da "Fascisti immaginari" -
Luciano Lanna e Filippo Rossi
Fascisti di sinistra
«La destra è censura, reazione,
bigotteria. E se ho un'appartenenza culturale è più al fascismo che alla destra,
che mi fa schifo [...] Il fascismo che ho conosciuto in famiglia è quello
libertario, gaudente, generoso. Penso al fascismo rivoluzionario dell'inizio e
della fine, quello che non conserva ma cambia, quello socialista e
socialisteggiante...»
Idee chiare e sentite quelle del ventottenne Nicolo Accame, giornalista del
"Secolo d'Italia" intervistato, insieme a suo padre Giano, nel marzo 1996, da
Stefano Di Michele: due fascisti, un padre e un figlio. Idee chiare e sentite
che affondano in un diffuso e radicato retroterra esistenziale e culturale.
Quello dei cosiddetti «fascisti di sinistra».
Anche quando Alberto Giovannini, giornalista di lungo corso, classe 1912, è
stato costretto a definirsi ha dovuto per forza di cose ricorrere a
quell'apparente ossimoro: «Io sono stato fascista a modo mio. Era, il nostro, un
fascismo di sinistra». E aggiungeva: «Non potevo non avere una certa fedeltà e
riconoscenza verso quel regime attraverso il quale io, che ero nessuno, figlio
di povera gente, di operai, cominciando col fare il fattorino, ero arrivato a
dirigere un quotidiano. Il fascismo mi aveva dato la possibilità di avanzare
socialmente. Non lo avevo dimenticato ...».
E quando, a metà degli anni '80, durante la presentazione di una riedizione
dello "Scrittore italiano" di Berto Ricci, i dirigenti missini Pinuccio
Tatarella e Beppe Niccolai, furono anche loro costretti a definirsi, le due
risposte risultarono antitetiche. Più che "di destra", di "centro-destra" si
definì Tatarella, ricollegandosi alla tradizione politica che negli anni '50
avevo visto molte città del Mezzogiorno amministrate da coalizioni composte da
MSI, destre liberali e monarchiche e DC. Sicuramente "non di destra", anzi "di
sinistra", si dichiarò invece Niccolai, riagganciandosi a tutt'altra tradizione.
Una tradizione che affondava le sue radici nel Mussolini giacobino, nel
socialismo risorgimentale di Pisacane, nel sindacalismo rivoluzionario di Sorel
e Corridoni, nelle avanguardie artistiche d'inizio Novecento, nel fascismo
sansepolcrista del 1919, nell'interpretazione gentiliana del marxismo...
Se infatti storicamente il fascismo nasce con Mussolini e "Il Popolo d'Italia"
tra il 1914 e il 1919 da una scissione del partito socialista, il filosofo
cattolico Augusto Del Noce ne ha retrodatato la genesi filosofica al 1899 con la
pubblicazione del saggio di Giovanni Gentile su "La filosofia di Marx", che
venne considerato da Lenin -nel "Dizionario Enciclopedico russo Granat" del
1915- uno degli studi più interessanti e profondi sull'essenza teoretica del
pensatore di Treviri. Del marxismo, Gentile respingeva il materialismo
ottocentesco ma ne abbracciava con entusiasmo l'ultramoderna dimensione di
«filosofia della prassi», tesa non solo a interpretare il mondo ma a cambiarlo.
Stando almeno all'interpretazione delnociana, quindi, il fascismo non sarebbe
affatto una negazione del marxismo, ma piuttosto una sua "revisione" che
reinterpreta la prassi come spiritualità. Il fascismo si prospetta, insomma,
come una rivoluzione "ulteriore" rispetto a quella marx-leninista. D'altro
canto, divenuto filosofo ufficiale del fascismo, Gentile ripubblicò il suo libro
su Marx nel 1937, nel pieno degli "anni del consenso". E quando, il 24 giugno
1943, pronunciò in Campidoglio il Discorso agli italiani per esortarli a
resistere agli anglo-americani, si rivolse espressamente agli ambienti di
sinistra presentando il fascismo come «un ordine di giustizia fondato sul
principio che l'unico valore è il lavoro». E precisò: «Chi parla oggi di
comunismo in Italia è un corporativista impaziente». Lo stesso Lenin, del resto,
rivolgendosi nel 1922 al comunista Nicola Bombacci aveva potuto dire: «In Italia
c'era un solo socialista capace di fare la rivoluzione: Benito Mussolini».
