono craxiani e i tre che si propongono dalla Federazione per la sostituzione di quelli in carica sono uomini del Monte cioè dipendenti, potete benissimo immaginare quale sia la conduzione di questa Banca di interesse mondiale. Un vero e proprio «casino». E che vi fosse «casino» lo avevano ben capito i deputati del MSI che, fin dal maggio 1980, a firma del presidente del gruppo parlamentare Alfredo Pazzaglia, presentavano l’interrogazione che si riporta, diretta al Ministro dei Tesoro, e riguardante la più alta autorità amministrativa della Banca: «Premesso che nella sentenza n° 154 del Tribunale penale di Firenze del 20.1.1978, sentenza che condannava alla reclusione esponenti di vertice del mondo politico fiorentino per reati contro la pubblica amministrazione, è detto che Cresti Giovanni, all'epoca Direttore Centrale del Monte dei Paschi di Siena, amico di tutti gli imputati, si adoperò, servendosi delle strutture del grande Istituto di Credito che amministrava, per distaccare dalla Banca Nazionale del Lavoro di Firenze, due dei tre libretti al portatore di cinque milioni ciascuno, intestati rispettivamente «amico1», «amico2», «amico3», e aperti dal cittadino Nucci, al fine di ottenere dagli amministratoti comunali di Firenze l'edificabilità sui suoi terreni; premesso che il Cresti Giovanni, Direttore Centrale del Monte dei Paschi di Siena, spinge la propria solerzia di alto dirigente bancario nel far scomparire i libretti che costituivano prova di reato, al punto da consegnare la somma in contanti, che i funzionari del Banco su suo ordine gli portavano alla propria moglie perché costei aprisse, in Firenze, altri due libretti al portatore presso il Banco di Sicilia e la Cassa di Risparmio di Firenze, convenzionalmente intestati «21.3.1973» e «20.3.1973», e ciò per dare modo alla DC fiorentina di riscuotere le somme senza lasciare tracce; si chiede di interrogare il ministro, per sapere come sia possibile, davanti a così incredibile episodio, che il Cresti Giovanni, Direttore generale del Monte dei Paschi e Provveditore generale dell'Ente, sia ancora al suo posto». Cresti Giovanni è rimasto al suo posto. Anche dopo che il suo nome è apparso, a chiare lettere, fra le carte del venerabile Licio Gelli. Tessera n° 1626, codice E 1977, gruppo G. Quello coordinato dallo stesso Gelli. L'Italia repubblicana affida, come si vede, le banche di interesse mondiale, a persone sul conto delle quali nulla c'è da dire. Cresti Giovanni, per chi lo ignorasse, è fanfaniano.
L'articolo 3 del regolamento della previdenza dei deputati stabilisce che l'assegno vitalizio spetta ai deputati cessati dal mandato parlamentare che abbiano compiuto sessanta anni. Il vitalizio spetta altresì (articolo 4) ai deputati cessati dal mandato, qualunque età essi abbiano, i quali provino di essere divenuti inabili al lavoro in modo permanente. L'on. Luigi Pintor, attuale direttore del "Manifesto", ha potuto godere del beneficio previsto dall'art. 4 nel 1975, all'età di 50 anni, perché dichiarato inabile permanente a qualsiasi proficuo lavoro. Fummo molto preoccupati, allora, quando avemmo modo di leggere le motivazioni per cui la Commissione medica riteneva Luigi Pintor impossibilitato ad attendere, con continuità, alle proprie attività lavorative. Tememmo, allora, di avere perso una intelligenza fertile, soprattutto un carattere. Così non è stato e la cosa ci fa piacere. Vederlo arzillo direttore del "Manifesto", un giornale impegnato e di battaglia; constatare la sua assidua presenza al dibattito politico; vederlo partecipare a conferenze, a incontri culturali, a dibattiti arroventati; vederlo farsi conferenziere lui stesso, ci rallegra. Pensate, sette anni fa non poteva intraprendere viaggi, non poteva allontanarsi da casa da solo e per lungo tempo, doveva essere costantemente sorvegliato. Non un vitalizio, ma due, in quelle condizioni, pareva dire la documentazione medica. Tutto superato. Un recupero davvero spettacolare. Ma guarda tu, che miracoli ti fa il vitalizio parlamentare.
* * * Il biglietto di auguri che Giulio Andreotti ha inviato ad amici, estimatori e porta borse, reca questa frase: «Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce». Molte accuse ad Andreotti. Non certo quella di coltivare di sé un alto concetto.
* * * I grandi accusatori del gruppo Rizzoli-Tassan Din hanno le carte in regola? Le hanno, per esempio "la Repubblica" e "L'Espresso" di Scalfari e di Caracciolo, questo interpartito che asseconda il PCI nelle sue manovre di potere? E quale sia, nel settore dell'informazione, questa manovra del PCI è chiara: controllare la stampa italiana attraverso un solo ed unico gruppo di potere. La manovra fu già tentata un paio di anni fa. I tre principali editori (Rizzoli, Caracciolo-Scalfari, Mondadori) si trovarono d'accordo, sia nel circuire i partiti perché il Parlamento approvasse la norma cosiddetta «cancella debiti», per cui Rizzoli si sarebbe salvato; sia nel disegnare un'azione di accaparramento in comune de "Il Messaggero". I soldi -è stato detto- li avrebbe forniti Calvi. E in quei giorni che viene firmato il patto di non aggressione tra Caracciolo-Scalfari e Rizzoli-Tassan Din, accordo che poi verrà trovato tra le carte di Gelli. Ed era quella la stagione in cui, non solo al PCI tutto stava bene, ma Visentini si presentava come il «consigliori» di Angelo Rizzoli e Bruno Tassan Din. Al punto di presiedere a Venezia il convegno per il lancio del quotidiano "L'Occhio". È saltato tutto, è vero. Ma chi ci dice che, sotto sotto, non ci sia ora la stessa manovra? I fili sono gli stessi: PCI, plutocrazia (Visentini-De Benedetti), forte spruzzatina laico-massonica. Bella, no, la scena?
* * * La Commissione Inquirente, dopo 12 anni dall'esplosione dello scandalo, si avvierebbe ad archiviare il ladrocinio ANAS. Prepariamoci, dunque, a vedere assolti Mancini, Lauricella e Natali. Scandalo nello scandalo. Acqua (abbondante) al mulino delle BR e di tutto il terrorismo, il cui primo assioma, non lo si dimentichi, è questo: «Questo paese è da buttare». Intanto il presidente dell'Inquirente, il socialdemocratico on. Alessandro Reggiani, malgrado il petroliere Musselli («Lo abbiamo in pugno!»), continua, imperterrito, a presiedere. Forse ha ragione lui: è degno dell'Inquirente.
Leo Valiani, nel suo articolo dedicato al maestro Arturo Toscanini ("Toscanini e la libertà", "Corriere della Sera", 16.1.1982) a 25 anni dalla sua morte, parte mettendo vistosamente le mani avanti. Infatti, dovendo scrivere in chiave antifascista la ricorrenza e non potendo evitare di dire che il maestro fu in lista, insieme con Benito Mussolini, nelle elezioni politiche del 1919, ne cerca subito le giustificazioni. «Anche Arturo Toscanini», scrive Valiani, «subì il fascino di quello che pareva un pronunciamento di libertà nei confronti d'una classe politica paralizzante, corrosa dagli intrighi e si lasciò (bello questo «si lasciò»!, N.d.R..) portare candidato nella lista presentata da Mussolini alle elezioni generali del novembre 1919». Valiani, dopo averci descritto I'«infortunio» fascista di Arturo Toscanini, viene a descrivere il suo antifascismo, culminato con il rifiuto di dirigere, in un teatro di Bologna, l'esecuzione dell'inno delle camicie nere. «Uno squadrista», scrive Valiani, «ebbe la brutale impudenza di schiaffeggiarlo. Alla prepotenza, il maestro poteva reagire solo indirettamente, trasferendosi all'estero». È stato questo un episodio intorno al quale l'antifascismo ha sempre fatto un gran rumore. Lo schiaffo a Toscanini è divenuto storia. È vero, ma è anche vero che la vicenda non piacque nemmeno ai fascisti. Gli archivi ci restituiscono testimonianze al riguardo, fra le quali la seguente lettera di un anonimo fascista a Mussolini. Essa dice: «Domando se nell'anno IX dell'Era Fascista sia permesso a un pinco pallino qualsiasi schiaffeggiare il maestro Toscanini, reo di non aver voluto suonare "Giovinezza" in una celebrazione in cui questo inno, pur tanto caro agli Italiani, c'entrava come il cavolo a merenda. In questo periodo di capovolgimento di valori morali ci si può aspettare di vedere schiaffeggiato anche Marconi perché non radiotrasmette qualche discorso sonnifero di qualche gerarca in diciottesimo». Allora il maestro dichiarò che non aveva suonato gli inni nazionali (perché di questo si trattava, oltre "Giovinezza" Toscanini doveva suonare la "Marcia Reale") in quanto l'orchestra poteva, tecnicamente, soffrirne. Il maestro, tanti anni dopo (aprile 1944), non ebbe più di questi scrupoli. Infatti al Carnegie Hall di New York diresse un concerto a beneficio delle spese di guerra degli Stati Uniti. Si precisava che, con il ricavato del concerto, sarebbero state costruite due navi Liberty e due Fortezze volanti. «Le Fortezze volanti», precisava una nota della corrispondenza repubblicana del 23 aprile 1944, «per definizione volano, e siamo certi che per l'ammirevole attenzione degli Stati Uniti, quelle due Fortezze voleranno nel cielo della Patria di Toscanini ed eseguiranno azioni di guerra... Un ignoto, durante i 45 giorni badogliani, tracciò sui muri della Scala l'invocazione: Toscanini torna! Toscanini ora torna. Col sinistro rombo delle Fortezze volanti, col sangue degli innocenti, col pianto dei superstiti». * * * Il senatore Renato Guttuso, in occasione del suo 70° compleanno, ha ricevuto da Enrico Berlinguer un telegramma, nel quale, fra l'altro, è detto: «La lunga lotta dei comunisti italiani, il prestigio, la forza che si è conquistato in Italia e nel mondo il PCI, si sono avvalsi e sono frutto anche dell'opera di combattenti artisti come te, che hai intrapreso la milizia politica nelle nostre file fin dal 1935 e l'hai poi continuata ininterrottamente mantenendo intatta la tua dedizione alla causa dell'emancipazione del lavoratore e dei popoli». Ora si dà il caso che Renato Guttuso, nel 1940, esaltasse sulle pagine di "Primato", la rivista diretta dal ministro Bottai, una scultura di Enzo Biggi, intitolata "l'Eccidio di Sarzana" del 1921 (18 fascisti furono uccisi dai socialisti), di cui, poco tempo fa, abbiamo veduto in TV la rievocazione. Dopo aver definito l'opera -veramente notevole-, Guttuso afferma che essa «avrebbe potuto commuovere come evocazione e per il suo contenuto«, ma commuoveva «anche in termini di scultura». E giù con altri elogi. Così Guttuso nel 1940. Ora Enrico Berlinguer, nel suo telegramma, afferma che la milizia politica nel PCI, Renato Guttuso l'ha intrapresa «ininterrottamente dal 1935 ai giorni nostri». Una pausa c'è, comunque, stata. Nel 1940. Quando si mise a fare gli elogi di una scultura raffigurante il sacrificio di sangue dei fascisti a Sarzana. In verità poi non è la sola... pausa. Ce n'è un'altra. Questa in periodo antifascista. Quando Renato Guttuso viene fermato nel 1973, nei pressi di Varese, e trovato in possesso di documenti bancari dai quali risultava che aveva depositato all'estero 600 milioni (valore 1973). Anche questo «a gloria del PCI»?
* * * Quarantanove giornalisti di "Paese Sera" hanno ricevuto la lettera di licenziamento. Le proteste scarse e senza nerbo. E che il direttore del quotidiano, il senatore comunista Giuseppe Fiori, prima di dimettersi dall'incarico, abbia assunto nell'organico redazionale di "Paese Sera" il proprio futuro genero (Attilio Gatto), non desta né stupore né schifo. Tutto regolare. I comunisti sono davvero diversi.
Il «caso» delle medaglie al valor militare al terrorista Rosario Bentivegna, per l'attentato di Via Rasella del 23 marzo 1944, non si placa. Perfino il "Corriere della Sera" si vede costretto a pubblicare lettere che deplorano, in termini severi e indignati, il conferimento delle onorificenze da parte dei ministro della Difesa, il socialista Lelio Lagorio. Prima di passare ad illustrare l'aspetto, ancora più squallido, della vicenda, domandiamoci, cercando di rispondere, il perché Lelio Lagorio abbia voluto dare all'episodio tanta solennità, dall'invitare a Palazzo Baracchini, come oratore ufficiale della cerimonia, il comunista on. Antonello Trombadori, il quale, nella sua allocuzione, non si è limitato a poco se è arrivato (udite! udite!) a paragonare Rosario Bentivegna a Giuseppe Garibaldi. La risposta va trovata, con tutta probabilità, nella ... P2. Infatti il caso Bentivegna si svolge in parallelo con la richiesta di audizione dei ministro Lagorio davanti alla Commissione Difesa, perché chiarisca la sua posizione, in relazione alle dichiarazioni dei Gran Maestro Lino Salvini, rese alla Commissione di inchiesta sulla P2, per cui Lagorio risultava in intimità con Licio Gelli. Lagorio intanto ... premia Rosario Bentivegna come eroe nazionale. L'audizione dei ministro scivola come l'olio. Tutto va a gonfie vele. Io do una cosa a te e tu dai una cosa a me. Io conferisco i diplomi delle medaglie a Rosario Bentivegna, e tu, in Commissione, fai finta di nulla. Direte che questo è un sistema mafioso. No, sbagliate. La mafia è una cosa seria. A queste manfrine non scende. Ci ricorrono invece i politici. In gergo mafioso gli uomini vengono divisi in quattro categorie: òmmini, mezzi òmmini, omminiccoli e quacquaracquà. È una gerarchia di valori molto precisa. I politici italiani sono al quarto stadio: quacquaracquà. Ed ora veniamo all'aspetto più squallido della vicenda «Rosario Bentivegna». Indro Montanelli su "il Giornale" (23.1.1982) scrive che «l’atto di valore» di cui si è voluto dar merito all'attentatore di Via Rasella è, per le sue conseguenze «un atto di infamia». Ma perché quella onorificenza, che fu conferita trenta anni or sono, viene sbandierata solo oggi, Italia 1982? Cosa c'è sotto? Rosario Bentivegna il 5 giugno 1944, giorno successivo a quello dell'entrata in Roma delle truppe americane, assassinava, con fredda ferocia, a colpi di rivoltella, un sottotenente della Guardia di Finanza, appartenente al Fronte clandestino e quindi partigiano come lui, reo di avere lacerato un manifesto comunista. Quell'assassinio è rimasto impunito. Infatti un Tribunale militare alleato del tempo si limitò a condannare il Bentivegna a pochissimi giorni di carcere. Che vergogna. Due medaglie al valor militare ad un assassino. Che vergogna, onorevole ministro della Difesa. Che vergogna, signor Presidente della Repubblica. Antonello Trombadori, deputato comunista, oratore ufficiale nella cerimonia del conferimento dei brevetti delle medaglie a Bentivegna, ha dichiarato che devono fare attenzione, perché c'è la galera, coloro che si mettono a vilipendere gli attentatori di Via Rasella, in quanto vilipendendo questi «eroi», si viene ad ingiuriare le Forze Armate della Repubblica italiana. Ora all'eccidio di Via Rasella parteciparono dieci «gapisti», dieci «eroi». Ma, ahimé, subito dopo la strage, due di questi «eroi», fra i quali Guglielmo Blasi, passarono nelle file della banda Koch. Daremo medaglie e brevetti anche a loro?
* * *
All'ex-Gran Maestro della massoneria, il fiorentino Lino Salvini, è stato chiesto perché non ha mostrato polso fermo verso Gelli, lasciandogli fare quello che ha fatto. Risposta: «Vedete, io sono un cittadino allevato nel rispetto dei valori e dell'ordine costituito. Cosa dovevo pensare quando vedevo generati della finanza, quelli dei Carabinieri, i capi dei servizi segreti, sottosegretari, ministri che andavano a braccetto con Gelli e avevano per lui grande ammirazione?».
* * * «Organizzare il colpo di Stato è per dei massoni come per i cattolici voler defenestrare il Papa. Quanto a Gelli, pensarlo capace di un colpo di Stato è come immaginare uno che sfascia il letto in cui dorme. Lo Stato e il governo italiano, per lui, erano quelli ideali: per un corruttore, truffatore e ricattatore, cosa c'è di meglio d'un paese caotico, degradato, corrotto e corruttore come questo? Perché avrebbe dovuto volerlo buttare all'aria?». (Ennio Battelli, Gran Maestro della massoneria, "La Stampa", 19.1.1982).
* * * Il generale Santovito, ex-capo del Sismi, ha un cugino. Si chiama Francesco Pazienza. Ha solo 36 anni. Guadagna milioni a palate. Il Sismi gli passava uno stipendio di 70 milioni al mese. È intimo di Craxi, Piccoli. Lavora per il banchiere Calvi. È lui che, con i denari del SISMI, organizza l'incontro in America fra Flaminio Piccoli e il segretario di Stato americano Haig. Tutto regolare? La singolare posizione del Pazienza avrebbe suscitato la particolare curiosità del generale Lugaresi, che è subentrato al Sismi al posto di Santovito, ritiratosi a vita privata per la vicenda P2, e del generale Ferrara, consigliere per l'ordine democratico e della sicurezza presso il Quirinale. Nella vicenda episodi oscuri -asseriti, poi smentiti, mai chiariti- come quello della visita notturna, con relativo scasso della cassaforte, di un amico di Piccoli, il cui studio è accanto a quello dei segretario della DC. Cosa cercava? Nulla di nuovo sotto il sole: i servizi di sicurezza che dovrebbero combattere il terrorismo, continuano ad essere coinvolti nelle guerre tra le bande partitiche che infestano il paese. Già, Santovito. Questo nome ci ricorda qualcosa. Peteano. Ricordate? L'ignobile tentativo di «regia» contro il MSI-DN. Per conto di chi, generale Santovito? Perché non ce lo dice ora che, a causa di Gelli, è andato in pensione?
* * * «Nel covo delle BR di Via Pesci, in Roma, sono state trovate armi micidiali, fra le quali un lanciagranate anticarro RPG-7V di progettazione sovietica (con due diversi tipi di munizionamento) e due razzi Sneb 68 impiegati su alcuni caccia della Nato sia come aria-aria, sia come aria-terra. Si precisa che il lanciagranate RPG-7V è l'arma più adatta per azioni terroristiche, di fronte alla quale le corazze dei blindati di polizia e carabinieri nulla possono. Oltre a ciò fucili a canne mozze, rivoltelle, mitra, pani di plastico, esplosivi ...» ("I micidiali razzi russi delle BR", "La Stampa", 11.1.1982).
* * * «Arrestati ad Avezzano due terroristi tedeschi. Sono nazisti. L'operazione della polizia è scattata alle otto di mattina: una trentina di agenti della DIGOS hanno circondato la palazzina a tre piani che li ospitava. Col mitra spianato hanno fatto irruzione nell'appartamento: i due tedeschi ancora dormivano e non hanno avuto il tempo di reagire. Nella casa e nel garage è stato trovato uno striscione inneggiante a Hitler, una svastica, scritte in tedesco e dei timbri». ("La Repubblica", 20.1.1982).
* * * «Seppi da un caro e onesto amico del Ministero degli Esteri, Ivella, che Ugo La Malfa avrebbe gradito incontrarmi. Non potevo rifiutare una cortesia e perciò, dietro sua insistenza, invitai a colazione, in una suite del "Grand Hotel" di Roma, lo stesso Ivella e Ugo La Malfa, che desiderava chiedermi una cortesia elettorale. Egli sapeva che, nella mia qualità di presidente della SACIE (industria cartaria), avrei inaugurato un nuovo stabilimento a Piazza Armerina. Tale paese faceva parte del suo collegio elettorale ed egli avrebbe gradito che nel discorso inaugurale io dicessi che l'opera era stata realizzata per volere di Ugo La Malfa. Non mi costava molto in fondo di arricchire la sua vanità politica di un merito non suo e gli promisi che lo avrei accontentato» (Dal memoriale di Michele Sindona, Agenzia Anipe, Milano, 24.1.1981).
* * * «Con buona pace delle emergenze economiche sono state recentemente profuse in omaggio ai parlamentari centinaia di medaglie d'argento e d'oro commemorative del bimilienario virgiliano. Nei rigori di una di quelle medesime emergenze, invece, è stata cancellata dalle spese dello Stato la voce di tre milioni per l'assegnazione di quelle poche medaglie d'oro d'onore di lunga navigazione spettanti ai naviganti che hanno compiuto 20 anni di navigazione. A questo punto, qualcuno almeno di quelli che si sono portati a casa la medaglia d'oro di Virgilio, dovrebbe spiegarci il senso e la direzione della tanto strombazzata «questione morale» (Gennaro Goglia di Palermo, "Corriere della Sera", 19.1.1982).
* * * Questo l'elenco degli oggetti ... smarriti che figura sotto vetro (perché altrimenti si fregano anche quello) nel corridoio che a Montecitorio porta al salone dei passi perduti: 1 orecchino, 1 portafoglio con valuta estera; 1 calcolatrice tascabile; 2 spille; 2 pipe; 2 borsellini con moneta; 1 agenda e penna; 1 borsetta porta trucco; banconote; 3 orologi; 2 accendini; 6 occhiali; 8 penne biro, 3 penne stilografiche; 3 ombrelli da donna; 2 sciarpe; 1 paio di guanti; 1 berretto e 1 paio di guanti, 1 borsa (uomo); 1 braccialetto; 1 chiave da vettura.
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Il 29 luglio 1983 ricorrerà il centenario della nascita di Benito Mussolini. A parte la spettacolare mostra allestita dal Comune di Milano sugli anni «Trenta», nello spazio di poco più di due mesi (novembre 1981 - gennaio 1982) sono usciti su Mussolini e il fascismo, i seguenti libri: "Mussolini, il Duce" di Renzo De Felice (Einaudi); "Mussolini" di Denis Mack Smith (Rusconi); "Starace" di Antonio Spinosa (Rusconi); "Consenso e cultura di massa nell'Italia fascista" di Vittoria De Grazia (Laterza); "Attenti al Duce" di Vincenzo Rizzo, con introduzione di Leonardo Sciascia (Vallecchi), "Mussolini e l'avventura repubblicana" di Giovanni Artieri (Mondadori); "Storia fotografica del fascismo" di Renzo De Felice e Goglia (Laterza); "La parabola di Mussolini nei ricordi di un gerarca" di Giuriati; "Mussolini urbanista" di Antonio Cederna; "Il fascismo nella caricatura" di Niccolò Zapponi; "La vetrina del ventennio (1923-1943)" di Gian Paolo Cesaroni; "L'economia dell'Italia fascista" di Toniolo; "L'Italia fascista" di Danilo Veneruso (Il Mulino); "Il fallimento del liberalismo, studi sulle origini del fascismo" (Il Mulino); "Il fascismo e la sua guerra" di Giorgio Candeloro (Feltrinelli); "Il Fascismo e politica culturale" di Carlo Bordoni; "Omar el Muktar e la riconquista fascista della Libia" (Marzorati Santarelli); "Fascismo sui muri" di Cianflone e Scafoglio (Guida); "Mussolini" di Kirkpatrick (Dall'Oglio); "Storia del fascismo" di Santarelli (Ed. Riuniti); "I figli del Duce" di Spinosa (Rizzoli, in stampa); "Mussolini" di Piero Chiara (Mondadori, in stampa); "Alessandro Pavolini" di Arrigo Petacco (Mondadori, in stampa); "Claretta Petacci" (Rizzoli, in stampa). Dicono che non c'è da stupirsi. È un fatto culturale e basta. «Non si tratta, per l'amor dei cielo», dichiara lo scrittore Piero Chiara «di una restaurazione politica. È solo una questione di gusto, all'insegna d'un pizzico di snobismo intellettuale, come dire: guardate con che disinvoltura si sa maneggiare soggetti scabrosi». Sarà. Personalmente, ho una diversa opinione. È che gli antifascisti, nel 1945, si illusero che, rimosso Mussolini, avrebbero potuto costruire l'Italia «a loro somiglianza». Ed invece è stato un fallimento. Appunto perché c'era stato Mussolini che aveva mutato tutti: fascisti e antifascisti. Nessuno, dopo la sua scomparsa, è riuscito ad essere quello che era prima. Pretendere di costruire dimenticando o diffamando Benito Mussolini è parso, dopo 37 anni dalla sua morte, prima che un assurdo storico, un errore fatale. Per andare avanti occorre prima «capire» Mussolini. Altrimenti tutto ristagna. Ecco la fioritura di studi intorno alla sua persona e alla sua vicenda. E non c'è solo studio. C'è passione storica. Che investe, non solo i nostalgici, ma soprattutto, coloro che di Mussolini sono stati avversari di sempre. Certo che il destino italiano, la dignità italiana sono legati, piaccia o no, al nome di Mussolini. Gli Italiani cominceranno a vedere chiaro nel futuro il giorno in cui coloro che dirigono le sorti del paese ricominceranno a comprendere la portata storica di Mussolini e oseranno rivendicarla di fronte a tutti i popoli. Il prestigio che l'Italia, durante il ventennio mussoliníano, aveva riacquistato in tutto il mondo, seppur compromesso dalla vergognosa capitolazione dell'8 settembre, resta un fatto moderno di indiscutibile importanza. Accanto alle nostre vetuste e intramontabili glorie da museo, l'essere intervenuti da protagonisti nella storia mondiale della prima metà del secolo XX finirà un giorno per renderci più di quel che sinora ci è costato. Il vanto di avere affrontato per primi il problema comunista, di averlo temporaneamente risolto in casa nostra e di aver tenuto duro sul piano internazionale sino a che anche altri, più forti di noi, capissero quale pericolo stava minacciando le basi stesse del vivere civile e si decidessero ad assumere la guida della resistenza antibolscevica, appartiene all'Italia. Piaccia o no, Mussolini non è solo un ricordo: egli rimane nella vita degli Italiani come una speranza.
* * * Grossi vinai, grandi esportatori, grandi sofisticatori. Due famiglie emiliane, plurimiliardarie, nel mirino dei giudice Bruno Catalanotti di Bologna. Il consumo dello zucchero nella zona, da quando è cominciata l'indagine della magistratura, è sceso da 32.000 quintali del giugno 1981 a meno di 15.000 in agosto dello stesso anno. Finiva tutto nel vino. 1 gennaio 1982. Ore tredici. La Guardia di Finanza, che su ordine della magistratura, tiene sotto controllo il telefono di uno di questi vinai (Celso Resta), registra la seguente telefonata. È il figlio del Resta, Franco, latitante, che parla al padre, in libertà provvisoria dopo aver pagato una cauzione di 100 milioni. «Statti tranquillo papà. I nostri avvocati si danno da fare, anche se quel Damiani (è un avvocato dei Resta, N.d.R.) è un incapace». Ha avuto paura a denunciare il giudice Catalanotti. Comunque, stai tranquillo, perché siamo a buon punto. Grazie a quei nostri amici del Consiglio Superiore della Magistratura, abbiamo ottenuto il trasferimento di Catalanotti. Umberto (Umberto Cenni, civilista di Imola, anche egli legale dei Resta, N.d.R.) è stato proprio bravo a Roma e penso che ormai sia la volta buona. Quel rompiscatole di giudice ...». Papà Resta, a questo punto, chiede: «Ma sei proprio sicuro?». E il figlio: «Te lo ripeto: con tutti quei soldi che abbiamo mandato a Roma possiamo stare tranquilli». Cerchiamo di tradurre la conversazione in termini chiari. I soldi a chi vanno? È lo stesso avvocato Cenni che racconta ai giudici la storia. Presi contatti con un suo amico di Busto Arsizio, tramite questi, arriva all'onorevole Francesco Forte, docente di scienza delle finanze, responsabile dei settore economia del PSI. All'amico di Busto Arsizio che fa da intermediario, i Resta regalano due milioni. Poi a pranzo. È la fine di settembre 1981. Ristorante: l'Augusteo di Roma. Presenti: l'avvocato Damiani, l'avvocato Cenni e l'on. Forte. Forte dà assicurazioni. I due membri socialisti del Consiglio Superiore della Magistratura, i professori Mario Bessone e Francesco Guizzi, eletti dal Parlamento il giugno scorso, si metteranno a disposizione. Faranno trasferire il giudice Catalanotti, così lo zucchero potrà, proficuamente, tornare ad essere usato per fare il vino (fasullo). Il gioco è facile: Bessone (già assessore all'urbanistica al Comune di Genova per il PSI) passerà la richiesta al suo collega prof. Guizzi, docente di diritto romano a Napoli che, guarda caso, è membro della terza Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, proprio quella che decide sui trasferimenti. A questo punto che succede? La Procura generale di Bologna, sulla base delle intercettazioni telefoniche e delle confessioni del Cenni, emette due mandati di cattura (Resta e avv. Damiani) e due comunicazioni giudiziarie per interesse privato in atti di ufficio contro i due ... alti membri socialisti del Consiglio Superiore della Magistratura. Finale: il consiglio superiore della magistratura (a questo punto lo scrivo con lettere minuscole), analizzati i fatti in riunioni segrete, mette sotto accusa il giudice Catalanotti. Il Ministro di Grazia e Giustizia non aspetta tempo: inizia l'azione disciplinare contro Catalanotti. Imparerà così a stare più attento. E ad imparare che quando si ha in tasca la tessera del PSI, tutto è permesso: imbrogliare, truffare, rubare, avvelenare. E, se occorre, c'è il consiglio superiore della magistratura, cioè il supremo organismo della Giustizia, a punire coloro che non si adeguano alle ruberie socialiste.
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Tra le carte del processo ANAS, che si è svolto all'Inquirente con risultati (scandalosi) che tutti sanno, ci sono episodi davvero gustosi. Come quello di una conversazione fra l'ing. Ennio Chiatante, direttore generale dell'ANAS per volontà di Giacomo Mancini, e certo Cresci Eliano, emissario, come attesta il relatore on. Olivi, del sen. Luigi Anderlini, eletto nelle liste del PCI e presidente del gruppo parlamentare della sinistra indipendente. Il Cresci vuole da Chiatante il famoso «numerino» perché la ditta Tebi di Roma possa, indovinando il ribasso, vincere una gara d'appalto di diversi miliardi per la costruzione di un tronco autostradale. La conversazione, infarcita anche di salaci barzellette, sarebbe tutta da raccontare. Il Cresci inizia con il dire che Mancini, messosi politicamente nei guai per il suo carattere calabrese, avrà presto bisogno, per venirne fuori, dell'appoggio di tutta la sinistra, compresi i comunisti. E questo appoggio, assicura il Cresti, ci sarà. Quindi sia buono e comprensivo il Chiatante, se vuole bene al ministro Mancini, passi il numerino. Anche perché, dopo tutto, è la stessa segretaria del ministro a raccomandarlo. E il numerino viene fuori: ribasso del 9,975. Poi Cresci, ringraziando, lascia il proprio recapito: sen. Luigi Anderlini, Senato della Repubblica, interno 456. Chiatante avrà cura di segnare questo numero, in rosso, sulla sua agenda personale. Rosso: persona importante, da tenere presente. Luigi Anderlini, senatore della Repubblica. È sempre passato per un integerrimo moralizzatore. Incorruttibile. Si ricordano di lui gli interventi nella vicenda SIFAR: un Catone redivivo. Fecero arrabbiare perfino Aldo Moro. Sempre l'indice puntato contro qualcuno. Sempre accuse feroci sulla sua bocca e negli scritti vergati per "Astrolabio", la rivista della sinistra indipendente, pura e intatta come l'acqua sorgiva delle alte montagne. Peccato: sull'ANAS, sulla sua vicenda (e sono sette anni che è sul proscenio), nemmeno un rigo. Senatore Anderlini, che le è successo? L'ANAS, per caso, lo mette in panna.
* * * Notata nella seduta conclusiva e decisiva della Commissione Inquirente sul caso ANAS l'assenza del senatore Liberato Riccardelli del gruppo senatoriale della sinistra indipendente. Come mai? Era impegnato altrove? Ma valeva la pena disertare quella votazione (e che votazione)? E il presidente dei Gruppo, il senatore Anderlini, era d'accordo su quella assenza? L'ha decisa lui? E perché mai? Nel giugno 1976 il Comune di Forlì, amministrato dal PCI, chiede la bollatura e paga il relativo importo all'Ufficio dei Registro di Forlì di tre cambiali per 360 milioni. Le cambiali sono dell'avvocato Carlo Gotti Porcinari a favore della Società per azioni OMSA, calzificio di Faenza e della SAOM-SIDAR di Forlì. Ci si chiede: perché il Comune di Forlì si è assunto l'onere di pagare detta bollatura? Come mai gli amministratori (rossi) di Forlì versano denaro pubblico per un atto di privati che regolavano cambialmente i loro rapporti? Forse perché su quelle cambiati figura l'avallo di neo-deputati e di ex-deputati del PCI? È vero, o no, che le tre cambiali risultano controfirmate dall'onorevole Angelo Satanassi, all'epoca sindaco di Forlì, e dall'onorevole Giancarlo Ferri di Bologna, già deputato emiliano del PCI? E come mai la Procura della Repubblica di Milano, che indagò sul fallimento pilotato della OMSA e della SAOM-SIDAR, escluse l'uso di denaro pubblico nell'operazione di sostegno finanziario a queste industrie private? Il mistero è stato diradato. Il magistrato che si occupò del fallimento e perseguì nel 1978-79 Gotti Porcinari, era il sostituto procuratore della Repubblica di Milano, Liberato Riccardelli. Rieccolo. Magistrale il suo verdetto: nessuna responsabilità politica nella vicenda. Nessun peculato da parte dell'allora sindaco di Forlì, e oggi deputato comunista, Angelo Satanassi! Poteva il PCI dimenticarsi della cortesia fattagli dal magistrato Liberato Riccardelli? Non sia mai detto. Infatti a Riccardelli Liberato viene riservato il collegio sicuro a Monza. Ed oggi è senatore della Repubblica. Non solo. È membro della Commissione di Inchiesta sulla P2. Dopo essere stato consulente del "Corriere della Sera" grazie a Tassan Din. Quel Tassan Din che il giorno 16 dicembre si reca al Senato a trovarlo, insieme al responsabile del settore stampa della DC, onorevole Antonio Mario Mazzarrino. E il giorno 17 dicembre, a Milano, l'avvocato di Tassan Din (ma che sbadato ...) smarrisce sulla poltrona del viceprefetto di Milano una delle bobine contenenti le registrazioni telefoniche di Gelli al direttore generale del "Corriere della Sera", registrazioni che Liberato Riccardelli, in anteprima, sempre grazie a Tassan Din, ha potuto ascoltare. Dal che, polverone. In questo caso PCI (Riccardelli) e DC (Mazzarrino) contro il PSI. Con collaborazione di Tassan Din. L'unica cosa certa è che il senatore Liberato Riccardelli è sempre nel mezzo quando c'è da rendere qualche favore al PCI. Ma non è finita. Una delle cambiali di 160 milioni, quella avallata dall'onorevole Ferri, all'epoca presidente dell'Ente regionale di valorizzazione del territorio, viene scontata, su richiesta del Ferri stesso, presso la Banca del Monte di Bologna e di Ravenna, dove non solo il PCI è di casa ma dove il direttore generale «amico» è il socialista Danilo Bellei, piduista di grido. Ma la P2 è presente anche a Forlì dove il presidente di quel Tribunale, Antonio Buono, dimessosi da magistrato per la sua amicizia con Licio Gelli, collabora con Riccardelli, e le tre cambiali avallate dagli esponenti comunisti, spariscono dalle carte processuali. È una vergogna. Una vergogna che "l’Unità" si guarda bene da raccontare.
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La vigliaccheria dei comunisti, in quel di Arezzo, diventa proverbiale. Dopo avere pesantemente accusato, in Consiglio comunale, durante il dibattito sulla P2, l'avvocato Oreste Ghinelli, segretario provinciale del MSI-DN, per presunte colleganze con i terroristi che misero la bomba sull'Italicus, chiamati a rendere ragione delle loro accuse con ampia facoltà di prova, davanti alla magistratura, si sono visti condannare duramente (otto mesi di reclusione, cinque milioni di danni morali) per le infamie uscite dalle loro bocche. Da qui la mobilitazione ricattatoria che servendosi della Camera e del Senato come casse di risonanza per i loro strilli, si è estesa fino ad indire in Arezzo una manifestazione pubblica contro la «sentenza vergognosa». In un paese serio, queste intimidazioni ricattatorie sarebbero state fatte pagare. In Italia no. In Italia il magistrato che si azzarda a condannare il PCI, entra nel suo mirino e tutto viene adoperato, dalle Camere al Consiglio superiore della Magistratura, perché il «reo» (o i rei) paghi le conseguenze del proprio comportamento. Questo è il PCI. L'episodio di Arezzo è, sia pure in formato ridotto, quello che l'Italia diventerebbe se il PCI fosse chiamato a governare. Tutti al suo servizio. Perché il PCI è tutto: è la verità, è perfino giudice. E guai se qualcuno contraddice. La galera -a suon di tamburi, di grida, di intimidazioni, di minacce, di ricatti- lì pronta, ad accogliere i dissenzienti. Questo è il PCI. Non altro. La sua «diversità» è questa. Si è scritto all'inizio: vigliaccheria del PCI. È presto dimostrata. È in corso la vicenda P2. Ebbene il PCI, nell'intento di alimentarla ai suoi fini, vigliaccamente, se la prende con falsi obiettivi, quelli che ritiene più esposti e i più indifesi. Ad Arezzo attacca (e ne rimane scornato) l'avvocato Oreste Ghinelli, ma si guarda bene, per vile opportunismo, di colpire i bersagli veri. Infatti si dà tanto risalto (e clamore) quando l'avvocato massone Siniscalchi calca la mano sulle «trame nere» e P2; ma si tace quando lo stesso avvocato afferma che la loggia massonica "Adriano Lemmi" guidata dal venerabile Angelo Sambuco, segretario del Gran Maestro Salvini, si svuotò, in polemica con il Salvini stesso, per i suoi rapporti e legami con Licio Gelli. «L'unico a non dimettersi», ha detto Siniscalchi ai commissari, «fu l'onorevole Seppia». E chi è Seppia se non il vice presidente del gruppo parlamentare del PSI alla Camera, aretino, membro della Commissione di inchiesta sulla P2? Ora se dell'appartenenza alla massoneria dell'avvocato Ghinelli non c'è -né può esserci- nemmeno l'odore, per Seppia non ci sono dubbi. Per giunta si afferma: «Era amico di Gelli, tanto che non si dimise». C'è di più: Seppia abita ad Arezzo, centro di tutte le trame (così dicono) piduiste. Ebbene: il PCI tace. Se la piglia con i missini. Non è cialtroneria questa? Ma se la P2, come affermano i comunisti, è responsabile di tutto, comprese le stragi che hanno insanguinato l'Italia, che si aspetta a mettere in galera i ministri, i sottosegretari, i membri del Consiglio superiore della Magistratura, i generali, gli ammiragli, i finanzieri, i banchieri, i politici che a Gelli facevano corona? Perché prendersela con bersagli prefabbricati e che non c'entrano nulla? E già che ci siamo, mettiamo «dentro» anche politici e amministratori del PCI che, dopo avere lungamente usufruito dell'appoggio corale del quotidiano, inquinato di piduismo "Corriere della Sera", hanno anche attinto fior di miliardi dalle casse dell'Ambrosiano del piduista Roberto Calvi e ciò per finanziare, attraverso il quotidiano "Paese Sera", il PCI. E di ciò hanno pagato, con il licenziamento, ben 44 giornalisti. Perché il PCI -così sicuro di sé- non organizza, a tale proposito, in Arezzo un dibattito pubblico con la partecipazione del MSI-DN? Infangare, per uccidere moralmente il proprio avversario, senza nemmeno dargli la possibilità di difendersi, è in uso fra le tribù antropofaghe. Si fa, o no, questo dibattito, questo confronto? Di che cosa ha paura il PCI? Di essere sbugiardato? Avanti, coraggio comunisti: fate vedere che non siete solo dei volgari e calunniosi delatori.
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L'istituto di diritto pubblico, l'Enciclopedia italiana Treccani, di cui "Rosso e Nero" si è ampiamente interessato (26.9.1981), continua nella sua allegra amministrazione, in barba ad una delle quattro emergenze di spadoliniana memoria, quella della moralizzazione della vita pubblica. Infatti il direttore dell'Istituto, Vincenzo Cappelletti, dopo avere assunto presso l'ente, da lui diretto, la moglie Maurizia Alippi (Dizionario biografico degli italiani), è andato oltre. Anche il fratello della moglie, nonché suo cognato, Adriano Alippi è stato sistemato presso l'Enciclopedia del Novecento. Non ci siamo fermati qui. Anche Virginia Cappelletti, sorella del direttore generale, è venuta a far parte della grande famiglia dell'Enciclopedia Treccani. E «Virginia», con una serie di ben calibrati certificati medici, sarebbe riuscita, contemporaneamente, a percepire lo stipendio dalla Dante Alighieri, dove era inizialmente impiegala, e dall'Enciclopedia italiana dove non aveva ancora fatto un'ora di lavoro. Non solo. Grazie agli accorgimenti medici, usufruirebbe di una liquidazione e di una anzianità non dovute. Non è finita. Rimaneva disoccupato Marco Castelluzzo, il fidanzato, nientemeno, della figlia del direttore generale. Come era possibile lasciarlo a spasso? E così, anche lui, è entrato alla Enciclopedia italiana, sezione Enciclopedia giuridica. Il tutto si potrebbe titolare: Vincenzo Cappelletti, ovvero come ti amministro il denaro pubblico. E la Magistratura? Vincenzo Cappelletti, già consigliere culturale della Presidenza del Consiglio dei ministri, è al di sopra di ogni sospetto? L'aver collocato nell'Istituto, senza concorso, una delle figlie dell'onorevole Giulio Andreotti, lo rende intoccabile?
* * * Centoquaranta dipendenti delle Unità sanitarie locali della Regione Emilia Romagna hanno compiuto un viaggio in URSS per «una presa di contatto con le autorità sanitarie di quel paese». Il viaggio è costato mezzo miliardo di lire. Chi ha pagato? La Regione Emilia Romagna. Ora la stessa Regione organizza un altro viaggio, sempre per i dipendenti delle USL. Questa volta si va nelle Filippine. La salute degli emiliani è così assicurata.
* * * È morto Valdo Magnani, partigiano, già segretario provinciale del PCI di Reggio Emilia, parente strettissimo di Nilde Jotti. Trenta anni fa, per aver affermato sul comunismo russo quello che oggi predica Berlinguer, venne espulso dal PCI. Come «un rinnegato senza princìpi»; come «un volgare e spregevole strumento delle forze reazionarie»; come «un denigratore dell'URSS, paese del socialismo, baluardo inflessibile della lotta per la pace, la libertà, l'indipendenza dei popoli». Se, per caso, Magnani, trenta anni fa, fosse stato in Russia l'avrebbe aspettato il capestro. E "l'Unità", così come fece per Slansky e tanti altri, avrebbe cantato la sua morte come giusta e doverosa. Magnani ha avuto la ventura di vivere in Occidente e muore, riabilitato nel suo letto. I comunisti non si vergognano della sua vicenda. Sono andati, in massa, ai suoi funerali scandendo che «aveva ragione», che «era un buon uomo», un ottimo compagno, un onorato combattente antifascista. Anche questa è finzione. Come si può aver fiducia in un partito che, all'unisono, dice «si» a ciò che aveva detto «no» il giorno prima?
* * * Il PCI cambia segretario amministrativo. I bene informati dicono che il provvedimento è dovuto allo scandalo della società editrice "Rinnovamento" -che già vide, fra i suoi consiglieri di amministrazione, l'avvocato Calogero Cipolla di Palermo, fratello del senatore del PCI, poi apparso nelle società di Michele Sindona- e ai prestiti bancari che il quotidiano "Paese Sera" (organo della segretaria del PCI) ha ricevuto dal piduista Roberto Calvi dell'Ambrosiano. Il nuovo segretario amministrativo del PCI, in sostituzione di Franco Antellí, sarà Renato Pollini, attuale assessore alle Finanze della Regione Toscana. Nato a Grosseto, Pollini, scrive "l'Unità", è un personaggio di spicco del comunismo toscano. Senz'altro. Nelle apologetiche, manca però un particolare di ... spicco. Renato Pollini, prima di militare nel PCI, ha fatto parte della Repubblica Sociale Italiana. Quella, per intenderci, di Benito Mussolini.
* * * I giornalisti hanno chiesto a Donat Cattin che cosa sarebbe accaduto se i terroristi fossero riusciti a realizzare l'attacco contro la sede della DC che secondo quanto riferito dal ministero degli Interni sarebbe stato previsto nei piani sequestrati a Senzani. «Fanfani si sarebbe salvato perché sarebbe passato sotto la linea del fuoco», ha risposto Donat Cattin. Fanfani è alto 1,60 cm.
