da "Il Barbiere della Sera"
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Beppe Niccolai:
il "fascista" eretico che difese Adriano Sofri
L'affaire Sofri è stato al centro del dibattito
del mondo politico. Alleanza Nazionale -eccetto rare posizioni possibiliste- ha
mantenuto il suo atteggiamento di negazione di una "grazia" che la
ragionevolezza richiederebbe. Nel 1988, Giuseppe Niccolai deputato del Movimento
Sociale -pisano- antico nemico politico di Adriano Sofri si schierò a sua
difesa. Un ritratto dell'eretico Niccolai ed il documento di quella difesa
respinta. Respinta da un movimento politico che ha sempre guardato con
diffidenza le intelligenze eretiche. Da Beppe Niccolai a Marco Tarchi.
Ho deciso di scrivere di un documento che pochissimi conoscono. Ritengo sia di
grande interesse. Un documento che è testimonianza di una abitudine oggi rara:
l'onestà intellettuale, il rispetto in politica per l'avversario. La lettera che
segue fu inviata da Giuseppe Niccolai, "l'eretico", al direttore del "Secolo
d'Italia" nel 1988. Respinta.
Fu in seguito pubblicata da "La Nazione" di Firenze il 17 agosto 1988. Giuseppe
Niccolai militò per oltre quaranta anni nel Movimento Sociale Italiano,
ricoprendo incarichi di responsabilità. Fu eletto in parlamento in diverse
legislature. La militanza di Niccolai vide come "campo di battaglia politica" la
città di Pisa, dove sull'altra "barricata" si trovava Adriano Sofri. Niccolai,
moriva il 31 ottobre del 1989 ed i suoi avversari politici, lo ricordano con
rispetto, perchè è stato un galantuomo.
Articoli, dibattiti sul personaggio hanno sempre visto il contributo di chi non
la pensava come lui. Giampiero Mughini su "Il Giornale" ne fece un bellissimo
ritratto, ad un anno dalla morte. Ai convegni in suo ricordo vi furono
contributi da parte dell'On. Emanuele Macaluso del Partito Comunista, del Sen.
Mario Landolfi del Partito Socialista e di altri uomini politici ed
intellettuali di diversa formazione, culturale e politica.
Il rispetto Niccolai lo ha conquistato sul campo, facendo concreta la sua
filosofia «Non è importante la vita. Importante è ciò che si fa della vita». Un
intellettuale, un uomo che ebbe il coraggio di osare, un corsaro, come quando
all’interno del suo ambiente culturale tentò di far comprendere Pasolini e la
sua opera.
Per comprendere il personaggio può aiutare un
aneddoto: Niccolai in una importante riunione di Direzione del MSI, presentò un
ordine del giorno. Fu approvato all'unanimità. Nulla di strano... Ma
quell'ordine era volutamente copiato da un'altro, presentato giorni prima alla
Direzione del PCI. La "provocazione" fu raccontata sulle pagine del "Corriere
della Sera" e "l'eretico" ebbe nuovi problemi in seno al Partito.
Era abituato. Amava la provocazione. Era animato da una eretica intelligenza,
che ne fece un uomo "differente" e rispettato, un uomo libero. Con questo suo
intervento, Niccolai evidenziò la responsabilità morale di chi, per disegni
organici alle strategie, gettò generazioni di giovani in una nuova guerra
civile. Quelle responsabilità morali, che se ammesse, potrebbero oggi portare,
con una serena analisi, alla definitiva archiviazione degli anni di piombo.
Mauro Cherubino
LA LETTERA:
Caro Direttore,
una lettera scomoda, solitaria, scritta a mano perché costretto su un letto di
ospedale.
«Il caso Sofri»: 16 anni fa.