Nel fascismo di sinistra ci sono davvero tante cose: il percorso politico dello
stesso Bombacci, il comunista finito a Salò e appeso con Mussolini a Piazzale
Loreto; la covata ribelle dei giovani intellettuali aggregati attorno all'ex
anarchico fiorentino Berto Ricci e alla sua rivista "L'Universale"; il "lungo
viaggio" dal fascismo al comunismo di tanti intellettuali, da Davide Lajolo a
Fidia Gambetti, da Felice Chilanti a Ruggero Zangrandi, da Elio Vittorini a
Vasco Pratolini, da Ottone Rosai a Mino Maccari. Fermenti e contraddizioni che
hanno indotto lo storico Giuseppe Parlato a dedicare un intero libro alla
cosiddetta "sinistra fascista": «Quell'insieme, a volte discorde e
contraddittorio, di sentimenti, di posizioni, di prospettive e di progetti che
si fondavano sulla persuasione di vivere nel fascismo e attraverso il fascismo
una sorta di palingenesi rivoluzionaria, la prima vera rivoluzione italiana
dall'unità».
E delle varie anime del fascismo, la "sinistra" fu sicuramente la più vivace.
Ancorata al Risorgimento mazziniano e garibaldino, la sinistra fascista cercò di
incarnare un progetto che era nato prima del fascismo e che mirava ad
oltrepassare la stessa esperienza mussoliniana. E se nei primi tempi essa si
tradusse essenzialmente nello squadrismo e nel sindacalismo, verso la metà degli
anni '30 -aggregando soprattutto i giovani universitari, gli intellettuali e i
sindacalisti - si fece portatrice di un "secondo fascismo" teso a superare la
società borghese. Non è un caso che i vari Bilenchi, Pratolini e tutti i giovani
intellettuali del cosiddetto "fascismo di sinistra", oltre che in Berto Ricci,
trovassero un punto di riferimento nel fascista anarchico Marcello Gallian. «I
libri di Gallian -scriveva Romano Bilenchi su "Il Popolo d'Italia" del 20 agosto
1935- sono documenti... E un documento su di un periodo rivoluzionario non
creduto compiuto non avrà fine finché tutta la rivoluzione non sia realizzata».
Quest'anima di sinistra conviverà nei vent'anni del regime con altre componenti.
E nonostante il suo essere per molti versi un "progetto mancato", marcherà
sempre il Ventennio, influendo decisamente sull'identità culturale sia del
fascismo che del postfascismo.
Confesserà Bilenchi, diventato comunista dopo la guerra: «Rimasi molto legato a
queste idee diciamo così, socialiste... Del fascismo mi colpì il programma, più
a sinistra, almeno a parole e almeno agli inizi, di quello degli altri... Poi ho
conosciuto Berto Ricci, una persona seria, onesta e simpatica. Era un anarchico,
filosovietico, ed era entrato nel partito fascista convinto di partecipare a una
rivoluzione proletaria».
Del resto, già nel 1920, Marinetti aveva scritto: «Sono lieto di apprendere che
i futuristi russi sono tutti bolscevichi... Le città russe, per l'ultima festa
di maggio, furono decorate da pittori futuristi. I treni di Lenin furono dipinti
all'esterno con dinamiche forme colorate molto simili a quelle di Boccioni, di
Balla e di Russolo. Questo onora Lenin e ci rallegra come una vittoria nostra».