«Uno degli uomini più interessanti del secolo, il finanziere americano Armand Hammer, ha preannunciato ieri mattina nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, di fronte al presidente della Repubblica, Sandro Pertini, di voler disporre per testamento che il codice di Leonardo Da Vinci su «le acque, la terra, l'universo», da lui acquistato per sei miliardi di lire all'asta londinese della Christies del 12 dicembre 1980 e adesso esposto per tre mesi nella Sala de' Gigli di Palazzo Vecchio, torni ogni cinque anni a Firenze». ("Corriere della Sera", 15.2.1982). «Dal pubblico che l’ascoltava si son levati applausi. Il sindaco, Elio Gabbuggiani, che gli sedeva a lato, appariva commosso. Hammer è presidente dell'Occidental Petroleum Corporation, che ha concluso un accordo finanziario con l'Ente Nazionale Idrocarburi (ENI), formando -raro esempio di stretta cooperazione fra un'impresa privata ed un gruppo industriale a partecipazione statale- la società di capitale Enoxy, che si propone d'aiutare l'Italia a conquistare l'indipendenza nel settore energetico e a contribuire al risollevamento della nostra industria chimica». ("Corriere della Sera", 15.2.1982). L'agenzia giornalistica "la Repubblica", più volte salita agli onori della cronaca, nel suo numero 8 del 13.1.1982, anno 3°, riporta il testo di un documento distribuito a Milano, davanti alla sede dell'ENI, a cura del Partito europeo operaio, un gruppo di pressione collegato con ambienti politici degli Stati Uniti d'America. Il documento contiene accuse pesanti. Infatti si afferma che l'accordo tra l'ENI e la Occidental Petroleum, dal quale è nata la società mista Enoxy, sotto la presidenza di Lorenzo Necci del PRI, è stato pilotato dal miliardario americano Armand Hammer, sul conto del quale si raccontano cose non del tutto ... piane. Infatti si accusa, a chiare lettere. Armand Hammer, partner dell'ENI, non solo di avere legami con Gheddafi, tanto da controllare (fin dal 1966) i 3/4 del petrolio libico, ma di avere le mani in pasta nel traffico della droga e del terrorismo. Dopo avere denunciato che Hammer è vissuto in URSS per 10 anni, che ha commerciato, fin dai tempi di Lenin, con l'URSS, il documento viene a descrivere gli amici del petroliere, fra i quali cita il mafioso Max Fisher e la famiglia Bronfman che siedono nel Consiglio di amministrazione «della potente anonima assassini chiamata Permindex». «La Permindex» è detto nel documento riportato dalla agenzia "la Repubblica" (12.1.1982), «fu cacciata dalla Francia dietro l'accusa di avere organizzato 23 attentati contro De Gaulle. La Permindex è stata indiziata dal giudice Garrison dell'assassinio di John Kennedy ed è anche dietro all’assassinio di Enrico Mattei (già presidente dell'ENI, N.d.R.). «Che vergogna (è detto nel documento) avere nella dirigenza dell'ENI i mandanti degli assassini di Mattei!». La denuncia non finisce qui. «Hammer», recita sempre il documento, «non deve essere cacciato dall’ENI solo perché ci sta rifilando un bidone (sgangherate miniere di carbone in cambio del fior fiore della nostra chimica), ma perché è uno dei capi di quella rete di potenti che controlla terrorismo e traffico della droga e che, solo nel corso dell'anno, ha assassinato il presidente Sadat e ha cercato di assassinare Reagan e Papa Woityla». Questo è scritto nel documento di una agenzia ("la Repubblica", 12.1.1982) che viene distribuita alla Presidenza del Consiglio dei ministri, a ministri, a sottosegretari, a parlamentari, a tutti i quotidiani, alle gerarchie militari, compresi i servizi segreti, al Comando generale dell'Arma dei Carabinieri, al capo della polizia, alle ambasciate. Ebbene: quello che si riporta risponde a verità? O è calunnia? Una delle due. Quello che però non può essere tollerato è il silenzio che si fa su quanto è scritto e descritto. Perché il silenzio è davvero inquietante. Significa complicità. Con persone che, al vertice della società più prestigiosa delle partecipazioni statali, sono accusate di essere dei volgari assassini che, fra l'altro, metterebbero in pericolo la pace mondiale. O, non si scappa dal dilemma, complicità con persone che, come arma, adoperano la più volgare delle calunnie.
«Nel corso della guerra di liberazione io ero, a tutti gli effetti, un soldato italiano, e facevo parte di un reparto militare (GAP centrali) che derivava la sua qualifica di corpo combattente dal legittimo Governo d'Italia, e che, in particolare, dipendeva dalla Giunta militare del CLN, di cui erano responsabili Amendola, Bauer e Pertini. Nell’azione di guerra di Via Rasella io ebbi senza dubbio una parte preponderante. Quel fatto d’arme fu organizzato con il consenso della Giunta militare del CLN e ad esso presero parte 15 partigiani». (Dalla lettera di Rosario Bentivegna al quotidiano "Il Tempo" di Roma del 16 febbraio 1982). Dunque, per mano del protagonista del massacro di Via Rasella, si viene a confermare la notizia che solo il "Secolo" ha dato (tutti gli altri hanno taciuto) subito dopo il conferimento dei brevetti delle medaglie a Rosario Bentivegna da parte del ministro della Difesa Lagorio: l'azione terroristica del 23 marzo 1944, che costò la vita a 33 riservisti tedeschi e a tre civili (fra cui un bambino), e che provocò la terribile rappresaglia delle Fosse Ardeatine (un massacro di 335 persone), venne ordinata e approvata dalla Giunta militare del CLN, di cui facevano parte Pertini, Amendola e Bauer. D'altra parte il silenzio del Quirinale, lungo tutto l'arco delle polemiche suscitate dai conferiti attestati al terrorista Bentivegna, rappresentava già una conferma della notizia. Ora c'è qualcosa di più. Come è stato scritto e documentato anche su queste pagine, Rosario Bentívegna, il giorno dopo l'arrivo delle truppe americane in Roma (ore 14,30 del 5.6.1944), assassinava a sangue freddo il sottotenente della Guardia di Finanza Giorgio Barbarisi, partigiano combattente, reo di avere strappato un manifesto del PCI. Il 27 marzo 1945 il comandante della 5ª Armata americana, il generale Mark Clark, conferiva, alla memoria del sottotenente Barbarisi, la Bronze Star Medal e, un anno dopo, l'università di Roma concedeva allo stesso la laurea in legge "honoris causa" alla memoria. Non ci si fermava qui. Nel 1949, solennemente, una caserma della Guardia di Finanza in Bologna (Piazza De Marchi, 2) veniva intitolata all'eroico sottotenente Giorgio Barbarisi. Solo in un paese come l'Italia si poteva verificare il caso di un ministro della Difesa che, per rinfrescare la memoria a Sandro Pertini, di cui non si è gradita l'intransigenza P2, viene a decorare l'assassino di un patriota, la cui memoria le stesse FF. AA. ricordano sul frontone di una delle loro Caserme. Si può essere più sciagurati di così?
* * * «Non credo che il suo giornale se la senta di accusare il colonnello Montezemolo che, prima di essere fatto prigioniero dalla SS, ci fornì di armi ed esplosivi per le azioni partigiane condotte in Roma. Di tali armi ci servimmo anche per l'azione di Via Rasella». (Dalla lettera al quotidiano "Il Tempo" di Roma di Rosario Bentivegna, 16.2.1982). Qui Rosario Bentivegna bara. Lui sa bene da dove proveniva il tritolo (unica arma usata dai terroristi in quella circostanza) adoperato in Via Rasella il 24 marzo 1944. Dai magazzini della "Bomprini Parodi Delfino" a cui poteva attingere, disinvoltamente e senza rendere conto a nessuno, Paolo Bonomi, all'epoca non ancora potentissimo «signore» della Coltivatori diretti e della Federconsorzi. Fu lui a fornire l'esplosivo per Via Rasella. La notizia non è di oggi. Basta leggere "Corvi in poltrona" di Vincenzo Cavallaro, edizioni Arnia. Risale a più di venti anni fa. E l'onorevole Bonomi si è ben guardato dallo smentirla. Dunque, Via Rasella: ordine di Pertini, tritolo di Bonomi, esecutore Bentivegna. Una bella miscela davvero.
* * * L'onorevole Antonello Trombadori, già consulente artistico dei quadri di proprietà Caltagirone, su "l'Unità" del 21.2.1982, esaltando la risposta del Governo, data in Senato, sul fatto di Via Rasella, cioè essere ingiurioso l'accostamento dei partigiani di Via Rasella ai terroristi di oggi e che i protagonisti dell'eccidio del 24.3.1944 «altro non sono che soldati dell'Esercito di liberazione», invita le autorità a diffondere e a commentare tale risposta in tutte le caserme e in tutte le scuole militari. «È dovere del Governo», scrive Trombadori, «sollecitare e organizzare tale dibattito. Come è dovere del Governo passare alla denuncia penale contro chiunque continui ad oltraggiare nei partigiani di Via Rasella, le FF. AA. della Repubblica italiana». Ora si dà il caso -come abbiamo scritto sopra- che una caserma sia intitolata al nome del sottotenente Giorgio Barbarisi, assassinato dal Bentivegna. Ecco, ci vuole l'on. Trombadori, nonché Antonello, spiegare come si fa ad organizzare in tale Caserma, l'esaltazione, da parte del Governo, del partigiano Rosario Bentivegna, eroe in Via Rasella, ma assassino in Via Tre Cannelle dell'ufficiale a cui la caserma di Bologna è intitolata? Se c'è qualcuno che oltraggia (e pesantemente) le FF. AA. italiane, questi è proprio Rosario Bentivegna.
«Se si vuole evitare l'aberrazione di vincolare la non punibilità e l'attenuazione della pena ad intangibili condizioni interiori dei reo, non resta che la strada, già prevista dal Codice Rocco (in ciò erede di una normativa liberale) dell'ancoraggio della dissociazione a comportamenti oggettivì e oggettivamente controllabili, senza alcun rapporto con la collaborazione con attività di polizia. È possibile che una simile strada, ovvia e perfino obbligata alla luce dei fondamenti stessi di un diritto liberale, non venga fatta propria dai nostri legislatori? Purtroppo è assai difficile che avvenga». (Adriano Sofri, "Lotta Continua", 10.2.1982). Anche questa dovevamo vedere: "Lotta Continua" fare l'apologia del fascistissimo Codice Rocco...
* * * I detenuti per fatti eversivi sono 3.200 con una larghissima maggioranza di laureati e di diplomati. La stampa parla di 10.000 persone legate al terrorismo e cioè del 50 per cento del quadro politico di una generazione». (Raffaello Lombardi, senatore, relatore sulla legge dei pentiti per il governo).
* * * «Non vi è mai stato un regime politico in Italia, neppure quello fascista, che abbia contato un così alto numero di detenuti politici come oggi». (Marco Boato, deputato radicale, collaboratore di "Lotta Continua", Camera dei Deputati, 24.2.1982).
* * * «Ebbene, pensate che applicando ad un pluriomicida confesso o responsabile il meccanismo previsto da questo provvedimento sui pentiti, in luogo dell'ergastolo, arrivo a otto anni di pena base. Se agli otto anni di pena base applico le attenuanti generiche, riduco ulteriormente la pena; se poi prendo il combinato disposto dal secondo comma dell'articolo 3 e del secondo comma dell'articolo 8, si può arrivare a zero, si può arrivare ad una condizione di non punibilità o di impunità». (Luigi Dino Felisetti, socialista, presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, 24.2.1982).
* * * Le vedove e le madri dei Caduti possono ritenersi soddisfatte: giustizia sarebbe fatta. I pluriomicidi Antonio Savasta, Michele Viscardi, Marco Barbone saranno messi in libertà. Per gli altri terroristi, non ancora pentiti, la legge concede tempo per farlo. Tranquillizzatevi: presto tutti, omicidi, rapine e sequestri a parte, torneranno liberi. Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto.
* * * È stato chiesto all'on. Ciso Gitti, membro della Commissione Giustizia della Camera dei deputati, perché la legge sui pentiti suscita tante perplessità ed obiezioni, sia tra i giuristi e i parlamentari che tra i cittadini. L'on. Gitti ha così risposto: «Perché sicuramente rappresenta uno strappo, sia rispetto alle regole e al sistema giuridico e costituzionale, sia rispetto al modo comune e corretto di sentire dei cittadini che può essere sintetizzato nell'interrogativo: perché le agevolazioni solo e proprio di terroristi? Perché la libertà al terrorista pluriomicida e non all'ergastolano comune, al rapinatore, al ricettatore, al borseggiatore?». ("Il Popolo", 24.2.1982). «La discussione generale sulla legge dei terroristi pentiti è cominciata alla Camera dei Deputati. Contro la pregiudiziale di costituzionalità, presentata dal MSI-DN, ha parlato l'on. Ciso Gitti, che ha sostenuto la piena corrispondenza del provvedimento alle norme fondamentali della Carta Costituzionale». ("Il Popolo", 24.2.1982). Domanda: l'on. Gitti, nonchè Ciso, ci fa o c'è? Lo stabilisca il lettore.
* * * Carlo Fioroni, già luogotenente dei bombarolo miliardario Gian Giacomo Feltrinelli, fu l'ideatore del sequestro dell'ing. Carlo Saronio. La vittima era suo amico e compagno di fede politica. Il rapimento fu consumato insieme ad elementi della malavita comune. Saronio venne assassinato. Malgrado ciò le trattative con la famiglia dei Saronio continuarono. 470 milioni estorti. Condannato in primo grado a 27 anni di carcere, ora Carlo Fioroni, grazie all'art. 4 della legge Cossiga sui pentiti, è tornato in libertà. Presto altri pluriomicidi lo seguiranno. Resteranno invece in carcere giovanissimi che, per fame, hanno rubato qualche arancia. La giustizia democratica è davvero esemplare.
Dario Cappellini, insegnante, medaglia d'argento della resistenza, assessore alla cultura al Comune di La Spezia, comunista, fece parte, dopo l'8 settembre 1943, delle SS italiane affiancate ai tedeschi che combattevano in Piemonte. Lo pubblica "Storia Illustrata" in un servizio intitolato: "Le SS Italiane, l'organizzazione, e tutti i nomi". A La Spezia e a Cuneo, dove il tenente Cappellini avrebbe fatto il partigiano, è scoppiato il finimondo. Le parole si sprecano: è una menzogna, è un valoroso partigiano, è un democratico purissimo, è un autentico antifascista, su Dario mettiamo tutti le mani sul fuoco. Bene, ma quell'elenco? Già quell'elenco scotta. Anche perché, parliamoci chiaro signori antifascisti, il caso Cappellini è tutt'altro che unico. Infatti le mani, in fatto di «partigiani alla Cappellini», se le sono bruciate già in tanti. Non ultimo il celebre mimo Dario Fo.
* * * Sono stati arrestati il sindaco e un assessore di Guardia dei Lombardi, comune terremotato dell'alta Irpinia. Entrambi sono socialdemocratici. Sono accusati di truffa e peculato, reati che sarebbero stati commessi subito dopo il terremoto. Per far ottenere i contributi per la coabitazione e per la sistemazione autonoma a membri della famiglia, il sindaco Damiano Pietro avrebbe falsificato anche i dati anagrafici dei figli. Tanassi fa scuola.
* * * A migliaia di disoccupati, alla vigilia delle elezioni (1981), viene promesso un posto sicuro presso la Regione Campania. Però devono sottostare ad una condizione: iscriversi ad una delle 18 Cooperative a cui la Regione Campania ha affidato il servizio del trasporto degli infermi e dei pronto soccorso autostradale. La quota da pagare per essere iscritti: dai 3 ai 7 milioni. Più di 6000 disoccupati vengono reclutati. L'incasso: 50 miliardi, più altri 8 sborsati direttamente dalla Regione. C'è ' una truffa. Il servizio non esiste. Le autoambulanze nemmeno. Resta, in piedi, solo l'affare. Di miliardi. Sono scattate le manette. Per il democristiano Pezzullo, ex-segretario particolare di Antonio Gava, ex-consigliere di amministrazione delle Tramvie provinciali, ex-presidente dell'Ospedale di Frattamaggiore, attualmente al vertice dell'IFI, Istituto Farmaceutico Italiano di Napoli. Altro arresto: Pasquale Cuofano, docente di scienze politiche all'Università di Salerno, già candidato DC alla Camera, secondo dei non eletti al Consiglio regionale con 30.000 preferenze, ex-consigliere di amministrazione dell'Università, ex-presidente provinciale del movimento giovanile DC a Salerno e delegato nazionale. Nella truffa, dentro «fino al collo», la Giunta regionale della Campania, con il suo presidente Emilio De Feo e l'assessore Mario Sena. Evviva: la DC si rinnova.
* * * Il disegno di legge 3082, approvato dal Senato il 13.1.1982 e trasmesso alla Camera il 19.2.1982, relativo ad interventi straordinari a favore delle attività dello spettacolo, è stato approvato in Commissione Interni (in sede legislativa) il 3.2.1982. Si è opposto, in termini duri, Franchi. Niente da fare. I giochi erano fatti. In pochi minuti il provvedimento è stato varato. Si distribuiscono così 269 miliardi di lire. C'è stato l'entusiastico appoggio della DC e del PCI. Bisognava approvare, hanno detto, anche se le riforme organiche previste per i vari settori dello spettacolo (musica, prosa e cinema), da tempo all'esame del Parlamento, aspettano di essere approvate. Cioè: i settori dello spettacolo sono allo sfascio. Noi (DC e PCI) non riusciamo a trovare formule per il loro salvataggio. Comunque i miliardi diamoli. Poi si vedrà. È uno scandalo. C'è stato qualcuno della maggioranza che ha avuto vergogna ad approvare. E se ne è andato. Fra questi l'onorevole Zolla.
* * * «Adesso che ho finito questa esperienza a Montecitorio, molti mi dicono: ti servirà per scrivere. A dire la verità non mi è venuta alcuna idea per un romanzo. Una volta sola mi sono appuntata l'idea per un giallo. Era successo che in Commissione ad un democristiano era sparito l'accendino d'oro. Ecco si potrebbe ambientare a Montecitorio una storia in cui un personaggio sparisce, non si trova più». (Leonardo Sciascia, "Lotta Continua", 13.2.1982). Comunque a Montecitorio, per il momento, continuano a sparire oggetti e non persone.
* * * Roma, febbraio. Fino a qualche settimana fa era assiduo frequentatore del "Tartarughino" e del "Bella Blu", il locale di Marina Lante della Rovere: oggi, seguendo la moda indicata dagli autorevoli esponenti dei jet set, il ministro Renato Altissimo ha aggiunto nel suo itinerario notturno il privé del "Jackie 'O" sempre affollato da attrici, indossatrici e donne affascinanti. Fuori della discoteca il suo autista conversa per ore coi posteggiatore e con i tre agenti di scorta assonnati. Con l'Italia che crolla a pezzi, il governo continuamente sull'orlo della crisi, il terrorismo, la droga, l'inflazione e i mille altri problemi che sommergono il Paese, ogni sera, allo scoccare della mezzanotte, ora in cui Cenerentola se ne andava, il ministro della Sanità arriva puntualmente al piano-bar e sempre attorniato da belle ragazze. La sigaretta in mano, il bicchiere nell'altra: «Con tutti i soldi che ho speso in whisky da quando frequento i locali notturni potrei essere il maggiore azionista delle industrie scozzesi» è la sua battuta preferita. Solo i camerieri lo chiamano «signor ministro», per tutti gli altri habitués, persino per i due pianisti, Antonio e Marcello, è semplicemente «Renato». ("Gente", n° 7 del 12 febbraio 1982). C'è stata, al riguardo, una smentita che ... smentita non è. Il ministro Altissimo ha precisato che ai nights ci va, ma senza scorta. È un po' pochino. «Sono interessi privati», scrive il ministro della Sanità. No, signor ministro, non sono interessi privati. Un ministro ha il dovere di comportarsi con decoro, diremo rigoroso. Se no, faccia un altro mestiere. Specie quando si ha fra le mani un dicastero come quello della Sanità che, facendo acqua da tutte le parti, esigerebbe che alla sua testa vi fosse persona dedita allo studio dei problemi, e non solo a quelli del l'alcoolismo.
Indro Montanelli, su "il Giornale" (3.3.1982), ha preso, in verità troppo vigorosamente, le difese di Giovanni Spadolini (e altri), accusato, da un lettore di Milano, di spendere fior di miliardi dei contribuente in viaggi, spesso inutili, per il mondo. Appunto ingiusto, ha scritto Montanelli, in quanto tutti gli uomini di governo viaggiano in continuazione e Spadolini non è «fuori dalla norma». Fuori dalla norma Spadolini, in verità, ci va. Anche di recente. Quando si è recato, insieme al ministro Giorgio La Malfa, in Sardegna onde partecipare al banchetto nuziale del figlio di Armando Corona, uno dei candidati di spicco all'elezione di Gran Maestro della massoneria, elezione che si svolgerà mercoledì 24 marzo all'Hótel Hilton in Roma. Spadolini e La Malfa, per questo viaggio, si sono serviti di un aereo dello Stato Maggiore (cinque milioni di lire l'ora). Questi aerei ormai vengono chiamati le ali di Spadolini. E da quando il segretario del PRI è divenuto presidente del Consiglio dei ministri, il reparto volo dello Stato Maggiore, da cui dipendono gli aerei che di solito sono usati dal presidente del Consiglio e dai ministri, registra, a carico dell'erario, una spesa di oltre un miliardo di lire. Queste cose Montanelli non le sa. Gliele riferiamo perché eviti, per l'avvenire, di incappare in difese insostenibili. Sicché il presidente del Consiglio dei ministri vola in Sardegna in omaggio al capo massonico Armando Corona e, guarda caso, proprio alla vigilia di una campagna elettorale (massonica) vivacissima. Alla chiusura delle liste, 46 massoni si sono presentati per le nuove cariche, cinque per quella di Gran Maestro e addirittura otto per quella di Gran Segretario, i due ruoli chiave dell'organizzazione. Per le diverse cariche si sono formate cinque liste e la prima fa capo ad Armando Corona, intimo di Giovanni Spadolini e da sempre dirigente nazionale del PRI. La lista di Corona è molto forte, ed è per questo motivo che si trova nell'occhio del ciclone delle polemiche elettorali. Infatti Corona, non solo è accusato di farsi appoggiare nella elezione dal presidente del Consiglio e dai partiti laici (PRI, PSI, PLI), ma addirittura di avere preso contatti con Gelli per essere segretamente appoggiato nel ballottaggio finale. Ultimamente, una velina scandalistica contro di lui è stata messa in circolazione: vi si accenna a vendite di palazzi, a evasioni fiscali, a cliniche private. Comunque i pronostici lo danno sicuro vincitore, anche se uno dei suoi concorrenti gode della fiducia del presidente della Repubblica, Sandro Pertini: Giulio Masson, loggia "Scienza e Umanità" di Roma, segretario nazionale dell'ANPI (partigiani). * * * Torniamo ai viaggi. Scrive Montanelli: «Tutti i Capi di Stato viaggiano. A volte lo fanno per precisi impegni politici, a volte lo fanno nel programma delle visite ricevute e ricambiate. Alcune fra esse, lo so, rappresentano soltanto minuetti protocollari, senza alcun peso sostanziale». Infatti, oltre che da Corona, Giovanni Spadolini si è recato (in aereo fino a Pisa e poi in elicottero) a Viareggio, per assistere al corso di chiusura del carnevale (e ricevere un premio). I giornali hanno scritto che il presidente del Consiglio dei ministri, la cui immagine figura su tre carri rnascherati, ha dimostrato «coraggio» nel venire (in aereo ed elicottero) a Viareggio. D'accordo, ma quanto è costato questo minuetto (non protocollare) al contribuente?
* * * «Erano le 21 e mentre mi trovavo ad un incrocio nelle viuzze dei centro, dallo specchietto retrovisore una macchina dei carabinieri con fari, clacson, luci blu, mi ingiungeva perentoriamente di fare largo. Obbedisco e accosto. A quella dei carabinieri seguono altre 3 o 4 macchine blindate, con dentro uomini armati di mitragliette tenute bene in vista e, in una di esse, il Presidente Spadolini. Si infilano tutte insensatamente contro mano in una piccola stradina. A questo punto, visto che il corteo era bloccato a causa dell'astuta manovra, gli uomini della DIGOS, in borghese, balzavano fuori dalle macchine e con atteggiamenti degni della liberazione del generale Dozier, corrono in avanti, armi alla mano. La gente, me compresa, è terrorizzata, si rifugia nei portoni, corre via. Sarebbe bastato un gesto falso per far partire un colpo. Qualche secondo e tutti gli agenti freneticamente, tra segnali concitati, ritornano alle macchine che ripartono rombando, strombazzando, sgommando. Una scena da regime sudamericano. Ho pensato, per trovare una spiegazione, che Spadolini avesse ricevuto qualche minaccia o quanto metto che avesse un appuntamento di enorme importanza. Niente affatto. Pochi istanti più tardi lo vedo davanti al Teatro Quirino (dove c'era la prima dell'Otello), mentre chiacchiera amabilmente con sua nipote e altri sconosciuti. Le macchine della scorta intasano completamente una strada laterale e il traffico è deviato. Spadolini saluta, si inchina, fa centri ammiccanti a chi lo riconosce: è molto allegro. Credimi, direttore, io ero davvero depressa e gli amici che erano con me addirittura furiosi. Vorrei domandare a Spadolini: può il Presidente del Consiglio evitare in futuro simili gradassate?». (Costanza Pera, "L'Opinione", 18.2.1982).
Quattro anni dalla morte di Aldo Moro. Il "Corriere della Sera" (6.3.1982) titola a tutta pagina: «Così abbiamo ucciso Moro. Antonio Savasta confessa gli ultimi particolari della tragedia che si concluse con l'assassinio dello statista». L'emozione, non spenta, di quella morte mi ha portato a rileggere le lettere, e il memoriale, che Aldo Moro scrisse dal carcere delle Brigate rosse. Ormai, nemmeno Benigno Zaccagnini, dubita più della veridicità di quelle note vergate in punto di morte dall'uomo politico pugliese. E non hanno torto coloro che affermano che, secondo l'interpretazione che si dà a quelle lettere, la politica italiana dei prossimi anni camminerà in un senso o nel senso diametralmente opposto. Sarà, infatti, anche l'interpretazione di quelle lettere a decidere se il PCI sarà, prossimamente, forza di governo oppure no. Per il momento ascoltiamone, insieme, alcuni stralci, attualissimi e di forte significanza politica. 24 aprile 1978: la lettera è indirizzata a Zaccagnini, segretario della DC. Alla esecuzione mancano quindici giorni. Moro si è accorto che non gli danno altro che parole. E lo Stato, a pezzi, inefficienza. E scrive: «Non creda la DC di avere chiuso il problema liquidando Moro. Io ci sarò ancora come punto irriducibile di contestazione e di alternativa, per impedire che nella DC si faccia quello che se ne fa oggi. Per questa ragione, per una evidente incompatibilità, chiedo che ai miei funerali noti partecipino né Autorità dello Stato, né uomini di partito. Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno veramente voluto bene e sono degni perciò di accompagnarmi con la loro preghiera e il loro amore». Non ci sono dubbi. Aldo Moro, dalla prigione, si rese perfettamente conto che la DC di vertice, reputando di riscattarsi sulla sua pelle, lo voleva morto. Non diverso, ad esecuzione avvenuta, il pensiero dei suoi familiari. Questa che riportiamo è la preghiera scritta da Eleonora Moro, preghiera che venne letta nella chiesa di Cristo Re in Roma il 16.5.1978, alle ore 19, alla presenza di Amintore Fanfani, durante una messa in suffragio di Aldo Moro, assassinato il 9.5.1978: «Per i mandanti, gli esecutori, e i fiancheggiatori dell'orribile delitto, preghiamo. Per quelli che per gelosia, per viltà, per paura o per stupidità hanno ratificato la condanna a morte, preghiamo. Per me per i miei figli, perché il senso di disperazione e di rabbia che ora proviamo si tramuti in lacrime di perdono, preghiamo». Se ci fate caso, Eleonora Moro, scrivendo quella preghiera, ha più serenità per gli esecutori dell'orribile delitto di coloro che «per gelosia, viltà, paura, stupidità ratificarono la condanna a morte». Gelosia, viltà, paura, stupidità: è un campionario che ha facce, volti ben precisi nella DC e dintorni. Già Aldo Moro questi volti, dalla prigione delle BR, aveva avuto modo di pennellarli. Stupendamente. Qui l'uomo dal linguaggio involuto, sfumato, a doppio senso, è di una precisione implacabile. I suoi termini sono intelligibili a colpo d'occhio. Ecco Andreotti. «Tornando poi a lei, onorevole Andreotti, per nostra disgrazia e per disgrazia del Paese (che non tarderà ad accorgersene) a capo dei governo, non è mia intenzione rievocare la grigia carriera. Non è questa una colpa. Si può essere grigi ma onesti, grigi ma buoni, grigi ma pieni di fervore. Ebbene, onorevole Andreotti, è proprio questo che le manca. Se ha potuto disinvoltamente navigare tra Zaccagnini e Fanfani, imitando un De Gasperi inimitabile che è a milioni di anni luce lontano da lei. Ma le manca proprio il fervore umano. Le manca quell'insieme di bontà, saggezza, flessibilità, limpidità, che fanno senza riserve, i pochi democristiani che ci sono al mondo. Lei non è di questi. Durerà un po' di più, ma passerà senza lasciare traccia ...»
* * * Ed ecco Berlinguer. «... E molti auguri anche all'onorevole Berlinguer che avrà un partner versatile in ogni misura e di grande valore. Si può dire, dunque, che Berlinguer sia entrato con lo sguardo benevolo del detentore del potere. Ma se si guardano le cose che stanno accadendo e la durezza senza compromessi (come per scansare un sospetto) della posizione di Berlinguer sull'odierna vicenda delle BR è difficile scacciare il sospetto che tanto rigore serva al nuovo inquilino dei potere in Italia per dire che esso ha tutte le carte in regola, che noti c'è da temere defezioni, che la linea sarà inflessibile e che l’Italia e i paesi europei, nel loro complesso, hanno più da guadagnare che da perdere da una presenza comunista al potere. E la DC, consacrando il governo in modo così rigoroso e senza un attimo di ripensamento, dice che con il PCI sta bene e che esso è il suo alleato degli anni ‘80».
* * * «È naturale che un momento di attenzione sia dedicato all'austero regista di questa operazione di restaurazione della dignità e del potere costituzionale dello Stato e di assoluta indifferenza per quei valori umanitari, i quali fanno tutt’uno con i valori umani. Un regista freddo, imperscrutabile, senza dubbi, senza palpiti, senza mai un momento di pietà umana. È questi l'onorevole Andreotti, del quale gli altri sono stati tutti gli obbedienti esecutori di ordini. Il che non vuol dire che li reputi capaci di pietà. Erano portaordini e al tempo stesso incapaci di capire, di soffrire, di avere pietà. Andreotti è restato indifferente, livido, assente, chiuso nel suo sogno di gloria». «... Che significava, in presenza di tutto questo, il dolore insanabile di una vecchia sposa, lo sfascio di una famiglia, la reazione, una volta passate le elezioni, irresistibile della DC? Che significava tutto questo per Andreotti, una volta conquistato il potere per fare il male, come sempre ha fatto il male nella sua vita? Tutto questo non significa niente. Bastava che Berlinguer stesse al gioco con incredibile leggerezza. Andreotti sarebbe stato il padrone della DC, anzi padrone della vita e della morte di democristiani e no, con la pallida ombra di Zaccagnini, indolente senza dolore, preoccupato senza preoccupazioni, appassito senza passioni, il peggior segretario che abbia avuto la DC ...». Così Aldo Moro dalla prigione delle BR. Si sentiva in trappola. Ahimé di una trappola che aveva, con le sue stesse mani, cooperato a fabbricare ... Di ciò Moro doveva soffrirne. Di più del pensiero che andava a morire.
Sandro Pertini ama trasformarsi spesso in propagandista dei PCI. Lo fa volentieri. Lo si sente lontano un miglio. Fa parte della sua indubbia furbizia. E lo fa, specie, quando si trova in mezzo alla gente. Ultimamente, in tema di terrorismo. «Lei non può immaginare», disse all'interlocutore, «quanto il PCI sia sincero quando afferma di essere contro l'eversione». «In fatto di terrorismo», disse il presidente, «la fermezza del PCI è fuori discussione». Nel suo ultimo viaggio in Calabria, decorando di Medaglia d'oro alla memoria un Caduto per mano mafiosa, ha avuto modo di ricordare, e di sottolineare, che quel Caduto era un iscritto al PCI. Come se il PCI, in Calabria, fosse il baluardo della lotta antimafiosa. Dissentiamo. In Calabria (come in Sicilia, del resto) il PCI non ha le carte in regola per alzare la bandiera della lotta alla mafia. Come, del resto, tutta la sinistra politica. E meno che mai il PSI, che è il partito del presidente della Repubblica. Andiamo per ordine. "l'Unità" del 13.9.1980, per la penna di Fortebraccio, faceva dell'ironia perché la stampa, riportando la notizia dell'arresto in Calabria di 15 mafiosi, aveva sottolineato che fra gli arrestati c'era un consigliere comunale del PCI di Mammola, un piccolo centro della provincia di Reggio Calabria. «Il nostro partito», scriveva Fortebraccio, «non è lontano da contare due milioni di tesserati. È possibile che non vi sia nelle sue file qualcuno che traligna? È possibile che non annoveri, trai suoi militanti, qualche disonesto?». Le cose sembravano dare ragione a "l'Unità", quando l'11.6.1980, a colpi di lupara, veniva assassinato a Rosarno, Giuseppe Valarioti, segretario della locale sezione del PCI, perché, secondo voci, voleva impedire alla mafia di impadronirsi della cooperativa "Rinascita", che opera nei settori della raccolta, commercializzazione e trasformazione degli agrumi. Ahimé, il 2.11.1980, per l'omicidio dei Valarioti vanno in galera cinque persone, fra le quali Michele La Rosa, di 43 anni, socio della cooperativa "Rinascita", iscritto al PCI, accusato di essere uno dei mandanti dell'assassinio. Allora Fabio Mussi, segretario regionale del PCI, usa diversa tattica da quella messa in opera da Fortebraccio. La sicurezza, sulla onestà dei compagni, viene abbandonata. Non parla di mosche bianche (i mafiosi) nel PCI, ma comincia ad ammettere che nel PCI calabrese potevano esserci degli «infiltrati». Questo il 2.11.1980. Ma il 4.11.1980, appena 48 ore dopo, la vicenda prende contorni più netti e più chiari. Il procuratore capo di Palmi, Giuseppe Tuccio, spicca, sempre nell'ambito dell'assassinio del Valarioti, nove ordini di comparizione. E tre sono per iscritti al PCI, e, fra di essi, Domenico Spataro e Domenico Giovinazzo, rispettivamente presidente e vice presidente della cooperativa "Rinascita". L'accusa: avere omesso di fornire notizie per scoprire gli assassini del Valarioti. Cioè, i comunisti della cooperativa «sapevano», ma (mafiosamente) facevano silenzio, perché d'accordo nel continuare la truffa che la cooperativa aveva messo in essere e che il Valarioti non approvava e che per questo era stato ucciso. Fortebraccio su "l'Unità", si guarda bene dal commentare le notizie. È una frana. Per il PCI. «Avvieremo una riflessione politica perché le cose sono complesse. Ci deve essere stato un processo degenerativo, l'attività cooperativa deve avere ceduto, mettendosi al centro di uno scambio in cui il regolatore era il clan mafioso dei Pesce (grandi elettori del PSI - N.d.R.). È una responsabilità politica grave, che noi accerteremo fino in fondo». Sono dichiarazioni ("la Repubblica", 9.11.1980) di Fabio Mussi, ex-direttore di "Rinascita", prestigiosa rivista culturale del PCI, segretario regionale ora del PCI in Calabria. Dalla fase del respingere tutto perché offensivo, il PCI passa, in tema di mafia in Calabria, alla riflessione. E comincia a parlare di responsabilità da accertare. Dal «non siamo mafiosi» al «può essere che anche noi ...».
* * * Febbraio 1981. Tribunale di Locri. Cominciano a sfilare davanti ai giudici, nel più grosso processo di mafia mai tenuto sinora, 133 imputali. E si ascoltano, come testimoni, i 22 sindaci della Locride. Sono democristiani, socialisti, comunisti. «La mafia? Non esiste. E se esiste lo sanno solo i giornali che cosa è. Noi non lo sappiamo». È il ritornello che i 22 primi cittadini della Locride ripetono. Estorsioni, sequestri, rapine, omicidi non sono attribuibili alla mafia. La mafia non esiste. Francesco Logozzo, sindaco del PSI di Gioiosa Jonica (il paese del mugnaio Rocco Gatto, assassinato dalla mafia, e alla cui memoria Sandro Pertini ha concesso la medaglia d'oro al valore civile) afferma: «Non ho mai sentito dire che i fatti del mercato di Gioiosa Jonica (commercianti terrorizzati dal clan Ursino, poi denunciato da Rocco Gatto - N.d.R.) siano stati organizzati da Francesco Ursino. Di lui nessuno si è lamentato. Ursino ha sempre manifestato rispetto verso l'autorità comunale». Meno male che la cerimonia del conferimento della Medaglia alla memoria di Rocco Gatto si è svolta nella Prefettura di Reggio Calabria. Perché se si fosse svolta nel Municipio di Gioiosa Jonica, Sandro Pertini, socialista, avrebbe avuto al suo fianco, con tanto di fascia tricolore, il sindaco, socialista anche lui, ma, ahimé, difensore nel Tribunale di Locri, degli assassini di colui che lo stesso presidente della Repubblica decora di Medaglia d'oro alla memoria. È una Italia pirandelliana, per dirla con parole garbate. È una Italia in sfascio, per dirla con parole più appropriate. Francesco Franconesi, sindaco comunista di Canolo. Tribunale di Locri. Deve testimoniare se tre dei 133 reclusi sono mafiosi. Si tratta di Nicola, Vincenzo, e Domenico D'Agostino. Testuale: «Nicola D’Agostino, e i suoi due figli Vincenzo e Domenico, sono dei perfetti galantuomini». Per chi non lo sapesse, Nicola, il vecchio capo clan, e Domenico, accusati della strage dei carabinieri a Razzà, sono stati sindaci di Canolo. Tutti e due con tessera del PCI. In questo contesto come può meravigliare che la mafia calabrese abbia sostenuto alla piena luce del sole, nelle politiche dei 1976, la campagna elettorale del socialista Aldo Aniasi, avvalendosi di infiltrati nella vasta comunità calabrese emigrata a Milano? Totò Trichilo, massimo esponente della famiglia socialista di Macrì di Siderno, condannato per associazione a delinquere (cosca di Platì) dalla Corte di Assise di Roma (3.12.1981), era al servizio dello staff elettorale dell'allora sindaco di Milano, Aniasi, che nel 1976 si presentava, per la prima volta, alla Camera. Tanto che Aniasi, appella eletto, va in Calabria, in visita organizzata a Siderno, dai suoi padrini elettorali. Questa è la sinistra che, in Calabria, dovrebbe nelle intenzioni del presidente della Repubblica, lottare contro la mafia con le opere e con l'esempio. Ma ahimé, le opere e l'esempio mancano. C'è da chiedersi perché la Medaglia d'oro alla memoria è andata al mugnaio di Gioiosa Jonica che, pur iscritto al PCI, resta un semplice militante, mentre nulla si è fatto per la memoria di Giuseppe Valarioti, anche lui assassinato dalla mafia, e segretario della sezione del PCI di Rosarno. Perché onori a Rocco Gatto e silenzio per Giuseppe Valarioti? Perché questa disparità? Forse perché -è duro scriverlo ma la verità va detta- se si fosse data la medaglia anche a Giuseppe Valarioti, sarebbe venuto fuori che ad assassinarlo erano stati i suoi compagni di partito? E come avrebbe fatto, in questo caso, Sandro Pertini a tessere l'elogio del PCI? Perché, "l'Unità" non prova a rispondere?
La musica divide socialisti e comunisti. L'amministrazione comunale di Firenze è andata in crisi sulla scelta del nuovo sovrintendente al Teatro Comunale; a Bologna la guerra della musica, fra PSI e PCI è in pieno svolgimento per la gestione dei Teatro Comunale; a Milano lo scontro riguarda La Scala. I comunisti si sono opposti decisamente che Craxi usasse, come proscenio, la Scala per la programmata commemorazione di Filippo Turati, a 50 anni dalla morte.
* * * Il personaggio Filippo Turati. La sua immagine, il suo messaggio sono dispute che dividono PSI e PCI. Contrasti autentici o pretesti futili? Vedremo. Comunque di Filippo Turati vogliamo dare, ai lettori del "Secolo", il ritratto che di lui fece un grande giornalista, Alberto Giannini, in un libro introvabile, "Le memorie di un fesso". Alberto Giannini dirigeva, agli albori del fascismo, "il Becco Giallo". È di Mussolini la frase: «O noi sopprimiamo il Becco Giallo, o il Becco Giallo sopprime noi». La vicenda umana e giornalistica di Giannini è tutta da raccontare. Quando Matteotti è assassinato, è accanto a Matteotti; quando Mussolini è trucidato, è accanto a Mussolini; quando i suoi compagni antifascisti di esilio sono contro la Patria, egli è contro di loro, e quando i suoi nemici fascisti sono perseguitati, soprattutto per aver servito la Patria, Giannini è con loro. Questa volta con "il Merlo Giallo". E tutto ciò pagando sempre di persona, con la spada (innumerevoli i suoi duelli) o con la fame, alla continua ricerca di torti da vendicare, di oppressi da difendere. Questo fu Alberto Giannini: grande giornalista, grande patriota. Ora ascoltiamolo, nella sua prosa scanzonata, raccontare il suo incontro, a Parigi, con Filippo Turati. «La preparazione delle valigie aveva per Filippo Turati -uomo d'azione- una grande importanza. Diceva: è sempre facile dimenticare qualcosa di cui si può avere bisogno. Era una delle sue manie, quella di avere sempre con sé tutto quanto potesse occorrere per gli urgenti bisogni imprevisti. Così i suoi abiti avevano un numero infinito di tasche grandi e piccole, interne ed esterne, visibili ed invisibili, ed ogni tasca, come un armadio farmaceutico, aveva il suo corredo. Il portafoglio stava nella tasca interna del gilè, al sicuro dai ladri; il portamonete, più esposto, perché in una tasca esterna, era assicurato ai pantaloni con una robusta catenella di acciaio; l'orologio era provvisto di un complicato sistema di attaccatura di sicurezza ed alloggiava in un taschino ovattato per attenuare gli urti; un piccolo registro, dove venivano segnate le spese fatte fuori casa, aveva riservata una tasca posteriore dei pantaloni; e la penna stilografica faceva capolino da un taschino stretto e lungo come una guaina aperto nella parte superiore del gilè a sinistra». «Ogni spesa, piovesse o nevicasse, provocava una fermata in mezzo alla via per l'estrazione della penna, del registro e per l'annotazione dei franchi e centesimi sborsati. Disseminati nelle altre tasche, c'erano poi lacci per le scarpe, piccoli gomitoli di spago, aghi, spilli, cotone bianco e nero, bottoni, steccadenti, la guida di Parigi, l'orario ferroviario, il calendario con le fasi della luna, le feste di precetto e le tariffe dei mezzi di trasporto, occhiali da vedere da vicino, occhiali per vedere lontano, occhiali da sole ed una piccola pelle di camoscio per pulire le lenti compresa quella d'ingrandimento chiusa in un astuccio di cuoio giallo. Non mancavano un metro arrotolato, uno spazzolino, un pettine, un cavatappi ed infine tutto un vasto assortimento di oggetti misteriosi nascosti un po’ dappertutto. Se questo era il corredo per circolare in città, a poca distanza dalla base di rifornimento, immaginate che cosa gli occorresse per imbottire due valigie per un viaggio all'estero». «Fu così che, entrato nella sua camera, lo trovai in piedi di affianco ad un enorme baule aperto, dal quale, come da un cratere di un vulcano in eruzione, erano venuti fuori lava, cenere e lapilli che avevano sotto forma di pacchi, pacchetti e pacchettini, coperto il letto, il tavolo, il cassettone, si erano sparpagliati sul pavimento, arrampicati sul marmo del lavabo, spinti fin sul davanzale della finestra. Al centro di questo bazar sconvolto come un terremoto, stava lui, il leader socialista, il capo dell'antifascismo, il condottiero della rivoluzione di domani, il presidente della futura repubblica democratica italiana, colui che da Parigi avrebbe dovuto rovesciare il fascismo, battere Mussolini, conquistare il potere. Io, lo confesso con malinconia, ho pochissimi capelli sul cranio, perché la maggioranza ha preferito abbandonare la... casa paterna ed andarsene per il suo destino, ma quei pochissimi superstiti, alla vista di tale impensato spettacolo, si erano tutti rizzati sulla testa, sbalorditi e sgomenti». «Turati faceva gesti desolati, come per dire: Vedete che lavoro per servire la causa! Io sorridevo con quell'espressione cretina che si assume nei momenti solenni, quando si vuol mascherare la propria commozione. «Presi a caso un pacchettino: erano tutti accuratamente incartati col sistema che usano i farmacisti per le cartine del chinino e del solfato di sodio (una dose ogni due ore) erano legati con uno spaghetto rosso, rosso come la bandiera del partito, come il garofano del primo maggio alla bicchierata fuori porta con discorso inno dei lavoratori e sbornia ed avevano un cartellino con la spiegazione. Quello che mi era capitato in mano recava scritto: "Orologio di nichel mancante della sfera dei minuti e senza vetro: rotto il 15 giugno 1924 in viaggio da Milano a Roma scendendo dal treno a Bologna"». «Le grandi sorprese, come i grandi dolori, sono mute. Posai il pacchetto senza dire motto. Ne presi un altro, molto più voluminoso. Il cartellino avvertiva: "mutande di lana con fondelli da rifare", e la data: "6 marzo 1925". Detti uno sguardo desolato ad un terzo che conteneva "un paio di calze di filo nero con un buco al tallone": il buco, il 14 aprile 1924. Un quarto, un quinto, un centesimo... tutti contenevano un oggetto smesso, rotto o da riparare: era un piccolo Campo dei Fori il mercoledì, raccolto nella stanza di un albergo di Parigi, non da un maniaco metodico e straccione, ma dal capo dell'antifascismo, dal Leader del socialismo italiano». «Quando finalmente potei articolare qualche parola, fu per domandare: e tutta questa roba come è qui? Mi rispose Turati con tranquillità: me la son fatta spedire da Milano subito dopo il mio arrivo a Parigi. E dopo una pausa: è tutta roba che mi può servire. Domandai ancora: e i pacchetti chi li ha fatti? Turati ebbe un lieve sorriso di soddisfazione, e rispose come Napoleone dopo Austerlitz: Io! Se quel giorno non divenni omicida non fu per cattiva volontà, ma per l'abitudine che ho di circolare senza armi da fuoco. Lo spettacolo valeva ben cinque colpi di rivoltella sparati a bruciapelo. Uscii dalla stanza che non ero più un uomo. Avrebbe potuto, Filippo Turati, far benissimo di me un pacchetto con lo spago rosso e il cartellino: "Involucro umano di antifascista vuoto di fede e sgonfiato come un pneumatico bucato". E la data: "21 gennaio 1927"». (Alberto Giannini, "Le memorie di un fesso", parla Gennarino «fuoruscito» con l'amaro in bocca, Ed. Corbaccio).
