da "MiroRenzaglia",
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«Beppe Niccolai. 20 anni
dopo»
Umberto
Bianchi
I vent'anni dalla morte di Beppe
Niccolai, personaggio eretico e scomodo, punto di riferimento all'interno della
magmatica galassia destro-radicale, ci lascia, al di là di convegni più o meno
appassionati e di altrettanto appassionati "memento", con il pressante
interrogativo se il suo messaggio sia stato, in qualche modo, recepito da
quell'ambiente che lui ebbe tanto a cuore e se al di fuori di tale ambiente del
suo messaggio sia stato recepito qualcosa. A prima vista, per il primo
interrogativo, dovremmo rispondere con un deciso "no", viste le fallimentari
vicissitudini politiche che da troppo tempo hanno caratterizzato un'intera area
umana e politica. Per quanto riguarda il secondo interrogativo, la risposta è
molto più complessa ed articolata.
È vero, viviamo in tempi bui, in cui all'insegna di una forsennata
Globalizzazione si cerca di omologare ed appiattire qualunque espressione umana,
politica, culturale al di fuori del grande coro, anche a costo di far
prefigurare a breve una catastrofe ambientale globale. Eppure, qualcosa comincia
a non tornare. Una crisi finanziaria senza precedenti ha fatto vacillare
paurosamente certezze che sino allora sembravano inattaccabili. È vero, era a
partire dalla seconda metà degli anni '90 che si andava parlando di recessione,
ma è altrettanto vero che questa era prefigurata pur sempre all'interno di un
quadro complessivamente ispirato ad uno sfrenato liberismo che, di quando in
quando, attraverso quei momenti di crisi, poteva conoscere dei motivi di
attenuazione. Con questa crisi invece, qualcosa è cambiato. All'improvviso ci si
è cominciati a render conto dei limiti insiti nel mercato e nelle sue
potenzialità. La crescita prodigiosa di un fisico drogato, dopato, imbottito di
sostanze sintetiche, va ad un certo punto incontro ad un sicuro collasso per
avvelenamento.
Così è andata per il sistema-mondo occidentale, drogato, dopato da un'economia
incentrata sui titoli-spazzatura, accezione con la quale non dobbiamo più
intendere solamente i famosi "junk bonds" (casus belli della recente crisi), ma
un intero sistema economico sempre più pericolosamente incentrato sull'economia
finanziaria, che non su quella reale, frutto di lavoro, ingegno e produzione.
Ecco allora che personaggi come il titolare del dicastero dell'Economia, sino a
ieri liberisti devoti, si scoprono oggi su posizioni "sociali" tali da mettere
invidia e da indurre al dubbio anche alcuni fra i più acerrimi critici di
estrazione radical-marxista. Posizioni che hanno portato ventate di sconforto e
crisi, anche all'interno della maggioranza di un governo le cui componenti
"sociali" hanno poi, nei fatti, dimostrato di essere di ben altra pasta. Ma non
è solo in Italia che qualcosa è cambiato.
La politica economica USA, a chiacchiere ultraliberista, con questa crisi ha
riscoperto una vocazione protezionista; in cinquant'anni mai si era assistito ad
una tale iniezione di denaro pubblico per salvare le banche. Tale vocazione è
stata ulteriormente avallata dalla presidenza di un Obama, che ha fatto della
riforma sanitaria in direzione pubblica un vero e proprio punto d'onore. Già si
parla sempre più diffusamente, e senza pudore, se non di crisi aperta del
liberal-liberismo, quanto meno di una sua necessaria revisione. Sembra che la
Casa Bianca, sotto la presidenza Obama, sia divenuta meta di pellegrinaggio di
pensatori ed economisti quanto meno non troppo in linea con i vecchi dettami
liberisti.