E resta agli atti che il 16 novembre 1922, proprio con un intervento alla Camera
di Mussolini presidente del Consiglio, l'Italia fu il primo dei paesi
occidentali a dichiararsi disponibile al riconoscimento internazionale
dell'Unione Sovietica. Un'apertura che, almeno fino alla guerra di Spagna, non
verrà mai meno. Nel giugno 1929, Italo Balbo, in una delle sue celebri
trasvolate dall'Italia approdò a Odessa nell'URSS, e lì venne accolto con un
picchetto d'onore. E il 4 dicembre 1933, Mussolini ricevette ufficialmente a
Palazzo Venezia il ministro degli esteri russo Maxim Litvinov: da tre mesi i due
paesi avevano sottoscritto un patto d'amicizia e l'occasione rafforzò
ulteriormente le buone relazioni.
Erano gli anni in cui il filosofo Ugo Spirito arrivava a teorizzare -nel
convegno di Studi corporativi di Ferrara del 1932- la «corporazione
proprietaria» che prevedeva di fatto l'abolizione della proprietà privata, e in
cui pullulavano le pubblicazioni addirittura filosovietiche, tra le quali un
libro di Renzo Bertoni, che, reduce da una permanenza nell'Unione Sovietica,
pubblicava nel 1934 un libro intitolato addirittura "Il trionfo del fascismo
nell'URSS", sulla cui copertina si vedeva uno Stalin con la mano aperta e in una
didascalia si leggeva: «Stalin saluta romanamente la folla».
Poi, la guerra di Spagna, la seconda guerra mondiale e la repubblica di Salò. E
proprio quest'ultima scatena vivaci discussioni tra Mussolini e Hitler. Per il
dittatore tedesco quell'esperienza doveva chiamarsi «Repubblica fascista
italiana». Mussolini, invece, senza più obblighi compromissori con la monarchia
e gli ambienti conservatori, avrebbe preferito «Repubblica socialista italiana»,
tornando in qualche modo alle suggestioni sansepolcriste. Ma di quell'aggettivo
che puzzava di sovversione e di marxismo Hitler non volle sentirne parlare. E
alla fine si accordarono su Repubblica Sociale Italiana. E sia pure ridotto a
"sociale", la parola socialista tornava nel lessico dei fascisti. Tanto da
emozionare il socialista della prima ora ed ex comunista Nicola Bombacci -colui
che aveva fatto adottare il simbolo della falce e martello ai comunisti
italiani- e a farlo riappacificare con Mussolini: «Duce -gli scrive l'11 ottobre
1943- sono oggi più di ieri totalmente con Voi. Il lurido tradimento re-Badoglio
che ha trascinato purtroppo nella rovina e nel disonore l'Italia, Vi ha però
liberato di tutti i componenti pluto-monarchici del '22. Oggi la strada è libera
e a mio giudizio si può percorrere sino al traguardo socialista».
In uno degli articoli scritti poco prima di essere ucciso dai partigiani, il
giornalista Enzo Pezzato -redattore capo a Salò di "Repubblica fascista"-
scrisse: «Il Duce ha chiamato la Repubblica "sociale" non per gioco: i nostri
programmi sono decisamente rivoluzionari, le nostre idee appartengono a quelle
che in regime democratico si chiamerebbero "di sinistra"».
E nei giorni del crepuscolo di Salò, Mussolini confiderà al giornalista
socialista Carlo Silvestri: «Il più grande dramma della mia vita si produsse
quando non ebbi più la forza di fare appello alla collaborazione dei socialisti
e di respingere l'assalto dei falsi corporativi. I quali agivano in verità come
procuratori del capitalismo... Tutto quello che accadde poi fu la conseguenza
del cadavere di Matteotti che il 10 giugno 1924 fu gettato fra me e i socialisti
per impedire che avvenisse quell'incontro che avrebbe dato tutt'altro indirizzo
alla politica nazionale».