Sotto il significativo titolo: "Siamo ai materassi", il sen. Cesare Zappulli, nel fondo de "Il Giornale", (6.3.1982) scrive: «In questa corsa allo sputtanamento, non si risparmiano colpi. La Roma, ignobile, della politica si confida di bocca in bocca il passo delle bobine d'intercettazione telefonica, in cui un ministro socialista in carica, abbandonandosi a un momento, diciamo così, di tenerezza, ricorda alla congiunta di un "grand commis" dello Stato le dolci morsicature (nel testo: «i morsetti») inflittele in siiti corporei che sembrano offrirsi meglio degli altri all'amorosa crudeltà». Di che si tratta? Si tratta che dagli antri della Procura del Tribunale di Roma e dalla Commissione P2 sono usciti passi di bobine che i giudici di Milano e di Roma hanno confezionato e, fra questi, le intercettazioni telefoniche intorno a certi personaggi (e affari) ENI. Spiccano, su tutte, quelle del «ministro socialista» che, anziché preoccuparsi delle aziende di Stato (in sfascio), in ore stabilite («è uscito il becco?», nel testo), telefona alle consorti dei dirigenti di vertice delle aziende, di cui è supervisore, per appuntamenti galanti. C'è qualcosa di più. Il ministro va oltre. Le aziende statali sono alla bancarotta. L'ENI rimette cinque miliardi al giorno, ventimila miliardi di debito alla fine del 1982. «Tutti a casa!», grida il ministro. E si capisce subito che tutti devono andare a casa, tranne... uno. E quell'uno (ma guarda il caso!) è il consorte della «signora» con cui il ministro ha teneri rapporti telefonici, tanto da apparire un consolatore, una specie di stregone delle ansie, delle fantasie, delle evasioni che tormentano «Mimma».
* * * Si dirà: ma sono cose che accadono da che mondo è mondo. Chi noti ricorda, tanto per citare un caso che fu clamorosamente nelle aule parlamentari, Filornena Barbagallo, Donna Lina, la moglie imprudente di Francesco Crispi? La «privacy» è sacra, anche quella di un ministro. D'accordo. Ma quando la «privacy» di un ministro si riverbera pesantemente sull'andamento delle aziende a partecipazione statale che prosciugano denaro pubblico fino all'inverosimile, come si fa a dire che la «privacy» del ministro non interessa?
* * * In breve: non la competenza, non la probità, non l'onestà contano nelle Aziende a partecipazione statale. Ma conta e vale (per il ministro) il poter dare «morsetti» alle consorti, dei «grand commis». E così che si fa carriera? Nemmeno la tessera (che deve essere simile a quella del ministro) basta più. Occorre anche fornire la moglie? L'interrogativo non è retorico.
* * * Settimanalmente "L'Espresso", a firma di Tullio Pericoli, pubblica, a tutta pagina, una vignetta dal titolo: "Sorrida, prego". Da una parte c'è Giovanni Spadolini, dall'altra Sandro Pertini. Spadolini, rivolgendosi al Presidente della Repubblica, indica un misuratore di livello e dice: «Oggi siamo nella merda fino a qua». E la merda, settimanalmente, sale. L'ultima volta era già arrivata al collo di Spadolini. Riteniamo che, con gli ultimi avvenimenti di queste settimane, la prossima volta, troveremo Spadolini completamente sommerso. E con lui, ahimé, la Repubblica italiana.
"l'Unità" (22.3.1982), in replica agli attacchi che le sono piovuti addosso per il caso Cirillo, se la prende soprattutto con il vignettista Forattini che su "la Repubblica" trasforma "l'Unità" in un rotolo di carta igienica. E scrive: «Eppure se quel vignettista di "Repubblica" seguisse con attenzione un procedimento giudiziario dedicato ai Proletari armati per il comunismo siamo certi che potrebbe trovare spunti, nel capitolo che si riferisce al delitto Torregiani (il gioielliere che venne assassinato a Milano il 16.2.1979 da un commando di terroristi) che riguardano il giornale di cui fa parte». Fin qui "l'Unità". L'accusa è pesante. Dunque il giornale "la Repubblica" «dentro» una squallida vicenda di sangue e terrorismo? Dopo l'avvilente vicenda dei finanziamenti facili dalle banche di Stato, anche il terrorismo? L'intransigente perbenismo (repubblicano, democratico, antifascista, resistenziale) di Eugenio Scalfari porta con sé simili macchie? Per saperne di più abbiamo attentamente sfogliato "la Repubblica", riga per riga, nella certezza che il foglio della purezza ideale, politica e morale avrebbe, in qualche modo, raccontato ai propri lettori come stavano le cose. Ma, ahimé, per il momento, nulla. Silenzio. Nemmeno una riga di smentita. Che dobbiamo pensare?
* * * Scrive Fortebraccio ("l’Unità", 23.3.1982): «Da parte nostra c'è stato soltanto un errore di leggerezza. Non è stato mai possibile cogliere per quasi quaranta anni questo nostro giornale e il PCI in fallo». «A leggere la prosa di Fortebraccio non si sa più se sorridere o compiangere. Forse è utile chiedersi come mai, con tanti direttori, condirettori e vicedirettori (tre per l'esattezza) con il nome scritto in grosso, "l'Unità" abbia bisogno di un quarto direttore, finalmente responsabile, con il nome piccolo così, che cambia ogni tre o quattro mesi. Che sia per evitare che i rischi penali connessi alla qualifica si sommino su una sola persona (mai, comunque, di primo piano) e per garantirci che a volare siano, ancora una volta, soltanto gli stracci?». ("Avvenire", 24.3.1982) «O forse l'autoesaltazione di cui Fortebraccio è enfatico esempio proviene diritta dalla lettura di quel gruppo di quattordici poesie di Bertold Brecht, traduzione di Rossana Rossanda che, su "Rinascita" del gennaio 1960, diretta allora da Palmiro Togliatti, venivano presentate come «un contributo tra i più alti alla costruzione di un'etica comunista»? Dice Brecht in una di quelle poesie: "Chi combatte per il comunismo deve saper combattere e non combattere, dire la verità e non dirla, rendere un servizio e rifiutarlo, tenere una promessa e non tenerla, esporsi al pericolo ed evitarlo, farsi riconoscere e nascondersi, chi combatte per il comunismo di tutte le virtù ne ha una sola: quella di combattere per il comunismo"». ("Avvenire", 24.3.1982). Povero Fortebraccio, come sei ridotto! Alberto Ronchey, giustamente, osserva che, da un pezzo a questa parte, l'ex-democristiano Mario Melloni, alias Fortebraccio, si dimostra depresso, irascibile, tanto che nei suoi scritti c'è dileggio e non più satira. Che gli sta accadendo? E perché? Forse perché Enrico Berlinguer, solennemente, ha affermato che nessun operaio italiano se la sentirebbe di vivere nelle condizioni in cui sono costretti a vivere i lavoratori sovietici? Fortebraccio da 14 ani (12.12.1967) scrive su "l'Unità". E da 14 anni si batte, con vigore, per assicurare ai suoi lettori l'esatto contrario di quello che oggi dice Berlinguer. Così stando le cose ha ragione di essere inquieto. Nelle sue condizioni è penoso continuare a scrivere su "l'Unità". Si rischia la faccia. E la faccia -occorre riconoscerlo- Fortebraccio ce l'ha. Nel 1955 Mario Melloni (Fortebraccio) venne espulso dalla DC da Amintore Fanfani, l'uomo, ha scritto Fortebraccio, che «mandandomi via dalla DC ha fatto di me un comunista». Che il 1982 veda Mario Melloni andarsene, di sua spontanea volontà, dal PCI di Berlinguer per restare quel cattolico-comunista predicato da Franco Rodano? È l'unica via che gli resta. Per salvare la faccia. Restare è la fine. Morale prima che politica.
Non ci si crederebbe, ma è così. In data 5.4.1976 viene tratto in arresto, su mandato di cattura del dott. Vito Zincani, giudice istruttore del Tribunale di Bologna, tale Roberto Pratesi, nativo (18.2.1953) di Arezzo «per detenzione di armi e di esplosivo». Il giudice sa che, arrestando il Roberto Pratesi di Arezzo, si commette il falso più clamoroso perché il «vero» Pratesi Roberto non è nativo di Arezzo ma di Tizzana (29.12.1949) in provincia di Pistoia, risiede a Buríano di Quarrata, ed è ristretto presso le carceri gíudiziarie di Pistoia «per detenzione illegale di armi e di esplosivo». È di sinistra, non di destra. Si vuole dire, e sottolineare, che il dott. Vito Zincani, giudice della Repubblica italiana, facente parte della non mai tanto chiacchierata Procura di Bologna, coscientemente si serve di circostanze delittuose che riguardano altra persona per mettere prima in galera e poi chiederne il rinvio a giudizio, un cittadino innocente, e per un reato, si intenda bene, che può comportare anche l'ergastolo. Non basta. Nel maggio del 1981, il dott. Pier Luigi Leoni, sostituto procuratore presso la Corte d'Assise di Appello di Bologna rincara la dose. Infatti, in una sua memoria, scrive che «la capacità a delinquere del Pratesi poteva dimostrarsi dalla perquisizione domiciliare disposta dal Procuratore della Repubblica di Pistoia il 17.4.1975, per cui il Pratesi veniva trovato in possesso di armi e di esplosivo» il che è completamente falso, in quanto, come si è detto, è ad altro Pratesi che la perquisizione si riferisce. Che, dunque, anche il dott. Leoni, come lo Zincani, giudici di Bologna, si avvale di circostanze e inchieste riguardanti altra persona per tenere recluso nelle carceri (e che carceri!) della ... libera Repubblica italiana il Pratesi Roberto di Arezzo, cittadino innocente, e per accuse che possono anche comportare l'ergastolo. Cosa avreste fatto voi nei panni del Pratesi, che resta in carcere per tre anni filati, per vedersi poi riconoscere innocente, e con la formula più ampia, dalla Corte di Assise di Bologna? Assistito dall'avv. Oreste Ghinelli di Arezzo, il Pratesi presenta, contro i giudici Zincani e Leoni, denuncia per reato di falso ideologico in atto pubblico, abuso di atti di ufficio, interesse privato in atti di ufficio, calunnia. È il minimo che possa chiedersi ad un cittadino che sconta, innocente, tre anni di galera (e che galera!) e tutto perché quei giudici (di sinistra) dovevano infierire a destra. Ebbene il dott. Fleury Francesco, magistrato del Tribunale di Firenze, nella sua requisitoria per il procedimento intentato dal Pratesi contro lo Zincani e il Leoni, scrive che, in fin dei conti, si è trattato di «mero errore, privo di conseguenze», un «piccolo incidente procedurale». Tre anni di galera, innocente. Piccolo incidente procedurale, privo di conseguenze. Ditemi un po': è questa la giustizia antifascista? È questo lo Stato garantista uscito dalla resistenza?
* * * Dai giornali: 18.3.1982, «Retata anti-Brigate rosse a Pescara, Quattro arresti. In carcere il fratello di un noto magistrato» Si tratta di Renato Zincani, fratello di Vito Zincani, giudice (comunista) di Bologna.
* * * La Repubblica italiana, ha vissuto, in questi giorni, anche l'aspra polemica sulla tortura. Terroristi (di sinistra), assassini dichiarati anche se pentiti, hanno accusato polizia, carabinieri e guardie carcerarie di «torture» e «sevizie». Stampa e Parlamento sono insorti. Sia detta la verità, sia resa giustizia. Nello spazio di pochi giorni il ministro dell'Interno ha dovuto recarsi in Parlamento per rendere conto delle accuse, per ben due volte. Già, ma quando a subire maltrattamenti erano ragazzi di destra, risultati al dibattimento innocenti, il silenzio dei «democratici» era d'obbligo. Racconto una vicenda esemplare e che ha il pregio della verità perché è passata al vaglio di Tribunali e Corti d'Assise, per di più di Bologna. Questi i fatti. Il 4 giugno 1974 (otto anni fa) viene tratto in arresto, su mandato di cattura dei giudice istruttore di Bologna, il giovane Massimo Batani di Arezzo. Il suo stato di detenzione dura quattro anni filati e precisamente fino al 3.5.1978, giorno in cui la Corte d'Assise di Bologna lo manda assolto con formula piena. Quattro lunghi anni dentro, per farsi dire: sei innocente, torna a casa. Durante l'ingiusta detenzione, il giovane Batani tenta di evadere dal carcere di Bologna. Preso, viene trasferito nel carcere giudiziario di Modena. È l'11.6.1977. Sono le 23. Il Batani viene selvaggiamente aggredito da agenti di custodia. L'avvocato difensore, avv. Ghinelli, può vedere il ragazzo solo una settimana dopo, date le sue penose condizioni. Si viene a sapere che le guardie di custodia gli avevano fatto firmare (su ordine di chi?), sotto la costrizione dei testicoli, una confessione in cui dichiarava che «la fuga era stata organizzata da "Ordine Nero"». Le violenze vengono denunciate e così pure i quotidiani "La Nazione" e "Il Resto del Carlino" che avevano affermato che il Batani, interrogato dal magistrato, aveva confessato che l'evasione era avvenuta grazie ad "Ordine Nero". Il processo contro i quotidiani si conclude con l'esborso, da parte degli stessi, di sei milioni per danni morali; quello contro le guardie carcerarie di Modena con la esemplare condanna alla reclusione e alla interdizione dai pubblici uffici delle stesse, compresa una provvisionale di due milioni immediatamente esecutiva. Questi fatti accadevano nel 1977. A subirli ragazzi di destra. E la stampa? E il Parlamento? Nulla. Silenzio. Acqua in bocca. Si ricorderanno della tortura solo quando autentici assassini di sinistra si metteranno a strillare. Questa è la giustizia nella Repubblica democratica, antifascista, resistenziale. Non è finita. A dare la notizia (falsa) ai due quotidiani, condannati poi all'esborso per danni morali, è il dott. Luigi Persico, pubblico ministero nel processo in corso per l'Italicus a Bologna, comunista. La giustizia è in buone mani.
Le dure contrapposizioni sul giallo Cirillo, sul barbaro assassinio di Semerari, e sui soldi pagati per il riscatto (un miliardo e quattrocentocinquanta milioni), ruotano intorno alla massima (da tutti tradita): con i terroristi non si tratta. Da tutti tradita, in primo luogo dal Parlamento. Infatti il Senato e la Camera dei Deputati (che se ne palleggiano il testo emendato) si sono ampiamente occupati, senza pudore e alla piena luce del sole, di stendere un disegno di legge, quello sui «pentiti» che, prima di ogni altra cosa, è una vera e propria trattativa con il partito armato, con il terrorismo, a sua volta alleato con la camorra. La stessa vicenda Cirillo, dinanzi a ciò che il Parlamento (e il Governo) intendono fare per i «pentiti», assume un aspetto secondario. «Un misfatto giuridico, un attentato alla Costituzione della Repubblica», scrive Leonardo Sciascia. «Stando nel cosiddetto "transatlantico", mentre in aula si votava, da deputati che andavano e venivano dall'aula, sentivo commentare la legge con repugnanza, con disgusto, con disprezzo. Altro che non trattare "con uomini che hanno le mani macchiate di sangue" si è trattato, si sta trattando, si continuerà a trattare». (Leonardo Sciascia, "La Gazzetta del Meridione", 7.3.1982) «... Si dirà che si tratta con i singoli brigatisti e non con le Brigate rosse: ma il numero dei brigatisti che ormai trattano è tale, e tale la qualità di micidiali esecutori, che la distinzione diventa solo formale. Non solo, ma i brigatisti non trattano in nome del pentimento, della coscienza che insorge, del rimorso che si insinua: trattano in nome del «progetto rivoluzionario» fallito perché immaturo. Trattano un armistizio. Non la pace, né con il governo, né con i compagni, e tanto meno con sé stessi. Nulla di più improprio che chiamarli pentiti». (Leonardo Sciascia, "La Gazzetta del Meridione", 7.3.1982) «... Tutti si pentono un minuto dopo che sono stati presi dalla polizia: lo scippatore, il rapinatore, l'omicida. Solo che al brigatista pentito viene concesso il perdono e non così agli altri che delinquono in piccolo o grande cabotaggio: nemmeno se assicurano alla giustizia i loro complici». (Leonardo Sciascia, "La Gazzetta del Meridione", 7.3.1982) «... Se un qualsiasi cittadino, incautamente, si è trovato a dare ospitalità a un brigatista, senza avere nulla a che fare con l'organizzazione, non avendo informazione alcuna da dare alla polizia e ai giudici, avrà intera la pena che spetta ad un favoreggiatore; mentre il brigatista, suo ospite, se soltanto fa il nome di colui che l'ha ospitato, si vedrà ridotta la pena, al punto che potranno incontrarsi, in uscita, sulla soglia del proprio carcere, avendo scontato eguale pena: il cittadino incauto, il brigatista assassino». (Leonardo Sciascia, "La Gazzetta del Meridione", 7.3.1982) Fin qui Sciascia. Ora se le cose che afferma lo scrittore siciliano sono vere (e sono vere), è evidente che il caso Cirillo deve essere visto e analizzato con visuale diversa da quella che gli organi di informazione vorrebbero imporre. Quando l'intero Parlamento (eccetto missini e radicali) si è accinto a creare mostruosità giuridiche simili a favore di pluriomicidi confessi, significa che siamo oltre le stesse mostruosità che zampillano fuori dal giallo Cirillo. E che tutto quello che accade altro non è che la conseguenza di quello che si fa nella ignobile Roma politica. Il marcio è lì. Terrorismo, mafia, camorra non sono fatti estranei al Palazzo. È il Palazzo che li genera e li alimenta. E finché non si rigenera il Palazzo, la mafia, la camorra, il terrorismo continueranno a vivere e a prosperare. E trovo alquanto strano, anzi stranissimo, che la DC stia facendo il chiasso che fa a proposito dei casi di Napoli, quando la stessa DC, non più tardi di qualche mese fa (settembre 1981) incassò, in silenzio, un'accusa molto più grave di quella indirizzata a Scotti e Patriarca. Cioè di essere lei, come organizzazione, a ospitare nel suo seno i responsabili delle coperture politiche a coloro che sono dediti allo smercio della droga. E l'accusa, mesi fa, partiva nientemeno che da Enrico Berlinguer in persona, ribadita e rafforzata dal fratello Giovanni, responsabile per il PCI del settore Sanità. «A chi si riferiva il segretario del PCI quando parlava dei legami tra gli spacciatori e ambienti della vita pubblica italiana?», fu chiesto a Giovanni Berlinguer ("la Repubblica", 26.9.1981). Risposta: «Sono uomini della DC». «Quali? Dove?». «C'è un mercato siciliano che rifornisce gli USA e una direttrice Trieste-Verona che raggiunge l'Europa centrale: lì vanno cercati». « nomi?». «Ruffini, ad esempio ...». Fermiamoci qui, per il momento. Torneremo sull'argomento a tempo debito. Ora ci preme sottolineare che, esattamente sei mesi fa, non gli ultimi venuti, ma i fratelli Berlinguer, in perfetta sintonia, accusavano l'on. Ruffini Attilio, già ministro della Difesa della Repubblica Italiana, di «coprire» i responsabili del traffico della droga nella direttrice Sicilia-Stati Uniti d'America. Nessuna reazione a questa terribile accusa è stata registrata. Né da parte di Piccoli, né da parte di Ruffini... Anzi. Anzi, l'ex ministro Ruffini si è recato, con una delegazione democristiana, in Salvador, ad assistere alle elezioni. E si è reso protagonista, insieme all'altro suo collega (chiacchierato) Lattanzio, del rifiuto di firmare una dichiarazione della DC internazionale, di condanna per la guerriglia, finanziata e protetta da Mosca e da Cuba. Perché? Ma è semplice: se l'avesse firmata avrebbe avuto addosso, ancora una volta, il PCI, e con quella accusa: è amico dei trafficanti di droga. Ora spera di averla fatta franca. È quello che vedremo. Il PCI è maestro. Per carità: non nel combattere gli scandali. Nel ricattare coloro che nello scandalo sono precipitati. Perfino Gava, a Napoli, è diventato fautore dell'accordo con il PCI. E la melma sale. Ogni giorno.
Giace, da tempo immemorabile, presso la Commissione Inquirente per i procedimenti di accusa contro i ministri, un processo a carico dell'ex-ministro dei Lavori Pubblici Salvatore Lauricella, presidente oggi dell'Assemblea regionale siciliana. Si tratta della vicenda riguardante dipendenti pubblici che, comandati in gran parte presso la segreteria particolare del ministro, erano stati inviati, immediatamente prima di passare le consegne al suo successore Ferrari Aggradi, presso gli uffici decentrati della Sicilia, onde essere utilizzati nel suo collegio elettorale, in previsione delle elezioni politiche del 7 maggio 1972. I fatti che venivano a configurare, attraverso atti simulati come atti di ufficio, il reato di interesse privato in atti di ufficio (articolo 324 CP: punisce l'interesse privato in atti di ufficio con la reclusione da sei mesi a 5 anni), risultano, dagli atti espletati dalla stessa Commissione Inquirente, ampiamente provati, ma non se ne è fatto di nulla e non se ne farà di nulla. La Commissione Inquirente, per essere precisi, ricevette il processo dalla Procura della Repubblica di Roma il 24.10.1972. Dopo avere incaricato l'onorevole Alfredo Pazzaglia di relazionare e avendo il deputato missino ottemperato all'incarico ricevuto con una relazione che provava i fatti, la Commissione si è addormentata. E sulla pratica Lauricella, come su un comodo materasso, donne da 10 anni. Commissione Inquirente. Agli atti della Commissione un'altra pratica è in ...sofferenza. Si tratta di una intercettazione telefonica ordinata dalla magistratura sui telefoni del petroliere Bruno Musselli, latitante, le cui vicende si intrecciano con quelle del generale della Finanza Giudice Raffaele, a giudizio ora davanti al Tribunale di Milano. La telefonata intercettata riguarda indirettamente il deputato Alessandro Reggiani, socialdemocratico, presidente appunto della Commissione Inquirente. In quella telefonata il Musselli, di cui Reggiani è stato avvocato difensore, dice al suo interlocutore che per quanto riguarda Reggiani si può stare sicuri perché «l'abbiamo in pugno». Ora se il presidente dell'Inquirente è tenuto in pugno da Musselli (e soci), come fa a continuare a svolgere, con obiettività, serenità e severità, i compiti di quell'Inquirente (non mai tanto sputtanata) che, fra l'altro, sarà chiamata a giudicare i ministri (Andreotti e Tanassi), i quali promossero il generale Raffaele Giudice a capo della Guardia di Finanza, quel «generale», appunto, che dava mano libera a Bruno Musselli nei suoi traffici illeciti? Non si tratta di roba da poco. Il processo vede sul banco degli imputati generali, colonnelli, ufficiali, legali, petrolieri. Per associazione a delinquere, contrabbando, concussione, falso in atto pubblico. «Sullo sfondo di tutta questa torbida vicenda -scrive "la Repubblica", 20.3.1982- compaiono anche magistrati (per due di Monza sono partite le comunicazioni giudiziarie), ufficiali dei servizi segreti (Maletti, La Bruna, Henke, Viezzer, Viglione) ascoltati con riferimento all'attività di Giudice nell'esercito; pubblicisti e giornalisti ai quali la famiglia Giudice avrebbe dato l'incarico di indagare sui magistrati torinesi che si occupano dello scandalo dei petroli. Sono stati fatti i nomi di Gianni Carbone, attualmente amministratore di "Paese Sera" e di Vanni Nisticò, ex-capo ufficio stampa del PSI». Come fa Reggiani a restare presidente dell'Inquirente? Già è uno scandalo che non abbia ancora sentito l'elementare dovere di dimettersi. E non è certo di buon gusto che lui, presidente dell'Inquirente, si sia buttato sul proscenio della Camera a difendere Andreotti, Tanassi e Rumor per il caso Giannettini; con una esibizione in cui tutti hanno potuto constatare la piaggeria, come per dire: «ora io mi comporto così, ma quando verrà il mio turno ricordatevi di me». Io do una cosa a te e tu dai una cosa a me. Siamo a questa filosofia. Onorevole Reggiani, si dimetta. Prima che sia troppo tardi. Anche perché altre avvisaglie incombono. Infatti Giorgio Galli, nel n° 830 dì "Panorama" (15.3.1982), riporta la lettera di un cittadino di Treviso il quale, dopo avere ricordato come l'onorevole Alessandro Reggiani, presidente dell'Inquirente, sia stato avvocato difensore del petroliere (latitante) Bruno Musselli, informa che un'area del Comune di Treviso, dichiarata area verde e di proprietà del Reggiani, sia stata trasformata in edificabile. Non finisce qui. Parte dell'area sempre per il cittadino di Treviso, sarebbe stata acquistata dalla Società Sile Assicurazioni di cui Alessandro Reggiani era presidente, per costruirvi la sede. Galli precisa che, come pubblicava l'informazione, era dispostissimo a dare spazio a tutte le precisazioni che, sulla vicenda, gli «interessati» intendessero dare. È passato un mese. Nessuna precisazione è giunta (finora) da parte dell'onorevole Reggiani, presidente dell'Inquirente. Incassa. Come un buon pugile.
A Napoli: i morti, in media, due al giorno. Dall'inizio dell'anno se ne contano già 104 ma mentre scriviamo già potrebbero essere aumentati. Alla stessa data, nel 1981, si era a quota 51. Siamo al raddoppio. E il "Corriere della Sera", ormai supplemento sbiadito de "l'Unità" e del "Popolo", scrive che tutto accade in odio a Gava (DC) e a Valenzi (PCI) che, volendo riscattare Napoli, hanno addosso la camorra.
* * * Antonio Gava, junior: il padrino. Il personaggio è sotto attenzione da anni. Come del resto il padre: da sempre. La stampa nazionale, calata più volte a Napoli per indagare sui misteri del clan gavianeo, gli attribuisce disinvoltamente i titoli di «padrino», «padrone», «capoclan» o, come il commentatore inglese di costumi italiani Percy Alluni, «capo-gang». Nel 1978 sono i comunisti a mettere il veto alla sua chiamata al governo di coalizione presieduto da Giulio Andreotti. Poi i giochi cambiano. Don Antonio «fetenzia» si adegua alla nuova situazione. Da doroteo si fa portatore del linguaggio della solidarietà nazionale con il PCI. Ed anche i comunisti, come per Lima in Sicilia, si adeguano al nuovo ...corso. In fin dei conti Antonio Gava non è poi tanto una «fetenzia». È vero: è divenuto padrone di Napoli, servendosi delle banche, degli istituti finanziari, degli enti di sviluppo, dei consorzi industriali, dei consigli di amministrazione, tutti dominati attraverso suoi uomini, ma come si fa, dicono i comunisti, a fare politica a Napoli senza sporcarsi le mani? È una necessità. Ed ecco che Antonio Gava (con le mani sporche) comincia a piacere al PCI. Ora l'accordo Gava-PCI è diventato il piatto forte del "Corriere della Sera". Dimentico di avere, nell'ottobre 1973 (colera a Napoli), mobilitato Leonardo Vergani per illustrare la vita definita scandalosa del «padrino» di Napoli, oggi il "Corriere", per la penna del comunista Alfredo Pieroni, denuncia il tentativo sanguinoso della camorra per bloccare la collaborazione dei democristiani di Antonio Gava con i comunisti, e tutto questo perché (udite! udite!) «imporrebbero una amministrazione pulita». ("Corriere della Sera", 2 aprile 1982) «Certamente a Napoli -scrive Pieroní- quando Gava apparve alla TV col comunista Bufalini in un incontro tutt'altro che ostile, qualcuno si impensierì. Chi si impensierì? È possibile che, come pensano i comunisti, il documento Cirillo-Unità fosse redatto per suscitare una brusca contrapposizione tra comunisti e democristiani del Comune e della Città per far cadere la Giunta Valenzi, per dare mano libera, mentre si inizia la costruzione dei 20.000 alloggi dopo i guasti del terremoto, spesa complessiva 1.600 miliardi, alla speculazione selvaggia vecchia maniera, come scrive "Paese Sera"». ("Corriere della Sera", 2 aprile 1982) «In vista del congresso -prosegue Pieroni- si fa strada nella DC napoletana il gruppo che intende sostenere Ciriaco De Mita, favorevole al dialogo con il PCI, come candidato alla segreteria. Gava sembra incline a questa decisione. Scotti ne sarebbe mallevadore. Il senatore Patriarca non sarebbe contrario. Sono stati colpiti per questo? Ci assicurano che un mese fa alcuni dirigenti della DC napoletana si riunirono per discutere della preparazione del congresso democristiano. Ad un certo punto un compagno di scuola di Antonio Gava lo avvertì che era stato avvistato, sulla piazza antistante, il capo della colonna napoletana delle BR, Acanfora. Furono avvertiti i carabinieri e Gava uscì scortato per un'altra uscita. I suoi amici sono convinti che le BR gli volessero riservare la sorte di Moro e Mattarella. Per le stesse ragioni?». ("Corriere della Sera", 2 aprile 1982) Dunque camorra e BR a Napoli impegnate per impedire che Gava e PCI, punti di forza per il rinnovamento ...morale della Città, si uniscano per sconfiggere il male! Dio mio, anche questa dovevamo vedere. Quello che fu il più grande quotidiano di informazione italiano innalzare a bandiera i Gava, una famiglia che a Napoli gode di una potenza (e di una prepotenza) simile a quella dei Borboni, e il cui sistema di potere è stato sempre ritenuto responsabile della degradazione (camorra compresa) in cui la Città è caduta! E il PCI a tenergli bordone. Ma su quale terreno è avvenuto a Napoli l'accordo Gava-PCI? O meglio fra Andrea Geremicca (PCI) e Salvatore Russo (gavianeo)? I 20.000 alloggi da costruire. Ebbene, tutte le scelte urbanistiche, relative alla costruzione degli alloggi, sono state giocate all'interno di un comitato politico cittadino che altro non è se non la sede della spartizione del potere fra DC e PCI. Affari. Sui quali prospera anche la camorra. Infatti quelle scelte urbanistiche, operate dai gavianei e dal PCI, vanno tutte nella direzione di aree dove comanda la camorra più sanguinosa. Quindi il patteggiamento con la camorra diventa inevitabile. Così, grazie all'accordo Gava-PCI, quei miliardi vanno ad incentivare attività criminose. Si combatte simbolicamente la camorra ma, nella sostanza, la si favorisce.
* * * Stampa e televisione ci hanno informato che il sindaco Valenzi si è recato da Pertini per chiedere «solidarietà» nella battaglia contro la camorra e lo sfascio morale di Napoli. Si chiede pulizia. E su tutta la linea. Già, ma i signori Vincenzo De Rosa e Alfredo Arpaia, ex-assessori del PSDI e del PRI, continuano tranquillamente a restare nel Consiglio comunale di Napoli, benché condannati a pene pesantissime per il racket dei cimiteri. Il racket dei cimiteri, per chi non lo sapesse, è anche esso camorra. Ora, come si fa a chiedere moralizzazione e pulizia quando, nel proprio seno, c'è corruzione e sporcizia?
* * * Una battuta... smagnetizzante. Craxi incontra il ministro delle Partecipazioni Statali Gianni De Michelis: «Andiamo a prendere qualcosa?». «A chi? A chi?».
* * *
Antonio Savasta (17 omicidi); Emilia Libera (17 omicidi); Mario Cianfanelli (8 omicidi); Alessandra De Luca (8 omicidi), Patrizio Peci (4 omicidi); Michele Viscardi ( 11 omicidi); Roberto Sandalo (2 omicidi); Marco Barbone (1 omicidio). Si tratta di alcuni brigatisti «pentiti». Presto potranno tornare in libertà. Grazie al Parlamento della Repubblica Italiana, antifascista, uscita dalla resistenza. Il brigatista «pentito» Antonio Savasta riferisce che «Valerio Morucci e Adriana Faranda», rinviati a giudizio per la strage di Via Fani e l'assassinio di Aldo Moro, «altro non erano che la longa manus di Franco Piperno e Lanfranco Pace nei ranghi delle BR e che Morucci e la Faranda erano stati incaricati di entrare nelle BR per unificare due strategie: quella delle BR impegnata nella lotta contro lo Stato, e l'altra di Autonomia che portava avanti la lotta sui bisogni delle masse». Ora contro Franco Piperno, espatriato in Canada per non essere arrestato, e Lanfranco Pace, in Francia per lo stesso motivo, sono stati emessi mandati di cattura per l'omicidio Moro e la strage di Via Fani. Piperno è già stato arrestato. Con ciò torna di attualità, e prepotentemente, una vecchia vicenda che fece dire a Pietro Longo (giugno 1979, comitato centrale del PSDI), segretario nazionale del PSDI, queste testuali parole: «Credo che il PSI, nei prossimi mesi, si troverà nella bufera dei collegamenti tra BR e alcuni suoi esponenti: se lo dico è perché è ben più di una impressione». A chi si riferiva Pietro Longo? A Craxi. A Giacomo Mancini. Fra i due, sempre in tema terrorismo, vi fu un duro diverbio il 18 gennaio 1980, in pieno comitato centrale, alla presenza della stampa. Riferendo al comitato centrale, Craxi, ad un dato momento, disse testualmente: «Gli Autonomi sanno certamente di più di quello che hanno detto al magistrato. L’Autonomo con cui parlai (Lanfranco Pace, il 6.5.1978, tre giorni prima dell'assassinio di Moro - N.d.R.) assieme ad un testimone, Landolfi (senatore del PSI, N.d.R.), alla mia domanda se Moro fosse vivo, e se fosse possibile lo scambio uno contro uno, lasciò intendere che Moro era vivo e lo scambio possibile. Se lo ha fatto per millanteria lo deve spiegare alla magistratura e anche a me». Le cronache raccontano ("Corriere della Sera", 19.1.1980) che a queste parole Mancini, paonazzo in volto, si è avvicinato a Craxi ed ha detto: «Hai fatto male, per polemica contro di me, a dire quello che hai detto. Non ti rendi conto che hai esposto te stesso e tutto il partito a una brutta figura? La gente, domani, si chiederà perché non hai riferito alla magistratura quello che sapevi, subito». Ora che il «superpentito» Savasta dice che Franco Piperno e Lanfranco Pace non erano affatto «esperti» in Brigate Rosse, ma brigatisti in prima persona, e si incontravano con Craxi, Mancini e Signorile, con l'incarico di aprire un varco nella cosiddetta intransigenza alle trattative, è evidente che sia Craxi, sia Mancini, quest'ultimo da sempre amico di Piperno, devono essere nuovamente sentiti dai magistrati sulla strage di Via Fani. Il non avere Craxi, dopo il colloquio con Lanfranco Pace, informato le autorità di quanto faceva e sapeva, e ciò a tre giorni dall'assassinio di Moro, lo pone in una situazione difficile. Tutti tacciono al riguardo. I potenti non possono essere disturbati. Nemmeno quando colloquiano con persone accusate di assassinio e strage. A Rimini il PSI ha dato, ancora una volta, dimostrazione di una politica intesa come spettacolo. Teatralmente cura e tesse una sua immagine che la si vuole quanto più aderente ad una società civile e moderna. D'accordo, ma le vicende del Banco Ambrosiano; gli scandali in cui, anche alla periferia, gli uomini dei PSI primeggiano e vigoreggiano; Franco Piperno e Lanfranco Pace con tutto quello che si portano dietro, butterano la faccia del PSI, in modo marcato. Il teatro non basta. E nemmeno il chirurgo. Perché quelle cicatrici, su «quella» faccia, non possono essere cancellate.
La crisi per Nino Andreatta non si è fatta. "Rosso e Nero" si è occupato del personaggio per ben undici volte. E non per quisquiglie. L'11 aprile 1980 scrivevamo, testualmente: «Nella vita ...economica di Nino Andreatta c'è di peggio dall'essere accusato di peculato continuato aggravato (domanda di autorizzazione a procedere, Senato della Repubblica, Doc. IV n° 10 del 4 ottobre 1979), per lo sfascio della SIR di Rovelli. Un cittadino qualunque sarebbe già finito in galera. C'è di peggio. Infatti Andreatta, insieme all'avvocato Pasquale Chiomenti, personaggio di Agnelli e a Bruno Pagan, repubblicano, direttore di "Mondo Economico", consentì al noto filibustiere della finanza internazionale Bernard Cornfeld, poi finito in galera in Svizzera, di mettere piede con la FIDEURAM (fondi di investimento) in Italia. E quando il castello finanziario di Cornfeld crollò, Andreatta riesce a far salvare la parte italiana all'IMI, a suon di miliardi. Nessuno, nemmeno il giudice Alibrandi, ha rilevato che nel momento in cui l'IMI interviene a salvare i risparmiatori italiani, caduti nell'imbroglio, Andreatta è, in contemporanea, amministratore della FIDEURAM e dell'IMI. Materia da codice penale. E lo fanno supervisore del governo!» Così scrivevamo l’11 aprile 1980, esattamente due anni fa. Nessuno si mosse, a cominciare da Andreatta. Per queste cose, riguardanti la moralità pubblica, le crisi di governo non si fanno. Si butta tutto all'aria solo quando Andreatta chiama Craxi e compagni «nazionalsocialisti». Giudicate voi.
* * * Domanda: «Chi crede che sia responsabile, se non il suo partito, dello sviluppo del fenomeno camorrista?». Risposta: «Potrei rispondere che questo fenomeno si è sviluppato in maniera incredibile negli ultimi sei anni, anni in cui a Napoli e dintorni ci sono state amministrazioni di sinistra». (Ciriaco De Mita, "L'Espresso", 18.4.1982, n° 15)
* * * Domanda: «Lei si è occupato della ricostruzione dopo il terremoto: si è accorto del peso della camorra?» Risposta: «Ho chiesto un accertamento rigoroso e sono stato accusato di voler mandar via Zamberletti. Ho chiesto una distinzione d'intervento fra l'area napoletana e la zona dell'epicentro, proprio per evitare di trasferire certi fenomeni nella nostra zona, un rischio molto concreto che si è già manifestato da quando è cominciata la costruzione di uno Stabilimento dell'ALFA nell'area di Avellino: i lavori vengono affidati ad imprese legate a Cutolo. E così si rischia di far estendere il fenomeno camorristico dal napoletano e dal nocerino anche alle zone interne». (Ciriaco De Mita, idem).
* * * «Gli sviluppi politici dell'ultimo periodo a Napoli presentano un dato di continuità: quello del rapporto tra gruppo doroteo della DC e amministratori comunali del PCI. Per essere più precisi, tra Andrea Geremicca, deputato e assessore di punta del PCI e Raffaele Russo, gaviano». (Paolo Cirino Pomicino, vice presidente del gruppo parlamentare DC, deputato di Napoli, da "Pagina", 5.4.1982)
* * * «La gestione dei 20.000 alloggi da costruire e distribuire in base alla Legge Andreatta è stata manipolata nel quadro di un cosiddetto comitato politico che è la sede della spartizione fra Dorotei e PCI. Tutte le scelte urbanistiche connesse con questi insediamenti sono state giocate all'interno di una combinazione (DC-PCI - N.d.R.), all'esterno conflittuale, in concreto convergente». (Paolo Cirino Pomicino, idem)
* * * «Il fatto di escludere la Città dagli interventi programmati della mano pubblica avvicina i lavori ai poli territoriali situati nella conurbazione urbana e della provincia nell'area vesuviana e in quella a nord, dove comanda, incontrastata, un'altra mano, quella della camorra. La collisione, o il patteggiamento, diventano inevitabili. Diviene più succoso e ravvicinato per la camorra il controllo sul flusso di denaro pubblico che, così acquisito legalmente, finisce per finanziare ed incentivare attività criminali. La camorra nella sua fase industriale ha un occhio particolare per l'edilizia». (Paolo Cirino Pomicino, ibidem).
* * * «Il confine fra gangsterismo e politica è sempre più difficile da rintracciare». (Giancarlo Paietta, "l'Europeo", 19.4.1982)
* * * Non abbiamo, di nostro, messo un rigo. Hanno parlato «loro». E «loro» affermano che DC e PCI favoriscono la camorra. Noi lo sapevamo da un pezzo, ma che lo scrivessero a chiare lettere ci pareva cosa impossibile. È accaduto anche questo.
* * * Ho compulsato attentamente, riga per riga, gli ultimi tre numeri di "Rinascita" (12-13-14, del 26 marzo e del 2 e 9 aprile), il settimanale del PCI. Mi sono soffermato, in modo particolare, sugli articoli dedicati al caso «camorra-Cirillo-BR». Sono a firma di Antonio Bassolino, Mauro, Calise, Emanuele Macaluso, quest'ultimo nominato direttore de "l'Unità" al posto di Petruccioli. Ebbene, non c'è un rigo, non c'è un accenno, in tutte quelle colonne di piombo, e nemmeno di sfuggita, dedicato alla dinastia Gava; a questo «clan» che sempre era stato nel mirino della polemica comunista come sistema di potere corruttore e disgregatore, ai limiti della gang. Ora è silenzio. Il clan Gava si è dichiarato favorevole all'accordo con il PCI.
* * * Emanuele Macaluso, direttore de "l'Unità". Il suo nome, in politica, compare per la prima volta, nel 1947. Figura membro di una cooperativa, "La Voce della Sicilia". Soci, insieme a Macaluso, Vito Guarrasi e Cipolla Calogero. Cipolla Calogero di Agrigento, fratello del già senatore comunista Nicolò, compare nel consiglio di amministrazione della GEFI, una finanziaria che nel 1972, supervisore Graziano Verzotto, il senatore democristiano latitante, acquista il pacchetto azionario di maggioranza del Banco di Milano di Michele Sindona. Calogero Cipolla non è uomo da poco. Quando entra nelle banche di Sindona (per conto di chi?) è consigliere di amministrazione del quotidiano comunista "l'Ora" di Palermo e della "Editrice Rinnovamento", proprietaria di "Paese Sera", società appartenente al PCI. Emanuele Macaluso, invitato più volte a fornire lumi sulla vicenda, è rimasto muto. L'altro personaggio, amico di Macaluso, da sempre, è Vito Guarrasi. Il suo nome lo troverete «sempre» legato alle vicende delle vecchie miniere baronali che non valevano un soldo e che furono acquistate, a suon di miliardi, dalla mano pubblica. Leonardo Sciascia ha scritto che, finché non faremo piena luce su queste vicende legate alle miniere, non capiremo nulla della mafia. Anche su questo scottante punto abbiamo più volte chiesto l'aiuto del neo direttore de "l'Unità" perché contribuisse a chiarirci le idee. Silenzio. Speriamo che ora, che ha a disposizione un quotidiano, sia più loquace a tale proposito.
Scrive Fortebraccio ("l’Unità", 28.3.1982): «Sapete quale è il rito di iniziazione alla massoneria? Il «profano» deve essere ammesso, per prima cosa, come «apprendista». Intanto comincia a spogliarsi dei suoi «metalli» (monete, medaglie e altri eventuali aggeggi) poi va a meditare in una camera di riflessione. La camera in questione è ornata di terribili accessori simbolici: una lampada, uno scheletro, una pietra cubica, un gallo impagliato, un orologio a polvere, un cartoccio di sale, uno di zolfo e altre cosette allegre di questo tipo. Ciò fatto il povero «profano», se ancora le forze lo reggono, deve rispondere per iscritto a tre quesiti sui doveri del massone. Poi deve fare testamento. Quindi con gli occhi bendati lo svestono a mezzo e lo fanno passare nel «tempio» e qui viene toccato dalla «spada fiammeggiante». Ma non è finita. Seguono varie altre prove che portano nomi simbolici e fantasiosi: i tre viaggi, il calice di amarezza, la catena di unione. Solo ora, mezzo morto supponiamo, il neofita presta un giuramento e riceve un grembiule e un guanto». Sì, anche noi, con Fortebraccio, ci domandiamo come fa una persona seria, nel 1982, e anche trenta, cinquanta, cento, duecento anni fa, a tollerare queste, con rispetto parlando, baggianate?