Tutto questo non significa un'improvvisa illuminazione, né una tardiva
conversione sulla via di Damasco da parte di certi ambienti, (sarebbe folle ed
ingenuo pensarlo!) ma sicuramente rappresenta un segnale in direzione di una
volontà, se non di cambiamento, quanto meno di rettifica di una rotta ormai non
più sicura come si credeva. Ma non è solo dagli Stati Uniti che arrivano certi
(anche se contraddittori) segnali. C'è il Venezuela chavista, che oramai da anni
ha intrapreso un determinato cammino e che fa un po' da traino ad un continente
latinoamericano sempre più stufo di certi modelli. C'è una Cina che, per
compensare la crisi delle esportazioni che la caduta dei consumi in paesi come
gli USA ha determinato, dovranno incentivare i propri consumi interni,
attraverso una politica di aumenti salariali, che alla propria base dovrà avere
un deciso sviluppo delle proprie infrastrutture sociali. C'è l'enigma di una
Russia che, passata l'iniziale euforia neoliberista di Boris Eltsin, ha ripreso
la strada del monopolio statale dei settori più strategici dell'economia. C'è un
Iran, la cui economia è altresì legata al duopolio pubblico-privato, in cui il
primo è chiaramente presente nei settori nevralgici dell'economia.
Ci sono poi, tutti quei paesi europei e non, tra cui in primis Spagna, Irlanda,
Islanda e tutti i paesi dell'ex Patto di Varsavia, le cui economie fino a poco
fa entusiasticamente neoliberiste, hanno subito i contraccolpi più duri dalla
crisi. In paesi come quelli dell'Europa Occidentale si cominciano quindi a
prospettare degli inediti cambi di rotta, attraverso i quali possono rientrare
direttamente in gioco prospettive politiche che, l'avvento del neoliberismo più
sfrenato sembrava aver messo definitivamente all'angolo. In una situazione come
quella nostrana, questo non significa addivenire alla creazione ex nihilo
dell'ulteriore formazione nazional-popolare o di estrema destra, destinata a
permanere relegata nell'ambito del ghetto nostalgico/kitsch/settario, in cui
generalmente queste formazioni vanno a finire.
La stagione di grandi riforme con cui l'Italia prima o poi dovrà fare i conti
per non rimanere un paese ingovernabile, prevede una stabilizzazione del
dibattito politico attorno a due-tre grandi attori politici al massimo. Le
soglie di sbarramento elettorale hanno da noi già messo fuori dalla porta tutti
quei movimenti che, ispirati all'antagonismo ideologico, non avevano messo in
conto le reali istanze della società italiana. Lo svuotamento ideologico delle
grandi formazioni politiche nostrane potrebbe sembrare in un fenomeno dalla
forte valenza negativa, sintomo di quella deprecabile marcia verso il vuoto
ideale, a cui ci starebbe portando l'attuale modello di sviluppo.
A ben guardare invece, questo stato di cose potrebbe rappresentare
un'imperdibile opportunità: quella di riempire gradualmente di contenuti questi
scatoloni, condizionandone la crescita ed i futuri sviluppi politici. D'altra
parte, che persone provenienti dalle aree antagoniste siano riuscite ad arrivare
ad occupare posti prima impensabili, è cosa già avvenuta nel nostro paese. In
questo caso però, la differenza starebbe nel non rinnegare contenuti ed istanze
inalienabili per un tozzo di pane, ma nel saperli tradurre e trasporre nel
quadro dell'attualità politica senza sminuirne la carica innovativa e
rivoluzionaria, anzi. Un consistente rafforzamento dell'esecutivo, in grado di
rendere più stabile e duratura l'azione di governo. Un più decisivo ed
articolato intervento pubblico in ogni aspetto dell'economia, dalla lotta ad una
insidiosa disoccupazione alla tragica spirale di aumenti dei prezzi determinata
con l'avvento dell'Euro. Una lotta senza quartiere all'invasione migratoria, da
qualunque parte essa provenga. Una graduale revisione di tutti quegli accordi
internazionali, dal GATT alle varie alleanze che vedono il nostro paese in una
posizione subordinata ed altro di più ancora.
Ecco allora avrà senso parlare di
eredità di Beppe Niccolai che, dall'interno delle istituzioni volle tentare la
carta del grande cambiamento, pur rimanendo inascoltato. Oggi il clima è
cambiato, certe istanze hanno la possibilità di venir tradotte nel concreto. Mai
come adesso si è avuto un così grande numero di pubblicazioni, riviste,
iniziative, conferenze, dibattiti di matrice nazional-rivoluzionaria. Tutto
questo rappresenta lo spontaneo frutto di menti che si interrogano e si
preparano ed il cui lavoro dovrà, prima o poi, indirizzarsi verso qualcosa di
concreto, per non rimanere disperso nel mare magnum dell'astrattezza e
dell'inconcludenza in cui questo sistema sa abilmente convogliare tutte le
istanze più scomode.
Umberto
Bianchi
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