Sull'esperienza della RSI, Enrico Landolfi ha scritto che non fu un unicum: «Fu,
viceversa, una sfaccettatissimo prisma, un fenomeno pluralistico. Tanto vero che
fu in essa presente quasi tutto lo spettro dottrinario e politico». Landolfi
sottolinea la presenza al suo interno di esponenti della stessa sinistra
antifascista disposti a collaborare per l'attuazione del cosiddetto "Manifesto
di Verona": oltre a Bombacci e a Carlo Silvestri, Edmondo Cione, Germinale
Concordia, Pulvio Zocchi, Walter Mocchi e Sigfrido Barghini. Accanto a loro,
c'era soprattutto a Salò una vasta «aggregazione più coerentemente e
conseguentemente rivoluzionaria, socializzatrice, popolare-nazionale,
libertaria. Disponibile, inoltre, quest'ultima, e anzi fautrice, del dialogo con
l'antifascismo, proclive alla più ampia democratizzazione della Repubblica,
decisa a resistere alle interferenze e alle rapine naziste, inequivocabilmente
antiborghese e anticapitalista». E anche per questo, Landolfi ha titolato un suo
libro sulla RSI: "Ciao, rossa Salò". Quella "rossa repubblica" che Bombacci
salutò per l'ultima volta, prima che i partigiani lo fucilassero, con le parole:
«Viva Mussolini! Viva il socialismo!».
Nell'immediato dopoguerra il tema del recupero politico, o almeno elettorale, di
chi era stato fascista nel Ventennio ma anche nella RSI, interesserà, più o meno
scopertamente, anche il PSI e il PCI, i partiti dove troveranno accoglienza
molti fascisti di sinistra. Così, nell'agosto 1947, Palmiro Togliatti, che
l'anno prima in qualità di ministro di Grazia e Giustizia aveva concesso
l'amnistia ai fascisti, sul quotidiano comunista "La Repubblica d'Italia"
scriveva: «Non nascondiamo le nostre simpatie per quegli ex fascisti, giovani o
adulti, che sotto il passato regime appartenevano a quella corrente in cui si
sentiva l'ansia per la scoperta di nuovi orizzonti sociali... Noi riconosciamo
agli ex fascisti di sinistra il diritto di riunirsi e di esprimersi liberamente
conservando la propria autonomia».
E anche il leader socialista Pietro Nenni, intervistato da "Paese Sera" il primo
gennaio 1955, legittimava i fascisti di sinistra: «Da noi la destra esprime
soltanto istinti antisociali, di conservazione e di reazione. Tipico il caso dei
fascisti che, per inserirsi nella politica reazionaria americana, non hanno
esitato a pugnalare ancora una volta il loro capo e a rinnegare l'unico elemento
rispettabile della loro tradizione, vale a dire l'opposizione al dominio delle
cosiddette plutocrazie». E lo stesso Nenni, se alla vigilia delle elezioni del
1953, aveva aperto le pagine de "l'Avanti!" all'ex direttore fascista de "La
Stampa" di Torino, Concetto Pettinato, già nell'immediato dopoguerra aveva
favorito la nascita di una rivista -"Rosso e Nero"- con la quale il fascista di
sinistra Alberto Giovannini tentava di conciliare le attese fasciste della
"rivoluzione incompiuta" con quelle socialiste della "rivoluzione mancata".
In questo clima, un gruppo di fascisti di sinistra si raccoglierà attorno alla
rivista quindicinale "Il Pensiero Nazionale" diretto dallo scrittore e
giornalista già repubblichino Stanis Ruinas. Verranno definiti
«fascisti-comunisti», «comun-fascisti», «camicie nere di Togliatti» e «fascisti
rossi», definizione quest'ultima che dopo qualche esitazione finiranno anche per
accettare. Ma il "rosso" di questi fascisti non fu necessariamente quello del
PCI, ma un rosso più articolato, più complesso, più variegato. Tanto che,
persino nella sua componente più incline alla linea di Botteghe Oscure, vi fu
una divisione tra il gruppetto che volle entrare -ed entrò- nel PCI e gli altri
che preferirono restare indipendenti. Dopo il '53, il gruppo de "Il Pensiero
Nazionale" si avvicinerà ai socialisti, ai socialdemocratici e alla sinistra
cattolica, finendo per gravitare nell'orbita del presidente dell'Eni Enrico
Mattei e del suo nazionalismo democratico e mediterraneo. Ma non mancheranno
rapporti e scambi con gli esponenti della sinistra fascista interni al MSI.