* * * Avevamo chiesto al ministro delle Partecipazioni Statali Gianni De Michelis di sapere, a quale titolo, il già deputato democristiano Emo Danesi, apparso negli elenchi della P2 di Licio Gelli, poteva utilizzare gli aerei di proprietà della società SNAM del gruppo ENI sulla rotta Roma-Pisa e viceversa. Il ministro, in data 17.3.1982, protocollo 66757, ufficio interrogazioni e rapporti con il Parlamento, ci fa sapere che gli aerei aziendali della SNAM vengono di norma utilizzati da parte dei dirigenti di più alto livello delle società del gruppo per necessità di servizio. In via eccezionale, scrive il ministro, tali aerei vengono anche posti a disposizione, per particolari ed urgenti esigenze, di alte cariche dello Stato. In questo ambito, conclude il ministro, sono da valutare i voli che, a suo tempo, sulla rotta Roma-Pisa e viceversa, il signor (sic! - N.d.R.) Emo Danesi ha effettuato con dirigenti dell'ENI, o da solo. Così il ministro. Come se nulla fosse. Sicché il signor Emo Danesi, piduista, poteva (o può ancora?) disporre degli aerei della SNAM-ENI. Bene. E a quale titolo? Perché ...alta carica dello Stato? Non facciamo ridere. La ...carica di Danesi consisteva nell'essere intimo porta-borse dell'ex-ministro Bisaglia. E chi ha pagato? Su questo non ci sono incertezze: il contribuente. Ma se è così l'autorità giudiziaria non ha proprio nulla da dire?
* * * Sulle «indennità parlamentari» c'è stata (e c'è) polemica. Anche aspra. Quotidiani, rotocalchi, settimanali, impegnando le penne più prestigiose, si sono dedicati ad analizzare minutamente la busta-paga del deputato. Scandagliata. Fino al centesimo. Come se le ingenti spese degli istituti parlamentari ruotassero tutte intorno alla paga del parlamentare. L'andazzo rende, perché deputati e senatori vengono a rappresentare il falso scopo del tiro polemico e ciò per tenere stornata l'attenzione della pubblica opinione su altre «spese», ben più consistenti e, diciamolo, scandalose di quelle rappresentate dalle indennità parlamentari. Ne volete un esempio? Consiglio superiore della Magistratura. I rappresentanti dell'organo di tutela dell'autonomia dei giudici, zitti zitti, piano piano, si sono aumentate le proprie retribuzioni. Cinque milioni al mese, il doppio di quello che percepiscono i parlamentari. Silenzio generale. Vi pare giusto?
* * * La rivista mensile del CONI "Quaderni dello Sport" (n° 6) è tutta dedicata alla figura dell'avvocato Giulio Onesti, «indimenticabile presidente del CONI», deceduto l’11.12.1981 «il più grande», scrive la rivista, «protagonista dello sport italiano». A pagina 13, sotto il titolo «Vivere Onesti morire poveri», Gualtiero Zanetti, già direttore della "Gazzetta dello Sport", scrive: «Onesti mi ha anche detto, forse con parole differenti, quanto aveva confessato a Oliviero Beha, qualche tempo prima, e che Beha ha così trascritto su Repubblica: "La mia estromissione dal CONI fu il risultato di un pactum sceleris politico. Andreotti mi lasciò affogare, si liberò di me e allora pensai: chi me lo fa fare, potrei lottare ancora, avrei ragione, ma dopo una vita dedicata allo sport, come mi posso abbassare sul piano della camarilla? Non sarebbe da me"». Sullo stesso numero, a pagina 25, questo giudizio: «Sono tanto addolorato per la morte di un amico sincero, con il quale ci incontrammo 35 anni fa nella difesa dell'autonomia dello sport, nella realizzazione dei suo autofinanziamento (sottraendo il Totocalcio ad interessi privati) e nella rigorosa salvaguardia del CONI e delle Federazioni da ogni intromissione politica. In questo spirito fui lieto di affiancarmi a lui nella preparazione della Olimpiade di Cortina del 1956 e di quella di Roma del 1960 e nella realizzazione della splendida idea dei giochi della Gioventù. Anche in campo internazionale Onesti si era conquistato un alto prestigio. È un grave lutto per il nostro Paese». Chi parla è Giulio Andreotti.
Il quotidiano "Il Giorno" (24.3.1982), sotto il titolo: «La generazione dei figli accusa di avere mentito sul fascismo: a loro gli anni '30 appaiono una stagione di grande splendore. Perché ci avete ingannati?», pubblica un articolo di Massimo Fini, giornalista fra i più noti dell'area socialista, e la risposta dei direttore del giornale Guglielmo Zucconi. Alle parole di Massimo Fini («La mostra di Milano ha rivelato che al tempo di Mussolini c'era una straordinaria vitalità culturale e artistica, un grande fermento. Erano avanzatissimi letteratura e pittura, architettura ed edilizia sociale, persino discipline ultramoderne come la grafica e il design, anche in economia l'Italia marciava all’avanguardia»), il direttore Zucconi, imbarazzatissimo, scrive: «Potrei osservare a Massimo Fini che la buona gestione dell'IRI durante il fascismo fu possibile anche grazie ad un potere che ne accollò i costi ai lavoratori e dimostrargli, con documenti di fonte fascista, che dal '26 al '34 i salari reali degli operai, contrariamente a quanto accadeva nel resto del mondo, furono decurtati del 50 per cento, mentre il costo della vita, secondo statistiche più ottimistiche, diminuì del 25 per cento». Sì, solo che Guglielmo Zucconi dimentica un piccolo-grande particolare. E cioè che quelli furono gli anni della grande depressione americana che, con il crollo di Wall Street, ebbero drammatiche e paurose conseguenze in tutto il mondo. Ebbene l'Italia fu la Nazione che, da quella drammatica stretta mondiale, uscì meglio di tutte le altre, compresa la grande America che poteva riprendersi dal generale collasso solo con la seconda guerra mondiale. Consigliamo Zucconi di cercare, meditandoci poi su, il libro di Ernst John Steinbeck, premio Nobel nel 1962 per la letteratura, dal titolo "Furore", libro che potemmo leggere nel 1939. Vi troverà una cruda descrizione delle condizioni in cui vennero a trovarsi gli americani in quegli anni. Milioni di disoccupati, fame, degradazione sociale, criminalità. La cinematografia ha lasciato di quel periodo americano testimonianze inequivocabili. Ebbene l'Italia fascista superò quella crisi in condizioni nettamente migliori, tanto da gettare le premesse di quella ripresa sulla quale si sofferma, con parole ammirate, lo storico De Felice nel suo ultimo volume: "Mussolini, il duce" (pagg. 168-206).
* * * «Un antifascista chiamato Zabaione mi fece avere, con mille sotterfugi, dei libri fra i quali Bakunin, Sorel, il Capitale nel riassunto di Cafiero, qualche ingiallito numero dell'Avanti!. Lessi tutto avidamente ma capii ben poco ...». È sempre Zucconi che scrive, ed è sempre uno Zucconi che continua a... fingere di capire poco. Sicché il direttore de "Il Giorno" ci vorrebbe raccontare che negli anni mussoliniani, gli anni del diavolo, certi libri, cosiddetti proibiti, non circolassero. Allora veniamo alle precisazioni, le più puntuali possibili. Basta qualche esempio. Anno 1934, dodicesimo dell'Era fascista, la Casa Editrice Sansoni di Firenze stampa il libro dal titolo "Bolscevismo e Capitalismo". Ci sono raccolti i testi integrati, ripeto integrati, dei discorsi di Stalin (Rendiconto al XVII Congresso del Partito); di Molotov (il 2° Piano quinquennale); di Grienko (il Piano dell'Economia dell'URSS per l'anno 1934). E sa Zucconi a cura di chi veniva stampato "Bolscevismo e Capitalismo"? A cura della Scuola di Scienze Corporative, il "Collegio Mussolini" di Pisa, la Scuola per eccellenza fascista. Zucconi dovrebbe anche sapere che le biblioteche italiane conservano ancora agili volumi in ottavo dal titolo "I classici del liberalismo e del socialismo", sempre editi dalla Sansoni, a cura di Giuseppe Bottai, Ugo Spirito e Arnaldo Volpicelli. L'Archivio di studi corporativi, edíto dalla Scuola di perfezionamento nelle discipline corporative dell'Università di Pisa, recensiva, tanto per citare altri esempi, tutto ciò che l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano produceva, e non mancavano a tale proposito, i libri di Amintore Fanfani. Come del resto la Casa Editrice Einaudi distribuiva i saggi di economia di Luigi Einaudi; la Bocca di Milano "La storia del comunismo" dell'antifascista Perticone; Laterza di Bari tutto Benedetto Croce, compreso "Considerazioni sulla violenza" del Sorel. Non c'era alcun bisogno di leggere di soppiatto. Tutto era alla luce del sole, al punto, come abbiamo scritto, che era lo stesso "Collegio Mussolini", la scuola prestigiosa di Pisa, a mettere nelle mani dei giovani intellettuali i discorsi di Giuseppe Stalin.
* * * «E invece il fascismo conterebbe oggi su assai meno nostalgici se fosse stato raccontato e rilevato senza falsi pudori e come fu davvero: una lunga stagione di umiliazione culturale e morale». È l'ultima stoccata di Guglielmo Zucconi, ma è una stoccata che va a vuoto. Infatti Zucconi ci dovrebbe spiegare come si fa a scrivere queste cose di un sistema, quello fascista, che aveva Rocco alla Legislazione, De Stefani alle Finanze, Beneduce all'IRI, Gentile all'Istruzione, D'Amelio alla Cassazione, Santi Romano al Consiglio di Stato, Serpieri all'Agricoltura; che, nella pittura, poteva annoverare Sironi; nella scultura Arturo Martini, nelle lettere Pirandello, Papini, Soffici; nella musica Mascagni e che realizzava l'Enciclopedia Treccani chiamandovi a collaborare antifascisti come Ugo La Malfa.
* * * * Postilla. Come rilevava un lettore de "Il Giornale Nuovo" (3.4.1982), la "Mostra Anni '30" tace sulla legislazione del lavoro che vide la luce in quel periodo. Quel lettore ha ragione. Infatti negli anni '30, sulla scia della Carta del Lavoro, vennero realizzate normative legislative come: 1) - la legge sulla tutela del lavoro minorile e femminile; 2) - la disciplina della domanda e dell'offerta del lavoro negli uffici di collocamento; 3) - il libretto di lavoro; 4) - la tutela della maternità delle lavoratrici; 5) - la disciplina dell'orario di lavoro nell'interesse del lavoratore; 6) - il diritto ai riposi e alle ferie; 7) - il riconoscimento del diritto alla indennità di anzianità; 8) - la disciplina delle condizioni igieniche del lavoro nell'azienda; 9) - la tutela del lavoro domestico e dei lavoro a domicilio; 10) - la tutela dell'apprendistato; 11) - la disciplina dei cottimi; 12) - il principio del giusto salario; 13) - la garanzia data al lavoratore nel trapasso d'azienda; 14) - la tutela del lavoratore in caso di malattia; 15) - tutto il complesso legislativo sulle assicurazioni e l'assistenza; 16) - gli assegni familiari; 17) - l'imponibile di manodopera nei contratti collettivi in agricoltura; 18) - la disciplina dei rapporti di compartecipazione agricola stabilita nel Libro del lavoro del Codice Civile vigente insieme alla minuta disciplina del rapporto autonomo e subordinato, in luogo dei tre articoli del Codice del '65. E scusate se è poco.
Andreatta è di moda. Mi sono informato presso il Senato per sapere che fine ha fatto l'autorizzazione a procedere che, contro il ministro del Tesoro, presentò il 4 ottobre 1979 il procuratore della Repubblica del Tribunale di Rorna, per peculato continuato aggravato. «Per avere deliberato, nella qualità di componente del Comitato Esecutivo dell'IMI, a favore della SIR di Nino Rovelli, prefinanziamenti a tasso agevolato e a tasso ordinario per circa mille miliardi di lire». Ebbene, la Commissione delle autorizzazioni a procedere del Senato si è riunita per esaminare il «caso Andreatta» il 27 novembre 1979, il 24 gennaio 1980, il 29 gennaio 1980, il 31 gennaio 1980, l’1 febbraio 1981, il 9 aprile 1981, il 20 maggio 1981, il 16 luglio 1981, il 22 luglio 1981, il 4 novembre 1981; cioè ben dieci volte. Per fare che? Nulla. Puntualmente si rinvia. Per nuovi accertamenti. Da tenere presente: il peculato continuato aggravato comporterebbe, per il cittadino qualunque, l'arresto obbligatorio.
* * * Fra le carte, questo appunto. Sono parole di Francesco De Martino, allora segretario nazionale dei PSI. Roma: 40° congresso nazionale del PSI. State bene a sentire: «Gli amministratori del partito che assicurarono i finanziamenti fecero quel che era imposto dalle necessità di far sopravvivere il partito, i suoi giornali, le sue possibilità di aiuto verso i compagni dei vari paesi che lottavano contro il fascismo. I mezzi erano riprovevoli, ma il fine era nobile. Essi non possono venir censurati, ed è stato giusto che i commissari socialisti della Commissione Inquirente assumessero la posizione che hanno assunto». ("l’Avanti!", 3.3.1976) La filosofia di queste parole è chiara: se si ruba dietro il paravento di Sua Maestà il Partito, anche se i mezzi sono «riprovevoli», il fine resta nobile, cioè si ricevono le medaglie, magari al valor partitocratico. È la filosofia che salva, da una parte Andreatta e dall'altra il PSI. Su questo terreno DC e PSI vanno d'accordo. Perfettamente.
* * * Alcuni giudizi su Leo Valiani. Questo è dei radicale-comunista onorevole Marco Boato: «Ebbene, dico ancora una volta, ed è la terza volta che lo ripeto in questa aula, che se Valiani non fosse membro del Senato e fosse solo l'editorialista del "Corriere della Sera", chiederei una perizia psichiatrica per questo uomo». (Camera dei Deputati, 4.2.1981) «Un uomo che vuole troncare il terrorismo nelle carceri togliendo la carta, la matita e la penna ai detenuti, un uomo che dice che è scandalosamente breve la carcerazione preventiva, che il fermo di polizia non servirà tanto a prevenire i reati quanto, testuale, a schedare i sospetti. E voi, ministro Rognoni, compagno Perna, compagno Scamarcio, avete tessuto grandi elogi al senatore Valiani!». (Marco Boato, idem) «Perché? Perché è stato in galera sotto il fascismo? Questa è una aggravante; un uomo che ha un passato glorioso che si riduce a dire queste cose non ha in ciò un'attenuante, ma un'aggravante». (Marco Boato, ibidem) «Un uomo che siede in Senato, non eletto dal Popolo, ma nominato dal Presidente della Repubblica senatore a vita, ha particolari obblighi, quanto meno di equilibrio e di responsabilità, sapendo che, non essendo stato eletto dai cittadini italiani e per questo non rispondendo agli elettori, rischia di coinvolgere, indirettamente, lo stesso Presidente della Repubblica nelle sue affermazioni». (Marco Boato, ibidem)
* * * «Cos'altro potrebbe dire Valiani che si mette a fare l'editorialista della P2 e il portabandiera di una politica forcaiola e crispina? Non dimentichiamo che Leo Valiani nella sua vita è passato per otto partiti: dapprima dannunziano, poi stalinista, poi socialista, quindi di Giustizia e Libertà e del Partito d'azione, nel '48 candidato del Fronte popolare, poi filo-titoista, poi radicale e infine repubblicano». (Marco Pannella, "Pagina", 1.3.1982, pagina 5)
* * * «Due giorni di appassionato dibattito», scrive "l'Unità" (3.4.1982), «nella sala del consiglio comunale gremita, sulla «prospettiva del comunismo»: questo l'atto di nascita, a Pisa, del Circolo culturale Giorgio Amendola. «Le conclusioni del dibattito, molto attese e di grande respiro», prosegue "l’Unità", «sono state tratte da Nicola Badaloni». Chi è Nicola Badaloni? Preside della Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Pisa, ordinario di filosofia, ordine del Cherubino, diploma di prima classe di benemerito della Scuola, della cultura e dell'arte, già sindaco di Livorno, è presidente dell'Istituto Antonio Gramsci del PCI. 27 aprile 1982: sono passati 45 anni dalla morte di Antonio Gramsci, avvenuta a Roma nella clinica della Quisisana il 27.4.1937. Il PCI -anche nella vicenda Gramsci- è davvero diverso. Infatti ha voluto alla sua presidenza il prof. Nicola Badaloni che il 27 marzo 1944, come attesta il foglio matricolare del Distretto di Pisa (n° 10500), giurò fedeltà alle istituzioni della Repubblica Sociale Italiana. Non basta. Nicola Badaloni, aveva già avuto modo di esternare i propri sentimenti e convincimenti. Infatti su "Sentinella Fascista", organo della Federazione fascista di Livorno, il 1° marzo 1942 scriveva: «Concezione del tutto diversa regna nella Russia bolscevica. Vogliamo prescindere dallo stato di ignoranza e di semi-barbarie in cui si trova questa immensa tribù. Allo Stato sovietico i cittadini sottostanno senza possibilità di attuare la loro autonoma volontà. La Rivoluzione Fascista è rivoluzione che si attua nel suo seno stesso senza bisogno di rivolgimenti e dissanguamenti interni, senza bisogno di parlamentarismi sciocchi e vaghi. Questa è la concezione dello Stato che si attuerà nella nuova Europa». Si potrà rilevare che, per quanto riguarda la Russia sovietica, Nicola Badaloni, con i suoi giudizi davvero pesantucci, anticipa di quaranta anni l'anatema di Enrico Berlinguer nei riguardi della rivoluzione d'ottobre. Ma con i giudizi sul fascismo come la mettiamo? Nessuna preoccupazione: vedrete che il PCI affiderà a Nicola Badaloni il compito di commemorare, a 45 anni dalla sua morte, Antonio Gramsci. Non si tratta di cinismo. È che il PCI è ... diverso.
Mentre scrivo mi giunge la notizia dell'assassinio di Pio La Torre, segretario regionale siciliano del PCI, deputato, relatore di minoranza nella Commissione Antimafia. Ho, stesi davanti a me, i giornali. Li leggo con avidità, perché, per anni, con La Torre ci siamo fronteggiati in Commissione Antimafia. E se con l'onorevole magistrato Terranova, anche lui assassinato dalla mafia e anche lui eletto nelle liste del PCI, il lavoro in comune nella Commissione ci portò a ritrovarci amici, con La Torre, per la spigolosità del suo (e mio) carattere, ciò non fu possibile. Avversario duro dunque, a cui devo ora rendere, umanamente e civilmente, omaggio. Posso dire altrettanto per il politico Pio La Torre? È vero: il comunismo di Pio La Torre era fatto di disciplina, tanto da avere del suo partito una considerazione quasi sacrale. Al punto che il partito poteva chiedergli qualunque cosa, e lui avrebbe obbedito. Come accadde fra il 1975 e il 1976 quando, per un accordo di vertice fra Aldo Moro, allora presidente del Consiglio, e Enrico Berlinguer, il PCI decise di presentare alla chiusura dei lavori della Commissione Antimafia, una relazione «all'acqua di rose» e che, soprattutto, accontentava la DC. Ebbene Pio La Torre non fiatò. Disciplinatamente accettò, con quella relazione, di privilegiare quella DC della mediazione; quella DC dai mille volti sempre cangianti a seconda delle situazioni; quella DC corruttrice che, più di ogni altra cosa, ha reso questo Paese un ventre molle, disfatto, senza più bandiere, né tradizioni; al punto che «episodi», come quello in cui La Torre ha trovato la morte, sono divenuti quotidiani. I drammi di sangue e di dolore non piovono dal cielo improvvisi. Sono stati lungamente preparati. E il PCI non può certo vantare, nella sua inesistente diversità, di essersi opposto a che accadessero. Anzi. Il fatto stesso che il PCI -grande organismo di massa- possa essere così impunemente colpito, è la dimostrazione che non ha voluto, né potuto essere diverso. Perché da forza di riscatto nazionale e popolare, ha preferito «mediare» i suoi rapporti con la DC, e ne è travolto e ne è colpito. Si è reso fragile. Pio La Torre muore anche di questo. È triste. Mafia, camorra, n'drangheta colpiscono. Impunemente. Perché per «mediare», per il potere, per le cose, si sono assassinate tutte le Fedi. E l'Italia è divenuta barbara.
* * * Grida di «mafioso», «assassino», «buffone» all'indirizzo di Mario D'Acquisto, presidente della Giunta regionale siciliana, ai funerali di Pio La Torre. Fischi per Salvatore Lauricella, socialista, presidente dell'Assemblea. Quelle «proteste» sono sacrosante. Infatti né Lauricella, né tantomeno D'Acquisto avrebbero dovuto salire sul "Palco della musica" di Piazza Politeama a Palermo. Mario D'Acquisto soprattutto per una ragione di buon gusto. Infatti, in una delle poche pagine vive della relazione di minoranza del PCI, redatta da La Torre, si parla di lui, di Mario D'Acquisto, e non in termini gentili. Poche righe sono sufficienti. Eccole: «... come semplice coincidenza può essere il fatto che l'onorevole D'Acquisto, alla vigilia della campagna elettorale, sia stato testimone di nozze del figlio del mafioso Beppe Marsala, attualmente in galera, e che il genero di Beppe Marsala sia stato assunto all'Azienda Acquedotti, quando Mario D'Acquisto ne era ancora il Presidente». (pagina 856, Commissione Antimafia, Doc. XXIII n. 2, 4.2.1976) E come può oggi il presidente della Giunta regionale siciliana, Mario D'Acquisto, salire sul palco e commemorare colui che, da vivo, lo accusò di essere amico dei mafiosi?
* * * Ventotto aprile 1982: dai giornali, «Fucilato per corruzione un Viceministro in URSS. Commerciava caviale clandestino». L'esempio che l'Italia forse aspetta. Anche per debellare la mafia.
Gli squadristi della droga. È il titolo sotto il quale il quotidiano «petrolifero» "Globo", in cui anche i becchi di Stato sono ampiamente rappresentati, dopo essersi detto stupito e sorpreso che si lasci solo al MSI-DN la lotta alla droga «anche arrivando alla giustizia sommaria per gli spacciatori», scrive: «La giustizia fascista non può limitare il fenomeno della droga. In Italia sono stati i fascisti ad introdurre la droga. Fascisti sono gli interessi internazionali del mondo della droga e a fini eversivi è stato favorito il fondersi della malavita comune dello spaccio della droga, del traffico di armi e del terrorismo nero». Michele Tito, direttore dei foglio in questione, non se ne dorrà se gli diamo alcune precisazioni al riguardo, per le balordaggini che scrive. Anche perché è davvero stupefacente che, personaggi come Tito, ignorino di essere stati «liberati» dal fascismo con la attiva collaborazione di quell'organizzazione mafiosa che, ancor prima delle operazioni belliche, conduceva in Sicilia opera «eversiva» a favore degli alleati. A cominciare da quel Lucky Luciano (Salvatore Lucania) che, condannato all'ergastolo negli USA, venne messo in libertà, alla condizione che restituisse la ...libertà anche a Michele Tito.
* * * Il senatore Zuccalà, compagno di partito (PSI) di Tito, relatore nella Commissione Antimafia sul «traffico mafioso di tabacchi e stupefacenti, nonché sui rapporti fra mafia e gangsterismo italo-americano», scrive: «Alla fine della guerra gli sfruttatori ricominciarono a trafficare nel settore della droga perché ritenuto il più remunerativo delle imprese criminose. Ciò avvenne più vantaggiosamente che altrove in Italia, dove la mafia, sotto la guida di Lucky Luciano, trasse ottimi vantaggi dalle condizioni del dopoguerra». (Doc. XXIII n. 2 del 4.2.1976 - VI legislatura, pagina 331) Lucky Luciano: un eroe (antemarcia) della resistenza in Sicilia, è colui che rimette in piedi il traffico della droga in Italia. Non è la «resistenza» che libera il Paese, è la mafia che si impadronisce del Paese, fin dal 10.7.1943. Ed è con quello «sbarco» che la mafia si insignorisce dell'Italia. Dal Brennero alla Sicilia.
* * * «A chi si riferiva il segretario del PCI Enrico Berlinguer quando parlava dei legami tra gli spacciatori di droga e ambienti della vita pubblica italiana?». «Sono uomini della DC» «Quali? Dove?». «C'è un mercato siciliano che rifornisce gli USA e una direttrice via Verona che raggiunge l'Europa centrale: lì vanno cercati». «I nomi?». «Ruffini, ad esempio». (Giovanni Berlinguer, "la Repubblica", 26.9.1981).
* * * «Ma è possibile», ha chiesto il Presidente del Tribunale di Genova Lino Monteverde, «otto milioni al mese di droga e ancora regali?». La Baldasso è stata categorica: «Lo ripeto, mi dava i soldi, io compravo la droga e "bucavamo" insieme». ("la Repubblica", 6.1.1982) Di chi si tratta? Dell'onorevole Canepa Antonio Enrico, capolista del PSI (per volere di Pertini) nella circoscrizione di Genova, amico di Tito ai tempi della sua direzione del "Secolo XIX'. Il Canepa, protetto di Pertini, fa forse parte degli «interessi internazionali fascisti del mondo della droga»? Perché non prova a rispondere il nostro Michele Tito?
* * * «Quando fu ucciso nelle tasche di Giuseppe Di Cristina furono trovati assegni per tre miliardi, provenienti dal traffico della droga». (sen. Emanuele Macaluso, "L'Espresso", 1.6.1980). Di Cristina Giuseppe, il capo mafia della zona di Riesi, assunto da Aristide Gunnella, alla vigilia delle elezioni del 1968, alla "Sochimisi", di cui Gunnella era amministratore delegato. Si vadano a vedere i voti che il PRI riceveva nella zona mineraria di Riesi, prima che Gunnella assumesse il Di Cristina e dopo l'assunzione, cioè nelle elezioni politiche del 1968 quando Gunnella diventò, per la prima volta deputato. I probiviri del PRI lo avevano espulso dal PRI nel 1975, ma Ugo La Malfa difese Gunnella e ricoprì di ingiurie i probiviri. Così si diventa deputati e sottosegretari di Stato. Magari con l'aiuto dei boss della droga, pluriomicidi. Tito può incassare anche questa.
* * * Noi, nella polemica, abbiamo citato nomi, cognomi e indirizzo. E non di poveri derelitti, di rottami alla deriva, di teppisti, sui quali è davvero da mascalzoni appiccicare una etichetta politica per arrivare alla conclusione «che tutto è nero». Perché Tito non tenta di fare altrettanto, passando dalle affermazioni generiche, a precise puntualizzazioni? Ci vogliono, lo ripetiamo, nomi, cognomi, indirizzo e qualifiche. Altrimenti la qualifica di diffamatore non gliela leva nessuno.
«De Mita, filosofo a Roma per le sue teorizzazioni politiche, in sede di convegni, e "boss" camorrista ad Avellino per il suo modo di esercitare il potere attraverso le clientele, è incorso anche lui nei guai. Naturalmente i soliti guai dei capi-bastone democristiani: quattrini, intrallazzí, sospetta corruzione. Però lui, diversamente da Bisaglia, non ha avuto l'improntitudine di negare i fatti, ossia di aver ricevuto dall'ex-Presidente dell'INA Mario Dosi i famosi assegni di venti milioni (10 più 10), ma ha precisato che si trattava di un prestito personale, tra l’altro restituito. Dosi è morto, e quindi da questa parte non sapremo nulla di preciso. Però che un ministro dell'industria (al tempo degli assegni De Mita ricopriva questo posto) si faccia prestare soldi dal presidente dell'INA, che per ragioni di carica dipende da lui, è per lo meno strano, o per dirla francamente, molto democristiano. A che scuola di filosofi appartiene De Mita? Evidentemente a quella cinica (intesa la definizione in senso moderno). A Napoli e dintorni, tuttavia dove regna il vice segretario della DC, un prestito simile lo chiamano semplicemente "la mazzetta"».
* * * Le parole (e le considerazioni) su riportate non sono roba nostra. Provengono da "Successo" (febbraio 1981, "Cronache dal sistema dei potenti" di Gianni Baldi, pagina 19), un ricco mensile, dalle pagine patinate e con colori molto vistosi, impegnato soprattutto in problemi di economia. Attualmente è diretto dall'onorevole Francesco Forte, ordinario di Scienza delle Finanze all'Università di Torino, già presidente della Commissione Industria della Camera dei Deputati, ora responsabile di partito del settore affari economici. Francesco Forte è socialista craxiano. L'onorevole Ciriaco De Mita non si è difeso, né doluto dei giudizi. Si vede che, nel febbraio 1981, essere definito «camorrista» non lo turbava.
* * * Durante il rapimento, tra i brigatisti che lo tenevano prigioniero e Cirillo, si è svolto questo dialogo: «De Mita fa cose mille volte più sporche di Gava in maniera più pulita». Risponde Cirillo: «È proprio così, se potessi ti stringerei la mano». ("L’Espresso", 13 aprile 1982, n. 15)
* * * «La differenza fra Gava e De Mita? Gava si è circondato di una massa di fessi, e così il bersaglio è solo lui; tutti danno addosso a lui. De Mita è più intelligente, usa metodi soffici, manageriali, attorno a sé ha gente in gamba che depista le responsabilità. Sento un dirigente socialista, il professor Giovanni Acocella: la brutalità di De Mita è la stessa di Gava, solo che è coperta da discorsi innovatori. Il professor Italo Freda, capogruppo comunista in consiglio comunale ci rifila Gramsci, ma in realtà ha razionalizzato e recuperato, in termini moderni, le vecchie piaghe della politica del Sud: le clientele e il trasformismo». (Giampaolo Pansa, "Corriere della Sera", 31 ottobre 1973)
* * * «Io sono riuscito a creare un equilibrio diverso, dove la gestione del potere politico non si identificasse con la gestione del potere economico, e dove la gestione complessiva del potere non si identificasse con la volontà di una persona. Cioè mi sono sforzato di creare intorno ad un disegno di politica nuova l'unità di una classe dirigente diversa. E questo disegno oggi in parte si è realizzato, in quanto abbiamo tolto l'egemonia a Gava. La Democrazia cristiana in Campania oggi non è Gava: Gava è minoranza». (Ciriaco De Mita, "L'Europeo", 7 febbraio 1974) E Gava? Ciriaco De Mita: «Io penso che una sola persona non possa mai essere responsabile complessivamente. Gava è intelligente e ha puntato a Napoli su un metodo che gli ha dato consenso, a lui e al partito, in tempi brevi, recuperando un proletariato, un ceto medio e una borghesia condizionati dall'ambiente fascista». (Ciriaco De Mita, "L'Espresso", 13 aprile 1982, n. 15)
* * * «Napoli, 19 settembre 1975. Una giornata tesa, drammatica, estenuante; alla Procura di Napoli si vivono le ultime battute di un dramma che ha sullo sfondo, con il marchio di una implacabile accusa, la morte di sedici bambini, il lutto di sedici famiglie. I protagonisti sono a confronto: Carmine Malzoni, Amedeo Guarino, Giuseppe Carpinella. Le loro versioni si contraddicono, tutti e tre cercano di scaricare l'uno sull'altro la responsabilità di quanto è accaduto e di quanto non hanno fatto per prevenire il peggio .... Ma anche Michele Guarino, anche Malzoni sono democristiani, ribatte un collega. Fu promosso medico provinciale senza concorso. È stato un regalo di De Mita, commenta il dott. Costanza, consigliere regionale del PSDI». ("La Nazione", 20 settembre 1975)
* * * «I partiti di opposizione hanno chiesto anche la testa del medico provinciale Giuseppe Carpinella, che da medico condotto di Torella dei Lombardi è diventato prima medico condotto di Avellino e subito dopo ha avuto la reggenza dell'ufficio del medico provinciale. Una carriera rapidissima che tutti attribuiscono alla protezione di Ciriaco De Mita, di cui l'Irpinia è feudo inespugnabile. Il medico provinciale Carpinella ha pagato il suo debito di gratitudine facendo della provincia di Avellino la prima in Italia in fatto di invalidi civili. Una delle prime ad avere il certificato di invalidità è stata la moglie ventottenne, e apparentemente sanissima, del segretario della DC. Col documento, l'impiego pubblico è subito arrivato» ("Oggi", "I giochi mortali dei padrini della salute", 29.9.1975)
* * * In data 2 giugno 1981 è stata indirizzata al direttore de "L'Espresso", e per conoscenza al Presidente della Repubblica, al Presidente della Camera, al Presidente del Senato, ai Presidenti dei Gruppi parlamentari, all'onorevole Flaminio Piccoli, alla Procura della Repubblica di Roma, Napoli e Avellino, una lettera. Eccone alcuni brani: «Siamo un gruppo di Irpini che, pur capendo l'odiosità dell'anonimato, non possono firmarsi, come vorrebbero, per ovvi motivi di difesa contro la mafia locale, ma che non possono neppure tollerare che cada il silenzio sul caso De Mita. Le ipotesi di corruzione e di malcostume attribuibili all'onorevole De Mita sarebbero una infinità, ma ci si limita ad alcuni episodi soltanto per i quali esiste prova documentale: la moglie di De Mita ha vinto in modo strano un concorso per maestra elementare, non ha mai insegnato e dopo pochi anni ha ottenuto una pensione privilegiata per una malattia inesistente. L'onorevole De Mita, pur essendo figlio di un sarto poverissimo, ha acquistato, in pochi anni, stando al solo catasto, un appartamento ad Avellino, due alloggi a Roma, una villa al mare e un «villone» a Nusco. L'onorevole De Mita ha sempre preso soldi, per milioni all'anno, dall'ENI (di cui divenne dipendente nel 1954 per volontà del petroliere Enrico Mattei - N.d.R.), anche quando era Ministro (illecito penale), come risulta dai bilanci dell'ENI, dagli atti della Guardia di Finanza e dallo stesso Ufficio delle Imposte di Avellino. Uno dei fratelli dell'onorevole De Mita, in società con uno dei fratelli dell'on. Gargani ha ottenuto cospicui compensi dall'Amministrazione provinciale di Avellino e da altri Enti per lavori edili mai eseguiti. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma è quanto basta per avviare una indagine che consenta, sul serio, e non a parole, di moralizzare l'ambiente politico». L'indagine non c'è stata. Ciriaco De Mita è stato eletto segretario nazionale della DC. Anche con il voto di Gava.
Non è male, dopo il dibattito televisivo fra Almirante e Pannella, dedicare un pensierino ai radicali, domandandosi, soprattutto, se le aspettative che suscitarono qualche anno fa nella pubblica opinione, siano state rispettate e realizzate. Ahimé, a parere dello scrivente, i radicali, in questi giorni di maggio 1982, presentano un bilancio nettamente negativo, tanto da avere assunto, proprio loro, che si presentarono con una immagine anti-partito, i caratteri tipici della partitocrazia più esasperata. Innanzi tutto la loro tanto decantata «indipendenza» da condizionamenti di ogni sorta. È così? Pannella accusa, e lo ha fatto anche nel dibattito televisivo con Almirante, sia il PCI, sia il MSI-DN di essere opposizioni di comodo della maggioranza. Il leader radicale va più in là. Infatti, in relazione alla vicenda della discussione sul Bilancio dello Stato, afferma che ci troviamo, di fatto, davanti ad una «nuova ferrea unità nazionale, da Almirante a Berlinguer».
* * * Parole. Restano i fatti. Ne cito uno solo per dimostrare che se c'è stato, nel Parlamento, un gruppo politico che ha reso alla maggioranza di regime il regalo più bello, questo è stato il gruppo radicale. Infatti, grazie al comportamento tenuto, che ha portato lo stesso gruppo radicale a contrasti interni al limite della scissione, la maggioranza di governo ha potuto mettere tranquillamente mano alla modifica dei Regolamenti parlamentari, tali da rendere praticamente impossibile alla opposizione qualsiasi volontà di ricorrere, per difendere sacrosante istanze del popolo, all'ostruzionismo. Sono errori questi di portata storica, ed appunto per questo non possono essere addebitati al temperamento dei singoli parlamentari, o ad appannamenti collettivi della visione politica. Quando si scende sul terreno della contesa politica con la mentalità: «muoia Sansone e tutti i filistei», senza calcolarne le conseguenze così come hanno fatto i radicali, una delle due: o si è psicologicamente drogati, cioè fuori di sé, o scientemente si vuole rompere il giocattolo perché, a sua volta, la maggioranza lo riaggiusti a sua immagine e somiglianza. E così è avvenuto. Il popolo, specie quello minuto, non deve nulla ai radicali. Il popolo, grazie ai radicali, ha oggi, in Parlamento, meno difese di ieri contro le angherie della maggioranza. Perché, e a vantaggio di chi, lo hanno fatto i radicali? Ho parlato di rotture insanabili all'interno del gruppo parlamentare radicale. Siamo allo spappolamento. Infatti i mesi di marzo e aprile 1982 sono stati caratterizzati da violenti scontri fra Pannella e parlamentari radicali. Al limite dell'insulto, al punto che si è ricorsi alla carta bollata per querele. A dare fuoco alle polveri è stato un articolo ("il Manifesto", 2.3.1982) del deputato radicale Massimo Teodori che, prendendo lo spunto da un incontro-dibattito al "Circolo socialista Mondoperaio" di Roma sul tema "Un progetto per l'area socialista", con la partecipazione di sei deputati radicali (Ajello, Boato, De Cataldo, Pinto, Roccella e Sciascia), accusa Craxi di «servirsi di alcuni utili idioti eletti nelle liste radicali per provocare una scissione all'interno dello stesso Partito Radicale». «Un tempo il PCI -scrive Teodori- era solito usare i compagni di strada spesso nel ruolo di utili idioti perché di tutto si preoccupavano meno che della consistenza politica delle convergenze. Il craxismo sembra voler usare metodi analoghi. Non è davvero una operazione edificante e suscettibile di sviluppi per un proficuo e necessario dialogo politico quella di andare a pescare fra i parlamentari radicali un paio di revenant PSI, due deputati di Lotta Continua che hanno scelto di mai integrarsi nella prospettiva radicale, un prestigioso scrittore come Sciascia a cui deve moltissimo il pensiero civile del nostro Paese ma che oggi è troppo ossessionato dal cosacco sotto il letto, e tutti quei radicali che hanno invocato il garantismo a proposito della P2 come il cavolo a merenda». L'onorevole Marco Boato, chiamato in causa da Teodori come uno dei due deputati di "Lotta Continua" adescati da Craxi, replica ("il Manifesto", 3.3.1982). E dopo avere definito Teodori «degenerato mentale» lo qualifica stalinista, meschino e astioso «come una zitella che non ha trovato un cavaliere per il ballo di gala». Walter Vecellio, sempre su "il Manifesto" (3.3.1982) non è da meno. Rivolto a Teodori scrive: «Voltaire nel suo Dizionario filosofico osserva che la più grande disgrazia, non è tanto essere oggetto di invidia da parte di colleghi, vittime degli intrighi, o essere disprezzati dai potenti, quanto l'essere giudicati dagli imbecilli. Quando poi l'imbecillità si somma con il fanatismo e lo spirito di vendetta, la miscela è letale, micidiale. Tutto ciò mi torna alla mente», termina Walter Vecellio, «leggendo i giudizi espressi da Teodori». Martedì, 30.3.1982: conferenza stampa RAI-TV di Marco Pannella. Ne viene fuori un giudizio drastico e definitivo contro Mimmo Pinto, deputato radicale: «Non sarà ripresentato alle prossime elezioni nelle liste del Partito radicale». Fuori uno. Replica di Marco Boato: «È un episodio di malcostume politico!». Marco Pannella: «Anche Marco Boato non sarà da me ripresentato nelle liste radicali!» Fuori due. E questo giudizio: «Vissuto, per atmosfera e cultura in un micro-universo clerico-comunista, intollerante e violento, Boato non perde il vizio dell'anatema, della scomunica, della riprovazione morale, dell'intolleranza». «Come spiega la durezza di Pannella verso lei e verso Pinto?». «È l’atteggiamento di chi, non riuscendo più ad avere un ruolo innovativo, ritiene di dovere assumere la posizione di chi deve difendersi da tutto e da tutti. Le dirò che mi preoccupa molto che un leader, come è senza dubbio Pannella, si abbassi a un livello di questo genere. È un episodio di malcostume politico». (Marco Boato, "la Repubblica", 2.4.1982) «Marco Boato, oggi come ieri, resta nell'operare politico intollerante, fazioso, violento. Non è la prima volta che mi riversa addosso valanghe di ingiurie, falsità, menzogne. Egli è uso ad ergersi a giudice delle altrui coerenze e moralità, a distribuire, lui, scomuniche e anatemi. Mai come per lui la tendenza a trasferire nel demone dell'altro le proprie vicende e storie interiori e di tentare così di esorcizzarle, diventa regola. Oggi come ieri egli si situa così, culturalmente, civilmente, politicamente nel complesso, tormentato e pericoloso mondo della violenza. Oggi come ieri io sono per questo in un mondo opposto. Per questo querelerò Marco Boato per diffamazione». (Marco Pannella, "Lotta Continua", 3.4.1982). «Nelle dichiarazioni e nei metodi di Marco Pannella traspare una sorta di terribile cupio dissolvi, una volontà di autodistruzione e autodisgregazione che è assolutamente impressionante, anche perché rischia di travolgere irresponsabilmente con sé anche tutti i valori positivi dell'esperienza radicale. Debolezza politica, fragilità culturale". (Marco Boato, "Lotta Continua", 3.4.1982) «La decisione di Pannella di querelare Boato è incredibile. Quando si ricorre all'insulto e alla minaccia, contraddicendo le regole che fanno migliore la propria convivenza, si dà segno di smarrimento e di debolezza». (on. Aldo Ajello, radicale, "Lotta Continua", 4.4.1982) «Ajello sembra con qualche garbo evocare da parte mia minacce e insulti. Egli sa perché non dice il vero: io non ancora. Ormai non resta che lasciare parlare il futuro: vedremo se sono io ad essere cambiato, o altri a essere restati uguali a sé stessi». (Marco Pannella, "Il Tempo", 4.4.1982)
* * * Fuori tre, anche per Aldo Ajello? È quello che staremo a vedere. Per il momento, in casa radicale, siamo arrivati agli insulti, agli anatemi, alle querele. Questo è il Partito radicale che pur accese, anni fa, tante speranze. Voleva lottare per la libertà di tutti. E non era, ahimé, capace di garantirla in casa propria. Che melanconia.
Questa volta il bidone a Sandro Pertini (che non se lo meritava) glielo ha tirato Giovanni Spadolini. E dire che Pertini stravede per Spadolini! Anche se l'episodio può apparire marginale, resta utile per dimostrare come il Presidente del Consiglio dei Ministri sia, in effetti, spregiudicatissimo nelle sue manovre di potere. Andreatta, in fondo, nell'accusare Spadolini di andare a caccia di voti, dovunque essi siano, non ha poi tutti i torti. Ecco di che si tratta. Il "Corriere della Sera" (23.4.1982) titola: "Donate a Pertini le opere (16 volumi) di Carlo Cattaneo, edito da Le Monnier" E scrive: «Nella mattina di ieri, giovedì, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini ha ricevuto l'avvocato Mario Boneschi e il dott. Marziano Brignoli, rispettivamente presidente e direttore del comitato italo-svizzero per le pubblicazioni delle opere di Carlo Cattaneo, insieme al prof. Piero Treves dell'Università di Venezia e al dott. Enrico Paoletti, consigliere delegato della Casa Editrice le Monnier di Firenze». L'incontro su descritto è stato preparato meticolosamente da Giovanni Spadolini in persona. Mi chiederete il perché. Presto detto: su "Rosso e Nero" del 12.6.1981, cioè quasi un anno fa, sta scritto: «Giovanni Spadolini, che ieri ha ricevuto l'incarico di formare il nuovo governo, è grande parte dell'Azienda Editoriale Felice Le Monnier di Firenze. Direttore de "La Nuova Antologia", della collana storica, Spadolini è stato, fino ad oggi, della editrice Le Monnier, oltre lo storico più pubblicato e più coccolato (vedi il volume "Spadolini storico", bibliografia degli scritti di storia moderna e contemporanea 1948-1980, mille titoli spadoliniani), anche colui che ne ha curato, insieme ad Enrico Paoletti, le pubbliche relazioni. Si può senz'altro dire che il consigliere delegato della Editrice Le Monnier, Enrico Paolettì, Presidente della Unione Industriali di Firenze, è l'uomo di Giovanni Spadolini, colui che ha curato la notorietà, o meglio l'immagine del neo Presidente del Consiglio». Così su "Rosso e Nero" un anno fa. Si spiega quindi l'attenzione con la quale il Presidente del Consiglio ha preparato la visita, di cui il "Corriere della Sera" ci dà notizia. Ora, nella vicenda, un particolare, non dico di poco conto. Il dott. Enrico Paoletti, consigliere delegato della Editrice Le Monnier, presente al Quirinale, è non solo comparso nelle liste della P2 di Licio Gelli ma, dimettendosi da presidente della Unione Industriali di Firenze, ha ammesso pubblicamente di aver fatto parte della discussa Loggia massonica. Cioè il Paoletti è uno dei pochi -e di questa sincerità gli va dato atto- a dire: «Sì, io c'ero. E Spadolini te lo manda al Quirinale! In quel Quirinale di cui Pertini ha sempre difeso l'immagine, cacciandone i piduisti e impedendo loro di salirne le scale. Ultima nota di colore. Al Presidente del Consiglio qualcuno aveva detto: «Presidente, stiamo attenti. Che si farà mandandoci Paoletti? Non sarà bene avvertire Maccanico? Se il Presidente della Repubblica si accorge dell'intruso, scoppia un ...casino». Al che Spadolini avrebbe replicato: «Ma cosa volete che Pertini ricordi! È passato tanto tempo. Paoletti al Quirinale».
