Sul
"caso SIFAR"
(intervento alla Camera dei Deputati - 4
maggio 1971)
PRESIDENTE - È così esaurito lo svolgimento delle mozioni. Passiamo allo
svolgimento delle interpellanze.
L'onorevole Giuseppe Niccolai ha facoltà li svolgere la sua interpellanza per la
quale ricordo che, a sensi del primo comma dell'articolo 138 del nuovo
regolamento, ha a disposizione 15 minuti.
NICCOLAI GIUSEPPE - Signor
Presidente, intendo anche intervenire nella discussione sulle linee generali
delle mozioni, a norma dell'articolo 139, comma 4, del regolamento, usufruendo
così del termine di 45 minuti.
PRESIDENTE - Ne prendo atto, onorevole Niccolai.
NICCOLAI GIUSEPPE - Signor
Presidente, onorevoli colleghi, onorevole Presidente del Consiglio, se diamo uno
sguardo non superficiale ai documenti -e sono essi che contano, perché su di
essi siamo chiamati a votare- e se vogliamo tentare di caratterizzarli, possiamo
dire che, mentre la mozione socialista si limita a chiedere la testa del
generale De Lorenzo, quella comunista, forse inavvertitamente, chiama in causa
non solo i poteri politici e militari, ma lo stesso sistema, «i corretti
rapporti» -come dice la mozione- tra i vari organi dello Stato.
La mozione comunista, cioè, evidenzia una crisi del sistema, ma avverte che non
si tocchi nulla anche quando tutto, sul piano istituzionale, si sfarina e si
decompone. Mentre, quindi, la mozione socialista è epidermica, persecutoria,
ridicola nelle sue conclusioni -soprattutto se si pensa che il primo firmatario
di quella mozione è quella stessa persona che sulle vicende del SIFAR scrisse
con i toni drammatici che tutti ricordano e che oggi conclude invocando le
manette per il generale De Lorenzo, ma dimenticando vistosamente che per quelle
vicende proprio il partito socialista italiano deve chiarire molti pesanti
interrogativi- la mozione del partito comunista mette il dito sulla piaga: la
crisi del sistema.
Fermandoci sul documento socialista, potremmo dire, del suo contenuto, quello
che si dice del settimanale "L'Espresso": «Inventa con estrema precisione». Il
colpevole è uno solo: De Lorenzo; non c'è altri, nessuna complicità politica.
Ci sembra un po' poco! L'ex-collaboratore di "Nuovo Occidente" (con De Marzio e
Nino Tripodi) e di "Roma Fascista" (con Giorgio Almirante), l'onorevole
Scalfari, che non ci risulta abbia fatto per un sol giorno il soldato (e le
ragioni sono misteriose), vorrebbe dunque farci credere di ignorare che fu
l'onorevole Aldo Moro a richiedere al generale De Lorenzo notizie sui possibili
aspiranti alla carica di Presidente della Repubblica. Non trovo alcunché di
sconveniente in quello che chiese l'onorevole Aldo Moro. Poteva rifiutarsi, il
generale De Lorenzo, e può essere punito il militare per avere raccolto e
catalogato quelle notizie? Per ciò che riguarda le maggiori autorità dello
Stato, è possibile distinguere tra affari pubblici e privati? Chi può affermare
e sostenere che le loro relazioni (soprattutto se irregolari, e tali da esporli
a ricatti), le loro condizioni di salute (soprattutto mentali) non abbiano un
rilievo della massima importanza nelle valutazioni afferenti la sicurezza dello
Stato? Possono, dei militari, essere puniti per aver ubbidito alle
sollecitazioni della superiore autorità politica?
Si afferma, da parte socialista, che le deviazioni riguardavano una
strumentalizzazione dei servizi segreti per finalità estranee alla sicurezza
nazionale e si basa l'accusa contro il generale De Lorenzo ed i suoi
collaboratori sul fatto che costoro si sarebbero dedicati all'hobby della
collezione dei fascicoli al fine di porsi -così è scritto nella mozione
socialista- come elemento risolutore della crisi politica di quei tormentati
mesi del 1964, utilizzando quel materiale.