Leader riconosciuto della sinistra missina delle origini fu indiscutibilmente
Giorgio Pini: giornalista vicino a Mussolini prima e durante la RSI, sarà
assiduo collaboratore de "Il Pensiero Nazionale" a partire dal 1954, dopo che,
nell'aprile del '52, abbandona il MSI e, nel '53, si interrompe il legame da lui
non gradito tra la rivista e il partito comunista. Ma in realtà tutti gli anni
'50 hanno registrato contatti e confronti, anche pubblici, tra i giovani
comunisti e i giovani dirigenti missini, soprattutto negli anni del dibattito
sull'ingresso dell'Italia nella NATO. E nel 1958, lo stesso Palmiro Togliatti
arrivò a difendere la cosiddetta «operazione Milazzo» che, in Sicilia, realizzò
l'alleanza amministrativa tra il MSI e il PCI.
In un intervento alla Camera, il 9 dicembre, il leader comunista disse: «Le
convergenze che si sono determinate hanno dato luogo, anche qui, alle solite
inette arguzie sul comunista e sul missino che si stringono la mano, si
abbracciano e così via. Si tratta di un problema di fondo che deve essere
riconosciuto e apprezzato in tutto il suo valore, daremo il contributo attivo a
che passi in avanti vengano compiuti». D'altra parte, anche dopo la fuoriuscita
di Giorgio Pini dal MSI -ancora lontano dal diventare il partito della "destra
nazionale"- al suo interno rimase e fu sempre attiva una vasta e articolata
presenza di "fascisti di sinistra": Ernesto Massi, Bruno Spampanato, Diano
Brocchi, Giorgio Bacchi, Roberto Mieville, Domenico Leccisi, Giuseppe Landi, Ugo
Clavenzani e Beppe Niccolai... E lo stesso Giorgio Almirante, prima di diventare
segretario del partito e di lanciare la "grande destra", fu per molti anni un
esponente di punta della sinistra interna.
Ernesto Massi, grande studioso di geopolitica, professore all'Università
Cattolica di Milano e vicesegretario nazionale del MSI dal 1948 al 1952, esce
dal partito nel 1957 per tentare esperimenti politici autonomi. Fino al 1965
anima con Giorgio Pini un «Comitato di iniziativa per la sinistra nazionale». E
solo dopo il fallimento del "Partito Nazionale del Lavoro" -che pure nel 1958 si
presenta alle elezioni politiche in cinque circoscrizioni- e l'esaurirsi, nel
1963, della sua rivista "Nazione Sociale", tornerà nel 1972 a riavvicinarsi al
MSI attraverso l'Istituto di studi corporativi.
Nel 1963, comunque, mentre si chiudeva l'esperienza di "Nazione Sociale",
nasceva a Roma "L'Orologio" diretto da Luciano Lucci Chiarissi, una rivista e un
laboratorio che riproponeva la tradizione del "fascismo di sinistra" in termini
nuovi e molto più attenti all'evoluzione degli scenari italiani ed
internazionali. Lucci Chiarissi, nato ad Ancona nel 1924, era stato volontario a
Salò, aveva militato nell'immediato dopoguerra nel movimento clandestino dei FAR
(Fasci di azione rivoluzionaria), e si era sempre sentito appartenente a una
"sinistra nazionale". "L'Orologio" tentava di uscire dalla strada del "rancore
eterno" e del nostalgismo fine a se stesso, contestando non solo il MSI
micheliniano, ma anche i gruppi extraparlamentari come "Ordine nuovo" e
"Avanguardia nazionale". Spiegava Lucci Chiarissi: «Annibale non è alle porte e
comunque non lo è a causa del centro-sinistra». E "L'Orologio", che aveva
lanciato il tema della riappropriazione delle "chiavi di casa", sostenne De
Gaulle contro il Patto Atlantico e nella guerra dei "sei giorni" si schierò
dalla parte dei paesi arabi contro l'imperialismo israeliano. «"L'Orologio" -ha
scritto Giuseppe Parlato- individuò nel capitalismo e nell'imperialismo
americano un pericolo maggiore di quello sovietico per la cultura e la politica
italiana... E a differenza di tutti gli altri fogli neofascisti, "L'Orologio"
assunse immediatamente una posizione nettamente a favore dei vietnamiti e della
loro lotta per l'indipendenza».