* * * E così è stato. «Gelli era potentissimo, tanto che il Presidente della Repubblica Saragat era stato più volte suo ospite nella sua riserva di caccia. Gelli aveva quasi libero accesso alla Presidenza della Repubblica». (prof. Lino Salvini, già Gran Maestro della massoneria di Palazzo Giustiniani, "Corriere della Sera", 4.3.1982)
* * * L'on. Giuseppe D'Alema del PCI, membro della Commissione Sindona, ha ricevuto una comunicazione giudiziaria dalla Procura della Repubblica di Roma, con la quale viene indiziato di furto aggravato dei documenti, in possesso della Commissione, riguardanti i verbali degli interrogatori che l'avv. Rodolfo Guzzi, ex-legale di Sindona, aveva reso ai magistrati milanesi. Guzzi rivolgeva, in quegli interrogatori, pesantissime accuse a Giulio Andreotti, all'epoca Presidente del Consiglio, per i tentativi di salvare le banche di Sindona. Il fascicolo scomparve misteriosamente il pomeriggio del 14.10.1981 negli Uffici di S. Macuto, dove ha sede la Commissione Sindona. Nei giorni successivi il clamoroso furto giunsero, in busta chiusa, alle redazioni di alcuni giornali le fotocopie di tre cartelle del fascicolo. Ora del furto viene accusato il parlamentare dei PCI, Giuseppe D'Alema. «Si possono fare tre ipotesi del furto», dichiarò subito il Presidente della Commissione Francesco De Martino, «La prima è che qualcuno si proponga di distribuire a mano a mano il documento per scopi scandalistici. E allora il fatto si potrebbe inquadrare in una guerra fra bande. La seconda congettura è quella di far sapere d'essere in possesso del testo per poi venderlo. Ma non ci credo. La terza congettura, personale, è che si voglia esercitare una intimidazione personale nei confronti dell'avvocato Rodolfo Guzzi». Così Francesco De Martino. L'aveva azzeccata: guerra fra bande. L'onorevole Giuseppe D'Alema non si è dimesso da parlamentare. Dimenticavamo: il PCI è ... diverso.
«Nonostante la sofferenza l'ho detto e lo ripeto: sono fiero che mio figlio sia morto per la Patria che amava, per il lavoro che amava. Aveva una missione da compiere e sono certo che l'ha svolta con dovere. Nick aveva due cose nel sangue: lo spirito britannico e la passione per il volo. Aveva preso il brevetto a 17 anni, a 18 anni era entrato nell'Accademia della RAF, a 21 anni era passato nella Scuola aerea della Royal Navy. Sempre il primo del corso, sempre fra i migliori perché conosceva il suo mestiere, perché aveva coraggio». ("Epoca", 28.5.1982, Harry Taylor, padre del Tenente pilota Nichols Taylor, caduto nei primi giorni di guerra delle Falkland). «Credo nell'orgoglio argentino; dopo 150 anni di vita e di diplomazia la guerra era necessaria. Fosse servito sarei partito. Ho un fratello sotto le armi, calciatore anche lui: se parte, lo fa per la sua Patria. Io sono qui, in Spagna, per la gloria dell'Argentina». ("la Repubblica", 10.6.1982, Patricio Hernandez, 26 anni, acquistato dal "Torino", ora con la Nazionale argentina in Spagna). Stronzate. È il giudizio della «intellighenzia» di casa nostra. Sarà, ma sono queste «stronzate» che danno diritto ad esistere e operare politicamente. L'Italia è stanca di questioni di principio. È genuflessa. Sempre con il cappello in mano. Anche davanti ai banditi. A mediare, smussare, cedere. Esistenza politica reale, questioni di principio e ricorso alla forza costituiscono, per i popoli che vogliono essere tali, costanti eterne. Altrimenti è la fine. Non c'è più la Patria. C'è la mafia, la 'ndrangheta, la camorra. Con abbondanti spruzzate di droga.
* * * Dornenico Bartoli, parlando della convergenza delle due estreme (missini e comunisti) sulla solidarietà all'Argentina, scrive ("Il Tempo", 25.5.1982) che si rinnovellano i fasti del patto Ribbentrop-Molotov. Questi giornalisti, che si autodefiniscono «grandi» solo perché dicono di essere educati alla flernma inglese, poi, se si va ben a guardare, di quella «flemma» non hanno nulla perché è solo spocchia posticcia. Una patacca, insomma! Più di trent'anni fa, uno scanzonato giornale di destra, "Rataplan", dava di Domenico Bartoli, questo epitaffio: QUI GIACE COLPITO DA GIUSTO FERRO DOMENICO BARTOLI DI SÈ SOLEA DIRE: MONARCHICO INDEFETTIBILE FASCISTA DI PURISSIMA FEDE. VERME, LO VOMITARONO I VERMI, AL SOLO ASSAGGIO DI SUE SPOGLIE MORTALI.
* * * Leggo della non-risolta vicenda di sangue di Piazza Fontana, vicenda che la suprema Corte di Cassazione rimette al vaglio della magistratura. Il quotidiano "La Nazione" (2.6.1982) pubblica un prospetto in cui indica le varie «componenti» protagoniste degli atti processuali. C'è quella del terrorismo cosiddetto nero (che assorbe, di solito, tutte le altre), c'è quella anarchica di Valpreda, c'è quella dei Servizi segreti. Non sono riuscito ancora a capire i motivi per i quali, sia la magistratura, sia la stampa, sia la radio-televisione, abbiano sempre, e con meticolosa «cura», evitato di parlare della quarta componente che, nella vicenda di Piazza Fontana, ha un suo ruolo ben caratterizzato: quella socialista. Infatti, se si scorre l'elenco degli imputati, si trovano esponenti, non certo di secondo piano, della Federazione del PSI di Treviso. Fra l'altro tutti condannati, sia in Corte di Assise, sia in Corte di Assise di Appello. Per trasporto di armi e di esplosivo. Che ci facevano quei «socialisti» nella cellula (nera) eversiva veneta?
* * * L'Italia ufficiale non ci fa caso, ma da un pezzo a questa parte, Giulio Andreotti si è messo a viaggiare. A spese del contribuente. Infatti, come Presidente della Commissione Esteri e dell'Interparlamentare, il nostro Giulio è già stato, solo soletto, a Budapest, Varsavia, Praga. Poi negli Emirati arabi. Lo fa, senza dire nulla a nessuno, portandosi dietro il solo Segretario della Commissione Esteri della Camera. L'onorevole Tremaglia ha chiesto chiarimento. Per il resto, compreso Paietta (così vivace, di solito): silenzio. Dietro i comportamenti di Andreotti c'è sempre qualcosa fuori dall'ordinario. Che significano questi solitari viaggi? Desiderio di conoscere il mondo? Andreotti non ne ha alcun bisogno. Ha girato, in lungo e in largo, il mondo intero. Desiderio di evasione dalla provinciale politica italiana? Se così fosse con i mal di testa che si porta dietro, avrebbe scelto luoghi più salubri di quelli (freddi) dell'Europa orientale e (caldi) degli Emirati. Allora di che si tratta? Affari? E di che genere? E per conto di chi? E da chi autorizzato a trattarli? E la Commissione Esteri? Tace? Una domanda: anche il PCI lo ha autorizzato a viaggiare? Ma in cambio di che cosa?
* * * Al Festival cinematografico di Cannes è stato premiato il film "La notte di S. Lorenzo" di Paolo e Vittorio Taviani. La trama dei film è dedicata al tragico episodio avvenuto in San Miniato (Pisa) durante l'ultimo conflitto mondiale. «Nel luglio 1944 -scrive "la Repubblica" (19.5.1982)- il padre dei Taviani, sfuggendo all'ordine dei tedeschi di riunirsi nella cattedrale, trascinò con sé la famiglia e altra gente di San Miniato in una lunga marcia per raggiungere gli alleati. Fu una decisione opportuna perché i nazisti, prima di abbandonare la Città, cannoneggiarono il Duomo, provocando molte vittime». Così il film. È un grossolano falso storico. Perché a cannoneggiare il Duomo non furono i tedeschi, ma gli alleati. Infatti la lapide murata, per ricordare il fatto di sangue, pur rimanendo nello spirito antitedesco, è stata ufficialmente epurata. Mancano le due ultime righe. Perché?
* * * A pagina 165 del libro "Ventiquattro anni" di Davide Lajolo (Rizzoli Editore) trovo questo giudizio su Giuseppe Stalin: «Stalin è stato un gigante della storia, e la sua figura non conoscerà tramonto. Trenta anni della sua vita coincidono con le tappe migliori della storia dell'umanità». Il giudizio è di Sandro Pertini. Quando fu espresso il Presidente della Repubblica aveva 57 anni.
La vicenda Calvi, come era prevedibile, si è tinta di sangue. Nessuna meraviglia: visse, operò e morì nella logica di questo sistema, suo figlio legittimo, come lo sono quelli che, intorno a lui, hanno fatto corona, facendovi affari, intessendo intrighi, costruendo «consenso» con la corruzione. Non se ne salva uno. Soprattutto coloro che, date le circostanze, intenderebbero passare da moralizzatori. «Io lo avevo detto!», non lo può dire nessuno. E veniamo alla dimostrazione. Tra i documenti della Loggia coperta P2 ce ne è uno che, dati i tempi, è bene ripresentare nella sua interezza perché i lettori si rendano conto in quale «nido di vipere» gli Italiani sono costretti a vivere. Il documento, che porta in calce la firma di Licio Gelli, dice testualmente: «Appunto 22/z/Riz. Accordo fra Rizzoli per il gruppo "Corriere" e Caracciolo ed Eugenio Scalfari per il gruppo "Espresso-Repubblica"». «Non belligeranza fra i due gruppi per garantire possibilità di espansione nelle zone di maggiore diffusione. Gruppo "Corriere" non disturberà nel settore periodici. Gruppo Caracciolo-Scalfari non riprenderà iniziative che possano infastidire il "Mondo". Si garantiscono a Caracciolo-Scalfari entrature su Banco Ambrosiano». In calce al documento, oltre la firma di Licio Gelli, i nomi di Cesana e Rosone, che sono due alti dirigenti del Banco Ambrosiano. L'accordo-appunto di Licio Gelli su riportato è del 5 luglio 1979. Tanto Rizzoli-Tassan Din, quanto Caracciolo-Scalfari lo hanno confermato davanti al Tribunale di Milano nel maggio 1981, nelle loro comparse processuali, durante una causa di diffamazione fra i due gruppi. Morale: nel luglio 1979 il gruppo Rizzoli ("Corriere della Sera') da una parte e Caracciolo-Scalfari ("l'Espresso"-"la Repubblica") dall'altra, concludono un accordo, avendo Licio Gelli come garante, e «alla condizione» che le casse dell'Ambrosiano di Roberto Calvi, oltre che al "Corriere della Sera", si aprissero anche alla ... onorata società Scalfari-Caracciolo. Perché quell'accordo sia poi naufragato; perché Eugenio Scalfari, mentre i soci Caracciolo e Alessandrini stabilivano contatti con Roberto Calvi, abbia, per un possibile suo «disegno» all'interno del gruppo di cui fa parte, ignorato quanto si stava consumando e continuato «a dir male di Calvi» sono cose che, per il momento, non interessano. Quello che preme rilevare è che anche il grande moralizzatore Eugenio Scalfari, come Rizzoli e Tassan Din, pur di mettere le mani nei fondi dei Banco Ambrosiano, si faceva assistere da Licio Gelli. Non se ne salva uno. Come è possibile, in siffatto stato di cose, parlare in Italia di libera stampa? Dove sono i presupposti se i partiti e i gruppi editoriali-industriali, senza dubbio peggiori della mafia, per mettere le mani sull'informazione, ricorrendo ai Gelli, ai Calvi, ai Tassan Din, mettono in atto un sistema di rapporti delinquenziali? Guardate la efficiente dinastia dei Rizzoli a che cosa è ridotta. Si dirà che anche i vecchi Rizzoli stinchi di santo non erano, che hanno gozzovigliato, dissipato ricchezze; che, non più giovani, hanno voluto misurarsi con «gonnelle» straripanti carni e desideri, ma, dopo tutto, anche se regalavano alle proprie amanti anelli smeraldo da 200 milioni (valore 1967), l'azienda editoriale e tipografica cresceva in affari e profitti. Creava ricchezza. Ma questi qui, gli eredi dei vecchi Rizzoli, incapsulati nel sistema partitocratico, altro non sanno fare che mettersi nelle mani di avventurieri come Gelli, Calvi, Tassan Din. Altro non sanno fare che farsi sballottare da Bisaglia a Piccoli, da Stammati a Vittorino Colombo, da Fanfani a Piccoli. È stato chiesto a Angelo Rizzoli junior: «Ma come andremo a finire?». «Falliremo, tutto al più», è stata la risposta. È la loro filosofia. Se ci si pensa bene non è colpa tutta loro se «il principio ereditario», sulla cui autorevolezza una libera stampa poteva essere concepita, va in malora. È il sistema che rende tutto fradicio, ammalato, purulento.
* * * Esiste allora il principio manageriale? Spunta un nome: Bruno Tassan Din, direttore generale del gruppo Rizzoli. Una carriera fulminante nel tempio del giornalismo italiano: in pochi anni, da contabile ad arbitro, con il suo 10,2 per cento delle azioni, della vita di tutto l'impero Rizzoli. Perché questo premio? Non esistono, nella storia finanziaria italiana, precedenti simili. E la sua carriera, più l'azienda affonda, più svetta in alto. Diventa azionista. Sale ancora: è uno dei tre membri dei Comitato esecutivo, massimo organo di governo della Rizzoli-Corriere della Sera. Ha diritto di veto. Su tutto. Si avvera ciò che il vecchio Andrea Rizzoli soleva dire: «Non mi piace questo Tassan Din. Fate attenzione, questi ci fotterà l'azienda!». Quali le sue arti per tanta ascesa? Dopo avere, con tenacia, perseguito l'espansione del gruppo accaparrando tutto quello che c'era da prendere nel settore della carta stampata, causa questa della rovina, diventa il consigliere (fino ad essere accusato di plagiarlo) del giovane Angelo Rizzoli, ormai affogato nei debiti e in cerca continua di denaro per sopravvivere. E i suoi consigli sono tutt'altro che manageriali. Non si preoccupa del mercato e delle sue leggi. Guida Angelo Rizzoli nelle anticamere ministeriali, nei salotti che contano, come quello di Maria Angiolillo in Roma, dove si incontrano gli uomini del potere, si raccattano affari non puliti, denari sporchi, amicizie torbide. Dirà Tassan Din: «Gelli ci ha aiutato anche in Italia. E per questo lo abbiamo pagato. Con i soldi, ho scoperto, si riesce ad ottenere tutto». Debiti crescenti e interessi alle stelle non fermano Tassan Din. I suoi punti di forza: i sindacati aziendali della triplice, i comitati di redazione, i vari Raffaele Fiengo, Salvatore Di Paola, quest'ultimo responsabile del personale, fiduciario del PCI alla Rizzoli. Sarà Di Paola a chiamare, affettuosamente Tassan Din «il nostro zio Bruno». Tassan Din: l'uomo del disastro. Perché anche il principio manageriale in questo sistema è destinato a divenire imbroglio, truffa, fallimento.
* * * Forse, nella vicenda Calvi-Corriere della Sera si salva la Banca, l'Istituto finanziario? Per carità, gli avventurieri si sprecano ai vertici degli istituti bancari. Dopo Sindona, Calvi. E, come sempre, dentro la melma, la partitocrazia a sguazzare indisturbata. 1981: Roberto Calvi, in carcere, decide di rivelare di avere dato al PSI 21 milioni di dollari del Banco Ambrosiano, complice la Loggia P2. Bettino Craxi, l'economista parlamentare Francesco Forte (a Torino sulla cattedra che fu di Luigi Einaudi) e tutto il PSI scendono in campo. A favore di Calvi, ingiustamente processato. Emblematica la lettera di dimissioni dal PSI del giornalista e storico del movimento operaio Sergio Turone. Fra i motivi, questo: caso Calvi. «Le reiterate e durissime polemiche del PSI contro la magistratura accusata di avere messo le manette al banchiere Calvi (poi condannato) hanno assunto un significato per me agghiacciante alla luce delle recenti inchieste giornalistiche sui rapporti Calvi-PSI. Tutto ciò avviene -conclude Turone- in un contesto di eventi che da troppi mesi gettano sul PSI ombre infamanti, a dissipare le quali mi sembra francamente debole la versione del complotto anti-socialista. Temo ormai sia legittimo dire che la concorrenzialità del PSI verso la DC si stia manifestando soprattutto sul terreno della disinvoltura affaristica».
* * * Non il principio ereditario, non quello manageriale, non quello bancario sono sufficienti a tenere in vita una stampa libera. Forse il metodo cooperativo-autogestito, di cui, in seno al "Corriere della Sera" è capo Raffaele Fiengo, riesce a tenere? Scrive il mensile "Prima comunicazione" (maggio 1982): «Fiengo, da oltre un decennio lavora per trasformare il "Corriere" da un organo esclusivo della borghesia in una specie di tribuna aperta al PCI e ai partiti dell'extrasinistra. Per perseguire il suo scopo non si risparmia e non risparmia nessuno: considera coloro che hanno idee diverse dalle sue semplici impedimenti da rimuovere. E li rimuove. Fiengo sa, che prima o poi, Cavallari sarà rispedito a Parigi, ma più resta meglio è: perché con questo direttore c'è l'opportunità di piazzare il maggior numero di comunisti nei posti chiave, in modo che domani, ammesso che il nuovo padrone sia anti-PCI, saranno tali e tanti i quadri rossi che sarà velleitaria, a breve termine, ogni operazione di decomunistizzazione del giornale». Nel "Corriere della Sera" una sola direttiva riesce ad essere, si può dire da sempre, rispettata: non parlare del MSI-DN se non quando le circostanze siano tali da poterne parlar male. È l'unica direttiva che Ottone, Di Bella, Cavallari sono riusciti e riescono a fare rispettare. Per il resto il foglio della P2 e del PCI, è in pieno caos. All'interno dell'azienda non si dice più: che fa il direttore? Si dice: che fa «il matto»? che ha fatto «il matto»? E «il matto», chiuso nella sua stanza come in un bunker, aspetta gli eventi. E il più grande quotidiano italiano va alla deriva. Leggendolo non si sa più che cosa sia, visto che se in prima pagina si salva la DC e non il PCI, nelle altre pagine è viceversa. Un vero e proprio casìno (con l'accento sulla i). Poteva essere diversamente in un «sistema» che produce ingovernabilità, crisi economica, inefficienza, addirittura criminalità? C'è qualcuno che ancora, dinanzi a tanto sfacelo, nutra fiducia? Sì, Sandro Pertini. Gesù, salvaci Tu!
"L’Avanti" (11.6.1982) scrive che il primo disegno di legge, in cui si propone l'istituzione dell'anagrafe patrimoniale per chi ricopre cariche elettive, è quello del senatore socialista Silvano Signori. Non è vero. Il disegno di legge del «compagno» Signori porta la data del 14 ottobre 1979, n. 467. Il primo disegno di legge, in materia, è dell'11 giugno 1968, n. 78. Porta la mia firma. Li separano 11 anni di distanza. «Con l'approvazione della legge che istituisce l'anagrafe patrimoniale per deputati e senatori un'altra importante battaglia socialista è arrivata positivamente in porto. Il PSI era stato infatti il primo partito a richiedere la trasparenza patrimoniale per le persone che ricoprono cariche pubbliche». ("Avanti", 11.6.1982) È un'altra bugia. Infatti, quando l'anagrafe patrimoniale per senatori e deputati, grazie alla tenacia del MSI, venne portata, per ben due volte, in aula, e precisamente il 16 febbraio 1971 in occasione della discussione del nuovo Regolamento parlamentare e il 30 marzo 1971 quando venne discussa la delega legislativa al Governo per la riforma tributaria, il PSI, insieme a tutti gli altri, votò contro. Anche con la cooperazione di Sandro Pertini, allora Presidente della Camera. La proposta dell'anagrafe per gli uomini politici venne definita dal Governo «norma speciale, discriminatoria, offensiva». E, con il voto anche dei comunisti, affondata. Ora è ...risorta e se ne prendono i meriti i socialisti. Così va la vita.
* * * «Il Presidente della Repubblica ha ricevuto ieri mattina Armando Corona, Gran Maestro del grande Oriente d'Italia. Pertini ha raccomandato a Corona di adoperarsi affinché i massoni italiani, che vantano una tradizione di libertà e di uguaglianza possano sempre più imboccare la via degli «ampi orizzonti», liberi da qualsiasi forma di segreto, sulla scia dell'esempio anglosassone. La condanna della Loggia P2 era implicita nelle parole di incoraggiamento a Corona del Capo dello Stato». ("la Repubblica", Il Gran Maestro da Pertini, 26.5.1982). Sarebbe interessante sapere se identica «morale» il Capo dello Stato l'ha rivolta anche a Enrico Paoletti quando, giorni fa, quale consigliere delegato della Casa Editrice Le Monnier di Firenze, è stato ricevuto al Quirinale. Per chi lo avesse dimenticato, Enrico Paoletti, già Presidente dell'Unione Industriali di Firenze, repubblicano, amicissimo di Giovanni Spadolini, è stato il solo a dichiarare pubblicamente che «lui nella P2 c'era e non se ne vergognava».
* * * «Le SS italiane furono impegnate sempre, tranne una volta, nella repressione della guerriglia, nei rastrellamenti, nella lotta contro quelli che Bolla (Luigi Bolla, diplomatico, seguì Mussolini nella RSI - N.d.R.) chiama ribelli, altri chiamava «banditi» e noi «partigiani». (Domenico Bartoli, "Illusi e delusi nella tragedia di Salò", "il Giornale", 17.6.1982). ... e Giovanni Spadolini: «La parte più spregevole e degenerata della nostra razza». (Giovanni Spadolini, "Italia e Civiltà", 22.4.1944, in memoria di Giovanni Gentile)
* * * «Per quanto mi sforzi di giudicare con equanimità, non mi sembra che andando a Salò si potesse giovare all'Italia e al nostro avvenire collettivo». (Domenico Bartoli, "il Giornale", 17.6.1982) «Rispetto quello che pensano gli altri ma, per me, il giorno buono per cambiare alleato può essere, semmai, quello che segue la vittoria, non quello che precede la sconfitta. Perciò nessun voltafaccia, bensì coerenza da parte mia, con l'adesione alla RSI. Se dovessi rivivere dieci volte e nelle medesime circostanze, rifarei dieci volte quello che ho fatto e non cambierei il mio passato con quello, che pure rispetto, del Presidente della Repubblica». (Enrico Ostinelli, Como, "La parola ai lettori", "Il Giornale", 11.6.1982)
* * * «Uno dei tre covi, ricolmi di armi, scoperti recentemente a Napoli, servito per l'uccisione dell’assessore democristiano Delcogliano, è stato acquistato con denaro proveniente dal riscatto dell'assessore regionale DC Ciro Cirillo». ("la Repubblica", 18.6.1982) Sicché, il denaro «democristiano», raccolto per pagare il brigatista Senzani e il camorrista Cutolo, onde liberare Ciro Cirillo, è servito per assassinare il democristiano Delcogliano. Questa è la DC. Ma come fanno gli italiani ad affidare i loro destini ad un partito siffatto?
* * * Nel momento stesso in cui il generale Alberto Dalla Chiesa veniva spedito a Palermo «per fare pulizia della mafia», i Servizi di informazione dello Stato italiano erano mobilitati a chiedere consiglio al camorrista Raffaele Cutolo, ristretto nel carcere di Ascoli Piceno, su come liberare Ciro Cirillo, personaggio di potere DC. La Repubblica Italiana, nata dalla resistenza, pretenderebbe sconfiggere mafia e camorra, promuovendo a rango di «consigliori» di... Stato, pluriomicidi, mafiosi e camorristi. Pagandoli anche. Con i denari dei contribuenti. Cosa di altro ci resta da vedere?
* * * «Di fronte a quanto sta accadendo è perfettamente inutile tentare mascheramenti di una realtà perversa e tragica al tempo stesso: mafia e camorra, non tanto con i loro uomini quanto con i loro spietati sistemi, stanno diventando gli anelli di congiunzione tra il potere politico e il potere economico, pubblico o privato che sia». (Alberto Giovannini, "Secolo d'Italia", 22.6.1982) Giusto, solo che la colpa non è della mafia, né della camorra. Sono i partiti politici, senz'altro peggiori della mafia e della camorra ad aver fatto sì che mafia e camorra diventassero, dai piccoli ai grandi fatti quotidiani, cardine della vita politica italiana. Anzi, addirittura incarnazione. Quello che scrivo è grave. Fa scandalo. Ma per battere la camorra e la mafia occorre prendere coscienza di questo: sono i partiti, così come si sono strutturati in Italia, ad essere veicolo di affarismo, corruzione, criminalità. Quindi di mafia e di camorra.
Indro Montanelli, in "Controcorrente" scrive: «Al posto dell'onorevole Andreotti cominceremmo a preoccuparci seriamente. È passata una settimana dalla morte di Calvi e ancora nessuno ha pensato di addebitargliene il cadavere». Il cadavere di Roberto Calvi no, ma i magnifici tre: Claudio, Wilfredo e Vito Vitalone (così li chiamava Mino Pecorelli, il giornalista assassinato, vedi il numero speciale di "OP" del 24.1.1976), sì, questi sì. Non ci sono dubbi. Sono creature di Andreotti.
* * * Eugenio Scalfari ("la Repubblica", 21.4.1979), commentando la decisione del sostituto procuratore generale di Roma, Claudio Vitalone, a candidarsi nelle file della DC, scriveva: «Claudio Vitalone è da anni, lo sa qualunque cronista giudiziario che eserciti a Roma la sua professione, il portavoce a Palazzo di Giustizia del Presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Lo è in un duplice modo: informa Palazzo Chigi "per tempo" di quanto sta per avvenire in Procura e dintorni, e porta in Procura e dintorni gli «umori» di Palazzo Chigi. Insomma, Vitalone, è un canale». Scalfari avrebbe potuto usare una espressione più forte, indubbiamente più viva di «canale». Avrebbe dovuto scrivere che si trattava di rapporti di mafia. Non se l'è sentita, pur scrivendo che quel giudice, avendo sempre svolto un ruolo anomalo presso il Palazzo di Giustizia, con il candidarsi ora con la DC, non poteva sottrarsi al sospetto che egli stava ricevendo (dalla DC), un «premio» per i servigi resi. Il premio si è concretizzato: Claudio Vitalone è senatore della Repubblica.
* * * «Io do una cosa a te e tu dai una cosa a me». Infatti basta leggere la cronaca del ...cosiddetto arresto del fratello del senatore, l'avvocato Wilfredo Vitalone, per rendersi conto che, anche in questo caso la vecchia massima è stata rispettata. Rigorosamente. «Accasciato su una poltroncina, l'avvocato Wilfredo Vitalone, 50 anni, fratello maggiore del senatore Claudio, ha annunziato ai presenti che stava sentendosi male. Due ore e mezzo prima, poco dopo l'alba, gli era stato notificato, nella sua abitazione, l'ordine di cattura. Poche righe brucianti: gli si contestava di avere incassato tre miliardi di lire con la promessa di destinarli a giudici titolari di processi a carico di Roberto Calvi, processi compresi nel pacchetto P2. Quando ancora Wilfredo non si era ripreso dal lieve collasso è sopraggiunto il fratello, il senatore Claudio. L'arrestato non sarebbe più andato a Regina Coeli, ma direttamente alla Clinica Pio XI, sull'Aurelia, un gioiello di assistenza sanitaria privata». Così il "Corriere della Sera" del 28.6.1982. Non è da tutti avere simili trattamenti. Occorre avere un fratello senatore, e non basta. Occorre che si chiami Claudio Vitalone. È una condizione essenziale quest'ultima. Perché Claudio Vitalone ha reso molti servigi. A Giulio Andreotti. Claudio Vitalone e la «protezione» dei suoi due fratelli. L'ha svolta con sfacciataggine incredibile. Con protervia. Davanti a tutta Roma. Infatti chi non sapeva che suo fratello Wilfredo era presente in affari, cause, transazioni effettuati a Roma, la città nella cui Procura operava suo fratello, il giudice e non ancora senatore Claudio Vitalone? Quanti dossier giudiziari, quanti procedimenti penali sono stati fatti viaggiare fino a Grosseto, a Genova, a Firenze, a Napoli e poi restituiti alla sede di origine perché i magistrati, incaricati dei caso, si sono confessati «intimoriti», o resi non sereni dalle autorevoli pressioni del fratello giudice Claudio? Lo sapevano tutti, lo sanno tutti. Ma tutti si sono piegati alla prepotenza. Anche il Consiglio superiore della Magistratura.
* * * Wilfredo Vitalone è stato arrestato (si fa per dire) perché avrebbe percepito da Calvi tre miliardi di lire onde corrompere i giudici di processi a carico dei defunto presidente dell'Ambrosiano. Non è un'accusa nuova in casa Vitalone. La compravendita delle assoluzioni e delle condanne è stata già tema di dibattito e di scontro fra Claudio Vitalone e la stampa. Non solo. Fra Claudio Vitalone e il sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, dottor Cesare D'Anna. I processi sono ancora caldi. Ha avuto la meglio, fino ad oggi, il senatore Claudio Vitalone? Può essere, ma può anche essere che, proprio in questi giorni, la stella Vitalone abbia iniziato ad appannarsi. Dio non paga solo il sabato.
* * * Metti una sera a cena. Non si tratta della ormai celeberrima cena offerta da Claudio VitaIone nel 1972 alla "Tana dell'Orso" in occasione della festa della moglie -oltre 300 invitati- pagata dall'assessore ai tributi del Comune di Roma Nazareno Padellaro; non si tratta delle cene con i fratelli Caltagirone; si tratta di una cena del tutto particolare, soprattutto per la presenza di Mino Pecorelli e del generale (condannato e latitante) della finanza Lo Prete. Si svolge alla "Famiglia Piemontese", si può dire poche ore prima che Pecorelli venga assassinato (20 marzo 1979 ore 20,45). Perché quella cena? Perché quei personaggi? Amici da sempre? Per carità: Pecorelli aveva nel suo mirino, costantemente, sia Lo Prete, sia Vitalone. Si trovano a tavola. Perché? Eppure intorno a quel tavolo c'è tutto: petrolio (Lo Prete); P2 (Lo Prete e Pecorelli); la Procura di Roma con annessi e connessi (Vitalone). E, poteva mancare? Un pizzico di Andreotti.
* * * 9 febbraio 1978, sotto il titolo "Claudio Vitalone deve essere processato", Mino Pecorelli, il giornalista assassinato, così scriveva: «Livio Zanetti e Mario La Ferla dimostrano di avere buon
sangue nelle vene. Ci sentiamo lusingati di essere al loro fianco, in prima
linea, contro l'ingiustizia e il malcostume indossati con arroganza sotto una
certa toga». "L'Espresso" in edicola (n. 6, anno XXIV, 12 febbraio
1978) a pagina 141 dà notizia di un crimine di una gravità eccezionale. «Nel
luglio scorso -scrive in neretto Mario La Ferla, parlando di Italcasse e
Caltagirone- il magistrato romano Claudio Vitalone legato notoriamente ad uomini
democristiani e socialisti, si recò a Milano. Nella sede della Cariplo, che è
azionista di maggioranza dell'Italcasse, il magistrato convinse il direttore
generale Alessandro Nezzo ad approvare l'operazione di salvataggio dei fratelli
costruttori» L'Espresso è in edicola da 48 ore. Durante le quali nessuno dei
diretti interessati ha sentito il dovere morale di smentire o precisare. Ci
troviamo di fronte ad un episodio senza precedente alcuno: un magistrato della
Procura di Roma si sarebbe recato a Milano a perorare la causa di persone
convenute a giudizio presso il suo stesso Tribunale, persone di cui il
magistrato è notoriamente amico. Il fatto di per sé grave, diventa gravissimo
quando ci si chiede di quali mezzi il Claudio Vitalone si sia servito per
«convincere» Alessandro Nezzo al suo partito. Si tratta di metodi
intimidatori? L'Espresso è in edicola da 48 ore e se né il Vitalone né Nezzo
hanno smentito, nessun'altra voce si è levata dagli ambienti della Procura.
Invitiamo pertanto il P.G. di Roma Pietro Pascalino, il Procuratore capo
Giovanni De Matteo, nonché l’intero Consiglio Superiore della Magistratura ad
aprire immediatamente una inchiesta al fine di accertare la veridicità di
quanto affermato da "l'Espresso" (n. 6/78). Se, come è lecito
supporre, quanto affermato dal settimanale risulterà vero, sarebbe impossibile
non carcerare il predetto Claudio Vitalone ed insieme continuare a mantenere in
vigore il vecchio aforisma secondo il quale la legge è eguale per tutti».
* * * Il caso Calvi dimostrerebbe ampiamente che certe «pratiche» erano in uso da tempo. Nulla di nuovo sotto il sole. Se non che coloro che avrebbero dovuto indagare sulle attività del clan Vitalone, li troviamo, puntualissimi, alla cena offerta dal «senatore» per festeggiare la sua elezione a senatore della Repubblica nata dalla resistenza. Ci sono tutti: il procuratore generale presso la Corte di Appello Pietro Pascalino, il procuratore Capo De Matteo, il consigliere istruttore Gallucci. È il 26 giugno 1979.
«C'era una volta la bandiera tricolore. L'avevano quasi tutti in casa gli italiani dabbene. La consuetudine era di esporla in occasione delle feste nazionali. Molti palazzi di non recentissima costruzione conservano ancora la loro brava staffa sotto la finestra principale. È diventata inutile, sono cambiate le idee, le fedi, le mode. La bandiera? L'occasione più frequente di rivederla, sul pennone dei palazzo accanto, è ormai quella delle consultazioni elettorali. Sono bandiere pubbliche; quelle private pare proprio che non esistano più. Ma forse è un'impressione non del tutto esatta. Succede che l'Italia, squadra di calcio, vinca ai mondiali una partita incredibile ed ecco che le città si riempiono di bandiere tricolori. Una, mille, centomila. Possibile che siano uscite tutte dai bauli delle nonne?». ("La Nazione", 6.7.1982) Era già accaduto nel giugno 1970. «Mamma, ce l'hai una bandiera tricolore?» Sono le 19 del 4 luglio 1982. L'Italia, allo Stadio Sarrià di Barcellona, ha battuto il Brasile. E sono spuntate, come di incanto, le bandiere tricolori. Soprattutto in mano ai ragazzi. I sociologi (peste e rovina di ogni Paese, direbbe Pisacane) che, alla vigilia, quando alla credibilità della squadra italiana non si puntava nemmeno un centesimo, si erano particolarmente dedicati alla introspezione del gioco del calcio, merce ignobile, dagli stipendi d'oro dei calciatori, alla volgarità, al teppismo, alla violenza negli stadi dei tifosi italiani. Tutta roba da manicomio, da paese sottosviluppato, africano. Che si potesse trattare anche di autentica passione popolare, intorno ai colori nazionali, nemmeno a parlarne. Tutto uno schifo: dai giocatori (brocchi e avidi solo di guadagni), al povero Bearzot, rimbambito e rimbrottato perché parlava di «patria»; agli argentini e ai brasiliani che, autentici prestigiatori della palla (loro sì, mica i nostri), avrebbero fatto di noi, poveretti, un solo boccone! Poi, d'improvviso, le bandiere. I colori nazionali che cessano, per un momento, di essere fredda e dimenticata simbologia ufficiale, come la marca da bollo o l'impronta del monopolio sulle sigarette, per diventare, per ritornare a diventare, intorno ad una squadra di calcio che, impossibilmente, vince, simbolo di una collettività; di una comunità umana che (finalmente) non deve più riconoscersi nell'odio, nella divisione, ma nella gioia, nell'allegria, sia pure sportiva, dell'unità, della fraternità. Alla radiografia del nostro sistema nazionale fatta, con spocchia e alterigia, dai sociologi e dalle penne «impegnate», ne è venuta fuori un'altra e spontanea, carica di significato: siamo una comunità che sentiamo, malgrado gli scribi, ancora un senso di appartenenza comune e che questo è capace di esaltarci, di farci sentire vivi, uniti, insieme. Perché nasconderlo? I politici, e i loro «corifei» hanno sofferto di invidia per questo entusiasmo, hanno moti di stizza, di fastidio. Perché per noi, no? Perché? Abbiano l'umiltà di interrogarsi e vedranno che la risposta, anche se cruda, c'è. Eccome se c'è!
* * * Quella allegria tricolore non vuol forse indicare che gli Italiani sono stanchi degli odi che uccidono, del sangue che si raccatta per le strade, delle ruberie di stato, delle ingiustizie, delle prepotenze dei potenti, delle mafie e delle camorre a tutti i livelli? E che sentono, dentro di sé, che è ora di trovare ragioni di unità per andare d'accordo e non divisioni che mettano gli uni contro gli altri? Sono circostanze futili? Le cose che contano sono altre? Si tratta di spensieratezza, di concordia, di amore, in ore tanto gravi? Ma non è la spensieratezza, la concordia, la cordialità, l'allegria una aspirazione ed un programma da rivendicare legittimamente quanto se non più delle tensioni, delle divisioni, delle radicalizzazioni alimentate dai partiti?
* * * Montanelli, in un suo "Controcorrente" (6.7.1982), non condivide questa festa, questa allegria tricolore. La cosa non ci stupisce. Non è stato infatti Indro Montanelli a scrivere (senza vergognarsene) che, pur con il vomito alla bocca, dovevamo credere e votare DC, cioè per il partito che, più di ogni altro, ha puntato a togliere agli Italiani patria e bandiera? Ora Indro Montanelli, dinanzi «agli scalmanati che usano il tricolore a copertura del peggiore teppismo» (così scrive), rimpiange di non essere nato brasiliano. La tristezza, leggendo queste parole, è tutta nostra. Di gente, cioè, che malgrado tutto, continua a leggere Montanelli. E "il Giornale" di Berlusconi, via Carboni-Calvi.
* * * Già ce ne dimenticavamo: 30 giugno 1982, "il Giornale" esce, e al suo posto d'onore, mette questo titolo: «Tentenna l'accusatore del legale di Calvi. Mazzotta esce malconcio dal confronto con Vitalone». È una difesa aperta del clan Vitalone. Nessun altro quotidiano si è spinto a tanto. "il Giornale" sì. E, per finire così, che Montanelli ha lasciato il "Corriere della Sera"? Mi raccomando lettore: compra e leggi "il Giornale" di Indro Montanelli. Pur con il vomito alla bocca.
Non è possibile «capire» Sandro Pertini senza «capire» Antonio Maccanico, segretario generale della Presidenza della Repubblica, così resta impossibile comprendere, nei suoi mille intrecci, la vicenda «Calvi» ("Corriere della Sera") senza descrivere la parallela vicenda de "la Repubblica" di Eugenio Scalfari (una volta alla settimana, e l'altra pure, ospite del Quirinale). Del "Corriere della Sera", ormai sappiamo tutto. Quando si è detto che è stato il quotidiano della P2, di Calvi e del PCI, credo, si sia detto tutto. Non è possibile che il cittadino italiano, comunque esso la pensi, riservi ancora credibilità ad un quotidiano così sputtanato; da essere irrecuperabile. La vita, o prima o poi, rende giustizia. Ci siamo, come militanti del MSI, tante volte lamentati del silenzio del "Corriere" su noi, o delle infamie che lo stesso "Corriere" riversava sul MSI. Dobbiamo esserne onorati. Il foglio della P2, di Calvi e del PCI aveva (e continua ad avere) l'ordine perentorio: niente MSI. Ne siamo onorati, signori del "Corriere della Sera". È giusto che sul quotidiano della P2, di Calvi e del PCI non ci sia posto per il MSI.
* * * Abbiamo scritto, all'inizio, Antonio Maccanico, segretario generale della Presidenza della Repubblica. È lui che ci deve ora spiegare perché, in data 25 maggio 1982, il Quirinale abbia voluto far sapere agli Italiani che il Presidente della Repubblica aveva ricevuto Armando Corona, Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia. È lui che ci deve spiegare il perché la notizia, trasmessa dal Quirinale e considerata di tutto riposo dalla stampa italiana, sia stata invece sottolineata da "la Repubblica" di Eugenio Scalfari, sotto il titolo: «Il Gran Maestro da Pertini. Il Presidente della Repubblica riceve Armando Corona». Una notizia come un'altra, se... Ecco c'è quel «se». Infatti solo il corpo penzoloni di Roberto Calvi, trovato sotto il ponte dei «Frati Neri» di Londra, ha fatto sì che gli Italiani sapessero che i rapporti di amicizia e di affari (massonico-politici) fra l'imprenditore edile sardo Flavio Carboni, azionista della Società Editrice del quotidiano "La Nuova Sardegna" (gruppo Caracciolo-Scalfari), repubblicano (come Maccanico e Spadolini), ricercato per l'assassinio del Presidente dell'Ambrosiano, e Armando Corona (Gran Maestro della Massoneria, repubblicano, amicissimo di Spadolini -per la sua elezione, a capo della massoneria, il Presidente del Consiglio svolge una intensa campagna elettorale, servendosi, fra l'altro, dell'aereo dello Stato maggiore-), erano ottimi, cordialissimi. A tale riguardo, una domanda: il Presidente della Repubblica, così suscettibile nelle amicizie, tanto da selezionarle rigorosamente, non ha nulla da dire? Chi gli ha fatto ricevere, appena pochi giorni fa, Armando Corona? Per molto meno il giornalista Antonio Ghirelli venne licenziato dal Quirinale. E su due piedi. Senza dargli nemmeno il tempo di aprire bocca.
* * * È tutta una catena. Si inguaiano gli uni con gli altri. Sono ormai tanti gli «avventurieri» ai vertici della vita politica italiana che dalla loro «vicinanza» non si salva nessuno. Hanno accesso perfino al Quirinale. E lo stesso Presidente, così come è contornato e consigliato, non ci capisce più nulla. Massoni, piduisti, affaristi, amici di mafiosi, vengono ammessi in sua presenza. Discorsi sulla morale pubblica si sprecano. Escono, moralizzati e conquistati dalla (santa) parola del Presidente della Repubblica, ed eccoli, appena usciti, incappare in non piacevoli avventure. L'integerrimo Armando Corona, Gran Maestro della massoneria, repubblicano storico, dovrebbe ora spiegare, non a noi per carità, ma al Presidente della Repubblica, di che genere erano i suoi rapporti con Flavio Carboni e se, per caso, per la sua elezione a Capo di tutti i massoni, si è servito dei ...servigi dello stesso Carboni.
* * * Scrive il "Corriere della Sera" (23.6.1982): «Secondo uno dei Commissari della P2, Pazienza (uomo dei servizi segreti, affarista, guardaspalle di Calvi) avrebbe confidato al giudice Domenico Sica di un incontro Roberto Calvi, Armando Corona e Flavio Carboni e che, dopo quell'incontro, i rapporti tra il Presidente del Banco Ambrosiano e Carboni si sarebbero rafforzati, tanto che quest'ultimo sarebbe diventato quello che si dice uno stretto collaboratore dello stesso Calvi». Bello, no! È la parola del Gran Maestro che decide, che fa sì che Carboni salga alla destra di Roberto Calvi. E come si può dire no al Grande Oriente d'Italia che, di recente, ha avuto la benedizione del Presidente della Repubblica?
* * * Ma altri «altarini» spuntano fuori. La giornalista Sandra Bonsanti ("la Repubblica", 22.6.1982), scrivendo la vita di Flavio Carboni («Factotum della DC e grande imprenditore, ecco l'uomo che aiutò Calvi a fuggire») incorre (poverina, come fa a sapere tante cose?) in un infortunio. Scrivendo che l'ultimo momento di gloria, l'imprenditore sardo lo ha passato con De Mita, organizzando per lui, dopo la sua elezione, cene con persone che contano, dà modo allo stesso De Mita di precisare ("la Repubblica", 23.6.1982) che «Lui Carboni lo ha incontrato una sola volta e, guarda il caso, era in compagnia dell'editore di "Repubblica", Carlo Caracciolo».
* * * Carlo Caracciolo, ovvero il gruppo editoriale-industriale-affaristico Scalfari-Caracciolo ("L'Espresso"-"la Repubblica"). Sarebbero i moralizzatori! Roba da matti! Scrive "La Nazione" (25.6.19 82): «Negli ambienti della Commissione P2, in questi giorni, si sottolinea, fra l'altro, che Emilio Pellicani (in carcere per il caso Calvi - N.d.R.), fratello del vice sindaco di Venezia (Gianni Pellicani), è assistito da un legale Guido Calvi, notoriamente legato al PCI. Ancora pare che Carboni, attraverso Pellicani, abbia affidato la progettazione di una lottizzazione a Castiglioncello (provincia di Livorno) avvalendosi della collaborazione di personaggi vicini al PCI».
* * * Così "La Nazione". Sono passate (quando scrivo) 48 ore. Nessuna smentita. Anzi. Su "l'Unità" (26.6.1982), in una intera pagina dedicata al caso Calvi, trovo un trafiletto dal titolo: «De Mita vide Carboni ma non bevve il drink». Si fa della ironia con questa finale morale: «Questi mediatori (Carboni - N.d.R.) sono un anello infetto di questo sistema di potere. Dar loro credito, trattandoci affari riguardanti giornali, è un fatto grave sia per De Mita che per Caracciolo». Va bene, ma se trattano insieme a personaggi del PCI, lottizzazioni edilizie di miliardi, quei mediatori vanno bene? Visto il silenzio de "l'Unità" pare di sì, il che dice e spiega tutto.
