Fascismo eretico
Paolo
Signorelli
Da "l'Universale" a "Tabularasa": un viaggio attraverso il
Fascismo eretico
Berto Ricci, Beppe Niccolai, Antonio Carli:
tre nomi da inscrivere nella storia dell'eresia.
L'eresia di quel Fascismo «immenso e rosso» cantato appassionatamente e
suggestivamente da Drieu e riproposto con lucidità di analisi da De Benoist.
«La nostra strada non va né a destra né a sinistra. Va avanti dritta»
(Ernst Jünger)
Noi non possiamo e non vogliamo, tanto per essere chiari, identificarci con la
destra. Da anni ci siamo battuti su posizioni altre, verso un ambizioso e però
legittimo posizionamento «al di là della destra e della sinistra» che, a ben
vedere, sta a significare il superamento di categorie concettuali estranee alla
nostra visione del mondo. Non può esserci per noi -neppure sul piano della
provvisorietà "pragmatica"- una scelta di campo a destra, laddove la destra
rappresenta un'acritica accettazione di valori ritenuti tradizionali e che,
invece, inverano la conservazione di un mondo di cui nulla può essere salvato,
perché esso coincide con la difesa dell'Occidente che è nemico dichiarato non
soltanto del pensiero eretico ma di qualsivoglia tensione ideale diretta a
rifiutarlo ed a scardinarne l'assetto politico, sociale ed economico.
La dicotomia destra-sinistra continua a rappresentare l'alibi di comodo di
quanti (vedi Area) non hanno il coraggio di schierarsi sulla trincea
dell'antagonismo che solo può rappresentare il superamento di un tempo disegnato
dalla congiunzione di Giuda con Caino. Quanto poi è sostenuto da coloro i quali
intendono risciacquare la loro cattiva coscienza di rinnegati cercando di dare
contenuti ideali alle loro scelte di potere, vale appena ricordare che la destra
o è «destra» o è «sociale»: nel momento in cui la destra si fa sociale
automaticamente si estingue come destra. (1)
La sfida politico-culturale epocale è tra l'integrazione e la ribellione al
Pensiero Unico che pretende omologare, globalizzare, uni-formare, distruggere le
diversità e le identità popolari. Una sfida che significa per il non-conforme
andare oltre, al di là degli stanchi stereotipi rappresentati dalla destra e
dalla sinistra. Anche «per farla finita con la destra» come sostiene in un suo
lucido pamphlet Stenio Solinas che pure proviene dai ranghi della nouvelle vague
intellettuale di destra.
Io non vengo da lì. Io appartengo ad una generazione che per una manciata di
minuti non ha potuto prendere parte all'ultima battaglia della guerra del sangue
contro l'oro. Non fui nel tempo giusto un leone morto, ma non sono diventato un
cane vivo…
La mia generazione ebbe, a guerra finita, pessimi maestri. Vili, impostori,
felloni, voltagabbana.
Il "viandante" intraprese il suo viaggio con due libri nel suo tascapane: "I
Proscritti" di Von Salomon e "Rivolta contro il mondo moderno" di Julius Evola.
Poi imparò a coniugare Nietzsche e Heiddeger con Platone, Marinetti con Papini,
Codreanu con La Rochelle, Brasillach con Céline, Ortega y Gasset con Ezra Pound.
«A Eleusi han portato puttane …». Poi Berto Ricci e Jünger… E divenni
correttamente eretico e jüngerianamente ribelle. E la ribellione e l'eresia
hanno sempre caratterizzato il mio impegno politico e culturale. D'altronde
quando si aderisce ad una Weltanschauung trasgressiva che «non va di moda»
perché non puzza di usurocrazia, la contrapposizione, l'antagonismo sono
obbligati e non si può non cadenzare il passo lungo le vie insidiose, ma capaci
ancora di suscitare entusiasmi, della lotta. Non si accetta il popperiano
miglior mondo possibile: lo si combatte e basta.
Tutto questo dovevo dirlo: personalizzando un percorso perché coincidente con la
trasgressione e l'eresia di altri che è, a dir poco doveroso, ricordare per
avere essi battuto «i sentieri del Terribile». Un'avanguardia procede senza
voltarsi indietro a guardare cosa fanno le salmerie. E una pattuglia di notte ha
come guida il sogno e le stelle.