Sono gli anni in cui accanto -e spesso a fianco- di tanti gruppi
extraparlamentari di destra, sorgono anche gruppi extraparlamentari ispirati al
"fascismo di sinistra". Così, la sezione italiana della Giovane Europa di Jean
Thiriart titolava «Per un socialismo europeo» un documento fiorentino del 1968.
E così, nel 1967, nasceva la "Costituente nazionale rivoluzionaria", fondata da
Giacomo De Sario: classe 1927, ex segretario della federazione giovanile
socialdemocratica ed ex dirigente della Giovane Italia. Con un simbolo rosso e
nero, «rosso per la socialità, nero per la nazione», quel movimento -tra i cui
esponenti di spicco c'erano i giovani Massimo Brutti e Massimo Magliaro, l'uno
futuro dirigente del PCI e poi dei DS, l'altro diventerà capo ufficio stampa di
Almirante e poi giornalista RAI- si faceva conoscere attraverso un periodico:
"Forza Uomo", settimanale di lotta con redazioni a Roma, Milano, Varese e
Brindisi. Il primo numero andò in edicola il 10 agosto 1969. Tra i riferimenti
culturali c'erano Mazzini e Pisacane, Corridoni e Gentile, Mussolini e i
futuristi.
Nel solco della stessa tradizione si collocava la "Federazione Nazionale
Combattenti della RSI", di cui nel '70 divenne presidente Giorgio Pini. Nel
discorso di insediamento, Pini condannava l'atteggiamento dei fascisti che
«sbandano verso la destra conservatrice e autoritaria, totalitaria, in ibrido
connubio coi monarchici e coi più retrivi gruppi confessionali», invitando
inoltre a respingere «il fanatico occidentalismo di destra pervenuto fino alla
servile esaltazione di Nixon, il bombardatore del Vietnam», e condannando «ogni
collusione coi regimi militari e liberticidi dei colonnelli greci, del generale
Franco, sacrificatore della nobile Falange di José Antonio Primo de Rivera, del
regime ottusamente conservatore, classista e colonialista di Lisbona, di quelli
razzisti del Sud Africa e della Rhodesia». In quegli anni la Federazione faceva
uscire a Roma una serie di pubblicazioni -il quindicinale "Fnc-RSI notizie", il
mensile "Corrispondenza repubblicana", il trimestrale "Azimut" e il foglio
giovanile "Controcorrente"- di cui erano animatori Romolo Giuliana e P. F.
Altomonte (sigla quasi pseudonima con la quale si firmava l'artista futurista
Principio Federico Altomonte).
Scoppiato il '68, sia la "Fnc-RSI" sia "Forza Uomo" sia "L'Orologio" si
schierano naturalmente con la contestazione. "L'Orologio", anzi, appoggiò la
protesta giovanile anche sul piano organizzativo, dando vita ai "Gruppi
dell'Orologio" e fornendo sostanza culturale alla trasformazione in senso
"rivoluzionario" di alcuni ambienti di matrice neofascista. E dopo la fine e la
diaspora di quell'esperienza, il loro animatore, Luciano Lucci Chiarissi,
fonderà l'associazione politico-culturale "Italia e Civiltà" che, nei primi anni
'80, si farà promotrice di una serie di incontri pubblici sul nuovo "socialismo
tricolore" attivato dalla svolta craxiana.
Dentro o fuori il MSI, quindi, una certa tradizione non è mai morta. E quella
che potremmo chiamare l'ultima incarnazione di un "sinistra" scaturita
dall'universo neofascista, si esprimerà a metà degli anni '70 con presupposti e
riferimenti inediti. Questa volta si trattava di un fenomeno più generazionale
ed esistenziale che ideologico in senso stretto. A prenderne atto, nel gennaio
1979, fu Giorgio Galli su "Repubblica" parlando di «fascisti in camicia rossa».