* * * Ora fate attenzione. A Livorno, così come in Sardegna, opera un quotidiano ("Il Tirreno") del gruppo Scalfari-Caracciolo. Il Direttore è un comunista iscritto al PCI, nel Consiglio di amministrazione spicca l'ex-assessore all'urbanistica del Comune di Livorno. Quale è, e di che tipo, l'informazione distribuita ai cittadini dal quotidiano scalfariano? Sinistra populista. "l'Unità" è molto più serena, più obiettiva. Si ha l'impressione che dietro questa fanatizzazione dell'ideologia de "Il Tirreno" vi sia un preciso disegno politico affaristico: io ti do parole estremizzate e fanaticizzate, ma instauro un silenzio prudente su cosa gli amministratori comunisti fanno della Città. E così è. I livornesi si sfogano sull'ideologia, ma da oltre trenta anni sopportano di trovarsi senza acqua. Non è finita. Dietro l'acceso dibattito ideologico spuntano affari sui quali nessuno (eccetto il MSI) mette bocca. In questo quadro non meraviglia affatto che, così come scrive "La Nazione", Flavio Carboni, ricercato per l'assassinio di Calvi, faccendiere d'avanguardia della sinistra democristiana, sia sceso anche a Livorno e che la strada gliela abbia aperta il gruppo Caracciolo-Scalfari, via "Nuova Sardegna"-"Il Tirreno", di cui è azionista.
* * * Ormai tutte le vicende di sangue e di criminalità, che caratterizzano la vita politica italiana, vedono pesantemente coinvolti i due principali gruppi editoriali, cioè coloro che monopolizzano l'informazione degli Italiani. Da un lato il "Corriere della Sera", dall'altro "la Repubblica"-'L’Espresso". È lì che gli Italiani si abbeverano per sapere, per conoscere, per capire. E hanno menzogna mista a sangue. Ma l'inganno, è certezza e non impressione, sta per finire.
È il 26 giugno 1982. È stata giocata a Vigo la partita con il Camerun. Pertini e Spadolini tacciono, non si fanno vedere. Per loro parlano «altri». «Ancora una volta il Commissario tecnico ha perso una buona occasione per stare zitto. Le frasi offensive nei confronti del Parlamento e della classe politica denotano che evidentemente Bearzot si trova in uno stato confusionale. In quanto ai guadagni di un parlamentare, c'è da dire che quelli di Bearzot li superano certamente di tre o quattro volte: ma le responsabilità di un uomo politico sono certamente superiori alle sue». Chi parla è l'onorevole Santi Ermido di Genova, Presidente IACP, sindacalista, eletto in quella lista ligure del PSI, il cui capolista Canepa Antonio Enrico, tossicodipendente, a giudizio, ha dichiarato che «per bucarsi» spendeva otto milioni al mese. Non risulta che l'onorevole Santi, per placare le sue ansie moralistiche e la sua sete di responsabilità, abbia chiesto le dimissioni dal Parlamento del proprio capolista eroinomane; né dei molti «piduisti» e «imbroglioni» che, con tessera del PSI, fanno, da anni, bella mostra di sé ai vertici della vita politica genovese. Per il momento l'onorevole-sindacalista se la prende con Enzo Bearzot e i giocatori azzurri, colpevoli di rapinare al contribuente italiano scandalosi premi-partita. Le sue dichiarazioni (con relativa interrogazione parlamentare) sono del 26 giugno 1982. Sarebbe ora interessante sapere se i giudizi su Bearzot e gli azzurri vengono mantenuti dall'onorevole Santi, visto che Sandro Pertini, socialista e ligure anche lui, è andato a Madrid a prendersi «l’onesto e pulito Enzo Bearzot», per invitarlo, con gli azzurri vittoriosi, al Quirinale, alla propria tavola. Perché -dato che ci siamo- l'onorevole Santi non prova, presso Pertini, di far invitare al Quirinale il senatore socialista (e piduista) Francesco Fossa, suo figlio Michele (piduista anche lui), già assessore regionale alla sanità, nonché Alberto Teardo (pure lui con Gelli), presidente della Giunta regionale della Liguria?
* * * «Gli uomini politici dovrebbero essere esempio di onestà e rettitudine. Disgraziatamente ce ne sono tra di loro alcuni che dovrebbero essere in prigione». È la frase che Pertini, alla vigilia di partire per la Francia, ha riferito ai giornalisti francesi e che, poi, si incarica di smentire. Smentite o no, gli «esempi» liguri restano in piedi. E sono stati, e sono, materia da Codice Penale.
* * * L'onorevole Battaglia Adolfo, presidente del gruppo parlamentare del PRI, non è da meno dell'onorevole Santi. Alle dichiarazioni di Enzo Bearzot in relazione alla polemica sui premi-partita («sarebbe opportuno che qualche interpellanza fosse stata fatta sui signori parlamentati e sui loro premi», 25.6.1982) replica rapidamente: «Bearzot è troppo irascibile e se il Parlamento è poco, la Nazionale è zero». ("Corriere della Sera", 26.6.1982). Sì, ma non è questo il punto. Si è visto poi se la Nazionale era zero, o no. Quello che preme ricordare a Battaglia è che Bearzot chiede, contestualmente ad una indagine sui premi-partita degli azzurri, una sui «premi» dei politici. Infatti il PRI deve ancora restituire, alle casse dello Stato, 400 milioni dell'Italcasse per affari tangenti-premi, guadagnati sul campo di gioco dell'intrallazzo e della corruzione. Ha ottemperato a questo obbligo della restituzione il PRI? Credo no. E se così è, perché l'onorevole Battaglia mette bocca in faccende (di moralizzazione), sulle quali è assolutamente incompetente?
* * * È il 24 giugno 1982. Sotto un titolo a tutta pagina ("Corriere della Sera'): «Debutta l'arbitro Casarin, capace di correre più degli azzurri», sta scritto: «Gli Azzurri, avverte Nando Martellini, passano al secondo turno, senza gloria ma anche senza sconfitte. Omette, tuttavia, di ricordare che passano al secondo turno anche con un sacco di milioni in più sul conto corrente, mentre i giovani ragazzi del Camerun devono rinunciare alla piantagione del cacao che gli era stata promessa se ci avessero eliminato». Chi piange, «perché non siamo stati eliminati» a vantaggio dei proletari del Camerun, è Antonio Ghirelli. Sì, proprio lui, che al rientro trionfale degli azzurri, lunedì 12 luglio, è stato il regista che, alla TV, ha diretto il coro entusiasta degli strepitosi elogi. Ha pianto. Di commozione e di ammirazione. Qualche giorno prima le sue lacrime andavano tutte al Camerun.
* * * L'episodio ci ha fatto riprendere in mano la confessione che lo stesso Ghirelli rilasciò, nell'agosto 1958, su "Tempo presente" di Ignazio Silone, a proposito della sua conversione all'anticomunismo. Fa tutto da sé. Ascoltatelo: «Tiepido sovversivo al GUF (Gruppi Universitari Fascisti), divenni anarchico al corso allievi ufficiali, comunista iscritto al partito sotto la vigilante guida di Spano, strappai la tessera quando Togliatti sbarcò alla corte di Re Vittorio; rooseveltiano appena assunto al PWB, tornai staliniano esaltato quando conobbi da vicino i colonnelli americani e le direttive del Foreign Office; redattore de 'I'Unità" di Milano, scappai a "Milano Sera" per sottrarmi allo sguardo severo dell’on. Paietta; pur compagno di strada quando ormai ero avviato alla professione, ma feci la terza domanda di iscrizione il giorno in cui gli yankees sbarcarono a Seul. Ora sono arrivato all'ultima, cioè alla più recente conversione». Ha fatto di tutto: fascista, americano, comunista, anarchico, anticomunista. Diventa anche grande cerimoniere della stampa presso Pertini. Da lì non se ne va. Viene cacciato. In malo modo. Comunque, si rifà, in continuazione, la faccia. E il vizio non lo perde, anche quando parla e scrive di calcio. Lo storico Spriano scrive di lui: «Mostra una tale povertà intellettuale, ostenta una così soddisfatta miseria morale». ("Rinascita", Gennaio 1959).
* * * Basta, torniamo al calcio. E con qualcosa di più pulito, di più limpido. "Corriere della Sera", 30.6.1982: «È stato un telegramma di poche righe giunto a Barcellona qualche ora prima dell'inizio di Italia-Argentina a fare il miracolo di trasformare la timida nazionale vista all'opera a Vigo in una squadra di leoni? Secondo il Presidente della Federazione Federico Sordillo, non ci sono dubbi: sì, o perlomeno ha contribuito. Il telegramma era arrivato a Sordillo alle 11,30. "L'ho aperto subito, assieme ai tanti altri che mi erano stati consegnati. Diceva: gli azzurri vincitori dei titoli mondiali del 1934 e del 1938 offrono il loro vecchio cuore alla nazionale. Seguivano otto firme di grandi indimenticabili campioni: Foni, Rava, Locatelli, Borei, Ferraris, Piola, Olivieri, Ferrari. Me lo sono messo in tasca e l'ho portato allo Stadio dove, poco prima dell'inizio della partita, l'ho letto alla squadra. Credo, proprio, che sia stato importante, che abbia dato un'altra spinta alla nazionale: che col cuore, oltre che con la tecnica, ha vinto"». Il vecchio, inesauribile cuore. Se lo dicono e scrivono loro...
Domenica 27 giugno. I giornali scrivono: «caccia agli assassini di Calvi». Spadolini, in partenza per Bruxelles, fa le seguenti dichiarazioni: «Oggi, giugno 1982, le vicende allucinanti intorno al caso del Banco Ambrosiano rivelano che l'emergenza morale rimane il primo e il massimo dovere di questo governo e di questa maggioranza. Non ci si può rimproverare un solo attimo di debolezza in questo campo. Mani nette e inflessibile rigore. Non si può battere né l'inflazione né il terrorismo se non riusciamo a battere tutti i fattori che investono e turbano la pubblica opinione nel campo della pubblica moralità.
* * * Parole da sottoscrivere. A piene mani. Però c'è un... però. È che Giovanni Spadolini, Presidente del Consiglio dei ministri a quelle parole, per quanto lo riguarda nella triplice veste di Capo del Governo, di Segretario nazionale del PRI, di cittadino, non fa seguire gli opportuni, indispensabili adempimenti. Perché, in casa repubblicana, lo scandalo non si chiama Banco Ambrosiano-Calvi, bensì Armando Corona, Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, già membro della Segreteria nazionale del PRI, già presidente del Consiglio Regionale sardo, grande patrocinatore dell’intesa DC-PCI, salvo poi buttarla all'aria quando i suoi interessi massonici non coincidevano più con l'operazione; amicissimo di Giovanni Spadolini e di Giorgio La Malfa, tanto da averli al suo fianco nella campagna elettorale per la nomina a Gran Maestro, e al matrimonio del figlio a Cagliari nel dicembre 1981, matrimonio ... raggiunto con l'aereo dello Stato maggiore dell'Esercito.
* * * Armandino Corona. Procediamo con ordine. In una intervista a "L'Espresso" (27.6.82) sul caso Calvi, Corona dichiara di avere incontrato il Presidente dell'Ambrosiano «una ventina di giorni fa, alla vigilia del viaggio del Papa in Inghilterra». «È venuto a raccontarmi -dichiara Corona- di avere la sensazione di non essere tollerato dal mondo politico, di essere ostacolato dalla Banca d'Italia e dal Ministero del Tesoro. Io -ha continuato Corona- lo avevo conosciuto nell'autunno scorso, quando, appena uscito di prigione, aveva fatto un giro dei partiti ed era venuto anche da me, che non ero ancora il Gran Maestro, ma esponente del PRI». È estremamente facile aggiustare le cose quando l’interlocutore, che potrebbe precisare e puntualizzare, non è più di questo mondo. Comunque una domanda: ma perché Calvi, in apprensione e in cerca di aiuto, andava proprio da Corona, e guarda caso, proprio alla vigilia della sua elezione a Gran Maestro della massoneria di Palazzo Giustiniani? "L'Europeo" (12.7.1982) scrive: «La voce peraltro, e a prima vista assai verosimile, circola da tempo: nel maggio 1982 l'Ufficio vigilanza della Banca d'Italia avrebbe accertato l'esistenza di un prestito da parte del Banco Ambrosiano ad Armando Corona di ottocento milioni. Il prestito sarebbe avvenuto più di un anno fa e non sarebbe stato restituito, neanche in minima parte. A quale titolo furono versati a Corona quei soldi? E che uso ne fece l'attuale Gran Maestro? Un'ipotesi potrebbe esserci. E se fosse stato il pedaggio da pagare all'ala emergente della massoneria italiana? O non era Calvi a ripetere spesso che fuori dalla massoneria i grandi affari sono un'illusione?». Fin qui "L'Europeo". Ma ci potrebbe essere un'altra ipotesi: che quei soldi siano stati sborsati da Calvi a Corona espressamente a favore della sua, allora in atto, campagna elettorale per l'elezione a Gran Maestro. Non solo, dunque, Spadolini e La Malfa grandi elettori di Corona, ma Calvi in persona! Che ne dice il Presidente del Consiglio che, nel conservare la carica di Segretario nazionale dei PRI, volle nell'apposito ufficio della Segreteria nazionale, insieme a Bruno Visentini, Oddo Biasini, Oscar Mammì e Libero Gualtieri, soprattutto Armando Corona, come garante della base di tutto il partito presso il vertice?
* * * C'è di peggio, onorevole Presidente del Consiglio. "il Giornale" (7.7.1982) scrive: «A noi risulta che la sera prima della sua elezione, a segretario, De Mita cenò amabilmente in casa Carboni (Flavio Carboni, latitante, il personaggio in affari con elementi della malavita, l'ultimo che vide Calvi prima della sua morte - N.d.R.), con numerosi commensali. C'erano Calvi, il neo-eletto Gran Maestro della Massoneria del Grande Oriente Corona, Carlo Caracciolo e monsignor Hilarj, nel ruolo, scriverà "l'Unità", di portaparola del potente monsignor Marcinkus».
* * * Si è fatto il nome di Flavio Carboni che ha, non lo si dimentichi, come suo braccio destro quell'Emilio Pellicani (in galera), fratello del Vice Sindaco comunista di Venezia (Gianni Pellicani), gran faccendiere; al punto di accompagnare Armando Corona, in un week end di lusso in Sardegna, costato (al Pellicani) e per due giorni, la bella cifra di dieci milioni di lire. Il Gran Maestro, come si può constatare, non si tratta poi tanto male! Ma torniamo a Flavio Carboni. Chi è il personaggio che, nello spazio di poco tempo, lo fa diventare il collaboratore primo di Roberto Calvi? Spadolini non lo sa. Non ha tempo di informarsi, ma fin dal 23 giugno, cioè alle prime notizie della morte di Calvi, sul "Corriere della Sera" si poteva leggere quanto segue: «Secondo uno dei commissari della Commissione parlamentare di inchiesta sulla P2, che ha letto il verbale, Pazienza (altro personaggio inquietante, affarista, legato ai servizi segreti del generale piduista Santovito - N.d.R.) ha raccontato di un incontro tra Roberto Calvi, Armando Corona e Flavio Carboni, e che dopo quell'incontro i rapporti tra l'ex-Presidente del Banco Ambrosiano e Carboni si sarebbero rafforzati, tanto che questo ultimo sarebbe divenuto quello che si dice uno stretto collaboratore dello stesso Calvi». Una domanda: le pratiche di Gelli in che cosa diversificano da quelle del Gran Maestro Corona? Ce lo vuole spiegare Spadolini?
* * * Flavio Carboni, la sua immagine. Fino ad un mese e mezzo fa, persona rispettabilissima. Già membro della segreteria particolare dell'on. democristiano Pitzalis, amicissimo dell'attuale sottosegretario al Tesoro, on. Pisanu, tanto da ospitarlo sul suo straordinario yacht; braccio destro del gruppo editoriale Caracciolo-Scalfari; speculatore di aree fabbricabili legato a Berlusconi; l'uomo che, appena un mese fa (10.6.1982), porta a Roma, sul suo aereo personale, due alti magistrati milanesi: Francesco Consoli e Pasquale Carcasio, aspiranti a due poltrone importanti: procuratore generale e procuratore capo. È il "Globo" che descrive, minuziosamente, la scena: «La mattina di giovedì 10 giugno -scrive il "Globo" (9.7.1982)- salgono su un aereo privato, quello di Flavio Carboni, imprenditore sardo, i "consigliori" di Roberto Calvi. A Roma, presente Carboni, i due magistrati hanno una serie di incontri con Armando Corona, nuovo capo della massoneria, e alcuni uomini politici. Lo scopo è quello di caldeggiare le loro candidature». Poi si viene a sapere che Flavio Carboni era stato processato per assegni a vuoto. Non basta. Carlo Fajella, boss della droga viene ucciso nel 1972. Sotto accusa due personaggi di spicco. Diotallevi e Abbruciati, famosi nel Gotha della malavita. Ebbene il primo era socio di affari con Flavio Carboni, in alcune iniziative edilizie in Sardegna. Un altro di questi suoi soci, Domenico Balducci, fu ucciso l'anno scorso. E Abbruciati è morto dopo avere sparato contro Roberto Rosone, il vice di Calvi all'Ambrosiano. Questo dunque, caro Presidente del Consiglio, è l'uomo al cui desco erano soliti sedere De Mita, Pisanu, Caracciolo, Scalfari e Armandino Corona, stella di prima grandezza della massoneria e del PRI !!!
* * * Abbiamo parlato dei rapporti tra il gruppo Caracciolo-Scalfari e quello Carboni-Pellicani, a proposito dei quotidiano "La Nuova Sardegna". Si tratta di sapere chi autorizzò l'operazione perché, contro il volere del Consiglio regionale sardo, "La Nuova Sardegna", dal disastro della SIR di Rovelli, passasse di proprietà del gruppo di Pellicani, portaborse di Carboni. Anche in questa vicenda, protagonista è Armandino Corona, l'incorruttibile massone, l'amico intimo di Giovanni Spadolini. La storia la racconteremo quest'altra volta. Ora restiamo in attesa di quello che vorrà fare il Presidente del Consiglio che, proprio dalla vicenda Corona, è chiamato direttamente in causa. Non basta dire: Armandino, da quando è divenuto Gran Maestro, ha lasciato il PRI. Non ci interessa più. Sarebbe una fuga, una brutta ignominiosa fuga. Coraggio, Signor Presidente. Tutti guardano a Lei. Mani nette e inflessibile rigore. Non ci si può rimproverare un solo atto di debolezza in questo campo. Lo ha scritto Lei. Armandino Corona, se lo ricordi, è il banco di prova di questa sua volontà.
La vicenda Calvi, suicidio o omicidio non ha importanza, dimostra, chiaramente, che il potere criminale si è ormai prepotentemente affermato e tratta, da pari a pari, con gli alti poteri dello stato. E se la vicenda Sindona poteva sembrare un fatto eccezionale, quella «Calvi» assurge a norma. Il potere criminale, non solo dispone di aerei, navi, banche, immobili-rifugio, ma è seduto, fra i grandi, ai vertici della vita politica e finanziaria, dove si riciclano i profitti dei sequestri e della droga. È un vortice di miliardi, di sangue. È il potere politico, giudiziario, finanziario si schiera. È il sorgere delle bande.
* * * «Banditi-giustizieri (la camorra) e "banditi ideologici" (le BR) si ritrovano, insieme, a Napoli, dopo il ventennale black out del fascismo», scrive Giorgio Bocca su "la Repubblica", (21.7.1982). «La camorra del 1944, come l'attuale, è al tempo stesso -continua Bocca- sovversiva e conservatrice, delinquenziale e para-legalitaria. Allora (1944) lavora insieme al colonnello Poletti, proconsole americano, che si è scelto opportunamente come consigliere d'affari Vito Genovese, un patriota di Cosa Nostra. Sono tempi d'oro, la camorra "alleata" controlla la stazione circumvesuviana di Scafati, il mercato ortofrutticolo, la Shangai street vicina al porto; ma neppure oggi 1982, le cose vanno poi tanto male, la pioggia di miliardi del dopo terremoto cade in gran parte nelle casse della "famiglia" vecchia o nuova che sia e spiega le sanguinose lotte per la spartizione» È una analisi esatta. Il partigiano, l'antifascista purissimo, il democratico Giorgio bocca la fa in modo spietato. Quell'analisi ha solo un difetto: di essere tardiva e di non andare alle origini, alle cause. Modestamente, è da anni, che affermiamo che la Repubblica italiana non ha nulla a che fare con gli sbandierati «valori» della resistenza. Solo Sandro Pertini può crederci. La Repubblica italiana è figlia della mafia. Lo sbarco alleato del luglio 1943, in Sicilia, è protetto dal gangsterismo americano di stampo mafioso, in testa Salvatore Lucania (in arte Lucky Luciano) ergastolano, e quando l'avanzata investe Napoli è alla camorra che si ricorre; è a Vito Genovese di Cosa Nostra che si chiede consiglio. L'Italia 1982 è questa. E non altra. E il peggio deve ancora venire.
* * * Bestemmio? E quando mai? Chi se non «questa» Repubblica, va nel carcere di Ascoli Piceno a chiedere consiglio al camorrista Cutolo, onde trovare il modo di liberare il democristiano Ciro Cirillo, prigioniero delle BR? Chi se non «questa» Repubblica sborsa, sia al camorrista Cutolo, sia al brigatista Senzani, fior di miliardi del contribuente italiano, onde riavere, sano e salvo, l'assessore Cirillo? Perché tante lamentele sulla alleanza BR-camorra? Il potere criminale è nel Palazzo, è nei Servizi di Informazione, è nella magistratura, è nelle banche, è dovunque. Tratta: da Sovrano a Sovrano.
* * * «L'emergenza morale è la prima direttiva del Governo», dichiara Giovanni Spadolini. Benissimo, ma partiamo con il piede giusto. E Spadolini -glielo abbiamo già cortesemente riferito- deve iniziare a bonificare la casa repubblicana. A cominciare dal potere massonico di Armando Corona, per il quale si è tanto battuto, e dal quale, nei pochi mesi vissuti da Gran Maestro, non ha avuto esempi di vita edificanti. Le carriere folgoranti. Sono una caratteristica essenziale di questa Repubblica. Flavio Carboni, socio in affari con la malavita, ma nel contempo, del Principe Carlo Caraccíolo (editore di "la Repubblica"), di Silvio Berlusconi (editore de "il Giornale"), amico di Ciriaco De Mita e del repubblicano Gran Maestro Armando Corona; Flavio Carboni è un uomo, è stato scritto, «da sessanta miliardi», messi su in cinque anni. Non contestiamo la libertà di fare i miliardi, buttandosi in politica, in pochi anni. Per carità! Solo ci dovrebbe essere un dovere tassativo: quando si fanno i miliardi, specie velocemente, per sé e per i potenti di cui si è portaborse, si deve dichiarare la ricetta, grazie alla quale, siamo divenuti miliardari. Altrimenti il... gioco non torna.
* * * Si è parlato di carriere sfolgoranti. Francesco Lisi, giornalista parlamentare. Anni fa la sua agenzia si batteva per due «grossi» personaggi dell'ENI: Di Donna Leonardo e Mazzanti Giorgio. Nel contempo non disdegnava vive simpatie per Arnaldo Forlani. A Montecitorio non si vede più. Però si consola con una villa sull'Appia antica, con piscina (olimpica) e tutti i comfort. E a Fiumicino tiene una barca (si fa per dire) con venti posti letto. Siamo felicissimi di fortune così rapide, ma la ricetta, la ricetta dove sta? * * * «La mafia è un vero e proprio potere istituzionalizzato che opera sul fronte delle attività lecite e su quello delle attività illecite, si muove dall'edilizia al traffico di droga. Tende a mantenere in vita questo Stato e a inserirsi sempre di più nei suoi gangli vitali per usarlo per i suoi fini. È impossibile combattere la mafia con il solo strumento giudiziario. È necessaria una decisione politica, ma invano. I documenti giudiziari rivelano volontà politiche di segno contrario. Un esempio? Ricordo un gruppo di mafiosi, che avevo posto sotto controllo per traffico di droga, telefonavano con frequenza alla Segreteria di un importante uomo politico democristiano». (Ferdinando Imposimato, giudice Istruttore del Tribunale di Roma, "l'Europeo", 31.5, pag. 14)
* * * Secondo Calvi (ancora in vita), per sistemare la situazione economico-giudiziaria sua e del gruppo "Rizzoli-Corriere della Sera", occorrevano cinquanta miliardi di tangenti. È finito, impiccato sotto il Ponte dei Frati Neri di Londra. Si vede non bastavano.
* * * «È questo ordito, questa qualità dei personaggi, questo retroscena di uomini e cose, il vero maggiore scandalo italiano. Ormai tra l'antropologia del potere camorrista e un tantino palazzinaro di qualunque Città del Mezzogiorno e l'antropologia del potere politico economico nazionale, fatte poche eccezioni, non esiste più alcuna differenza. Prima che la corruzione, sono le facce, i modi, le educazioni, il gusto, le biografie ad essere uguali». (Ernesto Galli della Loggia, "l’Europeo", 12.7.1982, pagina 5). «Questo cocktail di mestatori, di affaristi, di politici e di furfanti di ogni tipo che ormai rappresenta tanta parte del potere italiano e che è responsabile della degradazione senza fondo della nostra vita pubblica, non è nato dal nulla però e neppure si regge in piedi per forza propria. Esso è nato e si regge grazie al "sistema dei partiti", grazie all'esistenza di queste mostruose macchine di procacciamento di influenze, di soldi e di favori che sono i partiti, prima e più di ogni altro i partiti di governo. È nelle anticamere e nelle Segreterie dei partiti che convergono e si annodano i mille fili degli scandali italiani, ed è qui che bisogna reciderli». (Ernesto Galli della Loggia, "l'Europeo", 12.7.1982) A scrivere le su riferite considerazioni non è un «fascista». È il prof. Ernesto Galli della Loggia, un antifascista, un intellettuale democratico, professore di ruolo nell'Università di Perugia, i suoi Editori preferiti: Einaudi, Feltrinelli, il Mulino.
* * * Criminalità e potere politico: un tutto unico. Lo aveva capito perfino Pertini («il posto di alcuni uomini politici dovrebbe essere in galera»), poi lo va a smentire! E dire che una volta tanto l'aveva azzeccata! Dunque, «gli assassini sono tra noi, ma non in mezzo a noi: sono sopra, negli ingranaggi più delicati dello Stato». Lo scrive Galli Ernesto della Loggia.
Sarebbe un grave errore quello di farsi prendere per mano dal «regista» che, dai contenitori della Commissione parlamentare P2, scarica, alla pubblica opinione, palate di fatti a getto continuo, perché poi, alla fine, si perda il filo di tutto. Polverone, per non capire più nulla. Occorre non smarrirsi. Occorre rimanere attaccati all'essenziale e dell'essenziale chiedere, puntualmente e caparbiamente, ogni possibile chiarimento. E cominciamo a disboscare. La prima constatazione da fare è stabilire che non è vero nulla che, scoperti Gelli e la sua banda, le cose in Italia abbiano cominciato a marciare su binari diversi perlomeno puliti. Le cose, in Italia, anche dopo Gelli e con Spadolini, il presidente del Consiglio dei ministri dell'emergenza morale, sono continuate ad andare così come andavano ai tempi di Gelli. E tutti, chi consapevolmente, chi inconsciamente, si sono adeguati all'antico andazzo. Vediamo di dare corpo a questa affermazione, cominciando dall'alto. È il maggio 1982. Il presidente della Repubblica riceve al Quirinale il gran maestro della massoneria, appena eletto, il repubblicano Armando Corona. L'unico quotidiano a darne l'annuncio, per esteso e con evidenza, è "la Repubblica" di Scalfari-Caracciolo che così commenta: «L'incontro di ieri ha avuto come tema principale il rinnovamento della massoneria, sempre più tesa a liberarsi di una pesante eredità: i guasti e le trame nelle quali si era dibattuta negli ultimi decenni, soprattutto per colpa dei gran maestri che si erano succeduti. Gamberini, Salpini e Battelli crearono e alimentarono il potere di Gelli, dando alla sua loggia segreta, la P2, tutti i crismi della legalità massonica. Pertini concludeva la "Repubblica" ha raccomandato a Corona di adoperarsi affinché i massoni italiani possano sempre più imboccare la via degli «ampi orizzonti», liberi da qualsiasi forma di segreto, sulla scia dell'esempio anglosassone». Raccomandazioni inutili, perché la vicenda del banchiere Roberto Calvi ci dice che Armando Corona, e prima di essere nominato gran maestro e dopo che lo è diventato, ha continuato a gestire, nel segreto, e perfino a livello della Presidenza del Consiglio dei ministri, i guasti e le trame di cui prima si occupava Licio Gelli. Infatti dalle «registrazioni» eseguite da Flavio Carboni, registrazioni ora all'ascolto dei commissari della P2, che apprendiamo che la sistemazione del "Corriere della Sera" (il grande pacco, per usare l'espressione di Calvi), fin dal gennaio 1982, cioè quando Armando Corona non era ancora stato eletto gran maestro della massoneria, «dipendeva tutta da lui, era tutta nelle sue mani». È lo stesso Calvi a dire di avere spiegato la questione «ad Armandino», e di rimando il latitante, amico della malavita, Flavio Carboni, dice a Calvi: «Intanto Corona precisi il suo pensiero e le sue istruzioni, chiarisca la sua posizione perché è lui che si deve vedere con Spadolini». E Flavio Carboni dà anche i particolari dell'incontro Corona-Spadolini: il mercoledì successivo (è da stabilire se a colazione o a cena), presenti altre due persone, una di queste Aristide Gunnella (l'amico di Di Cristina Giuseppe, il boss mafioso della droga, quando è stato ucciso aveva, in tasca assegni per tre miliardi di lire!).
* * * È l'ipotesi del «grande pacco» da gestire e da spartire. E vengono fuori i nomi dei possibili acquirenti del "Corriere della Sera". Dice il banchiere: «Carlo non può uscire dal discorso "Corriere della Sera"». È Carlo Caracciolo, l'editore, insieme con Scalfari, de "la Repubblica" e de "L'Espresso". E Carboni, a questo punto della conversazione, sbotta: «E se vi dico che lunedì vedo Berlinguer?». Per capire: riallacciate alcuni fili. Nel «gran pacco» ci sono: Armando Corona che, di intesa con il presidente del Consiglio, gestisce il tutto, il gruppo editoriale Caracciolo-Scalfari; Flavio Carboni (che registra), socio in affari con Caracciolo ma, come vedremo, socio in intrallazzi con Armando Corona e faccendiere di quella sinistra DC che, proprio in quei giorni, sta divisando di eleggere Ciriaco De Mita segretario nazionale. Ecco precisati gli aspetti essenziali della vicenda, aspetti che non vanno assolutamente confusi nel polverone dei fatti che, come fuochi d'artificio, vengono fatti scoppiare in grembo alla Commissione P2, onde confondere le idee.
* * * Ha ragione Tremaglia: siamo ad una guerra fra due bande. Ed io, ora, sto tratteggiando la fisionomia di una di queste bande non trascurando l'altra che non è meno maleodorante di questa. L'identikit della banda, che voleva dare ad intendere agli italiani di- «moralizzare» la vita pubblica, pur avendo sempre gestito le proprie cose con i metodi di Gelli, spunta, inconfondibile, dall'ambiente di malaffare rappresentato da questo portaborse miliardario, Flavio Carboni, che si è fatto 60 miliardi nello spazio di tre anni. Descrivere la vita di questo filibustiere del Palazzo è tratteggiare l'identikit di coloro che, molto peggio di lui, di lui si sono serviti, ritenendo di far fessi gli italiani con sbandierate moralizzazioni che altro non erano che azioni truffaldine. La fortuna di Flavio Carboni si chiama l'accoppiata Corona-Caracciolo, ed è strettamente legata alle vicende dell'acquisto da parte dell'editoriale "L'Espresso", del quotidiano "La Nuova Sardegna". L'editoriale "L'Espresso" (Caracciolo-Scalfari) acquista dalla SIR finanziaria, fra l'aprile e il dicembre 1980, la maggioranza delle azioni della "Nuova Sardegna". Al termine di una complessa, e tutt'altro che limpida vicenda di ripartizioni delle azioni della società editrice "Nuova Sardegna", si ha questa situazione: "L'Espresso" 52%; SOFINT S.p.A., 35%; Franco di Suni 5%, Edisar s.r.l. 4%; SIR finanziaria 4%.
* * * Dietro questa ripartizione c'è l'inganno. Ed è un inganno che, innanzi tutto, colpisce, moralmente, il Consiglio Regionale della Sardegna che, nel dare corso alla vendita della "Nuova Sardegna", aveva stabilito condizioni tassative, una delle quali che l'acquirente avesse sì una quota rilevante della proprietà, ma non maggioritaria e che la rimanente fosse destinata, sotto la supervisione del Consiglio Regionale sardo, ad operatori economici dell'isola. Ed invece si scopre che l'editoriale "L'Espresso" di Caracciolo-Scalfari e la SOFINT di Flavio Carboni-Pellicani Emilio hanno, rispettivamente, il 52 per cento e il 35 per cento. Come è stato possibile? Ce lo dice lo stesso Caracciolo che, nel difendersi dalle contestazioni di avere acquistato "La Nuova Sardegna" truffaldinamente, scrive, in data 10.7.1981, al presidente della SIR Finanziaria (Gianni Fogu), affermando che tutto quanto è stato fatto e perfezionato, «dietro il previsto accordo con il presidente del Consiglio regionale» e che «se lo ritiene può all'occorrenza, mettere a disposizione la relativa corrispondenza».
* * * Chi era, al tempo dei fatti su menzionati, il presidente dei Consiglio regionale della Sardegna? Armando Corona, il nostro Armandino. Le domande, a questo punto, sono più di una. Flavio Carboni, a cui Caracciolo con il benestare di Corona, concede il 35 per cento delle azioni della "Nuova Sardegna", è uomo che interessa al principe-editore, socio di Scalfari, o interessa ad Armandino Corona? Se interessa quest'ultimo, la successiva domanda è d'obbligo: lo scambio perché Corona conceda, alle spalle e all'insaputa del Consiglio regionale della Sardegna, all'editoriale "L’Espresso" il 52 per cento, è quello che Caracciolo dia, a sua volta, a Flavio Carboni, braccio destro di Calvi, il 35 per cento delle azioni della "Nuova Sardegna"? E perché? Forse perché Calvi, a sua volta, avrebbe appoggiato Armandino a salire sul trono di gran maestro della massoneria?
* * * Supposizione non vera? Allora è vera quest'altra, per cui Corona vuole Carboni nella proprietà della "Nuova Sardegna" perché i profitti delle sue cliniche sono investiti nelle pianificazioni urbanistiche di Flavio Carboni, pianificazioni che la "Nuova Sardegna", da sinistra, protegge con i suoi articoli?
* * * Non è così? Allora, altra variante: Flavio Carboni fa comodo a Carlo Caracciolo, cioè è un prestanome, dietro il quale c'è il disegno editoriale, politico e industriale, che vede «insieme» la sinistra DC (in testa De Mita e l'attuale presidente della Giunta regionale sarda Angelo Roich), il gruppo editoriale Scalfari-Caracciolo, la «nuova destra» rappresentata da settori del PRI (Visentini - De Benedetti), tutti tesi e favorevoli all'intesa con il PCI? Non lo si dimentichi: l'operazione dell'acquisto della "Nuova Sardegna", da parte di Caracciolo-Scalfari, avviene nel 1980, quando il PRI governa la Sardegna insieme col PCI.
* * * Sono domande a cui si deve rispondere. Anche perché, sia Caracciolo, sia Armando Corona, interrogati dalla Commissione sull'informazione del Consiglio regionale sardo, circa il non rispetto dei patti nella vendita della "Nuova Sardegna", hanno dato risposte divergenti. Dove sta la verità?
* * * «Conosce De Mita? Sì. L'ho conosciuto due anni fa, all'epoca della sua nomina a vice segretario della DC. Me l'ha presentato un amico, di cui ho altissima stima, Angelo Roich (presidente della giunta regionale sarda - N.d.R.) una persona delle migliori, davvero inattaccabile sotto il profilo morale». (Parla l'allora latitante Flavio Carboni, "L'Espresso", 1.8.1982) Fermiamoci un po’: De Mita. Quando intorno al 22 giugno u.s. (il cadavere di Calvi è ancora caldo) vengono pubblicate le notizie della partecipazione di De Mita a cene organizzate da Flavio Carboni, il capo ufficio-stampa del segretario nazionale della DC, Clemente Mastella, invia note irate in cui si dice che ciò è completamente falso, in quanto «De Mita aveva incontrato Carboni una sola volta, e per pochi minuti, di pomeriggio, in compagnia dell'editore Carlo Caracciolo». «Corona ha anche raccontato ai commissari della P2 della cena, in casa Carboni, presenti il segretario nazionale della DC De Mita, l'editore Caracciolo, monsignor Hilary e l'uomo politico Roich. Alla cena -ha detto Corona- mi invitò Carboni, dicendomi che De Mita voleva conoscermi. De Mita, a quella cena -ha detto Corona- espose a grandi linee il discorso che avrebbe tenuto il giorno dopo al congresso del suo partito». ("Corriere della Sera", 30 luglio 1982)
* * * Qui non ci sono dubbi. Le bugie vengono dette da De Mita. E che bugie! Ora c'è anche la testimonianza di Armandino Corona, ma di quella cena sono venute fuori le fotografie. Non solo. "L'Europeo" (12.7.1982) pubblica, in bella evidenza, una fotografia di De Mita che, a braccetto di uno sconosciuto, esce dal Palazzetto dello Sport dove si tenevano i lavori del congresso nazionale della DC. Il settimanale, nella didascalia, si limita a scrivere: «sotto, il segretario nazionale della DC, Ciriaco De Mita». Non una parola dei personaggio che ha sottobraccio. Chi è costui? Un amico? Un delegato? L'autista? Un guardaspalle? Mistero.
* * * Passa qualche giorno e l’Agenzia Repubblica (15.7.1982) riproducendo la foto de "L'Europeo", avverte: guardate signori, che l'uomo accanto a De Mita è I'...uomo del giorno, cioè il faccendiere sardo Flavio Carboni, sulle cui tracce sono puntate le polizie di tutta l'Europa e oltre. "L'Europeo", credete voi, che accortosi di avere mancato il colpo, corregga il tiro dicendo nel numero successivo: guardate la foto l'abbiamo pubblicata noi, ed è vero, l'uomo sottobraccio a De Mita è proprio Flavio Carboni. È uno scandalo! Per carità, il rizzoliano "L’Europeo" si guarda bene dal fare un discorso simile. E come se nulla fosse, riproduce (numero del 27.7.1982) sì la foto, ma senza De Mita, con la didascalia: «a destra il latitante Flavio Carboni, colpito da mandato di cattura dopo la scomparsa del banchiere Roberto Calvi». E De Mita che è, affettuosamente, accanto? Scomparso. Questa è la ...deontologia professionale di certi settimanali che vorrebbero raccontare agli italiani la bella favola della moralizzazione della vita pubblica! È evidente: lo sterco accomuna tutti. E su tutti i versanti.
* * * Comunque, per riassumere: la presidenza della Repubblica, antesignana nella moralizzazione della vita pubblica, riceve, con tutti gli onori, Armando Corona che, al momento dell'...uso non altro dimostra di essere, e nella migliore delle ipotesi, che un faccendiere (Pertini direbbe un giannizzero); la presidenza del Consiglio dei ministri, che ha fatto dell'emergenza morale la sua direttiva principale va a cena con il gran maestro onde stilare con lui la «strategia» per spartire il gran pacco, cioè il "Corriere della Sera"; il segretario nazionale della DC, appena eletto al grido «rinnoveremo moralmente la DC», va subito a cena con portaborse intriganti e amici della malavita; il gruppo Caracciolo-Scalfari, grondante moralizzazione da tutti i pori, si trova «dentro» tutte le porcherie; Vaticano e massoneria, all'ombra dei soldi, si incontrano, trattano e concludono, fra abbondanti e succose portate e libagioni. Il tutto in un confronto di faccendieri il migliore dei quali è amico della malavita, il peggiore della mafia e della camorra. Questo è il quadro su cui cadono, come diversivo, i provvedimenti dell'austerità. Cancellare dalla memoria degli italiani porcherie e assassinii, per derubarli meglio. È la direttiva.
* * * Già, dimenticavamo, e i comunisti? "l'Unità" (20.7.1982), fra l'altro, ha scritto quanto segue: «Il gran maestro amico di affaristi che fanno affari con uno scambio mercantile con uomini politici, che organizzano registrazioni, ricatti e incursioni nelle correnti di partiti di governo; un gran maestro amico protettore e protetto da banchieri; un gran maestro amico di alti prelati ed editori di giornali; un gran maestro indifferentemente amico e socio di laici e cattolici, amici degli amici; un gran maestro che può far salire le scale della carriera a magistrati che saranno poi a lui devoti ed ubbidienti; un gran maestro che ha trovato mezzi e modi per sfasciare la giunta di sinistra in Sardegna e, vedi caso, viene poi eletto presidente della Regione un amico di Carboni a sua volta amico, suo; un gran maestro amico, confidente, consigliere del presidente del Consiglio. Ma non c'era in una loggia un altro personaggio che cominciò con questi metodi, con questo tipo di legami un'inarrestabile ascesa sino a sedersi sullo scanno massimo della P2? Non vorremmo che sciolta, per legge (e per chi ci crede) la P2, si vada via via costituendo la piramide di una P3».
* * * Sì, è vero, le cose stanno così come "l'Unità" le descrive. C'è solo un piccolo, importante «particolare». È che fino a quando Armando Corona, il gran massone, è stato, in Sardegna e fuori, il più valido sostenitore dell'intesa con il PCI, tutto andava bene. Anzi benissimo. Anche gli affari di Corona, detto Armandino. Appena il gran maestro, per giochi suoi e con mentalità tipicamente doppiogiochista «alla Licio Gelli», si è fatto regista di altre maggioranze, su Corona (e sui suoi affari) sono piovuti i fulmini del PCI. Corona è quello che è. Ma anche il PCI è quello di sempre: non il moralizzatore, ma il ricattatore. «Se stai con me, ti farò fare quello che vuoi, puoi rubare a piacimento. Se ti metti contro, grido "al ladro!"». Ditemi voi, cari Lettori, se il PCI può davvero rinnovare la vita pubblica italiana!
La Regione Emilia Romagna, la Provincia, e il Comune di Bologna, per il 2° anniversario della strage della Stazione del 2 agosto, hanno indetto un convegno sul terrorismo. Tre sono state le domande che hanno definito la traccia dei dibattito: 1) Perché non sono stati raggiunti risultati apprezzabili nelle indagini e nei processi sulle quattro grandi stragi «fasciste» degli ultimi 14 anni? 2) Quali coperture, complicità, connivenze hanno consentito al terrorismo nero di operare con tale spiegamento di mezzi, con tale violenza, senza pagare prezzi? 3) Quali iniziative occorre prendere per determinare una svolta alle indagini?
* * * Giorgio Galli, politologo, professore di dottrine politiche all'Università di Milano, scrittore, antifascista, invitato al Convegno di cui sopra, ne ha criticata l'impostazione su "Panorama" (2.8.1982). Infatti, argomenta Giorgio Galli, quel Convegno dà per scontato ciò che non è: che le stragi di piazza Fontana, Brescia, Italicus, e Bologna siano «fasciste», nel senso che mandanti ed esecutori abbiano una matrice politico-ideologica già identificata e riconducibile al fascismo storico. Questa identificazione, scrive Galli, non è avvenuta, ma vi è una documentazione imponente che suggerisce di approfondire le indagini nei confronti di «istituzioni» e «forze politiche» che con il fascismo non hanno nulla a che fare. Per questo, continua Galli, le iniziative al punto 3 dovrebbero consistere nell'impedire a tali «istituzioni» e «forze politiche» di interferire continuamente nelle indagini. Quanto ai mezzi (punto 2.) il terrorismo nero che si definisce tale (NAR e simili) mi pare, annota Galli, che non ne abbia molti, e un prezzo lo abbia pagato cori i suoi morti. «Per la mia formazione culturale -termina Giorgio Galli- le scelte di questi giovani sono radicalmente negative . Ma mi chiedo se non meritano qualche critica, istituzioni e forze politiche, il cui funzionamento specifico in Italia induce non pochi giovani a uccidere e a morire per quelle scelte negative».
* * * Le cose, così come si sono messe, sembrano dar pienamente ragione al politologo antifascista Giorgio Galli. Infatti, se ormai tutto ciò che è peccaminoso, comprese le stragi, si deve far risalire a Licio Gelli e alla sua banda (P2), le indagini non riguardano più il fascismo storico e quello presente, ma tutto il fronte antifascista e democratico uscito dalla «guerra di liberazione» del 1945, doppiogiochismo in testa. Infatti, che cosa ci dice quella «imponente documentazione» di cui ci parla Giorgio Galli, se non che l'ossatura organizzativa e operativa della banda P2, poteva contare sulla presenza di Presidenti della Repubblica, Presidenti del Consiglio dei Ministri, Ministri, Sottosegretari di Stato, Presidenti di gruppi parlamentari di maggioranza, dei vertici delle Forze Armate, dei Servizi di Sicurezza, del Comando della Guardia di Finanza, del vertice del Consiglio Superiore della Magistratura, di parlamentari, di militari, di funzionari dello Stato? Ora se la P2 è responsabile della strage di Bologna (i giornali: «su Gelli sempre più pesante il sospetto per la strage di Bologna», 1.8.1982), come si fa senza cadere nel ridicolo, ad insistere sulle stragi fasciste?