BERTO RICCI
«Ci sono Inghilterre che abbiamo dentro di
noi che bisogna abbattere E sono quelle, è quello il male: là dove prevale, là è
il nemico».
Berto Ricci, dunque, e "l'Universale". E i ragazzi che a venti anni partirono
volontari per andare a combattere per una Patria che non è una figura retorica,
né sopraffazione delle Patrie altrui, ma la difesa delle identità minacciate.
Berto Ricci, l'eretico ed il credente in una Rivoluzione che si era impantanata
nelle trappole dell'Ordine Costituito.
«Non c'è cosa peggiore per il rivoluzionario di vincere la rivoluzione» sostiene
Jean Cau colloquiando con il Che (2).
«Avevi tu, che non avrai mai quarant'anni, sì, la paura di una morte ben più
terribile di quella che ti avrebbe folgorato. Quella del guerrigliero in te.
Quella del cacciatore. Quella dell'Angelo. Quella dell'artista. Hai trentanove
anni, l'età in cui, dice Hugo, "si scende, svegli, l'altro pendio del sogno".
Verrà il tempo dell'ordine e delle ragioni del mondo? Bisognerà appendere fucili
e sogni alla rastrelliera? E vivere, mio Dio, vivere, o mio Dio, vivere come? E
sentirsi invecchiare in vanità ed onori?».
L'Ordine Costituito. Berto non aveva vent'anni quando insieme con i ragazzacci
che con lui vivevano l'esperienza eretica de "l''Universale" sfidava, in pieno
regime, «la protervia e la decadenza culturale di molti federali in orbace e
stivaloni» pronti a balzare sul carro del vincitore di turno. E pure credeva
nella funzione imperiale dell'Italia e del Fascismo, convinto -come scriveva nel
"Manifesto realista"- che esso avrebbe esercitato una Rivoluzione «centro d'una
imminente civiltà non più caratteristica d'un continente o d'una famiglia di
popoli, ma universale».
E ci si arruola e si va morire a vent'anni, a trent'anni. Non invecchiando in
vanità ed onori.
«Viene dopo le finte battaglie, il giorno in cui c'è da fare sul serio e si
ristabiliscono di colpo le gerarchie naturali: avanti gli ultimi, i dimenticati,
i malvisti, i derisi. Essi ebbero la fortuna di non fare carriera, anzi di non
volerla fare, di non smarrire le proprie virtù nel frastuono degli elogi mentiti
e dei battimani convenzionali. Essi ebbero la fortuna di assaporare amarezze
sane, ire sane, conoscere lunghi silenzi, sacrifici ostinati e senza lacrime,
solitudini di pietra, amicizie non sottoposte all'utile e non imperniate
sull'intrigo».
Vi è una testimonianza su Berto Ricci di un uomo che fu lo scettico per
eccellenza, «un epilettico della morale» come ebbe a definirlo Beppe Niccolai.
Uno diventato antifascista e poi rimasto a presidiare «l'Italia, smaliziata e
utilitaria, degli Italiani che non credono più». Uno cui piacque vivere nella
culla di quella grassa borghesia che gli diceva «quanto sei bravo».
Ecco quanto scriveva nel 1955 Montanelli in un articolo dal titolo "Proibito ai
minori di 40 anni". «Quando dalla cittaduzza andai a conoscere il direttore del
periodico "l'Universale", col quale avevo scambiato alcune lettere, anche per me
il fascismo cominciò a contare qualcosa. Egli fu il solo maestro di carattere
che io abbia incontrato in questo Paese, in cui il carattere è l'unica materia
in cui si passa senza esame. E quando di lì ad alcuni anni ebbi deciso di
voltare le spalle al fascismo, fu soltanto di lui che mi preoccupai. Infatti,
andai proprio a Firenze a parlargliene. Mi stette a sentire, poi disse
pacatamente. "Queste sono faccende in cui s'ha da vedersela con la propria
coscienza e nessuno può essere d'aiuto a nessuno. Io ti dico soltanto una cosa,
non pensare ai vivi, pensa a quelli che, per restare fedeli con le nostre idee,
ci sono rimasti. Per non arrossire di fronte a noi stessi, e l'uno di fronte
all'altro, qualche cosa si è fatto e Paolo Cesarini ci ha lasciato una gamba e
Carlo Rotolo ci ha lasciato la vita, lui che forse era quello a cui la vita più
sorrideva. Pensaci e pensa anche che se imbocchi quella strada devi batterla
sino in fondo, sino al confino o sino all'esilio. Questo solo richiedo: di poter
continuare a stimarti come avversario, visto che devo cessare di stimarti come
amico e come alleato"».
