da "Tabularasa" -
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Sofri, Niccolai e la
strategia della tensione
Vito
Errico
Siamo di corta memoria, in questa nazione. Facciamo in fretta a dimenticare.
Cancelliamo in fretta tutto, le nostre gioie e le nostre amarezze, le nostre
angosce e le nostre illusioni. Siamo di carattere cangiante. Non siamo dediti a
porci domande, ad interrogarci. Diamo tutto per scontato. Quel ch'è vero oggi,
diventa falso domani. Quel ch'è giusto, diventa ingiusto. Siamo tutto e il
contrario di esso. Forse per questo ci dicono «brava gente».
Abbiamo commesso nefandezze, al pari di altri popoli. La nostra storia ne è
piena ma pochi lo sanno o fanno finta. Perché è nostro costume la rimozione. Al
pari del giustificazionismo. Per le nostre azioni c'è sempre un buon motivo per
compierle. Belle o brutte che siano. A sentir noi italiani, abbiamo sempre
ragione. Avevamo ragione ad essere borbonici. E poi savoiardi. Era giusto star
con la Triplice Alleanza. E poi con l'Intesa. Facemmo bene ad esser liberali. E
poi fascisti. E dopo antifascisti. Longanesi coniò «il duce ha sempre ragione».
Il Duce era italiano. Uno di noi.
Fatti d'un tempo
In questi giorni c'è un uomo che sta protestando. Con lo sciopero della fame. E
Adriano Sofri. Durante gli Anni di Piombo era un mio nemico. Perché stava
«dall'altra parte». Poteva uccidermi, come potevo ucciderlo. Non ci avremmo
pensato un momento. Chi li ricorda quegli anni? Nessuno più. Chi è morto, chi
vive ancora dietro le sbarre, chi si autodistrugge silenziosamente perché non ha
più riferimenti. Né entusiasmo.
De Benedetti, il patron dell'Olivetti, dice ("la Repubblica", 8.7.1992) che oggi
non c'è più opposizione. Era meglio allora, che si viaggiava con la Colt 45 con
le «guancette» di legno, in tasca? Sì e no.
Chi legge ne dia una motivazione, della risposta. A patto che sappia di che si
discute. Chi stette dietro gli scuri, a meditare sulle proprie gloriuzze, non ha
titolo a rispondere. Non sa di che si parla. Adriano Sofri, capo di "Lotta
Continua" di quegli anni, rischia ventidue anni di carcere perché un pentito,
dopo sedici anni, lo ha accusato di essere il mandante dell'assassinio del
commissario Calabresi. Un fatto che colpì molti di noi. Sfoglio "II Fiammifero",
un giornaletto che stampavamo spartendoci «nazionali senza filtro», di quando
eravamo poveri. Qualcuno, de "II Fiammifero", oggi è ricco. Ha avuto fortuna.
Il processo di primo grado ha condannato Sofri in base alle affermazioni non
riscontrabili d'un pentito che ha messo tanto a diventare tale. Sofri non ha
interposto appello. E non perché si sentisse colpevole. La vicenda (risparmio i
particolari d'ordine processuale) finisce in Cassazione. Il 9 giugno di
quest'anno di grazia, Sofri doveva essere processato dalla I Sezione della
massima Corte, quella diretta dal giudice Carnevale.
Su questo magistrato non sono competente a giudicare. Mauro Mellini lo ritiene
("Secolo d'Italia", 3.4.1991) «uno dei migliori magistrati che onorano la
giustizia italiana». Giorgio Bocca lo staffila quotidianamente di brutto. Io mi
chiedo soltanto: se sta lì dov'è e non lo merita, perché non lo rimuovono?
Siccome Carnevale gode fama d'essere «ammazzasentenze», il processo a Sofri
viene spostato alla VI Sezione penale della Corte di Cassazione, ritenuta più
«dura». Sofri lamenta d'essere sottratto al giudice naturale, fondamento dello
stato di diritto, costituzionalmente garantito, e inizia lo sciopero della fame.
Il caso balza agli onori della cronaca nazionale. Interviene il professor Conso,
insigne giurista, per un momento probabile Presidente della Repubblica, prima
dell'avvento di Scalfaro, che taglia la testa al toro e propone la celebrazione
del processo a sezioni riunite: la prima garantista, la sesta draconiana.
Vediamo quel che n'esce.
Alle origini del misfatto
Io ho avuto la fortuna d'aver conosciuto un uomo come Beppe Niccolai. D'essergli
stato vicino. D'aver condiviso gioie e amarezze. Dopo le ben note vicende
personali legate alla politica, ho rimosso (da buon italiano) tutto ciò che di
materiale mi legava ad un mondo, cui ho appartenuto. Ho mantenuto sulla mia
scrivania soltanto la foto di Beppe. Niccolai è all'origine dei guai di Sofri.
Era il «federale» di Pisa. In piena campagna elettorale "Lotta Continua"
tappezzò i muri della città con un manifesto. Vi era scritto: «Caschi pure il
mondo su un fico, Niccolai a Pisa non parlerà». Niccolai parlò in una città,
assediata come non mai e come non più, il 5 maggio 1972. Quella sera, negli
scontri con la polizia, morì Franco Serantini, giovane anarchico, messo lì da
Adriano Sofri perché «il fascista Niccolai a Pisa non parlasse». I giornali,
quando Calabresi fu ucciso, scrissero che il funzionario di polizia era stato
giustiziato per ritorsione, per vendicare Serantini.
Chi ricorda quegli anni, non ha da meravigliarsi. Anche perché non si sapeva,
noi ch'eravamo sulle piazze, qual'era il gioco sporco dell'Ufficio Affari
Riservati diretto dal dottor D'Amato. Quando Sofri venne accusato da un pentito,
telefonai a Niccolai. «Son tutte balle» mi rispose. Io mi fidavo ciecamente di
Beppe. Scrisse una lunga lettera al "Secolo d'Italia", nella quale sosteneva
l'innocenza di Sofri. Niccolai, «nemico» di Sofri, lo assolveva. E ne spiegava i
motivi, adombrando la tesi della sussistenza d'uno dei tanti «teoremi» che
avevano presieduto alla «strategia della tensione». Almirante vietò la
pubblicazione della missiva. Perché?
Perché si doveva continuare a prestar fede alla «strategia della tensione». La
mancanza di un nemico può far sentire inutili. Ci deve essere, il nemico, perché
per esso noi esistiamo. Incredibile! Ma non lo sapevamo. Cosa sosteneva
Niccolai? Stringatamente: se Serantini è morto perché Niccolai non parlasse,
perché non uccidere Niccolai, che tra l'altro non andò a nascondersi? Cosa
c'entrava Calabresi, che stava a Milano, mentre Niccolai, Sofri e Serantini
erano a Pisa? Perché Calabresi, bersaglio difficile, e non Niccolai, obiettivo
molto più facile?
Il ragionamento non fa una grinza. Ma allora, chi ha ucciso Calabresi? Non lo
sappiamo e lo vorremmo sapere. Beppe Niccolai chiudeva quella missiva al "Secolo
d'Italia" con queste parole: «Perdona, caro direttore, ma non me la sento di
gridare che Adriano Sofri è un assassino.»
Vito
Errico
da "Meridiano
Sud", 15 luglio 1992
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