* * * Già si registrano i primi clamorosi incidenti di percorso. Infatti, domenica primo agosto, si sarebbe dovuto svolgere, sempre a Bologna e a latere del Convegno sul terrorismo, una tavola rotonda sullo stesso tema, ma la manifestazione è stata soppressa dal Comune di Bologna ("la Repubblica", 31.7.1982) «dopo che il PSDI aveva designato come suo rappresentante l'on. Costantino Belluscio, presunto P2». Ma se si colpisce Belluscio per l'accostata «P2-stragi fasciste», che fare di Pietro Longo anche lui piduista, Segretario nazionale dei PSDI, partito al governo? E di Silvano Labriola, Presidente dei deputati socialisti, che ne facciamo, visto che Ezio Giunchiglia, capozona P2, e in galera per la strage di Bologna, non più di pochi giorni fa, ha ribadito circostanziando le proprie dichiarazioni, davanti alla Commissione parlamentare P2, che il deputato socialista apparteneva alla loggia di Licio Gelli? E di coloro che, a cominciare dall'allora presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, per finire ad Andreotti e Craxi, ospitavano Gelli nelle riserve di caccia della Presidenza della Repubblica, o con lui colloquiavano, cosa ne facciamo? Se la P2 è responsabile, così come stampa, radio e TV ci hanno detto i primi d'agosto, della strage di Bologna, la Repubblica italiana, può fare fagotto. È finita. Ad assassinarla non è stato il fascismo. È stato l'antifascismo.
* * * Più di centocinquanta connazionali, residenti in Etiopia, hanno inviato al Presidente della Repubblica una vibrata protesta per la conferenza tenuta ad Addis Abeba dal prof. Angelo Del Boca «contro i crimini del colonialismo italiano». Una conferenza che ha praticamente messo allo sbaraglio tutta la comunità italiana residente in Etiopia. Il filo del discorso dell'... africanista (si fa per dire!) è quello dei suoi libri ("Gli Italiani in Africa", tre volumi, Laterza), per cui, seguendo uno schematismo barbaro, si qualifica come criminale tutta la colonizzazione pre-fascista, fascista e post-fascista dell'Italia. Colonizzazione -secondo il Del Boca- a non altro tesa se non ad annientare, e con ogni mezzo, quelle popolazioni. Il Del Boca non si è limitato a scrivere queste cose nei tre volumi (le sovvenzioni da dove sono venute?), ma è anche andato, a spese del contribuente italiano, a raccontarle in Etiopia, e davanti al regime di Menghistu che, in fatto di barbarie, non è secondo a nessuno. Usa, indifferentemente, contro i propri avversari: bombe al napalm e «cluster». In nome del comunismo annienta e distrugge. Somali e Eritrei ne sono dolorante testimonianza. Angelo Del Boca, da avventizio presso il Comune di Novara, sale ai fastigi del giornalismo di stato e della Cattedra universitaria. La carriera: rapida, folgorante. Tessera giusta in tasca (PSI), e la bocca piena di fiele, contro la propria Patria. Sono le condizioni ideali per salire, oggi, nell'Italia repubblicana.
* * * Nei 55 giorni del sequestro Moro furono effettuati: 72.460 posti di blocco; 37.702 perquisizioni domiciliari; il controllo di 6.413.713 persone; di 3.383.123 automezzi. Centocinquanta persone furono arrestate, 400 fermate. Aldo Moro non fu ritrovato.
* * * Severino Moschetti, 60 anni, Vice Presidente dell'Azienda Municipalizzata della Nettezza Urbana di Palermo, Segretario del PSDI. È stato arrestato. Dirigeva il traffico della droga fra Palermo e il Nord Italia, servendosi del telefono della sede del PSDI, posta in Piazza Matteotti. Niente paura. Alle prossime elezioni il PSDI a Palermo aumenterà i voti.
L'Accademia d'Italia è nata il 7 gennaio 1926, in pieno regime fascista. Dicono che il fascismo, sul piano della cultura, fu il regime degli «asini selvaggi». Asini. Nella classe "lettere" l'Accademia d'Italia annoverò «asini» come: Giovanni Gentile, Luigi Pirandello, Gabriele D'Annunzio, Giovanni Papini, F. T. Marinetti, Cesare Pascarella, Paolo Emilio Pavolini, Ugo Ojetti, Francesco Pastonchi, Guelfo Civinini, Emilio Cecchi, Massimo Bontempelli, Ettore Romagnoli, Antonio Beltramelli, Alfredo Papini, Ada Negri. Nella classe "arti" gli «asini», chiamati a far parte dell'Accademia d'Italia, furono: Pietro Mascagni, Francesco Cilea, Umberto Giordapio, Ildebrando Pizzetti, Lorenzo Perosi, Pietro Canonica, Marcello Piacentini, Ardengo Soffici, Ottorino Respighi. Nella classe "scienze morali e storiche" gli «asini» si chiamarono: Francesco Coppola, Amedeo Majuri, Pasquale Jannaccone, Alessandro Luzio, Roberto Paribeni, Vincenzo Mapizini, Clemente Merlo, Raffaele Pettazzoni, Gioacchino Volpe, Salvatore Riccobono, Francesco Oristano. Infine, nella classe "scienze fisiche e matematiche", ]'Accademia d'Italia ebbe «asini» come: Guglielmo Marconi, Enrico Fermi, Giancarlo Vallauri, Giotto Dainelli, Emilio Bianchi, Francesco Severi, Biagio Longo, Filippo Bottazzi. Sarebbe ora interessante che il regime «democratico», quindi della cultura, uscito dalla «guerra di liberazione» del 1945, tentasse di metter giù, nella classe lettere, arti, scienze morali, storiche, fisiche e matematiche, l'elenco dei propri campioni. Il confronto fra il regime degli «asini selvaggi» e quello della cultura, potrebbe apparire estremamente stimolante.
* * * Sul "Dizionario degli Italiani illustri e meschini" di Giovanni Ansaldo (Longanesi, 1980), trovo, al nome di Benito Mussolini, uomo politico (1883 - 1945), queste parole: «Rinviamo il lettore, curioso o malizioso, a ciò che sarà pubblicato su questo personaggio nel 1990».
* * * Due agosto 1945: muore Pietro Mascagni. Solo, come uno straccione. La sua colpa: fascista! Di Lui questo ricordo: «Sorride, guardandomi amichevolmente con i suoi timidi occhi pieni di cordialità; poi, stringendomi con atto paterno una spalla, aggiunge: in vita mia ho trovato due uomini veramente grandi che mi abbiano capito: Verdi e Mussolini. Verdi, un giorno mi parlò della mia musica proprio nel modo che desideravo. Mussolini, quando andai la prima volta da lui, mi disse: "son sempre stato, fin dalla mia gioventù un appassionato della vostra musica ed un ammiratore di voi come artista, ora vi conosco di persona, vi ammiro come uomo e vi voglio bene. Contate sempre su di me"». (Ardengo Soffici, "Corriere della Sera", 3 agosto 1955).
* * * Il 30.6.1932 viene fondata Littoria, il 5.8.1933 Sabaudia, il 19.12.1934 Pontinia, il 25.4.1936 Aprilia, il 22.4.1938 Pomezia. Sabaudia fu edificata in 235 giorni, Littoria in meno di un anno. Città funzionanti, con tutti i servizi. Oggi, per terminare un fabbricato pubblico di 24 alloggi, non è sufficiente un anno e mezzo.
* * * «La legge che rende obbligatoria la pubblicità dei redditi e della dichiarazione patrimoniale dei deputati, senatori, consiglieri regionali, provinciali e comunali, nonché di quanti ricoprono cariche direttive, di nomina governativa, enti pubblici, giunge con decenni di ritardo ...». (Leo Valiani, "Corriere della Sera", 19.7.1982). Ha ragione Leo Valiani: con ritardo, con imperdonabile ritardo. Ho, sotto di me, in data maggio 1925, la dichiarazione dei redditi di Mussolini Benito, Presidente del Consiglio dei Ministri, residente nel Comune di Roma, Via Rasella n. 155, piano 3. Ecco quanto dichiarava al fisco il Padrone d'Italia, 57 anni fa: * Stipendio e indennità di Ministro e Presidente del Consiglio: trentaduermla e trecento ventitre lire l'anno, pari a meno di tre mila lire il mese. * Indennità di rappresentanza nella qualità di Presidente del Consiglio dei Ministri: cinquemiladuecentonovantadue lire, pari a meno di 500 lire al mese. * Assegno annuo di deputato: quindicimila lire annue pari a 1.250 al mese. * Assegno annuo di Direttore de "Il Popolo d'Italia": sessantamila lire annue, pari a 5.000 lire al mese. * Tre terreni nel comune di Predappio e nel comune di Meldola. Un fabbricato in Predappio, per un imponibile complessivo dichiarato di 3.466 lire (da notare che l'imponibile accertato dall'ufficio, e segnato a matita sulla dichiarazione dei redditi redatta da Mussolini, risulta inferiore a quello dichiarato dal contribuente). * Reddito globale soggetto all'imposta del cavaliere Benito Mussolini: 95.000 lire e 481 all'anno, con la tassazione annuale di 3.733 lire e 50 centesimi. Venti anni dopo quella dichiarazione, nell'aprile 1945, Benito Mussolini veniva appiccato ai ganci di Piazzale Loreto, con la testa all'ingiù.
* * * Nel celeberrimo disegno di Giovanni Guareschi è raffigurato un padre che, con l'ombrello alzato, indica, al figlio accanto, il distributore di benzina, ai cui ganci venne appeso Mussolini, con queste parole: «L’impiccarono per i piedi, ma non uscì un soldo, dalle loro tasche. Vedrai come sarà diversa quando impiccheranno per i piedi questi altri».
* * * «Nessun rilievo si può fare alla correttezza di Mussolini nella gestione finanziaria dello Stato. Le sue responsabilità morali sono altrove. D'altro canto io in TV non ho fatto una domanda che faccio adesso: perché non si pubblicano i risultati dell'inchiesta compiuta dalla Commissione incaricata di accertare i profitti del regime fascista? La Commissione fu formata nel 1944, l'inchiesta la condussero uomini insospettabili come l'on. Scoccimarro e il padre di Berlinguer. Non se ne è mai saputo nulla». (Giulio Andreotti, "Il Messaggero", 22.7.1971)
* * * Già, non se ne è saputo più nulla. Di quelli che ci governano si sa invece tutto. In un quadriennio (1978 -1982) sono già saltate quattro banche: l'Italcasse, la Fabbrocini, la Steinhauslin e l'Ambrosiano! Ammazzali, che fame! Le conclusioni, del resto, le ha tratte Pertini: «dovrebbero essere in prigione, non al potere!». Fate bene attenzione alle parole. Pertini non ha detto genericamente «uomini politici», ha specificato: sono al potere. E se lo dice lui!
* * * Millesimo: piccolo centro di 3.600 abitanti in provincia di Savona. Gli amministratori hanno deciso di cancellare dalle strade tutti i nomi che ricordano «il malfamato ventennio». Sono state così cancellate Via Gabriele d’Annunzio, Via Fiume, Via 11 Febbraio (la Conciliazione fra lo Stato e la Chiesa). Hanno fatto bene. Ora passeranno da Sandro Pertini, anche lui savonese, e si faranno dare i nomi dei politici che, anziché al potere, dovrebbero stare in carcere. Ed è a loro che gli abitanti di Millesimo intitoleranno le loro strade. Gesù, fate luce!
«Cosa la colpì particolarmente nella cerimonia di iniziazione a massone?» «C'è un momento molto delicato nella cerimonia d'iniziazione: è quello in cui all'iniziando vengono tolti tutti i metalli che ha indosso, dai soldi all'orologio. Non gli resta alcun oggetto di valore. A quel punto il Venerabile della Loggia dice all'iniziando: ricordati che in questo momento sei assolutamente bisognoso di tutti. Tutti i fratelli sono qui disponibili, ma tu non dimenticare mai che essi potrebbero trovarsi nelle stesse condizioni, e tu devi avere la stessa disponibilità. Questo è un fatto meraviglioso ...». (Armando Corona, il Gran Maestro della Massoneria si confessa, "L'Espresso", 15.8.82)
* * * «Massoni di ogni tipo, loggia e nazionalità stanno insieme solo per far soldi. Affari talvolta leciti, talvolta illeciti, ma niente altro che affari. Tutte le logge sono bande di affaristi. Ma le pare che, se la carica di Gran Maestro fosse una carica soltanto onorifica di una associazione di beneficenza, si scatenerebbero le lotte che ci sono state negli ultimi venti anni? E si spenderebbero tutti quei soldi per le campagne elettorali. Lo sa che l'ex-Gran Maestro Ennio Battelli ha speso qualcosa tra i sei-settecento milioni, raccolti tra le logge massoniche soprattutto in Toscana, Liguria e Lombardia? E Armando Corona, il Gran Maestro in carica, secondo testimonianze raccolte dalla Commissione (Commissione di inchiesta parlamentare sulla P2 - N.d.R.) ha speso all'incirca altrettanto, anche se lui smentisce?». ("Licio Gelli o Corona, per me pari sono", sen. Bernardo D'Arezzo, "L'Europeo", 23.8.1982)
* * * «E lei è povero, dottor Corona?» «Non l'ho detto». «Quale è il suo patrimonio? Diciamo dieci miliardi?» «Magari. Io posseggo la casa, qualche appartamento e un po' di BOT». (Armando Corona, "L'Espresso", 15.8.1982).
* * * «In proprio il Gran Maestro ha poi condotto compravendite immobiliari per investire i profitti della sua clinica. Oggi Corona fa il sacerdote degli immortali principi dell'89 (libertà, eguaglianza, fraternità) che animano la massoneria, "guida la ricerca dell'elevazione materiale, spirituale e morale dell'uomo". Racconta impietosamente un amico di Sassari del Gran Maestro: inutile scandalizzarsi o cercare scandali. Armandino è solo un trafficante cui piace, anche solo per questo, di sentirsi un padrino, infilarsi nelle grandi cose, come nell’affaruccio di bottega. È il vizio di tutti i taccagni come lui. Una prova? La casa in cui Corona abita, durante i soggiorni romani, è di proprietà di Flavio Carboni ...». ("L'Europeo", 26.7.1982).
* * * Domanda: «In una delle registrazioni dei colloqui di Flavio Carboni con Calvi si chiedono cinque miliardi per la sua campagna elettorale massonica». Risposta: «Né 5 miliardi, né 800 milioni, né una sola lire io ho avuto da Calvi. Se poi davvero Carboni avesse chiesto denari a Calvi, millantando il mio nome, allora dovrei amaramente pentirmi di avergli dato credito». (Armando Corona, "L'Espresso", 15.8.1982).
* * * «Chi paga le spese elettorali per la campagna del Gran Maestro? In contrasto con quanto affermato la scorsa settimana dall'attuale Gran Maestro Armando Corona, Salvini ha detto che il Grande Oriente provvede solo alla stampa di alcuni volantini; i candidati poi si fanno finanziare dai loro sostenitori. Una campagna elettorale, oggi come oggi, per Salvini, può costare dai 500 ai 700 milioni, tenendo conto che c'è da raggiungere tutte le 97 province italiane». ("P2: Salvini smentisce Corona e ribadisce la sua verità", "Corriere della Sera", 4.8.82)
* * * Da "la Repubblica" (15.8.1982): «L'inchiesta passa alla Procura di Torino. Gli assegni della FIAT alla massoneria. Ora si parla di 10 miliardi di lire».
* * * «La parte sana della massoneria non esiste. La massoneria tenta di accreditarsi come cosa diversa e pulita rispetto alla Loggia P2, la quale sarebbe stata una deviazione riprovevole, una degenerazione. Dai documenti che abbiamo visto e dagli interrogatori che abbiamo svolto (Commissione di inchiesta parlamentare sulla P2), invece, mi sono fatto l'idea che massoneria e P2 siano la stessa cosa». (sen. Bernardo D'Arezzo, "L'Europeo", 23.8.1982)
* * * «Laureato in medicina, massone dal 61, repubblicano dal 64, Corona ha lavorato in silenzio, ma anche di gomito. La sua ascesa, e nel partito e nella Istituzione, è stata lenta ma irreversibile. Nel 1977 diviene Presidente della Giunta sarda e membro della Segreteria nazionale dei PRI. E nel PRI conta importanti amicizie, al punto che nel dicembre scorso Giovanni Spadolini e Giorgio La Malfa volano su un aereo militare alla volta della Sardegna per partecipare a una cerimonia ufficiale e anche alle nozze di una figlia dell'Armandino (al matrimonio Flavio Carboni siede accanto a Spadolini - N.d.R.)». ("L'Espresso", 11.4.1982)
* * * La SOFINT, la società finanziaria di Flavio Carboni (in carcere a Lugano per la vicenda Calvi, amico del Gran Maestro Armando Corona, di Ciriaco De Mita, di rappresentanti della finanza vaticana, del gruppo editoriale Scalfari-Caracciolo), è ora al centro di tre inchieste giudiziarie (Trieste, Milano, Palermo): la si vuole al centro del riciclaggio di denaro sporco proveniente dai sequestri di persona e dal traffico della droga, il tutto pilotato dalla mafia. Il partito della malavita fa i suoi affari fra sequestri, droga, violenza, sangue, assassini, e uomini del Palazzo.
* * * Da una bobina (stranamente rimasta al Palazzo di Giustizia di Roma e non richiesta dalla Commissione parlamentare sulla P2, questa telefonata. Da un capo c'è Licio Gelli, dall'altro Tassan Din, direttore generale della Rizzoli-Corriere della Sera. Ascoltiamola: Gelli: «Nel 1979 (...) il Presidente di una Accademia che organizza un concorso (...) C'era anche un certo Zavoli, l'attuale Zavoli ...» Tassan Din: «Sì, sì» Gelli: «C'era anche un Chiari, un certo Chiari» Tassan Din: «Piero Chiara, forse ...» Gelli: «Dovevo partecipare perché c'era l'assegnazione di un premio e il Presidente mi aveva scritto e mi aveva mandato l'invito. C'è un senatore, diceva, che vuol conoscerti perché vuole entrare nella Istituzione ...» Tassan Din: «Chi era questo senatore?» Gelli: «Aspetta, aspetta. Voleva che anche intervenissi presso il suo gruppo. Chiedeva di essere più reclamizzato. Diceva: io sono stato direttore del "Corrierone" e sono rimasto una stella di prima grandezza per tutti i giornali. Oggi è Presidente ...» Tassan Din: «Spadolini?» Gelli: «Sì»
* * * È augurabile che la vicenda, recentissima, del Gran Maestro Armando Corona e quella, meno recente, di Licio Gelli, capo della P2, per cui fra i due, secondo il sen. Bernardo D'Arezzo membro della Commissione di inchiesta, non esiste alcuna differenza, venga ricordata a Giovanni Spadolini. Magari nel prossimo dibattito sulla fiducia del governo, uscito dalle doglie di agosto. Si tratta, dopo tutto, di una delle quattro emergenze spadoliniane, quella morale.
* * * Nel momento in cui si ricomponeva la crisi di governo, il Nuovo Ambrosiano veniva spartito, complice la Banca d'Italia, fra la DC, il PSI e il Vaticano. Non la grande riforma, ma le mangianze fanno certi miracoli. Evviva la moralizzazione della vita pubblica!
Il giornalista Mino Pecorelli viene assassinato il 20.3.1979, in Via Orazio, in Roma. Sono le 20,45. Presso la Commissione Parlamentare di inchiesta sulla P2, è depositata l'agenda personale di Pecorelli. Con gli appuntamenti, scritti di suo pugno, fino al giorno 21 marzo. È arrivato a vivere fino alle 20,45 del giorno 20 marzo. Ecco, comunque, gli ultimi appuntamenti di Mino Pecorelli: 1 marzo: Evangelisti, Addario. 2 marzo: D'Amato. 5 marzo: Evangelisti, telefonare Treviso Ciarrapico, Bonino, Piccoli, Pistilli, Carenini. 6 marzo: Federico Bonino. 7 marzo: Cena Carenini, Addario, Evangelisti, Picchioni ore 14. 8 marzo: Sandro, Licio, Berlusconi, Niutta, Lo Prete, Picchioni, Evangelisti. 12 marzo: Picchioni, Evangelisti. 13 marzo: Vitalone, Ciarrapico, Evangelisti. 14 marzo: Evangelisti, Ciarrapico, Valori, Addario. 15 marzo: Picchioni, cena Licio. 16 marzo: Infelisi, Bonino, Vitalone, Ciarrapico, Addario. 17/18 marzo: Berlusconi, Bonino, Caltagirone, Giudice, Evangelisti, Arcaini. 19 marzo: Evangelisti, Trisolini, Federico. 20 marzo: Picchioni Bruno. 21 marzo: Bonino, 20,30 cena Licio.
* * * Nel dialogo con i lettori, Nello Ajello su "L'Espresso" (22.8.1982) replica ad un cittadino che, elencate le entrate dei Sindacato CGIL (4 milioni e 500 mila iscritti, a 7000 lire a lavoratore al mese, fanno 378 miliardi e 800 milioni annui), e le spese (5.000 dipendenti a 40 milioni l'uno, portano la spesa annua a 200 miliardi), si chiede chi intasca i rimanenti 215 miliardi e 800 milioni. Ajello scrive che «a prescindere dall'onestà dei dirigenti e della loro dedizione al pubblico bene, si è portati ad escludere che su quei finanziamenti si possano fare creste (sic! N.d.R.) come quelle citate dal lettore». Non la pensava così Giorgio Amendola. Infatti su "Rinascita" (7.2.1975) sotto il titolo "Conoscere e discutere i fatti", scriveva: «Mi sembra giusto che si conosca tutto sulla struttura del movimento sindacale. Il sistema di delega per la trattenuta della busta paga, ha fornito ingenti e crescenti mezzi finanziari. Gli apparati sindacali, per far fronte alle nuove esigenze, si sono irrobustiti; è aumentato il numero dei funzionari. I dati relativi ci saranno certamente, nascosti in qualche relazione o documento sindacale, ma dovrebbero essere fatti conoscere a tutti i cittadini: il numero dei funzionari di categoria, delle Camere del lavoro, delle direzioni confederali, il livello dei loro stipendi (tutto compreso), il loro titolo di studio, la loro origine sociale, il loro orientamento politico». Ajello, a diversità di Amendola, si fida; però ammette che i dati della sua risposta «all'aggressivo lettore» provengono dalla sezione economica de "L'Espresso", in quanto quelli del Sindacato, come scrive Amendola, continuano ad essere tenuti nascosti. È veramente un po' poco per un settimanale come "L'Espresso". Quel lettore, scrivendo al sterminatale radicale, si domanda «se avrà il coraggio e la volontà» di affrontare fino in fondo l'argomento trattato. Ebbene: questo coraggio e questa volontà "L'Espresso" non l'ha avuta! I Sindacati intascano fior di miliardi. Di come li amministrano nulla si sa. Top secret. Non ci è riuscito Amendola, figuriamoci Ajello!
* * * Qualcuno dei parlamentari ha mosso all'ex-Gran Maestro della massoneria Lino Salvini, il rimprovero di avere mostrato uno scarso polso verso Licio Gelli. E allora Salvini, sorbendo le ultime gocce di un caffè, ha detto: «Vedete, io sono un cittadino allevato nel rispetto dei valori e dell'ordine costituito. Cosa dovevo pensare quando vedevo i generali della Finanza, quelli dei carabinieri, i capi dei servizi segreti, Sottosegretari e Ministri che andavano a braccetto con Gelli e avevano per lui grande ammirazione?» ("Corriere della Sera", 4.8.1982).
* * * Ascoltate ora questa lucida descrizione della differenza che passa fra il partito politico e la mafia. «Le differenze fra mafia e partito politico per me sono due. La prima riguarda i metodi di selezione. Nei partiti essa avviene spesso a rovescio, cioè elimina gli uomini e porta in alto i praticoni, i caporalucci, versati soltanto alle manovrette di corridoio e nel piccolo imbroglio. Nella mafia no. Nella mafia non si diventa pezzi da novanta se non si possiedono certe qualità. E non è vero che si tratti di qualità esclusivamente criminali: tanto è vero che il killer rimane killer. Lo dimostra la vicenda Giuliano, che la mafia non riconobbe mai come uno dei suoi capi, e quando volle imporsi come tale, lo fece fuori. Essa divide i suoi adepti secondo una gerarchia dei valori molto precisa: gli òmmini, i mezzi òmmini, gli omminiccoli, e i quacquaracquà. Ed è certo che la qualità corrisponde esattamente ai meriti, come non credo avvenga nei partiti». «La seconda differenza fra i partiti e la mafia riguarda la tecnica della lotta di potere. Che anche dentro la mafia questa lotta ci sia, e spietata, non c'è dubbio. Ma essa segue un regolamento e dei rituali che rendono per lo meno inequivocabili gli schieramenti. Nella mafia non c'è confusione: l'amicizia è amicizia, l'inimicizia è inimicizia, entrambe irrevocabili. I due campi sono nettamente separati, tanto è vero che su chi lo cambia si abbatte un castigo inflitto secondo procedure che lo rendono esemplare. Nei partiti politici le amicizie sono tutte a termine. Vengono imbastite per eliminare un comune nemico, con cui poi si fa lega per eliminare l'amico. Il passaggio di campo non espone ad alcun castigo perché è connestato da una sottintesa licenza di tradire. Non ci sono dei soldati riconoscibili per la loro bandiera e uniforme, ma soltanto dei travestiti impegnati in una quadriglia dalle figure perpetuamente cangianti. E tanto più uno acquista credito e prestigio, quanto maggiore è la sua disinvoltura nel fare e disporre le sue combinazioni». «Ma a questo punto non fraintendetemi. Con ciò non voglio dire che la mafia è meglio dei partiti. Dio me ne guardi. Voglio soltanto dire che i partiti sono peggio della mafia». D'accordo. Ma sapete chi è l'autore di queste considerazioni? Indro Montanelli, "Corriere della Sera", 4 novembre 1972.
* * * I palestinesi ricordano ancora le spedizioni punitive della famigerata "Unità 101" comandata da Arik Sharon. Nel 1953, dopo l'uccisione di tre israeliani in un kibbutz di frontiera, lo incaricarono di completare una rappresaglia nel villaggio cisgiordano di Kibja. Sharon fece saltare 46 case, dopo avere chiuso gli abitanti negli scantinati: ci furono 69 morti, in gran parte donne e bambini. «Non sapevo che ci fosse gente là dentro», si giustificò. Ben Gurion, allora Capo del governo, annotò nel suo diario: «Arik sarebbe un buon leader se riuscisse a liberarsi del vizio di mentire». Al processo di Norimberga (novembre 1945 - ottobre 1946), nei capi di imputazione che portano alla condanna per impiccagione dei capi del nazismo, c'è anche la rappresaglia. Del tipo di quella adottata da Arik Sharon, in Cisgiordania, nel 1953.
Nel novembre. 1970 venne eletto a Palermo, sindaco della Città, Vito Ciancimino, cioè uno dei personaggi democristiani oggi chiacchierati di essere parte di quell'ambiente politico nel quale -secondo Nando Dalla Chiesa- vanno ricercati i mandanti morali dell'assassinio del Prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, di sua moglie Emanuela e dell'agente della scorta. L'elezione di Vito Ciancimino, e di una Giunta tripartita (DC, PRI, PSI e PSDI, allora unificati nel PSU), determinò proteste che giunsero fino ad investire la Commissione di inchiesta parlamentare sulla mafia, la quale chiese che il dossier sul Comune di Palermo, redatto allora dal colonnello Dalla Chiesa in servizio a Palermo, venisse subito discusso dal Parlamento. Nel contempo venne presentata all'Assemblea regionale siciliana una mozione di sfiducia nei riguardi della Giunta Ciancimino, chiedendone le immediate dimissioni. Chi reagì in modo clamoroso, sostenendo che se si faceva cadere «Vito Ciancimino e la sua Giunta, lui, dall'alto del suo trono romano, avrebbe fatto cadere il Governo nazionale». Ugo La Malfa. Sì, lui in persona. «Se passa la mozione contro Vito Ciancimino faccio la crisi dappertutto», dichiarò l'allora segretario nazionale del PRI, partito al Governo con il ministro di Grazia e Giustizia Oronzo Reale, i sottosegretari Oscar Mammì all'Industria e Oddo Biasini alla Pubblica Istruzione. A noi questa vicenda di 12 anni fa, non fa meraviglia, come non fa meraviglia che l'attuale deputato del PRI Aristide Gunnella, più volte sottosegretario di Stato, salvato da Ugo La Malfa dall'essere espulso «per mafia» dal PRI (La Malfa, al Congresso del PRI di Genova del febbraio 1975, costrinse i delegati a votare, pro o contro, il lodo dei probiviri dei PRI che avevano deciso l'espulsione di Gunnella, in tre urne diverse con su scritto «a favore», «contro», «astenuto»), non abbia chiesto, nell'ultimo dibattito sulla fiducia al 2° governo Spadolini, la Commissione di indagine, onde tutelare la propria onorabilità, quando Almirante gli ha ricordato di essere stato in intimità con il boss mafioso, trafficante di droga, Giuseppe Di Cristina, assassinato a Palermo nel 1978 con tre miliardi di assegni nel portafoglio.
* * * Sono cose che capitano, anche nelle più belle famiglie democratiche, tal che non ci stupisce che lo stesso presidente del Consiglio Spadolini, da Bari, abbia cercato di gettare acqua sul fuoco della «crociata» contro le collusioni politico-mafiose affermando che, «È ingiusto criminalizzare interi partiti o intere correnti di partito». Sì è ingiusto, e nessuno più di noi può dire ciò, ma è anche profondamente immorale tenere nel proprio partito, di cui fra l'altro si è segretario nazionale, personaggi che i probiviri del PRI avevano bollato di indegnità e quindi degni dell'espulsione. In base a «prove», non a chiacchiere, senatore Spadolini.
* * * Ma la vicenda di Vito Ciancimino del novembre-dicembre 1970 ci ricorda (come è altrettanto smemorata la stampa nazionale) un altro episodio, e cioè che l'allora segretario nazionale della DC Arnaldo Forlani, non certo soddisfatto dell'operazione palermitana, accusò, non solo l'onorevole Gioia e tutta la corrente fanfaniana, ma lo stesso Piersanti Mattarella, di averla pensata, architettata, attuata. C'è di più. Tutta l'operazione Ciancimino del novembre-dicembre 1970 è pilotata dalla corrente che, in Sicilia, è rappresentata dall'uomo di Stato Amintore Fanfani. Non lo si dimentichi: Ciancimino, Lima, Gioia, prima di passare i primi due ad Andreotti e l'altro a miglior vita, erano i «coccoli» del presidente del Senato, la seconda autorità della Repubblica italiana. Tanto coccoli da far prendere allo stesso presidente del Senato iniziative sconcertanti, come quella di ritardare la pubblicazione del volume IV, torno IX dell'Antimafia a dopo le elezioni amministrative del 1980 perché, se pubblicato prima, avrebbe potuto danneggiare i suoi «pupilli». Volume IV, Tomi IX e X. Sono i volumi che contengono i rapporti di Carlo Alberto Dalla Chiesa (i segreti, che non sono segreti, sono contenuti lì dentro), quando era al comando, come colonnello, della Legione dei Carabinieri di Palermo. Se si sfogliano, nel mirino dei Generale assassinato, chi troviamo se non Salvo Lima (deputato DC europeo, la cui elezione è costata tre miliardi di lire); Mario D'Acquisto, attuale presidente della Regione Siciliana; Vito Ciancimino; Rosario Nicoletti, segretario regionale DC, già direttore dell'Ufficio tecnico del Comune di Palermo durante il «sacco»?
* * * Per oggi (ne pubblicheremo altre) questa lettera. È datata 27 maggio 1971. Mittente: il Ministero dell'Interno, Centro nazionale di coordinamento delle operazioni di polizia criminale, Direzione Polcrim, Sezione reati di mafia. Destinazione della lettera: Ministero di Grazia e Giustizia, Istituti di Prevenzione e Pena. Oggetto della lettera: Vincenzo e Filippo Rimi, detenuti. Leggiamola, insieme: «Nel corso di importanti indagini di Polizia Giudiziaria, eseguite di recente nella Sicilia Occidentale, si è dovuto controllare se gli ergastolani indicati in oggetto avessero avuto contatti esterni al carcere e, particolarmente, con elementi mafiosi di loro fiducia. Si è così appurato che i due Rimi, rispettivamente padre e figlio, malgrado l'uno figurasse a Ragusa e l'altro a Noto, avevano trascorso insieme oltre un anno di detenzione nel carcere di Ragusa e precisamente: dal 22 febbraio 1970 al 25 marzo 1971. Infatti, il Rimi Filippo, trovandosi detenuto a Noto, aveva chiesto e ottenuto da codesto Ministero un colloquio con il padre, rinchiuso nel carcere di Ragusa, nel quale, una volta giunto, era rimasto per oltre 13 mesi. Lo stesso Rimi Filippo risulta essere stato trasferito, il 25.3.1971, alle carceri di Messina, all'evidente scopo di ottenere la dichiarazione di minorato, per poi essere assegnato a Ragusa, nella stessa "Sezione" del padre. La vicenda ha suscitato viva perplessità da parte di questo Dicastero, tenuto conto che, trattandosi di individui mafiosi pericolosissimi e tuttora capaci di organizzare qualsiasi attività illecita, anche dal carcere, sarebbe stato più opportuno evitare che essi si incontrassero. Pertanto, si prega vivamente codesto Ministero di disporre che i due ergastolani in argomento siano destinati definitivamente in differenti stabilimenti di pena, quanto più possibile lontani dalla Sicilia, allo scopo di non consentire che essi possano continuare a mantenere collegamenti con l'ambiente locale, in cui godono di moltissimo ascendente. Si gradirà cortese riscontro. Per il Ministro». Lo sapete chi c'era alla testa del Ministero della Giustizia, mentre erano «facilitati» questi incontri (con visite mediche di comodo) fra i due ergastolani, incontri che, a detta del Centro nazionale anticrimine, portavano ad attività mafiose, cioè delinquenziali, fuori dal carcere? Ministro di Grazia e Giustizia: Oronzo Reale (PRI). Sottosegretari alla Giustizia: Michele Pellicani (PSI), Erminio Pennacchini (DC), Renato Dell'Andro (DC).
* * * Indro Montanelli, nella polemica con Giorgio Bocca che ha accusato i politici di essere i mandanti morali dell'assassinio di Dalla Chiesa, ha chiesto: fuori le prove. Questo appunto. Mittente: Ministero di Grazia e Giustizia, il Segretario particolare del Ministro. Destinatario: per S. E. Pietro Manca, e Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena. Ecco il testo: «Il detenuto Filippo Rimi, ristretto nelle carceri giudiziarie di Ragusa, aspira ad ottenere un'ulteriore proroga alla sua permanenza nel suddetto carcere. Poiché in favore del predetto pervengono vivissime premure all'onorevole Ministro, La prego di voler cortesemente esaminare la possibilità di soddisfare tale aspirazione. Nel ringraziarLa, Le porgo deferenti ossequi. Firmato: Mario Bergesio». Il desiderio dell'ergastolano Rimi veniva esaudito per volontà del Ministro di Grazia e Giustizia e così, a detta della polizia criminale, l'attività mafiosa dal carcere poteva essere continuata. Nessuno, nel 1970 e oltre, ha chiesto a Oronzo Reale, Michele Pellicani, Erminio Pennacchini e Renato Dell'Andro, conto del loro operato. Questa storia l'ha scritta tutta l'umile sottoscritto. È raccolta nei polverosi volumi dell'antimafia. Non li legge nessuno e poi ci si domanda, davanti ai tremendi fatti di sangue, «ma perché?».
Si è svolto a Viareggio, alla fine di settembre, il convegno dell'associazione nazionale Comuni Italiani (ANCI). Andreatta ha definito l'ANCI il partito più forte d'Italia, capace di esercitare sul Parlamento pressioni alle quali questo non è in grado di resistere. Sono scesi, dalle metropoli e dai più sperduti comuni della penisola (in 5.000 si dice), su Viareggio: presidenti di regione, sindaci, assessori, consiglieri regionali, comunali, provinciali, delle unità sanitarie locali, con tutto il codazzo di auto-blu, porta borse, e inservienti vari. Quanto costi al contribuente (perché è lui che paga) questa manifestazione ciarliera, non si è mai saputo, ma non è azzardato dire che si arriva a svariati miliardi di lire. Particolare esilarante: partecipanti 5.000; capienza del teatro per il convegno: 600 persone. E le altre 4.400 dove sono andate? A spasso?
* * * Sono precipitati su Viareggio, quest'anno, inalberando, più che mai, la bandiera delle autonomie contro i tagli che, con la legge finanziaria, il governo ha operato sui bilanci delle regioni, dei comuni, delle province e delle USL. Sui giornali il dibattito è stato descritto duro, serrato, argomentato, a volte drammatico. Questi difensori, dunque, delle autonomie locali, cittadini tutti di un pezzo, davvero integerrimi? Per alcuni non si direbbe. Infatti, dietro le parole appassionate, argomentate, dure, si è svolta una ben diversa recita elle ha avuto a protagonisti «personaggi» che, anziché essere venuti a Viareggio, a portare il proprio contributo di idee e di partecipazione alla battaglia in difesa delle autonomie, dimostravano di essere là con ben altri intenti. Le autonomie? Lontanissime. I tagli ai bilanci? Ma che roba è? Predominante: il desiderio di godersi il sole settembrino, il mare, l'aria della Versilia.
* * * E veniamo agli episodi. Gli enti locali (comuni, province, regioni) per sei pasti e tre pernottamenti sborsavano, per ogni singolo partecipante, 395.000 lire. Cosa è accaduto? È accaduto che diversi «personaggi» si sono presentati all'albergo, loro assegnato, e hanno fatto presso a poco questo discorso: «io non mangio e non pernotto. Datemi indietro il valore (in lire) dei buoni». E così è stato. Altri, anziché la quota fissata in 395.000 lire, erano autorizzati, dai rispettivi comuni, a mangiare e a dormire; sarebbero poi stati rimborsati a presentazione di ricevute e fatture. Ci sono stati casi in cui i partecipanti avevano ricevuto dal proprio comune la cifra di 400 mila lire solo per il vitto. Si è presentato il problema di come era possibile consumare quella cifra in tre giorni. Presto detto. Sono andati a mangiare in due. Non solo. Coloro che avevano il cosiddetto rimborso «a pie’ di lista», si sono dati ad una spietata caccia alle ricevute (fasulle), e agli scontrini (anche dei caffè consumati, tanto paga Pantalone). E il taxi? Usato «spietatamente». Tanto c'era la ... ricevuta.
* * * E veniamo al rimborso del viaggio, che era a parte. Dalla Sicilia alcuni partecipanti hanno avuto un anticipo, a testa, di un milione. Altri sono arrivati in auto. Si sono visti giungere in Versilia consiglieri (uno per auto) con tanto di autista. Viareggio è rimasta intasata dalle auto piovute da tutta la penisola. Nemmeno il celeberrimo carnevale viareggino aveva visto un così impetuoso flusso di persone e di mezzi. Ma dove è la crisi? Qui si gode, qui ci si diverte... E dal tipo di auto si poteva constatare che, insomma, nella scelta della cilindrata, queste ... autonomie erano state, in fondo, di buon gusto.
* * * Per il calcolo dell'affluenza (i comuni, solo i comuni, in Italia sono più di 8.000) si tenga conto di questo emblematico dato: il comune di Raccuja, di 2.300 abitanti, con un consiglio comunale di 15 consiglieri, è giunto a Viareggio con 4 rappresentanti. Un milione e cinquecento ottantamila lire di quota di partecipazione, più il viaggio. Ma il comune di Raccuja come sta a servizi pubblici? Tutto in ordine? E le sue casse in che condizioni sono? Floride o non c'era nemmeno una lira (per far cantare un cieco)?
* * * Sono episodi, direte, in fondo marginali, quasi goliardici. Non siamo di questo parere. Questi episodi sono la radiografia di una classe dirigente amministrativa che rappresenta una delle fondamentali strutture della vita associata. E se tale portante struttura dà simili esempi immaginerete voi in che mani siano finiti i comuni. E quali risultati si possano attendere nella battaglia per l'austerità spadoliniana, se si è arrivati a speculare perfino sullo scontrino del caffè.
* * * Dulcis in fundo. L'Ente autonomo case popolari di Livorno ha organizzato, in settembre, per i suoi consiglieri di amministrazione (comunisti, socialisti, democristiani) un viaggio (di... studio) in Giappone. Infatti si sono portati a Tokio per studiare. Diamine, che cosa? Ma l'edilizia economica e popolare in vigore presso i giapponesi. Chi ha pagato? Il contribuente. E le case? I senzatetto livornesi possono sperare in un tetto? Che è mai questo discorso? E che cosa sono le case? Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato...
La verità, sia pure a fatica, si fa strada. Giorni fa, su "il Giornale" (8.10.1982), un lettore, scrivendo ad Indro Montanelli, gli chiedeva cosa ne pensava della frase riportata da Galante Garrone ("La Stampa", 26.9.1981), per cui «l'autentica voce della Patria per Piero Calamandreí si rifugiava ormai nella radio straniera, negli emigrati politici, perfino nelle navi e negli aerei che bombardavano i nostri lidi e le nostre città». Il lettore de "il Giornale" non si ferma qui. E di Mario Soldati ("Corriere della Sera", 30.5.1982), riporta questa frase: «E quando il 19 luglio 1943, gli americani bombardarono Roma, uscii per strada, vidi altissime in cielo le argentee fortezze volanti e gridai di gioia» Non interessa qui la risposta di Indro Montanelli, né la sua precisazione all'indignato Sergio Fenoaltea per aver, Montanelli, detto che gli americani, con quei bombardamenti, che precedettero l'armistizio di Badoglio, «avevano fatto di tutto per farsi odiare». Sono quisquiglie dinanzi alla questione di fondo, e cioè che quei bombardamenti sull'Italia durante i 45 giorni badogliani («la guerra continua»), furono voluti dagli uomini del Partito d'Azione; furono voluti da Italiani perché l'Italia cadesse in ginocchio subito. Del resto, 37 anni fa, se lo chiedeva anche Giulio Andreotti, in un libro ormai introvabile, "Concerto a sei voci", edizione La Bussola, 1945. «Ora che è finita la guerra», scriveva Andreotti, «è giunto il momento di veder chiaro in questo: è vero, o meno, che proprio uomini del Partito d'Azione furono quelli che chiesero, durante il 1943, agli Alleati l'intensificazione dei bombardamenti delle Città italiane per affrettare gli sviluppi della situazione?». Ci sono voluti 37 anni perché la verità cominciasse a far capolino. Solo che nessuno, e tanto meno Montanelli, ha il coraggio di affrontarla e di scriverla. E che emissari del Partito d'Azione si recarono in Svizzera a chiedere agli angloamericani il bombardamento delle Città italiane, in quanto non si fidavano delle profferte di armistizio del Governo Badoglio. E così migliaia di italiani, con donne e bambini, vennero sepolti sotto le macerie, onde soddisfare l'odio di questi fanatici a freddo che furono i rappresentanti del defunto Partito d'Azione.
* * * Attilio Tamaro ("Due anni di storia, 1943 - 1945", volume 1) scrive: «È da tempo provato che non esiste genere più nefasto all'esistenza dei popoli, che i dottrinari politicanti. Quando poi, per l'accensione delle idee, diventano praticamente alleati al nemico dei loro avversari teorici, si fanno traditori facilmente, poiché la Patria per essi non è più la Madre Italia, ma il cerchio del loro cervello e delle loro dottrine; concittadino, non ogni membro della famiglia nazionale, ma l'uomo, sia pure straniero, che abbia il medesimo colore intellettuale. Sicché per uno di essi e per uno di quei bestemmiatori, milioni di italiani, onestamente fascisti, soltanto perché fascisti non erano più sangue dello stesso sangue, ma nemici; amici invece, fratelli nello spirito e concittadini nel medesimo mondo ideale, quindi compagni d'arme, gli stranieri supposti democratici, anche se sfruttatoti di intere razze umane e linciatori di negri, amici anche i più truci bombardieri angloamericani, straziatori delle donne e dei bimbi italiani».
* * * È venuto fuori, nella polemica, il nome del giurista Piero Calamandrei. Azionista, senz'altro, ma è esatto che era un antifascista purissimo? Non si direbbe. Infatti è sufficiente andare a leggere il parere che il prof. Piero Calamandrei, a nome della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Firenze, dava a S. E. Grandi, Ministro della Giustizia, sul progetto preliminare dei Codice di Procedura Civile (Casa Editrice Carlo Cya, Firenze, 6.9.1937); progetto che doveva poi confluire nei Codici mussoliniani del 1940, anno XVIII dell'Era Fascista. Quel parere è tutto un inno ai princìpi autoritari a cui si ispira l'ordinamento dello Stato fascista. «Poiché nel processo -scrive Calamandrei- lo Stato è rappresentato dal Giudice, il principio autoritario portato nel processo significa logicamente rafforzamento dei potere del giudice. Anche su questo punto, ed anzi proprio su questo punto fondamentale, la riforma trova in Italia il terreno, perfettamente preparato dalla cultura». Siamo al concetto: tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato. E Piero Calamandrei a quei princìpi, nel 1937 (fascismo trionfante), si adeguava; salvo poi, nel 1943, levare gli occhi al cielo, in segno di ringraziamento, agli aerei americani che bombardavano l'Italia e gli Italiani.
* * * Molti italiani si sono rifatta la virginità antifascista con lo scritto e la parola. Nulla di male. Cambiare opinione è ammesso, in certi casi è doveroso. Quello che non è consentito è di glorificarsi di aver chiesto allo straniero di infierire sui connazionali. In questi casi la valutazione cambia. Il metro di giudizio diventa un altro. E la parola «traditore» non è sufficiente a rendere la situazione.