Quell'«epilettico della morale» consumò, notoriamente, il suo tempo rincorrendo
-e con successo- i «luccichii» che tanto gli piacevano, Berto Ricci scelse con
coerenza la via ultima della lotta e della morte.
E di lui scriverà Corvié, un altro che gli fu amico e che poi traslocò in altri
settori politici: «Non gli bastava essere artista, voleva conoscere le ragioni
del suo vivere, come uomo tra gli uomini, non si accontentava delle parole,
voleva cose. Generoso e disinteressato, per sé non chiedeva che sacrifici,
sofferenza e morte. Non i suoi nemici dovevano aver paura di un simile
carattere, ma i suoi amici, quelli della sua parte».
Ma quale parte, ci chiediamo? Non quella dei "farabuttelli", i babbuini -come li
chiamava Berto Ricci- dell'Ordine Costituito sempre pronti, poi, a voltare
gabbana e a scendere in strada a cose fatte per inneggiare a chi ha vinto.
La toscanità eretica di «un maledetto» come la chiamerà Malaparte. Anzi di tutti
quei maledetti che hanno saputo sempre appassionarsi e scannarsi per la fazione,
come accadde tra guelfi e ghibellini, tra neri e bianchi. E come accadde
nell'agosto del '44 quando si trovarono dinanzi, in uno dei tanti appuntamenti
della loro storia, rossi e neri. Quando fu passato per le armi "Alfredino" (cfr.
Alfredo Magnoldi, il campione europeo dei pesi gallo) e quando furono fucilati
dai rossi, sulla gradinata di Santa Maria Novella, i ragazzacci fascisti.
Ragazzacci di 15-16 anni. «Il più giovane, vestito di una maglia nera e di un
paio di calzoni corti che gli lasciavano nude le gambe dagli stinchi magri, era
quasi un bambino. C'era anche una ragazza, fra loro, giovanissima, nera d'occhi
e dai capelli, sciolti sulle spalle, di quel biondo scuro che s'incontra spesso
in Toscana tra le donne del popolo». (3)
«Ecco, questa è la Firenze di Berto Ricci. Ed ecco perché Berto Ricci ce l'ha
con gli agnostici, con gli indifferenti. E dice che sono una vecchia peste di
questo Paese dal tranquillo vuoto interiore. Noi per questo vuoto interiore non
daremmo un atomo del nostro doloroso cercare, del nostro errare umano. Berto, in
definitiva, sta con la gente che discorre, che opera, che disprezza e si rode
alla maniera italiana».
Così, anche così, volle ricordarlo Beppe Niccolai, il 10 dicembre 1988 a Modugno
in un intenso incontro comunitario organizzato per il Centro culturale "La
Quercia" da Pino Tosca. Un altro eretico morto in età ancora giovane e che mai
divenne «un cane vivo».
BEPPE NICCOLAI
«Non è importante la vita.
Importante è ciò che si fa della vita»
«Denunciare nemici mortali che sono dentro di noi: la partitocrazia che genera
professionismo politico contro la militanza; la casta contro l'impegno morale;
la burocratizzazione; la corte e i cortigiani; la tendenza a ridurre il partito
periferico ad una rete di piazzisti del voto, e che conduce ad una selezione
verticistica della classe dirigente secondo le fedeltà, non alle linee ideali,
ma alle persone che hanno il potere».