D'accordo; ma la domanda rimane, e fu già posta nel maggio del 1967, in
quest'aula, dall'onorevole De Marzio. Questo collezionista di fascicoli dove
acquistava i pezzi per la sua collezione? "L'Europeo" ha pubblicato le veline
dei rapporti di certi incontri tra illustri politici posti al vertice della vita
politica italiana, anche quando essi erano riuniti intorno ad una tavola
imbandita (ritengo, generosamente). Anche il pensiero sulla situazione politica
dell'illustre professore Giovanni Spadolini (oggi direttore del "Corriere della
sera", ma ieri sostenitore, con la penna, sul foglio di "Civiltà italica"
unitamente a Giovanni Gentile e Ardengo Soffici, della Repubblica Sociale
Italiana), compare sui mattinali del SIFAR. Forse l'onorevole Scalfari vuoi
farci intendere che commensali di questi personaggi erano dei modesti
sottufficiali del SIFAR? Forse l'onorevole Scalfari vuoi darci ad intendere che
ufficiali dei carabinieri partecipavano alle riunioni al vertice, ai dibattiti
dei partiti di maggioranza, quando, per citare un caso, l'onorevole Nenni
relazionava sui copiosi aiuti ricevuti dai laburisti, che avrebbero poi giovato
anche alla causa dell'onorevole Scalfari, per le sue elezioni a Milano?
Tutto ciò è ridicolo: la prima responsabilità è dei politici; sono le cosche
politiche che tutto muovono, e tessono la ragnatela dell'intrigo e della
corruzione.
Il 15 ottobre 1969, in un'aula del tribunale di Roma, durante il processo De
Lorenzo-Gaspari, il presidente del tribunale ha chiesto al generale De Lorenzo
se riconosceva come sua la firma apposta su ordini di pagamento del SIFAR emessi
in un arco di tempo compreso tra il 1962 e il 1964 e riguardanti l'onorevole
Venturini, segretario amministrativo del partito socialista italiano, il
giornale "l'Avanti!", il suo direttore, senatore Pieraccini, e la sua consorte.
Dal "Corriere della sera" traggo testualmente questo dialogo: «Riconosce come
sue le firme apposte su questi mandati?». De Lorenzo: «Certo che è la mia: è la
mia e come!». Presidente: «A quale disposizione di legge si richiama, per tenere
segreto il nome di colui o di coloro che l'autorizzarono ad emanare questi
mandati?». De Lorenzo: «Anche se non è scritto a chiare lettere, quello che
riguarda il SIFAR è tutto segreto, e non posso aggiungere altro».
Qual è la morale di questo episodio? Che il finanziamento del partito socialista
italiano da parte del SIFAR ci fu, e fu attuato dal SIFAR su precisi ordini
politici. Le smentite degli onorevoli Nenni, Pieraccini e Venturini, le
assoluzioni dell'onorevole Aldo Moro, non valgono più un fico secco, se su
questo episodio dell'ottobre 1969 tutto il mondo politico ha taciuto, perfino
"l'Unità" (questo possiamo capirlo, dato che sono corse voci sui rapporti tra il
SIFAR e l'onorevole Spallone ha taciuto anche -e me ne dispiace- la Presidenza
della Camera, che pure aveva raccolto le smentite degli onorevoli Nenni,
Pieraccini e Venturini; ha taciuto, quando aveva il dovere morale di contestare
loro il fatto nuovo emerso in un'aula del tribunale.
Si considerino le date di quei pagamenti 1962 e 1964; nel 1962 siamo agli inizi
del centro-sinistra; nel febbraio del 1964 siamo alla vigilia del cosiddetto
colpo di Stato de "l'Espresso", il settimanale che inventa con estrema
precisione. Il SIFAR finanziava il partito socialista nel momento in cui, come
afferma la mozione comunista, il SIFAR preparava il «piano Solo», cioè nel
febbraio del 1964! E l'onorevole Scalfari vuole e pretende la testa del generale
De Lorenzo!