Figli degli anni '70, questi nipotini inconsapevoli di Berto Ricci e Nicolino
Bombacci, rivelavano un percorso parallelo a quello che, sull'altro versante,
andavano conducendo i coetanei della "nuova sinistra". E Galli ne metteva in
luce alcuni «elementi diversi da quelli consueti» e, in particolare,
l'aspirazione a sintonizzare ed aggregare «la protesta antisistema dei giovani,
dei disoccupati, del sottoproletariato».
Si trattava di un vasto fermento giovanile emerso in quegli anni e che si poteva
cogliere attraverso pubblicazioni come "La Voce della Fogna" e "Linea", in cui
comparivano argomenti e toni inediti per la precedente pubblicistica
neofascista. Si introducevano temi nuovi, come l'attenzione ai diritti civili e
alle tematiche ambientaliste. "Nucleare? Dieci volte no", si leggeva sul secondo
numero di "Linea". E sempre sulle pagine di quella rivista apparivano la prima
vera inchiesta sui "Verdi" tedeschi, l'apertura di un dibattito sulla
liberalizzazione della droga, e pagine e pagine sui nuovi bisogni e sulla
condizione giovanile. Emergeva, soprattutto, il quadro di un ambiente
caratterizzato da una linea libertaria, garantista, antistatalista,
ambientalista, antioccidentalista e, addirittura, con venature regionaliste e
antiproibizioniste.
«Sfondare a sinistra», era il titolo di un articolo di Marco Tarchi che, sul
terzo numero di "Linea", lanciava in grande stile un'espressione destinata ad
avere successo. Già nel '76, del resto, lo stesso Tarchi era stato autore di un
documento del "Fronte della gioventù" toscano in cui, esaminando le cause della
sconfitta elettorale, si invitava a «sfondare a sinistra»: molti elettori -era
la tesi di Tarchi- avevano votato per il PCI non perché comunisti, «ma perché
spinti da un'ansia di cambiamento, e disgustati dal modo di gestire la cosa
pubblica instaurato dalla DC e dai suoi alleati».
Questa componente giovanile troverà la sua identità soprattutto nell'esperienza
dei Campi Hobbit. E paradossalmente, tra il 1976 e il 1982, individuerà il
proprio referente all'interno del MSI in quel Pino Rauti che pure, nei decenni
precedenti, era stato il campione dell'ala tradizionalista e di matrice evoliana
del neofascismo. Come ha scritto lo storico Pasquale Serra, «nella seconda metà
degli anni '70 Rauti rovescia lo schema del suo precedente ragionamento: da un
lato, infatti, egli individua come fonte privilegiata il fascismo italiano (il
fascismo della sintesi) e non più il nazismo o i fascismi "minori", come era
invece avvenuto nei decenni precedenti, e dall'altro riporta il fascismo alle
sue origini di sinistra».
E questi orientamenti, sino agli anni '80, si esprimeranno anche in alcune
esperienze di amministrazione locale, dove il MSI governerà insieme al PCI e al
PSI. Così nel 1987, durante una tribuna politica, Giorgio Almirante fu messo in
imbarazzo da un giornalista che gli chiedeva lumi su quanto avveniva a Furci
Siculo, un centro del messinese dove il missino Carmelo Briguglio era il
vicesindaco di una giunta rosso-nera.
La sintesi e la summa di tutta questa tradizione -da "L'Universale" al
"socialismo tricolore", dall'adunata di piazza San Sepolcro ai Campi Hobbit-
potrebbe essere rappresentata dalla figura politica e umana di Beppe Niccolai:
fascista di sinistra da sempre, deputato missino per tre legislature,
intellettuale, giornalista, uomo politico e, soprattutto, "uomo di carattere"
per dirla col suo maestro Berto Ricci. Nato a Pisa il 26 novembre 1920,
combattente sul fronte africano, prigioniero di guerra nel "Fascists' Criminal
Camp" di Hereford nel Texas. Appena tornato in Italia, il 27 settembre 1948,
scrive una lettera-documento sulla lacerazione della sua generazione al suo
vecchio amico Romano Bilenchi che in quegli anni, seguendo la strategia
dell'attenzione togliattiana, si occupava sul "Nuovo Corriere" del dialogo con i
fascisti. E l'amicizia tra Niccolai e Bilenchi durerà per tutta la vita. Da
deputato missino, Niccolai non ebbe poi remore a elogiare il Vietnam vittorioso
sull'imperialismo americano. Per molti anni stretto collaboratore di Giorgio
Almirante, ne divenne il principale antagonista nei primi anni '80 quando ebbe
il coraggio di «farsi del male» e di avviare una coraggiosa autocritica, che
pretendeva da tutto il partito una riflessione altrettanto sincera.