In queste parole di Beppe Niccolai si racchiude la concezione militante
dell'eretico della politica, di chi intende la lotta come trasgressione a fronte
del conformismo della "casta" dei politicanti e come coerenza con l'impegno
morale del combattente dell'Idea. Un combattente di razza che sa, come Berto
Ricci, cosa stanno a significare «le Inghilterre che stanno dentro di noi» e che
quelle ha cercato sempre di abbattere. Con l'impegno febbrile, con l'esempio,
con l'abnegazione generosa, con la denuncia, con l'insegnamento di vita. Maestro
di pensiero ma ancora prima di stile. Fuori dagli steccati, avendo come nemici
il conformismo, il burocratismo, l'assistenzialismo. Odio e amore: che vivono in
maniera forte, nell'intensità e nell'inquietudine di chi non conosce la resa, di
chi rifiuta la via della fuga.
Tutto questo e tanto altro ancora apprendiamo dai suoi articoli, dai suoi
appunti, dai suoi interventi parlamentari, dal "Rosso e Nero e da "Duello al
Sole", le rubriche curate da Niccolai sul "Secolo d'Italia", su "Pagine Libere",
su "L'Eco della Versilia".
In molti -"camerati" ed avversari- hanno ricordato dopo la morte il «Fascista
corsaro». Molti di quei camerati hanno abbandonato la trincea della
trasgressione o hanno preteso realizzarla su posizioni di comodo "altre"..
Novelli "babbuini" che non hanno saputo far loro l'insegnamento di vita di
quello che a lungo ritennero essere il loro maestro. Carità di patria -o forse
soltanto il fastidio- ci spingono a non elencarli.
Ci piace, invece, ricordare le parole di Pietrangelo Buttafuoco, che lo vide
come il riferimento degli eretici. «Beppe Niccolai aveva la capacità di vedere
la realtà senza l'affanno elettorale. Raccoglieva intorno a sé il "mondo degli
umili e degli indifesi" e diede alla militanza politica un senso ed un
imperativo categorico. Il senso e l'imperativo categorico di un impegno
costruito con il cemento del progetto. A lui, infatti, un uomo già monumento per
stile e dirittura morale, si rivolsero gli inquieti e tutti quelli che dopo
avrebbero lasciato la Destra alle loro spalle. Non c'è oggi in circolazione un
fascista che non abbia avuto da Niccolai un regalo: la fotocopia di una pagina
importante, un libro sottolineato nei punti giusti, una lettera». (4)
Un «libro sottolineato», non suo: egli non scrisse libri. Come non ne scrissero
Berto Ricci e Antonio Carli. Anche questo rappresenta un segno distintivo di chi
vive la trasgressione inviando segnali di vita e fornendo esempi di stile che, a
ben riflettere, è il modo di concepire la lotta lontano dalle cattedre
imbalsamate e dagli orpelli degli intellettuali.
Nel febbraio del 2002 si tenne a Roma, presso l'affollatissima sala "Marinetti"
del Ripa All Suites Hotel, un Convegno su Beppe Niccolai e Antonio Carli al
quale parteciparono Pietrangelo Buttafuoco, Giampiero Mughini -suo caro amico e
caro "nemico"- (5), e Domenico Mennitti. L'incontro, organizzato dal Fronte
Sociale Nazionale, non volle «avere il sapore cinereo di una commemorazione», ma
volle essere una riproposizione di Niccolai «per l'attualità del suo pensiero,
che non ha certo perso di smalto con l'andare degli anni ma dimostra di aver
saputo cogliere "prima" le avvisaglie di situazioni politiche che si sarebbero
"poi" puntualmente appalesate». Un incontro voluto fortemente da me che non
potei nei "tempi giusti" conoscerlo e frequentarlo, perché impegnato su
posizioni altre o sequestrato nelle galere del sistema. Un incontro la cui
centralità fu rappresentata dalla necessità avvertita di riprendere la via
tracciata da Niccolai prima e da Antonio Carli poi -da "L'Eco della Versilia" a
"Tabularasa"- per marciare ancora più convinti lungo quei sentieri che «già sono
delineati innanzi a noi».
Al suo, al loro fianco -uomini «difficili da raccontare» nella loro maledetta
toscanità non fiorentina ma versiliana- furono sempre i più «moderni», i
ragazzacci irriducibili, insofferenti ad ogni forma di compromesso e di
ipocrisia.