Non so se l'onorevole Bertoldi, che è assente, avverta tutta la vergogna che
deriva da questa vicenda, lui che spesso ama soffermarsi sui finanziamenti
occulti dei movimenti eversivi. Un contributo concreto -con tanto di nome,
cognome, e indirizzo- sul finanziamento dei partiti, lo portiamo noi in
quest'aula, ed è per bollare il PSI, il partito di Treves, di Turati, di
Bissolati, il partito della... pace! Eccolo affondare la bocca e le mani nelle
casse del servizio informazioni delle forze armate! Così si fanno i partiti,
così si fanno i deputati!
E forse, signor Presidente, non conferma la diagnosi la vicenda di cui si
dibatte in un'altra aula del tribunale di Roma e che riguarda i 30 milioni
aleggianti sul congresso repubblicano di Ravenna?
Se è questo il mastice che vi incollò allora, perché meravigliarsi tanto che si
continui, su quella falsariga, a farsi eleggere per esempio, nelle liste del PRI
in Sicilia, e si invochi la protezione del mafioso Di Cristina, magari con la
raccomandazione del sindaco comunista di Riesi? Se non è zuppa è pan bagnato!
Ecco: possono vicende del genere dare credibilità a quello che facciamo e
rappresentiamo per le giovani generazioni italiane?
E non ci si venga a dire, dinanzi a questo maleodorante spettacolo, che la
congiura del SIFAR, le liste di proscrizione, il «piano Solo» altro fine non
avevano se non quello di combattere la politica nuova che il PSI portava al
Governo. Il PSI era tanto affamato agli inizi del suo esperimento governativo
che la bocca la metteva dovunque si presentasse l'occasione, senza guardare
certo né alla natura né alla provenienza dei piatti che gli venivano offerti.
Ed allora, in queste condizioni, tutta la responsabilità sarebbe dei militari! E
lo afferma una classe politica la quale popola, con la sua presenza, con le sue
mezze coscienze, con i suoi mezzi caratteri, con le sue omertà, con le sue
ruberie, le aule dei tribunali italiani infettando e decomponendo tutto quello
che tocca e sancendo, al tempo stesso, la distinzione (immorale e suicida per lo
Stato) tra subordinati -i militari- che pagano e superiori -i politici- che
godono di immunità di casta. Ma non ci si accorge che, comportandosi così, si
annienta ogni fiducia nello Stato da parte di chi deve servirlo e si minano i
rapporti gerarchici, nel momento stesso in cui si pretende di ristabilirli?
Posso trarre, perciò, una prima conclusione: non accettiamo la tesi per cui i
militari, e solo i militari, sarebbero i responsabili della vicenda del SIFAR.
Le responsabilità sono politiche, sono della classe politica. La classe politica
parli, faccia un buon bucato, qui, davanti al paese.
La seconda considerazione, o meglio la morale, che scaturisce dalle risultanze
della inchiesta è -mi riferisco, come ho detto all'inizio, alla mozione
comunista- di ordine istituzionale. È chiaro che i dirigenti politici hanno
cercato, allora come oggi, di alleggerire il peso delle loro difficoltà, delle
loro crisi e delle loro responsabilità con un diversivo clamoroso, quello del
presunto colpo di Stato del 1964. Esso è servito da alibi interno, soprattutto
del PSI, per i giochi di corrente. È stato gonfiato per comodità polemica, per
giustificare certi cedimenti. Nenni, allora fu maestro, grande maestro!
Indubbiamente dei fascicoli, della loro esistenza, Pietro Nenni sapeva dal 1946.
Anche i comunisti ne conoscevano l'esistenza, e la legittimità della esistenza.
Un episodio curioso: Pietro Nenni fu pubblicamente accusato nel 1946, quando era
alto commissario per le sanzioni contro il fascismo, di aver prelevato il suo
fascicolo e di averlo trattenuto alcuni giorni, di averci levato alcune carte e
di averne aggiunte altre. Si querelò contro il giornalista Trizzino. Il
tribunale gli dette torto: il giornalista Trizzino venne assolto con ampia
formula, perché quei fatti erano realmente avvenuti.