Se mi lascio andare all'onda dei ricordi l'effetto è ancora devastante. Nessuna
Città (e Gennaro Malgieri può esserne buon testimone) delle dimensioni di Pisa,
credo, fu più calda in quegli anni di contrapposizione violenta, spietata,
feroce. In cui la logica degli opposti «estremismi», costruita dal
«moderatismo», voleva dimostrare agli Italiani intrisi di indifferenza che, in
fin dei conti, «era meglio farsi governare dai ladri (i moderati) che dagli
assassini (i rossi e i neri)».
I neri e i rossi: entrambi assassini. «Uccidere un fascista non è reato». Far
fuori l'altro, lo sconosciuto, rosso o nero, rientra nella necessità di mettere
a tacere, per sempre. Il nemico, il barbaro, l'altro, a cui è tolto ogni valore,
primo fra tutti, quello di essere uomo. Erano quelli i tempi in cui le bombe,
teleguidate e moderate, aiutavano questo disegno che, se ci si fa caso, ha
contrassegnato la storia dell'Italia repubblicana, dalla prima strage di
Portella della Ginestra a quelle più recenti.
Fu in questa Pisa, nelle cui strade si raccattarono più volte morti e feriti,
che il sottoscritto, allora deputato nazionale e responsabile della Federazione
del MSI, in base alla logica spiegata sopra, conobbe l'altro, il nemico, Adriano
Sofri, animato dalla stessa ferocia di quella contrapposizione che vedeva
italiani, anche in tenera età, scannarsi fra loro. Per un'Italia, per dirla con
Giovanni Amendola (1914), che non piaceva ad Adriano Sofri entrambi i
contendenti, i figli delle Rivoluzioni del XX secolo.
Ricordo lo slogan con il quale Adriano Sofri tentò di mettermi contro, per tutto
l'arco della campagna elettorale politica del maggio 1972, una intera città:
«Caschi pure il mondo su un fico, Niccolai a Pisa non parlerà».
Si cercava lo scontro, e lo scontro ci fu. E se si leggono le cronache che oggi
raccontano le non liete vicende dell'ex-leader di "Lotta Continua", il cui
indubbio rivoluzionarismo ebbe nutrimento essenzialmente pisano, dentro le
celeberrime mura della "Scuola Normale", si trova che l'elemento scatenante, che
avrebbe fatto poi di Adriano Sofri il presunto mandante dell'assassinio del
Commissario Calabresi, sarebbe stato proprio l'episodio della tragica morte del
giovane anarchico Franco Serantini che, appunto «perché il fascista Niccolai a
Pisa non parlasse» muore in duri scontri con la polizia; Franco Serantini era
là, in piazza, a rispettare quell'impegno preso con i compagni di "Lotta
Continua:: Niccolai non deve parlare. Ed è per rendere omaggio a Franco
Serantini che si assassina dopo, per ritorsione, il commissario Calabresi.
Lo scrivono i giornali. Neri e rossi; Serantini e Calabresi; e il sistema che,
attraverso stragi teleguidate, morti mirati e cercati, sangue da vendicare,
tanto dolore da raccontare, e tanta ipocrisia da spargere, respira, sopravvive.
Al punto che, a 16 anni dal 1972, trionfa, aggiungendo ai propri trofei tutti
gli scalpi che finora non era riuscito a strappare. Cadono ad uno ad uno: da
quello, un po' più stagionato di Signorelli, a quello ancora giovane e fresco di
Sofri.
I ladri e i perbenisti acculturati, che fecero un tifo del diavolo perché lo
scotennamento fosse possibile, conservano, intatte e rigogliose le loro
capigliature. E guai a chi minimamente si attenti a cambiare questa società
dalle tecnostrutture divinamente salviche: il capestro (democratico) è pronto!
Caro Direttore, vogliami perdonare. A me non riesce mandar giù questa... morale,
di cui anche il "Secolo" (da gran tempo) si fa portatore, per cui questo nostro
Paese, dopo le esperienze degli anni di piombo, sarebbe ormai destinato ad
essere crocefisso sul legno con i chiodi degli antichi odi e rancori, qualora
spunti, sia pure timidamente, un sogno generazionale di superamento dei vecchi
steccati eretti dal Secolo delle Rivoluzioni.