Non a caso Beppe Niccolai fu l'unica voce fuori dal coro nel Congresso missino
di Roma del 1984, con la mozione "Segnali di Vita" sottoscritta con entusiasmo
dalle componenti giovanili e creative del partito. Il MSI: quel partito al quale
aveva aderito sin dal ritorno dalla terribile esperienza del "Fascist's criminal
camp" di Hereford nel Texas, in cui era stato internato insieme a Giuseppe
Berto, a Roberto Mieville, a Carlo Tumiati -solo per ricordarne alcuni-, senza
mai piegarsi e mai collaborare. Da quella esperienza, anzi, attinse ancora più
forza per le sue battaglie politiche, mai allineate. Dalla relazione di
minoranza alla Commissione antimafia (che gli valse l'elogio di Leonardo
Sciascia), all'interrogazione parlamentare che fece esplodere il caso dell'Argo
16 "sabotato" dagli agenti del Mossad, all'elogio al Vietnam vittorioso
sull'imperialismo americano si snodò un percorso non-conforme, culminato non a
caso con il rifiuto nel 1976 di una nuova candidatura parlamentare. Al «gusto
del Palazzo», alla poltrona preferì, insomma, la militanza avviandosi in una
dura autocritica che cercò, senza risultati, di estendere a tutto il partito.
Gli anni '80 furono gli anni della rilettura puntuale e feroce degli errori
compiuti verso la contestazione giovanile ed in politica estera. Gli anni in cui
con la rivista "L'Eco della Versilia" Niccolai costituì il più forte punto di
riferimento per il dissenso interno e di dialogo con l'Area delle forze
antagoniste al sistema di potere.
Alla sua morte sarà Antonio Carli, divenuto direttore di "Tabularasa" a
raccogliere l'eredità spirituale del suo Fascismo rosso, rivoluzionario ed
anarchico.
ANTONIO CARLI
«… a risvegliare questo nostro Popolo ed obbligarlo a tendere l'orecchio a
richiami antichissimi sì da armonizzarli con il genio sopito... per incamminarsi
oltre i bacini morti dell'abulia e della rinuncia»
Antonio Carli è un altro a non avere cercato mai il potere, ad aver fatto sempre
e comunque quel che sentiva giusto, al servizio dell'Idea, rivendicando per sé e
per la sua gente quel «diritto alla follia» di cui ebbe a scrivere sull'"Eco"
prima e su "Tabularasa" poi, quando decise con un manipolo di eretici di
continuare a cantare la trasgressione. Un manipolo che si andò nel tempo
assottigliando a seguito delle solite scelte di campo dette "trasgressive", ma
che in realtà costituirono un abbandono della trasgressione. Non tutti
-diciamocelo a cuor leggero- ebbero la capacità di correre il pericolo nella
dimensione disperante del deserto. Ci sono revisioni e revisioni: c'è chi ha la
forza e la "tigna" di essere ragazzaccio sino in fondo, di battersi «con
l'ostinato orgoglioso carattere degli antichi Tusci» e tenta con caparbietà e
con rabbia di "rivedere" coerentemente ad un credo quanto dai vincitori imposto,
e c'è chi rivede se stesso e le sue idee e la sua antica appartenenza, recidendo
d'un colpo legami umani e la fede. Arrendendosi senza avere l'onestà di
ammetterlo. Roba da babbuini, insomma, travestiti da ribelli. Anche in questo
caso non faremo elenchi: sarebbe sin troppo facile mettere all'indice i
"revisori" della propria coscienza. E, quindi, inutile. Comunque dispendioso di
energie che ad altro debbono servire.
Antonio Carli, dunque, il portabandiera della follia non perbenista. L'uomo e il
camerata, sicuramente il compagno di lotta che per comporre le pagine
squinternate di "Tabula" sveniva a notte attossicato dagli acidi. Lui che aveva
una salute minata dal male e dalla incazzosità di un'esistenza maledetta. Come
la sua toscanità.
Io lo ho amato e l'ho riguardato con ammirazione. Altri ancora continuano ad
amarlo, ricostruendo il suo percorso politico attraverso i suoi scritti.