Niccolai sollecitava una rilettura degli errori compiuti nei confronti della
contestazione giovanile, verso i nuovi fermenti culturali e, soprattutto, in
tema di politica estera. «Beppe -ha ricordato Altero Matteoli- "scavava" nei
personaggi che incontrava nella sua quotidiana lettura. E per ognuno esaltava la
parte che lo aveva particolarmente colpito. Carlo Pisacane: lo affascinava la
sua vicenda, la sua morte, il suo sacrificio. Nicolino Bombacci: Beppe era
convinto che il fascismo, per il rivoluzionario romagnolo, fosse una rivoluzione
da compiere. Berto Ricci: il carattere, il coraggio civile. E infine Italo
Balbo: la morte ha colpito Beppe mentre "scavava" nella vita, nell'azione e nel
pensiero del grande ferrarese».
All'inizio degli anni '80, Niccolai trasforma Berto Ricci in una vera e propria
"bandiera": e lo fa nel momento stesso in cui il MSI comincia a stargli sempre
più stretto e l'esigenza di un rinnovamento lo porta a cercare, nel passato, un
riferimento dalla grande capacità fascinatrice. E in questo percorso non può che
incontrarsi, naturalmente, con alcuni giovani della generazione dei "fascisti in
camicia rossa". Nel 1984 -e quella fu l'unica opposizione alla leadership
almirantiana al quattordicesimo Congresso missino svoltosi a Roma- presenterà il
documento "Segnali di vita", che verrà sottoscritto entusiasticamente dalle
componenti giovanili e creative del partito. Nel 1985, in occasione della crisi
di Sigonella, Niccolai fece approvare dal Comitato centrale del MSI un ordine
del giorno di sostegno a Craxi, in nome dello "scatto" di orgoglio nazionale.
D'altra parte, come spiegò dopo la sua morte lo stesso Tatarella in una riunione
del Comitato centrale missino, Niccolai voleva fare del MSI una sorta di
«laburismo nazionale»: era, insomma, un autentico uomo di sinistra e, in
prospettiva, sognava una convergenza strategica tra il MSI e la sinistra
italiana.
Una posizione minoritaria, quella di Niccolai: quasi eretica, fortemente
combattuta, ma in grado di pensare una politica capace di cogliere le onde
lunghe della storia italiana. Nel 1987, resta memorabile il suo discorso al
Congresso di Sorrento. Con cui, in nome di Nicolino Bombacci, invitava alla
ricomposizione delle "scissioni socialiste". In quegli anni con la sua rivista
"L'Eco della Versilia", sarà il punto di riferimento più forte per il dissenso
interno e i tentativi di dialogo con l'esterno. E quando morirà a Pisa, il 31
ottobre del 1989, lascerà il testimone al suo collaboratore viareggino Antonio
Carli. "L'Eco" cambierà nome trasformandosi in "Tabula Rasa". E intorno alla
rivista si raccolgono Gianni Benvenuti e Pietrangelo Buttafuoco, Umberto Croppi
e Beniamino Donnici, Vito Errico e Fabio Granata, Luciano Lanna e Peppe Nanni...
Sono l'ultima covata di una vecchia tradizione. Che a tratti si profila con la
forza di mito. E a tratti, invece, con l'instabilità di un'illusione ottica. Ma
che ha avuto il pregio di non rimanere mai ristretta all'interno di un partito,
e men che meno di una corrente. Sprigionando energie e intuizioni che hanno
comunque influito sui percorsi politici e culturali di tutto il postfascismo.
Luciano Lanna
e Filippo Rossi
da "Fascisti
immaginari"
Vallecchi, 2003 - www.vallecchi.it
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