Adriano Sofri, questo sessantottino duro, spesso feroce, era riuscito, nel 1986
(quando fra gli incalliti nostalgici della guerra civile e di una Italia
eternamente divisa, infuriava la polemica che ha voluto negare al filosofo
Giovanni Gentile l'iscrizione del suo nome nella lapide che ricorda tutti i
Caduti dell'Università di Pisa) a scrivere parole di alta umanità rendendo, al
grande intellettuale assassinato, quella giustizia che i neo-democratici a
diciotto carati, a oltre 40 anni dal 1945, non riescono ancora a dagli. E che,
per conservare i loro attuali privilegi di guardiani di una «rivoluzione» che
mai fecero, insorgono tutte le volte che qualche giovane, che non si è mai messo
alla finestra, si afferma nel Paese politico, sollevandogli contro, come accade
ora nel Comune di Roma (vergogna, signori de "il Manifesto"!), i loro trascorsi
politici in calzoni corti, come A.I.D.S. dal quale non è possibile guarire.
Salvo poi ad indignarsi se qualcuno ricorda loro come siano stati «cattivi
maestri» nell'arco di tutta la loro esistenza, vestendo, con imperturbabile
indifferenza, tutte le camicie! Mi fa male, mi fa soffrire la morte del giovane
anarchico Franco Serantini; al pari di quella, del giovane commissario
Calabresi; tutte e due incastrate e cucite con il filo rosso e nero di una
orditura vale ripetersi che, partendo da Portella delle Ginestre, passa per
Piazza Fontana, Brescia, Bologna, Peteano, Serantini e Sofri.
Sofri colpevole? Sofri innocente? Una cosa mi sono sempre chiesto: in fin dei
conti ero stato io l'elemento determinante ad innestare quei fatti che avrebbero
portato alla morte del Serantini e, di conseguenza, a quella del Calabresi.
Quel comizio del 5 maggio 1972, tenuto in una città assediata. La domanda è
questa: se volontà c'era di vendicare, con il sangue, ciò che nel sangue era
finito a Pisa, perché non uccidere chi scrive? Era facilissimo; certo molto più
facile che assassinare Calabresi.
Non è accaduto. Il pentito afferma: Sofri è colpevole. Il "Secolo", che di
vicende di pentiti ne conosce molte, consente. Io dissento. Anche perché, al di
là di tutto, sogno una Italia diversa. Un'Italia civile, che sappia
confrontarsi, non uccidersi vicendevolmente, servendo, inconsapevolmente,
vicendevoli ladri che, comunque vadano le cose, restano ai propri posti e,
ironia della sorte, a fare ogni sorta di morale.
Non si tratta, no, di abbracciarsi e di dimenticare. Si tratta solo di capire.
Enrico Berlinguer rese omaggio al giovane missino Di Bella. «Aveva diritto di
fare e di credere in ciò che faceva e credeva», disse il leader del PCI davanti
al suo corpo massacrato.
Giorgio Almirante, davanti alla salma di Enrico Berlinguer: perché sono venuto?
«Perché era un uomo giusto, credeva in ciò che faceva». Se ci si fa caso è il
più alto elogio che un uomo politico possa rivolgere ad altro uomo politico:
«credeva in ciò che faceva».
Trasgressione, eresia, diciamo pure pazzia. Ma l'Italia più bella, quella di
ieri e quella da costruire, è proprio quella dei pazzi. Primi fra tutti i Santi
e gli Eroi. Non quella che sta alla finestra in attesa, a cose fatte, di
appendervi gli scalpi di coloro che alla finestra non sono mai stati.
Perdona, caro Direttore, non me la sento di gridare che Adriano Sofri è un
assassino.
Cordialmente,
Giuseppe Niccolai
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