Non recitiamo altre parole: le riterremmo offensive, oltre che limitanti, per
lui. Per questo, anche per questo, vogliamo ricordarlo con quanto da lui scritto
sull'editoriale del primo numero di "Tabularasa" (7)…
«… Presuntuosi noi di "Tabula Rasa". Pensiamo di aver preso contatto col sole,
di aver dissetato il nostro spirito nell'oasi, di esserci sentiti bruciare sul
rogo. O forse, chissà! Siamo gli adolescenti avidi di luce che bevvero appena
qualche sorso alla sorgente del sole e rimasero con la sete nell'ombra. Oppure,
chissà! Crediamo di essere capaci di fare ciò che fece Michelangelo, genio
selvaggio: portare alla luce, senza destarla, la Notte addormentata in una
crisalide di marmo. Ma una cosa è certa: dei fiori sentiamo tutto il profumo,
dei frutti tutto il sapore. Per questo siamo usciti dal tempio infestato da
mercanti, da prestatori di lacrime ad usura che esplicano la mansione di
rigattieri dell'altrui sacrificio, da rivenditori di elogi funebri, da
speculatori della morte, da trafficanti della nostalgia. Lo sappiamo: le solite
cassandre, presaghe di sventura, ci annunciano per via l'ingratitudine e
l'oblio, un deserto di freddezza ed un oceano di solitudine. Non ce ne curiamo.
La solitudine acuisce la mente, feconda il pensiero, rende sereni i giudizi.
Siamo usi a vivere in siffatta maniera poiché sappiamo che tal comportamento è
privilegio di pochi, ma agguerriti uomini. Che riscuotono consenso e stima. A
ciò noi aneliamo. Soprattutto. Abbiamo avuto la capacità di separarci dal male
per guardarlo dall'alto. Nella bolgia rimangono i deboli che vi si immergono per
berne tutto il veleno e ai margini del trono del potere (immaginario e
irraggiungibili) vagano nella paura e nella smodata ambizione di prebende. Senza
badare al tipo dello sponsor… E s'ingrossa la folla dei cortigiani. Noi siamo
pochi, è vero. Ma non ci turba la sensazione del deserto. Andiamo avanti. Con la
nostra terrena miseria, con la nostra indomabile fierezza…Parliamo con la gente,
la gente ci ascolta, la gente è la nostra bandiera… La gente, il popolo… Il
popolo che soffre, che lavora e alla cui ombra si muovono i piccoli uomini della
scena politica, i satiri corrotti e impotenti della vita pubblica».
E ancora. «La società sta vivendo una fase di transizione. La filosofia
moltiplica i suoi sistemi, la scienza le sue leggi, il commercio i suoi mercati,
ma la vita di ognuno impoverisce giorno dopo giorno. La tristezza di chi soffre
non può durare in eterno. Il nostro modo di intendere la politica esula da
quello che si definisce "tradizionale". Non c'è una maniera onesta o disonesta
di intenderla. Essa non può avere aggettivazioni. Vogliamo parlare dei morti due
volte defunti alla vita e alla memoria, dei morti oscuri due volte seppelliti
bell'oblio e nella fossa, dei non accolti alla fama, dei ripudiati dalla sorte,
dei gregari della vita, dei diseredati che non possono levare la fronte alla
superficie dell'opinione. Questi gli scopi della nostra battaglia, della nostra
nuova avventura…Noi di "Tabula Rasa" ci siamo dimissionati dall'uniforme canea
della vita "politica" del sistema per seminare il sale sul suo terreno. Per
inaridirlo totalmente».
Stammi bene canaglia: ci rivedremo all'Inferno.
Paolo Signorelli
«Noi,
tabularasa, quelli che… un calcio in culo al sistema. Questo è il
luogo sacro dell'anticonformismo ideoantroposociopsicologico: il
paradiso dei rompicoglioni, del politicamente scorretto. Di quelli
che non ci stanno; che non credono alla destra e alla sinistra e non
sognano neppure il grande centro. Quelli che al sistema preferiscono
le due colonne. Quelli che detestano l'America e Dio stramaledica
gli inglesi. Quelli che la tribù è molto meglio del villaggio
globale. Quelli che sognano un nuovo disordine mondiale. Quelli che
vaffanculo la coca cola e l'hot dog. Quelli che le Borse ce l'hanno
sotto gli occhi per l'insonnia e il Pensiero Unico è un nuovo
modello di dichiarazione dei redditi e perciò evadono le tasse.