* * * È morto a Milano Riccardo Bauer, uno dei più rappresentativi padri di questa Repubblica. La Città di Milano gli ha tributato gli onori, Pertini e Spadolini sono andati al suo funerale. Ha vissuto in onorata povertà. L'Italia che sognava non l'ha vista realizzata. Anzi. Giornali, TV, radio hanno raccontato tutto della sua vita. Tutti però hanno taciuto su un particolare, sia pure vistosissimo: Riccardo Bauer, insieme a Pertini, Lussu e Amendola, ordinò l'attentato in Roma di Via Rasella dei 23.3.1944, attentato che doveva poi scatenare, da parte dei tedeschi, la strage delle Fosse Ardeatine.
Incidente o assassinio mafioso? Il "Corriere della Sera" (27.10.1982) torna a porre l'interrogativo. Ventisette anni fa, di ritorno dalla Sicilia, Enrico Mattei, il Presidente dell'ENI, si schiantava al suolo con il suo bireattore nelle campagne a sud di Milano. Era il 27.10.1962. Con un articolo in prima pagina del regista Francesco Rosi, autore fra l'altro dei film "Il caso Mattei", il quotidiano milanese avanza la tesi che anche per Enrico Mattei si sia verificata la «combinazione fatale» già descritta, pochi giorni prima di morire, dal Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: «Si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale: è diventato troppo pericoloso ma si può ucciderlo perché è rimasto solo».
* * * Delitto mafioso? Vendetta delle Sette Sorelle petrolifere? Può essere. Fatto sta che la Commissione Antimafia, che lungamente si occupò del caso Mattei, si è divisa nelle conclusioni. Infatti, mentre i comunisti non hanno scritto un rigo sulla vicenda, la relazione di maggioranza, affrontando marginalmente il caso, si limita a dire che fu Enrico Mattei a nominare, in Sicilia, capo delle relazioni pubbliche dell'ENI, il senatore democristiano Graziano Verzotto, le cui peripezie (è tutt'ora latitante) con le sue banche di Michele Sindona, sempre per la relazione di maggioranza (4.2.1976), «non rientrano (sic!!!) in fatti di mafia». Tutto qui.
* * * Per saperne di più sulla morte di Enrico Mattei, l'uomo senza dubbio più potente dell'Italia postbellica, bisogna ricorrere alla relazione di minoranza presentata dal MSI. All'argomento sono dedicate 62 pagine e si propende a sostenere la tesi dell'assassinio. Direte: è una tesi. Senz'altro, ma ha il pregio di affrontare, a viso aperto, la vicenda. Non così democristiani e comunisti che, prudentemente, si defilano. Scriviamo queste cose soprattutto perché desta meraviglia (e schifo) leggere sui muri di Roma il manifesto della Federazione Nazionale Volontari della Libertà (Presidente Paolo Emilio Taviani, già apologeta di Mussolini e del fascismo), in cui, ricordando il Comandante partigiano Enrico Mattei, si chiede: «contro il fascismo» (sic!!!), ai pubblici poteri di fare luce sull'assassinio dei Presidente dell'ENI. «Non si può tradire la resistenza!», recita il manifesto. Ma che c'entra il fascismo, che c'entra la resistenza, se per primi a mettere una pietra sulla verità sono stati proprio democristiani e comunisti che, nel momento in cui dovevano parlare, sono stati zitti?
* * * Particolare gustoso. Enrico Mattei, prima di diventare il leggendario comandante partigiano di cui tutti parlano, fece parte delle squadre di azione (nere) di Matelica, in provincia di Macerata. E con indomito impegno. Tanto che nel 1924, dopo il fattaccio Matteotti, strappa, in una spedizione punitiva, i baffi ad un compagno... Altri tempi...
* * * Alessandro Brucellaria, in arte ... guerresca «Memo», famoso partigiano carrarino, alla inaugurazione di una opera pubblica in quel di Massa Carrara, ha apostrofato l'onorevole Silvano Labriola, Presidente dei deputati socialisti, al grido: «Vai via di qua, piduista, amico di Licio Gelli!» Il Brucellaria, detto Memo, è in ritardo con i tempi. Licio Gelli è un benemerito della resistenza. Infatti "La Voce del Popolo", organo del CLN di Pistoia, in data 18 gennaio 1945, sotto il titolo "Chiarimento", così scrive: «A tutti coloro che sono interessati e si interessano al caso Licio Gelli, ricordiamo che il CLN era a conoscenza della sua appartenenza al partito fascista, ed accettò la di lui collaborazione che fu attiva ed efficace». Così, papale papale: Gelli portava la camicia nera ma, nella sostanza, aiutava attivamente ed efficacemente i partigiani. La certificazione non soffre dubbi: è del gennaio 1945. Pistoia è stata appena occupata dagli angloamericani. E il CLN proclama: ne prendano buona nota tutti, Licio Gelli è dei nostri!
* * * La collaborazione attiva ed efficace di Licio Gelli, la Repubblica italiana e antifascista, non ha mai smesso di chiederla e di attivarla, in tutto l'arco della sua esistenza. È buon testimone il generale Giulio Grassini, già capo del SISDE, che, di fronte alla Commissione P2, ha dichiarato che Licio Gelli, non solo mai rivelò progetti eversivi, ma venne adoperato a collaborare a grandi operazioni all'estero, in difesa dello stato repubblicano e resistenziale, come l'arresto di Angelo Ventura in Argentina e di Franco Freda in Costarica.
* * * Quindi ha fatto male l'onorevole Silvano Labriola a pretendere dal PCI (il partito del partigiano Memo) le scuse per essere stato chiamato «piduista» e «amico di Gelli». Quelle non sono offese. Sono titoli di merito in questa Repubblica. Ce lo dice il generale Grassini, prescelto Capo dei servizi nel maggio 1978 dal Governo di unità nazionale, con il pieno benestare dei senatori del PCI Pecchioli Ugo e Boldrini Amerigo (che si incontravano in Roma per loro stessa ammissione, e fin dalla primavera del 1975, nelle sedi coperte del servizio segreto di Via del Boccaccio e di Via della Vite, con il generale Gianadelio Malettí, inquisito e condannato per la strage di Piazza Fontana).
* * * Ha ragione Giorgio Bocca a scrivere «che l'intero apparato politico-poliziesco-affaristico della Repubblica si tiene, forma un reticolo che per successive cerniere, va dai killers della mafia alle stanze vaticane, dai leccapiedi della stampa al Gabinetto del Presidente del Consiglio dei Ministri, dai preti ai massoni. E sarebbe consigliabile, per una questione di decenza, che si smettesse di dire che la Repubblica italiana è fondata sulla resistenza».
La polemica, ricca di coloriti e personali insulti, fra i ministri Andreatta e Formica, ci ha riportato alla memoria un altro memorabile, storico «scontro». L'episodio risale a venti anni fa. I contendenti: da una parte Giovanni Spadolini, allora direttore de "il Resto del Carlino" e dall'altra Ugo La Malfa, ministro del Bilancio nel gabinetto Fanfani di centrosinistra. La ragione del contendere: i provvedimenti fiscali ed economici del primo governo di centrosinistra (DC-PSDI-PRI), con appoggio esterno del PSI. Spadolini, dalle colonne de "il Resto del Carlino", aveva scritto: «quei provvedimenti ci porteranno a rovina». Ed ecco sulla "Voce Repubblicana" (13.12.1962) la replica di Ugo La Malfa: «Evidentemente Giovanni Spadolini ha da tempo rinunziato al benché minimo sforzo di pensiero e si limita a trascrivere le opinioni che la sua fantesca ricava nei colloqui di mercato. Ma in fin dei conti è fin segno della provvidenza della Storia che all'opposizione del centrosinistra presieda una così abissale stupidità».
* * * È un giudizio di venti anni fa. È di Ugo La Malfa, santone del PRI e della democrazia italiana. Oggi Giovanni Spadolini, oltre ad essere presidente dei Consiglio è segretario nazionale del PRI. Auguri.
* * * «È a questa comunità spirituale, all'università di valori espressi nella rivoluzione americana che si rivolsero le coscienze democratiche dell'Europa durante i tempi oscuri dell'offensiva fascista e nazista». (Giovanni Spadolini. Università di Berkeley, 6.11.1982)
* * * Queste cose Spadolini non le doveva dire. Anche perché non le condivide. Tralasciando il fatto che «nei tempi oscuri dell'offensiva fascista e nazista», la coscienza di Giovanni Spadolini fece la scelta di essere a fianco di Giovanni Gentile, di Ardengo Soffici e di Giovanni Papini; a fianco insomma, come lui scrisse ("Italia e Civiltà". 26 febbraio 1944, anno 1, n. 8): «Nella grande rivolta spirituale, quella dell'interventismo, del nazionalismo, dell'idealismo, e del sindacalismo contro tutte le forme politiche e mentali anacronistiche e impotenti, che avevano dominato fin allora nella società italiana, e cioè il rinunciatarismo, l'internazionalismo, il materialismo o positivismo ed infine il liberalismo decadente e il socialismo degenere»; resta che il vero autentico Spadolini di oggi non è quello che va a cianciare e a mascherare la propria identità culturale e la propria dignità storica di italiano e europeo davanti ad una Università che -più di Mosca- è la culla del neo-marxismo, il marxismo coca-cola, dal quale proviene tutto il decadentismo che ci ha snaturati e sfibrati. No, quello non è lo Spadolini, italiano e storico che conosciamo.
* * * Lo Spadolini vivo e autentico è quello della prefazione al Sorel (1947); è lo Spadolini che scrive "Il 48, realtà e leggenda di una rivoluzione" (1948); "Il ritratto dell'Italia moderna" (1949); cioè lo Spadolini intriso di mazzinianesimo, nutrito delle letture di Carducci, Oriani, delle riviste fiorentine del primo novecento. Un giorno Giovanni Spadolini, lontano ormai dal potere che lo ubriaca fino a drogarlo intellettualmente, si confesserà e, ne siamo certi, ci rivelerà che in lui, lo Spadolini del 1944, non è mai venuto meno. Anzi. Si è rafforzato, proprio davanti alle miserie che, come uomo politico e presidente del Consiglio di questa Italia, ha dovuto (amaramente) vivere per continuare (felicemente) a recitare.
* * * La vicenda di Di Donna all'ENI, molto più dello scontro violento Andreatta-Formica forse ha determinato la crisi di governo. Il cittadino qualunque si meraviglia e si chiede come sia possibile che, più che il dramma del debito pubblico, dei BOT del risparmio degli italiani, del costo della vita, della disoccupazione, del terrorismo, dello sfarinamento di tutta la società nazionale; più di tutto questo, l'assegnazione di una «poltrona» abbia poteri così dirompenti. È presto detto. Cerchiamo di rispondere. I socialisti (Di Donna è socialista), hanno, con Di Donna, parecchi scheletri nell'armadio di famiglia. E Di Donna, se non accontentato, può farli venire fuori. Da qui la prudenza di Bettino Craxi che, a differenza di Formica, cerca di buttare acqua sul fuoco dello scontro. Non intende rompere per non essere... rotto. È chiaro: è il PSI ad essere in debito con Di Donna. E come mai? Ecco come stanno le cose. Nella avvelenata vicenda del Banco Ambrosiano sono venuti alla luce rilevanti finanziamenti di valuta da parte dell'ENI al Banco Andino, una finanziaria estera collegata al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Si dirà: ma come è possibile che l'ENI presti denaro ad una banca; non è il contrario ciò che normalmente avviene? Sì, è così; è strano; ma quei finanziamenti ci sono stati e ad operarli è appunto Leonardo Di Donna, allora responsabile del settore finanziario dell'ENI. Ma come è che si viene a sapere tutto? È che la Finanza, frugando fra le carte di Licio Gelli, trova un appunto di una operazione finanziaria per cui, in margine ai finanziamenti ENI-Banco Ambrosiano operati da Di Donna, sarebbe stata versata, nella Banca UBS di Lugano, a favore del PSI, una tangente di tre milioni di dollari. Si va a controllare e si trova che sia la somma, sia il numero del conto, indicati nelle carte di Gelli, corrispondono perfettamente al «conto-protezione», custodito dalla Banca Svizzera. Quel conto appartiene al PSI? Gli interessati si affannano a smentire; fatto sta che questo conto c'è, esiste e, guarda caso, nella entità della somma e perfino nel numero, è identico a quello trovato fra le carte di Gelli e attribuito al PSI. La vicenda determina un provvedimento dell'autorità giudiziaria investita del caso: il telefono di Leonardo Di Donna (Via Condotti 50, Roma) viene messo sotto controllo. Ed è a questo punto che lo scandalo politico-finanziario, si fa anche «erotico» per cui Cesare Zappulli, sotto il titolo "Siamo ai materassi" ("il Giornale", 6.3.1982) può scrivere che: «la Roma, ignobile, della politica si confida di bocca in bocca il passo delle bobine di intercettazione, in cui un ministro socialista in carica, abbandonandosi ad un momento, diciamo così, di tenerezza, ricorda alla congiunta di un "grand commis" dello Stato le dolci morsicature (nel testo i morsetti) inflittele in siti corporei che sembrano offrirsi, meglio degli altri, all'amorosa crudeltà». Zappulli commenta: questa vicenda erotico-finanziaria è un disegno che tenta di travolgere il PSI in uno scandalo globale, capace di fargli perdere la faccia e mandarlo alla «sardigna», ricetto dei rifiuti di macellazione. Ciò avveniva nel marzo 1982. Poi, come solitamente accade nella vita politica italiana, tutto si «smorzò», fino a placarsi. Non se ne parlò più: né delle tangenti ENI Banco Ambrosiano-Banca Svizzera-PSI, né dei «morsetti» dei ministro. Silenzio.
* * * Fino ad oggi, novembre 1982. E il caso Di Donna torna, prepotentemente, in tutta la sua attualità. Il ministro (quello dei morsetti) pone il dilemma: o Di Donna (nel consiglio di amministrazione dell'ENI) o il caos. Il presidente dell'ENI è categorico: se Di Donna viene nominato nel consiglio dell'ENI, io me ne vado. Tangenti, morsetti. Così va avanti la politica italiana. Delle tangenti tutto sapevamo, un po' meno che, per fare carriera all'interno delle aziende a partecipazione statale, occorresse, oltre essere imbroglioni, farsi cornuti. È arrivato anche a questo Sua Maestà il Partito. Che si vuole di più?
Settembre 1971. Il MSI di Caltanissetta fa affiggere il seguente manifesto: «È giunta l'ora della verità! Il PCI è complice della mafia e un "certo" esponente della DC! Lo dichiara l'on. Michele Pantaleone, eletto nella lista del PCI, nel suo libro "Mafia e potere": «L’ex-Presidente della Regione siciliana Alessi, per uno dei tanti aspetti strani della politica nei paesi di mafia, si trovò isolato all'interno della DC; mentre dall'altro lato era vivamente combattuto dai comunisti, i quali, per motivi non strettamente politici, lo osteggiavano, solidarizzando (a Caltanissetta tramite l'on. Emanuele Macaluso) col suo diretto avversario, notoriamente ritenuto "amico degli amici", cioè mafioso. Per la verità i comunisti di Caltanissetta (diretti dall'on. Macaluso e dall'on. Cortese) non presero mai posizione contro la mafia». Per questo manifesto l'onorevole Emanuele Macaluso sporgeva querela (2 novembre 1971) per diffamazione, con l'aggravante dell'attribuzione di un fatto determinato, e cioè che l'on. Macaluso -«non aveva mai preso posizione contro la mafia, ma che, anzi, aveva solidarizzato con essa». L'on. Macaluso concedeva ampia facoltà di prova agli estensori del manifesto. Come è andata a finire? Il processo dura da due anni, con prove testimoniali prese nell'ambito dello stesso PCI. E Cancemi Giuseppe, responsabile della stesura dei manifesto, viene assolto «perché il fatto non costituisce reato», e l'onorevole Emanuele Macaluso, querelante, è condannato alle spese di giudizio. Questo, con sentenza del Tribunale di Caltanissetta n° 103/72, depositata in cancelleria il 28 ottobre 1973. Per chi lo avesse dimenticato, Emanuele Macaluso è l'attuale direttore de "l'Unità".
* * * Si discute, in Consiglio comunale di Napoli, la mozione di sfiducia alla Giunta Valenzi, presentata dal MSI-DN. La parola è all'on. Massimo Abbatangelo. Alcuni lavoratori di Bagnoli, aderenti alla Federazione Lavoratori metalmeccanici, rumoreggiano. Al che Abbatangelo replica: «Vi prego di fare attenzione -dice- che non capiti ai lavoratori dell'Italsider di Bagnoli quello che capitò, alcuni anni fa, ai lavoratori di uno stabilimento della Montedison in quel di Aulla, in provincia di Massa Carrara. La Montedison così come oggi l'Italsider, parlava della necessità di ammodernare gli impianti e, intanto, doveva licenziare. Cosa c'era dietro? C'era che, con la scusa della ristrutturazione, si voleva mandare a casa metà del personale. E sapete quello che avvenne? -ha incalzato Abbatangelo- Avvenne che la Montedison, per tenere buone le maestranze durante l'operazione "ristrutturazione", avvicinò il senatore Talamona, amministratore del PSI, e dal PSI, dietro uno sborso di 150 milioni (valore anni 1970), ottenne la collaborazione necessaria». A queste parole di Massimo Abbatangelo, il vice sindaco di Napoli, il socialista Giulio Di Donato, interrompendolo, diceva: «Si ritenga querelato, onorevole Abbatangelo, a nome mio e del PSI». Non sappiamo se la querela sia partita. Comunque se è ancora nel cassetto, è bene che vi resti. Al vice sindaco di Napoli (Giulio Di Donato) offriamo la risposta che l'ing. Giorgio Valerio, presidente della Montedison, fornì al magistrato che lo interrogava sulla vicenda dei fondi neri della società (marzo 1974). Fedelmente, dal documento originale. A domanda risponde: «Ricordo un esempio che posso fare per il tempo successivo alla nazionalizzazione e dopo la fusione con la Montecatini: dovendo noi ridimensionare alcune fabbriche della Val di Magra, dove si producevano sacchi non economici, e dovendo quindi ridurre notevolmente l'occupazione, per evitare ostacoli avvicinammo il dott. Talamona de "l’Avanti!", prospettandogli il problema. Questi, nell'ambito del partito, pose la questione e si rese conto della esattezza dei nostri rilievi, ma nel contempo ci chiese un prestito per il giornale -che stava attraversando un momento difficile- di circa 150. 000. 000 se non vado errato, che ci fu puntualmente rimborsato. L'operazione la trattò il Curami, il quale sa come si svolse la faccenda nei dettagli, essendo responsabile di quel settore di produzione». Cosicché "l’Avanti!", giornale dei lavoratori, riuscì a superare le proprie difficoltà, grazie ai licenziamenti che la Montedison, in tranquillità e con l'appoggio del PSI, dispose. I socialisti ne hanno fatte di tutte. Anche quella di prendere soldi dai servizi segreti delle Forze Armate. Mancava il tocco finale: avere intascato soldi dai monopoli per licenziare. Ora c'è anche questa. Il vice sindaco di Napoli, sa, ora, la... storia. A lui la successiva mossa.
* * * Truffa di 70 miliardi di lire a danno dell'INPS di Napoli. False assunzioni, false malattie. La stampa afferma che nell'episodio delittuoso ci sono le mani della camorra. Sarà. Quello che è certo è che fra gli arrestati ci sono i rappresentanti della triplice sindacale e del mondo politico. Eccoli: Luciano Scognamiglio di Torre Annunziata, impiegato comunale, sindacalista della CISL. Silvio Radetich, di Salerno, sindacalista della UIL. Michele Visciano, di Torre Annunziata, impiegato presso la Camera del Lavoro, sindacalista della CGIL. Rosario Rossetti, responsabile dell'Ufficio di Collocamento di Nocera Inferiore. Salvatore Sorrentino, impiegato dell'Ufficio di collocamento di Torre Annunziata. Franco Cirillo, di Scafati, collocatore comunale. Giovanni Bucciero di Torre Annunziata, pregiudicato. Mario Conato, di Boscotrecase, pregiudicato. Giuseppe Jorio, di Torre Annunziata, pregiudicato. Pregiudicati, collocatori comunali (con tessera dei partiti... costituzionali), sindacalisti della triplice. L'impasto è questo, ma di questo impasto la stampa tace. La colpa è della camorra. In fondo è così. Infatti più camorrista del mondo politico che cosa c'è?
* * * 'Ma sì, ma sì: dai cieli d'Italia, in quei giorni, pioveva fango, ecco, e a palle di fango si giocava; e il fango si appiastrava da per tutto, sulle facce pallide e violente degli assaliti e degli assalitori, su le medaglie già guadagnate sui campi di battaglia (che avrebbero dovuto almeno queste, perdio! esser sacre) e su le croci e le commende e su le marsine gallonate e su le insegne dei pubblici uffici e delle redazioni dei giornali. Diluviava il fango; e pareva che tutte le cloache della città si fossero scaricate e che la nuova vita nazionale della terza Roma dovesse affogare in quella fetida alluvione di melma, su cui svolazzavano stridendo, neri uccellacci, il sospetto e la calunnia». Così, nel 1909, Luigi Pirandello nel romanzo "I Vecchi e i giovani". Erano i tempi della crisi della vecchia classe parlamentare risorgimentale e dello scandalo della "Banca Romana". Quei tempi sono oggi infinitamente peggiorati.
Quanti, degli oltre mille parlamentari di «Serie A» hanno, non dico letto -per carità- ma solo sfogliato i volumi che la diligentissima Segreteria dell'Antimafia sforna, con una accuratezza encomiabile oltre ogni dire? Sono usciti, ad oggi, dopo le relazioni conclusive (4.2.1976), ventidue volumi, di più di mille pagine ciascuno, ricchi di dati, di episodi, di riferimenti, di straordinarie conferme. C'è di tutto. La consultazione è facilitata da un indice curato alla perfezione. Quanti ci hanno messo gli occhi? Quanti ne conoscono l'esistenza?
* * * Nemmeno Flaminio Piccoli si è avvicinato a questa straordinaria documentazione sulla mafia. Nemmeno quando è sceso in Sicilia, giorni fa (13 e 14 novembre 1982), a tenere la relazione conclusiva del convegno indetto dalla DC sul tema "Lotta contro la mafia", nell'aula magna della Facoltà di ingegneria dell'Università di Palermo. Perché -se le avesse lette- o solo consultate, quelle pagine, non avrebbe permesso, soprattutto per una ragione di decenza e di buon gusto, a Salvo Lima di sedere alla presidenza di un convegno, il cui tema era la lotta alla mafia; né avrebbe consentito allo stesso di prendere sull'argomento, e con arroganza, la parola. Il destino ha voluto che, proprio alla vigilia del convegno democristiano di Palermo, uscissero due volumi (17° e 18° tomo del IV Volume), contenenti, fra l'altro, due documenti di estremo interesse, il "236" -relativo alla sentenza di rinvio a giudizio, emessa il 23.6.1964, dal giudice istruttore del Tribunale di Palermo, nel procedimento penale contro Angelo La Barbera ed altri, imputati di numerosi delitti verificatisi negli anni dal 1959 al 1963 nella città di Palermo- e il documento "509" relativo alla sentenza del rinvio a giudizio, emessa l'8.5.1965 dal giudice istruttore del Tribunale di Palermo nel procedimento penale contro Pietro Torretta ed altri, imputati di numerosi fatti di sangue commessi a Palermo e culminati nella strage di Ciaculli del 30.6.1963.
* * * Direte che sono cose antiche. È vero, ma quelle cose antiche diventano di una attualità straordinaria, perché il tempo si è incaricato di far mutare situazioni che diciotto anni fa erano ancora acerbe. Ebbene, Cesare Terranova -perché è lui, assassinato dalla mafia, l'estensore delle sentenze contro Angelo La Barbera e Pietro Torretta- dopo avere descritto la spaventosa catena di delitti perpetrati dalla mafia nella Palermo amministrata dal sindaco Salvo Lima, venendo ad analizzare le singole personalità mafiose, in particolare quella di Angelo La Barbera, la sua spietata figura di gelido assassino, il suo strepitoso arricchimento in meno di un decennio grazie al traffico della droga, i suoi collegamenti con la malavita organizzata anche a carattere internazionale come con Joe Adonis, uno dei più sinistri e pericolosi capi del gangsterismo americano; dopo aver descritto minuziosamente tutto questo, Cesare Terranova, nella sua sentenza, apre il capitolo del rapporto mafia-potere politico. «Restando nell'argomento delle relazioni -scrive Cesare Terranova- è certo che Angelo e Salvatore La Barbera, nonostante il primo lo abbia negato, conoscevano l'ex-sindaco Salvatore Lima ed erano con lui in rapporti tali da chiedergli favori. Basta considerare che Vincenzo D'Accardi, il mafioso del Capo ucciso nell'aprile del 1963, non si sarebbe certo rivolto ad Angelo La Barbera per una raccomandazione al sindaco Lima, se non fosse stato sicuro che Angelo e Salvatore La Barbera potevano in qualche modo influire su Salvatore Lima. Del resto -prosegue Terranova- quest'ultimo ha ammesso di avere conosciuto Salvatore La Barbera, pur attribuendo a tale conoscenza carattere puramente superficiale e casuale. Gli innegabili contatti dei mafiosi La Barbera con colui che era il primo cittadino di Palermo, come pure con persone socialmente qualificate, o che almeno pretendono di esserlo, costituiscono una conferma di quanto si è già brevemente detto sulle infiltrazioni della mafia nei vari settori della vita pubblica». Così Cesare Terranova, diciotto anni fa. Cesare Terranova è stato assassinato. Salvo Lima ha fatto carriera. Dalla DC ha avuto, dopo essere stato sindaco di Palermo, il titolo di deputato nazionale, poi quello di sottosegretario di Stato, poi quello di parlamentare europeo. Con spese elettorali, lui che negli anni cinquanta aveva le toppe al sedere, valutate a miliardi. Ed ora fa bella mostra di sé nei convegni democristiani indetti contro la mafia. E Flaminio Piccoli non muove foglia. E nemmeno i suoi colleghi. Anche la sinistra DC tace. Eppure, nell'ottobre del 1970, quando, con un colpo a sorpresa, venne eletto sindaco di Palermo Vito Ciancimino e dell'operazione si ritenne artefice Salvo Lima, emise un comunicato ("Giornale di Sicilia", 17 ottobre 1970) dove, fra l'altro, si diceva: «Cervello e chiave di volta della manovra un vecchio gruppo di potere intestato ad un ex-sindaco che avrebbe tutto il dovere (lui e i suoi bravi) di tacere qualora fosse toccato, per un solo momento, dalla coscienza delle proprie gravissime responsabilità riguardo alle drammatiche condizioni in cui ha lasciato e avviato Palermo e la provincia». Ora la stessa DC nazionale ci schiera a Palermo i suoi «bravi» e ci fa lezione sulla mafia. Anche questo dovevamo vedere! Sul palco, insieme a Lima, accanto a Piccoli, il ministro Calogero Mannino, un puro. Ma di lui che sarebbe stato, se non avesse avuto come numi tutelari, prima Gaetano Verzotto, ora latitante, e poi il clan Salvo, quello delle esattorie comunali, un clan chiacchierato come mafioso? Poi Rosario Nicoletti, un altro puro. Ma anche lui, che sarebbe stato senza l'apporto, non certo nobile, del proprio padre l'ing. Vincenzo Nicoletti, direttore di quell'assessorato ai LL.PP. del comune di Palermo, culla di tutti coloro che, a cominciare da Lima e da Ciancimino, hanno fatto di Palermo strazio e terreno di crescita e di scontro fra bande mafiose? Poi Sergio Mattarella. Qui si dice: giù il cappello, è il fratello di Piersanti Mattarella. Mi levo il cappello, ma ciò non mi può impedire di dire che i Mattarella nulla sarebbero stati, senza la presenza e l'attività del padre Bernardo e che Piersanti Mattarella, quando fu assessore al Bilancio della Regione Siciliana, concesse l'apertura di sportelli bancari in numero così alto da apparire sospetto. E tutti sanno quale particolare attività svolgono, in Sicilia, gli sportelli bancari. Nello Martellucci, sindaco di Palermo e Mario D'Acquisto, presidente della Giunta regionale, non potevano mancare sul palco. Di loro sono piene le cronache, in ordine alle vicende dell'assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, e non sono certo cronache piane se, proprio in ordine al problema mafia, se ne chiedono, di entrambi, le dimissioni, e come condizione preliminare di ogni pulizia in casa DC.
* * * Ultima pennellata. In data 7.5.1975 il presidente della Commissione Antimafia, il senatore Carraro, incaricò l'on. Cesare Terranova, già giudice istruttore in processi di mafia, così come abbiamo scritto sopra, di ritirare dal Tribunale di Palermo i fascicoli riguardanti i seguenti processi: Fascicolo 13772/A: falsità in atti pubblici e interesse privato in atti di ufficio. Fascicolo 7578/70: interesse privato in atti di ufficio, peculato continuato. Fascicolo 10047/68: interesse privato in atti di ufficio. Fascicolo 965/71/A: tentato peculato aggravato. I fascicoli riguardavano il deputato europeo Salvo Lima. Tramite Terranova arrivarono in Commissione Antimafia il 17 maggio 1975. Per il primo processo l'autorizzazione a procedere contro Salvo Lima venne chiesta al Parlamento il 4.12.1968 e venne concessa il 30.5.1973. Dopo cinque anni. Del processo non se ne sa più nulla. Del secondo processo l'autorizzazione a procedere venne chiesta al Parlamento il 15.6.1970 e venne concessa il 7.1.1975, cinque anni dopo. Del processo non se ne sa più nulla. Del terzo processo l'autorizzazione a procedere venne chiesta al Parlamento il 6.8.1971 e concessa il 26.11.1974, tre anni dopo. Del processo non se ne sa più nulla. Del quarto processo, l'autorizzazione a procedere venne chiesta al Parlamento nel 1971 e venne concessa il 9.1.1975, cioè quattro anni dopo. Del processo non se ne sa più nulla.
Ricordate il Festival nazionale de "l’Unità" a Tirrenia? Ricordate l'impegno della stampa, della radio, della TV di Stato e privata, nel sottolineare come di fronte all'Italia dello sfascio e dei misteri vi fosse un'altra Italia fatta di onestà, pulizia, ordine, quella del PCI a Tirrenia? Una vera e propria cascata di parole e di immagini. Poi l'apoteosi, con il discorso conclusivo di Berlinguer. Più di mezzo milione di persone portate a Tirrenia da tutta Italia. Ad ascoltare la parola (pulita) del Capo. Beh, direte voi, e con questo? Con questo vogliamo dire che ai gruppi consiliari del MSI-DN di Pisa e di Livorno (Tirrenia è al confine fra le due città, ed è amministrata congiuntamente da Pisa e da Livorno), la vicenda dell'indizione della Festa a Tirrenia non era, fin dall'inizio, apparsa chiara. Infatti «il più grande impegno culturale che il Paese conosca», così come scriveva "l'Unità", veniva a svolgersi sui terreni di proprietà del produttore cinematografico Carlo Ponti e Sofia Loren; terreni sui quali, intorno agli anni 60, si era svolta una feroce polemica che ebbe echi nazionali. Era accaduto questo: mentre la DC e le sinistre al Comune di Pisa affidavano l'incarico all'architetto Piccinato di redigere il Piano Regolatore della città e del litorale, il produttore Ponti si era messo a comprare, in Tirrenia, a prezzi fallimentari, i terreni dove insistevano i vecchi capannoni dell'industria cinematografica che già erano stati dei Forzano. Ponti non si era fermato qui. Tutti i terreni circostanti agricoli-cespugliosi, con poche lire, entrarono nel suo patrimonio. Ci si chiese: ma che cosa ha in testa Ponti? Vuole rimettere su l'industria cinematografica? Vuole realizzare un galoppatoio, o un grande allevamento di galline? Ponti (e Piccinato) avevano ben altro per la testa. Infatti, quando il PRG dell'architetto romano fu presentato, il mistero venne svelato: i terreni che Ponti aveva acquistato erano divenuti, grazie alla matita di Piccinato, gli unici edificabili in Tirrenia. Un affare di miliardi. La polemica, ferocissima, con le sinistre schierate con Ponti, divampò e solo alla fine del 1976 l'amministrazione comunale di Pisa, rivedendo il tutto, imbiancò il piano Piccinato, ripristinando, su quei terreni, i vecchi vincoli paesaggistici e cinematografici. Da allora silenzio.
* * * E nel silenzio siamo andati avanti fino al 1982; quando, improvvisamente, è venuto fuori l'annuncio che quest'anno il Festival nazionale de "l'Unità" si sarebbe svolto (ma guarda il caso) a Tirrenia, e proprio sui terreni di proprietà Ponti. E a questo punto che i gruppi consiliari del MSI-DN di Pisa e di Livorno pongono ai rispettivi sindaci (comunisti) alcune domande e cioè se è vero, o no, ciò che "il Sole - 24 ore" scriveva in data 3 settembre, «per cui la concessione gratuita, in forma di comodato, degli studios e dell’area al PCI, poteva preludere ad un accordo sotterraneo per la speculazione edilizia con il benestare del Comune». Risposte sdegnate. A Tirrenia settemila «compagni» lavorano gratuitamente per rimettere in sesto una area abbandonata dall'incuria degli uomini, e al solo scopo di dar vita al più grande incontro culturale e spettacolare che l'Italia possa vedere. L'onestà e la pulizia sono la nostra forza. Il resto è menzogna «fascista». E, con questa retorica, la Festa si è svolta, in un tripudio di parole, di canti, di dibattiti, di comizi, di danze e di canzoni. È mancato Sandro Pertini, poi tutti, compresi ministri e sottosegretari, hanno reso omaggio a questa grandiosa manifestazione di pace e di libertà, manifestazione che la TV, per giorni e giorni, si è incaricata di illustrare e propagandare, con appropriate immagini, nelle case degli Italiani.
* * * Chiusi i festeggiamenti, respinte «le volgari accuse» con sufficienza, i comunisti passano ad una nuova fase. Ora che quell'area (di Ponti) è stata... ripulita dal lavoro di 7.000 comunisti, cosa se ne fa? Si scrive: è una occasione da sfruttare. Sarebbe assurdo lasciare a livello precario le opere che sono state sin qui realizzate. E, su questa scia, si dà l'avvio a interviste, dichiarazioni, comunicati. Si cerca, insomma, di scaldare l'ambiente. In fondo è giusto: dopo la Festa la... commercializzazione del prodotto. I missini di Pisa e di Livorno, nei rispettivi Consigli comunali, tornano alla carica. I giornali pubblicano una notizia sconcertante. E cioè che Carlo Ponti sarà interrogato dal magistrato. Infatti risulta in affari (immobiliari) con Domenico Balducci, il boss mafioso assassinato un anno fa. Ma Domenico Balducci era anche socio di Flavio Carboni, il portaborse di Calvi. I missini interrogano: per caso quelle interviste rilasciate da esponenti comunisti, auspicanti l'ulteriore utilizzo dell'area (per carità: per servizi sociali) di Tirrenia, che è servita alla Festa de "l'Unità", preludono ad una nuova speculazione immobiliare? Il sindaco di Pisa, sdegnosamente, fa sapere che lui non conosce nemmeno il nome delle società immobiliari intestate a Ponti in Pisa.
* * * È una bugia. Ed è grossa. Infatti, spuntano fuori i documenti che, non solo smentiscono il sindaco, ma gettano (perdonate il termine ma non ne posso fare a meno) manate di merda su tutta la Festa de "l'Unità" e, soprattutto, sui suoi presunti insegnamenti morali e politici. Da quei documenti veniamo ad apprendere che fin dal 26 agosto 1981, il signor sindaco di Pisa aveva avuto colloqui con i rappresentanti delle società Cosmopolitan, Sali Guido e Pisorno, «relativamente alle prospettive legate al recupero urbanistico dell’area sita in Tirrenia di proprietà delle società stesse» «Facendo seguito al nostro colloquio Le invio -dice la lettera in data 11.1.1982- il documento base redatto per conto della proprietà, così come concordato in quella occasione, che dovrebbe essere discusso e verificato nelle sedi che Lei sindaco riterrà più appropriate, prima di procedere alla stesura di un vero e proprio progetto planivolumetrico». Dunque i colloqui (sindaco-rappresentanti società Ponti) su una materia così incandescente -l'intera città di Pisa era stata, su questo argomento, tenuta sotto pressione per ben 13 anni fra polemiche durissime- avvengono in Agosto 1981. Fate bene attenzione al mese prescelto per concordare il recupero edilizio caro a Ponti: agosto. Il Consiglio comunale è in vacanza, gli uffici comunali sono vuoti. «Il progetto planivolumetrico per la realizzazione di un complesso turistico e per attività ricettive polivalenti in località Tirrenia» dice la lettera delle società di Ponti (11.1.1982) è stato redatto secondo le linee concordate nel colloquio con il sindaco il 26 agosto 1981. Le motivazioni per edificare: la Città di Pisa è in crisi. Le industrie: Piaggio, Fiat, Saint Gobain sono in fase calante. Non resta che il turismo. Eccomi qua: io Carlo Ponti, possedendo i terreni del litorale rappresento, se mi farete costruire, l'occasione di una ripresa economica della Città. Quindi togliamo i vincoli paesaggistici e cinematografici, e via libera all'edificazione.
* * * Il sindaco che fa? Informa la Giunta? Pare di no. Informa il Consiglio comunale? Nemmeno per idea. Convoca una conferenza stampa e illustra le linee del progetto, chiamando la città ad un corale dibattito? Niente di tutto questo. Ufficialmente le carte rimangono chiuse nei suoi cassetti. E da Gennaio 1982 si passa al Giugno 1982, quando già stampa, radio, televisione hanno dato la notizia che quest'anno la Festa nazionale de "l'Unità" si svolgerà in Tirrenia, sui terreni degli ex-stabilimenti cinematografici "Cosmopolitan film". È il 26 giugno 1982, e al sindaco di Pisa, in carta da bollo da lire mille, arriva, da parte della società immobiliare Cosmopolitan, richiesta di variante dell'area interessata dagli ex-Stabilimenti Film, destinati dal Piano Regolatore a Stabilimenti cinematografici. Cosa si propone? Cancellare stabilimenti cinematografici e consentire l'urbanizzazione dell'area, una urbanizzazione, badate bene, con adeguata volumetria. E tutto questo nel momento in cui, fuori dalle pareti comunali, si suonano le trombe della propaganda e si annuncia che 7.000 «compagni», gratuitamente, lavoreranno per rimettere a nuovo i vecchi padiglioni cinematografici onde ospitarci, con la Festa de "l’Unità", la più grande manifestazione culturale e politica che l'Italia conosca.
* * * Che ne dite? Ma non è finita qui. Infatti l'architetto che presenta i documenti urbanistici, e che firma a nome delle tre società di Carlo Ponti, è Marco Sereni. Ma Marco Sereni, rappresentante di Ponti, non è, in contemporanea, uno dei professionisti responsabili, per conto de "l’Unità", dell'allestimento dei padiglioni da adibirsi alla Festa popolare? Sì, è proprio lui.
* * * Per molto meno, a Firenze, i socialisti hanno messo in crisi la giunta comunale. Per avere la giunta comunale, su proposta dell'assessore ai LL.PP. Sozzi (comunista), dato la direzione del nuovo Carcere di Sollicciano, appaltato all'impresa Pontello, all'ingegnere Chiomenti (comunista), quando costui presta la sua opera professionale al servizio della stessa impresa Pontello. E si sono chieste le dimissioni del sindaco di Firenze: il comunista Elio Gabbuggiani. A Pisa nulla. Eppure l'architetto Marco Sereni, comunista, figura in contemporanea, rappresentante di Ponti e professionista incaricato di allestire la Festa de "l’Unità". Sullo sfondo i terreni serviti alla Festa de "l’Unità", e che ora si vogliono trasformare in fabbricativi. Ce ne è abbastanza perché i gruppi consiliari dei MSI-DN di Pisa e di Livorno si sentano impegnati, così come hanno fatto fino ad oggi, perché tutta la verità venga fuori. Il PCI, con un vistoso avviso pubblicitario stampato sui più diffusi quotidiani italiani, ci fa sapere di lottare per un'altra Italia, onesta, pulita, libera. Sarà. A Tirrenia, intanto, per la Festa de "l'Unità", si incontra con un evasore fiscale, per giunta collegato in affari con boss della mafia. E questa l'altra Italia del PCI?
1963: l'Amministrazione comunale di Barletta (Bari) decide di costruire un Ospedale da 100 posti letto. 1972: è approvato il progetto generale affidato a quattro professionisti designati dai partiti (DC - PCI - PSI). 1975: la Regione Puglia approva i deliberati di cui sopra. Intanto la Giunta comunale di Barletta incarica il prof. Cotecchia, dell'Università di Bari, di fare indagini geofisiche sul terreno scelto per l'edificazione. E ciò dopo ben tre anni dall'approvazione del progetto. 1977: a 14 anni dalla delibera di approvazione, hanno inizio i lavori su un terreno che non si sa se idoneo, o no. 1982: il terreno non era idoneo. I lavori sono stati abbandonati da oltre due anni. Del 1° lotto di lavori è rimasto un rudere e un seminterrato. Del 2° lotto, non altro se non alcuni pali infissi nel terreno. Intorno, desolazione. Tutto in abbandono: cani randagi, topi, immondizie. Il costo dell'opera è preventivato in 43 miliardi di lire. Ma vedrà la luce l'Ospedale? La Magistratura di Trani ha, da tempo, sul tavolo la pratica con su scritto: Ospedale dì Barletta. L'Amministrazione comunale si decide a eseguire l'esame geologico del terreno a progetto approvato. Miliardi al vento... Ora tutto è bloccato...
Tranne le parcelle ai quattro «professionisti», progettisti dell'... opera. Nell'ordine: il prof. dott. Vitantonio Lozupone, democristiano; l'architetto Vittorio Chiaia, socialista; l'ing. Gabriele Lionetti, democristiano, per anni assessore ai LL.PP. del Comune di Barletta; l'architetto Massimo Napolitano, comunista. Per quei ruderi che abbiamo descritto, per un Ospedale che non c'è e che non si farà mai, hanno beccato fino ad oggi (e l'ultima delibera dell'Unità Sanitaria Locale è del 23.2.82) ben 183.874.792 (centottantatremilioni-ottocentosettantaquattromila-settecentonovantadue lire). La Magistratura di Trani è pregata di dare uno sguardo anche a questa pratica. Il Governo predica rigore. E i partiti, i politici di regime, i loro portaborse fanno razzia del denaro di tutti. E la fanno in gruppo. Da questo punto di vista l'arco costituzionale è di una funzionalità spettacolare.
* * * Un dubbio. Ma, per caso, l'architetto Massimo Napolitano, è fratello dell'on. Giorgio Napolitano, presidente del Gruppo parlamentare comunista alla Camera dei Deputati? È così. L'onorevole Napolitano predica rigore ed austerità amministrativa alla Camera. Sono parole. Il fratello, alla periferia, incassa (sui ruderi). E sono fatti.
* * * Il Tribunale penale di Roma ha condannato l'avvocato Ortolani a quattro mesi di reclusione e al risarcimento dei danni morali, per avere diffamato l'ex-ministro delle Finanze, Rino Formica. I fatti sono questi: si era nel giugno 1979, quando Umberto Ortolani, gran faccendiere della P2, rese edotto il ministro socialista di un affare in corso (ENI-Petromin), dal quale lo stesso PSI avrebbe potuto avere, attraverso tangenti, vantaggi considerevoli da misurarsi in miliardi di lire. L'affare complessivo era valutato in 120 miliardi di lire. Formica, secondo la versione che ne da "l’Avanti!" (10.12.1982), reduce dall'incontro con Ortolani, informò subito Craxi che, a sua volta, investì il governo della losca vicenda. E così l'operazione, scrive "l’Avanti!", fu bloccata. A questo punto, l'avvocato Ortolani, per reazione, fece pubblicare sul "Corriere della Sera" una sua dichiarazione, nella quale accusava il ministro Formica di essere lui e il PSI al centro dello scandalo delle tangenti petrolifere. Da qui la denuncia, il processo, la condanna dell'Ortolani. "l’Avanti", commentando la sentenza, scrive che si deve proprio alla dirittura morale di Rino Formica se «i manovratori» del losco affare, attraverso il quale ci si riprometteva il controllo di gran parte della stampa italiana, rimasero scornati e sconfitti. Tutto bene. Il Tribunale penale di Roma ha dato ragione a Rino Formica. Ma non ci si può fermare qui. Infatti, sotto i nostri occhi, c'è una intervista che lo stesso Formica rilasciò a "Il Settimanale". È il 23 marzo 1980. Formica dichiara testualmente: «La vicenda dell'ENI-Petromin deve chiudersi presto, con un provvedimento del Governo che rimuova il professor Mazzanti, uscito dall'indagine della Commissione Bilancio della Camera con le ossa rotte. Vani sono stati i tentativi degli onorevoli Bassanini e La Loggia di tradurre in una relazione politica la tesi dei professori Guarino e Nicolò, avvocati di Mazzanti. Lo scandalo della Sophilau che viene sciolta e costringe i mediatori ad abbandonare per strada un malloppo di tre milioni di dollari, costituisce il più grande imbroglio organizzato dall'onorevole Andreotti e soci. Adesso l'autorità giudiziaria e la Commissione parlamentare inquirente, dovranno accertare le responsabilità penali dei singoli e fare giustizia sul castello di menzogne e di illazioni che sono state costruite, con la compiacenza della stampa di regime per coprire il colossale affare». Dunque, per Formica, l'organizzatore-manovratore del losco affare ENI-Petromin è Giulio Andreotti. Sarebbe interessante conoscere quali iniziative abbia preso Giulio Andreotti al riguardo, per tutelare e difendere la propria onorabilità. Ad accusarlo non è l'ultimo venuto. È Rino Formica, il «n° 2» del PSI. |