Quelli che al diavolo Eurolandia. Quelli che il TUS è un
pericolosissimo retrovirus custodito nelle Banche centrali e ci
vorrebbe un vaccino. Quelli che l'Occidente è un punto cardinale e
il Mediterraneo nonsolomare. Quelli, infine, che il gendarme
planetario lo impalerebbero alla statua della libertà. Sì, questo è
il sito degli antagonisti, degli antiborghesi, dei non moderati,
degli antilabliberisti, degli anarcofascisti, dei camercompagni, del
rosso e del nero a denominazione di origine controllata, degli
estremisti del terzo sentiero, dei militanti del cazzimperio. Non
c'è bisogno di carte di credito. Frequentaci e te ne pentirai».
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BIOGRAFIE
Berto Ricci (Firenze 1905 - Bir Gandula 1941). Professore di matematica a
Prato, Palermo e Firenze, da giovane si interessò di occultismo ed ebbe simpatie
anarchiche. Aderì al Fascismo nel '27. Collaborò a diverse riviste e nel '31
fondò "l'Universale". Oltre a "Il Rosai" ('30), "Poesie"('30) e a "Corona
ferrea" ('33), pubblicò "Errori del nazionalismo italico" e diede il suo
contributo a "Processo alla borghesia". Combatté in Etiopia nel '37 e, partito
volontario allo scoppio della II Guerra Mondiale, fu uno dei primi a cadere.
Beppe Niccolai (Pisa 1920 - Pisa 1989). Giornalista, «se n'andò in
Africa, leticando con Affarini Guidi, abbandonando il Corso Allievi Ufficiali e
lasciando quella Divisione Folgore in formazione a Tarquinia nei cui ranghi era
corso primo tra i volontari universitari». Catturato dagli inglesi finì a
Hereford (Texas) nel "Fascist's criminal camp". Molti anni prima delle
rivelazioni di Acque sul genocidio dei soldati tedeschi, rievocò più volte le
dure condizioni nei campi americani e la non civiltà degli statunitensi. Rifiutò
di apprendere l'inglese. Tornato in Italia aderì al MSI nelle cu fila venne
eletto per due legislature alla Camera dei Deputati. Poi rifiutò il Palazzo ed
iniziò il suo percorso critico nei confronti della destra istituzionale,
culminato con l'esperienza eretica de "L'Eco della Versilia", sognando un grande
"Convegno della diaspora". Articoli, appunti, dibattiti, conferenze, interviste,
documenti politici costituiscono il suo patrimonio ideale e culturale.
Antonio Carli (Smirne 1933 - Viareggio 2000) Giornalista. Non ancora
adolescente falsificò i documenti per arruolarsi nella Repubblica Sociale
Italiana. Militò a lungo nel MSI senza ricoprirne mai cariche ufficiali, spesso
su posizioni di contrasto con la dirigenza e con la linea politica. Uscì
definitivamente da quel partito al tempo della I Guerra del Golfo per
intraprendere l'avventura di direttore della rivista antagonista "Tabularasa". È
stato, non soltanto in campo politico ma anche in quello editoriale, l'erede di
Beppe Niccolai.
NOTE
1) Enrico Bandoli, "Tabula Rasa", dicembre '96.
A commento de "La Destra Sociale" di Giano Accame.
2) Jean Cau, "Una passione per Che Guevara", Vallecchi, aprile 2004.
3) Curzio Malaparte, "La Pelle".
4) Pietrangelo Buttafuoco, da "Percorsi", "Fascista Impossibile".
5) Convegno del FSN dell'8 febbraio 2003, "Il maestro di vita e l'eretico, per
una nuova sintesi sociale e nazionale".
6) Giampiero Mughini,"Fascista di sinistra" in "Compagni addio", Mondatori,1987.
7) Antonio Carli, "Perché Tabula Rasa", "Tabularasa", Anno I, 1992
SITI
http://www.beppeniccolai.org
http://tabularasa.altervista.org
http://aurora.altervista.org |