Dunque, si schedava anche allora! I comunisti erano al potere e trovavano tutto
ciò legittimo: la democrazia non era in pericolo perché essi erano al potere!
Grande maestro, Pietro Nenni, anche nel 1964, quando scrisse i famosi sei
articoli su "l'Avanti!" che denunciavano una situazione di pericolo: per
scongiurare il colpo di Stato descritto e paventato da Nenni su "l'Avanti!", i
socialisti cedettero. L'espediente (nenniano) non poteva restare confinato
nell'ambito delle mezze voci e delle confabulazioni di corrente.
Così si è passati tutti dalla padella nella brace: i fantasmi, a furia di
parlarne, sono diventati una realtà psicologica, una forma di suggestione che si
è trasmessa, di riflesso, non solo alle forze armate, provocandovi penose
fratture morali, ma all'intero paese.
La «fantapolitica» -che altro non è, signor Presidente del Consiglio, se non il
vero colpo di Stato che il partito comunista compie ogni giorno- prende le mosse
dalle vicende del 1964. Anche in questo appaiono chiari i limiti di un partito
come quello socialista che resta, anche quando è al Governo, protestatario,
massimalista, pressapochista. Il senso dello Stato non gli è per nulla
connaturale. La guida dello Stato richiede atteggiamenti diversi che non la
pratica comiziesca!
Ricordiamo, per inciso, un altro episodio parlamentare, poco noto, del 1917. Già
allora i socialisti, in piena guerra, evocarono fantasmi di colpi di Stato,
insinuando che Cadorna stava tramando ai danni del potere politico e protestando
contro i fascicoli raccolti su esponenti politici neutralisti o disfattisti
dalla polizia militare. Ciò avveniva nel clima di Caporetto. Mezzo secolo dopo,
la situazione non è mutata, mentre la flotta sovietica passeggia nel
Mediterraneo.
Ma è proprio in questo clima, che sta tra il comiziesco e il pressapochismo, che
si giocano le sorti non solo delle forze armate, ma delle stesse istituzioni.
Il partito socialista, attraverso il Governo, su un terreno indubbiamente già
ben preparato e ben coltivato dalla partitocrazia, diffonde i germi di
dissoluzione della società nazionale: e così tutto si sfarina e nel paniere di
questi rivoluzionari da operetta, con le teste dei generali, si raccolgono i
cocci di uno Stato in disfacimento.
Noi riteniamo che questo dibattito conclusivo sulla vicenda del SIFAR dovrebbe
essere una occasione da non lasciar cadere per la classe politica, per esaminare
francamente, e al di là di tutte le strumentalizzazioni e della «fantapolitica»,
le condizioni di tenuta del sistema, anche in ordine alle molte proteste che
esplodono nel paese e che sono destinate a crescere, se ancora i politici, per
non vedere, ameranno trastullarsi con la «fantapolitica» cara al partito
comunista, che parla molto di colpi di Stato altrui per poter compiere il
proprio vero, autentico, colpo di Stato.
Il sistema, signor Presidente del Consiglio, per reggere, deve avere un
fondamento credibile. Il consenso non è sopportazione, è convinzione.
I casi come quello del SIFAR, come quelli di Agrigento, di Fiumicino, come gli
scandali dei tabacchi, delle banane, come la vicenda di Bazan, sono soprattutto
manifestazioni di tirannia e di debolezza insieme. Ad ognuno di questi casi
corrisponde un danno, un sacrificio imposto ai singoli e alla collettività.
II sistema è diventato totalitario nel senso deteriore del termine. Non ci si
ferma, nella propria sete di potere, nemmeno dinanzi ai servizi segreti delle
forze armate. Ce ne serviamo, nel groviglio di vipere che caratterizza la vita
politica italiana.
Al tempo stesso il sistema diventa sempre più debole e insufficiente, perché non
ha più credibilità. In Sicilia, con la rapidità mediterranea nella
demistificazione delle bugie convenzionali, si è ormai spappolata ogni
sovrastruttura ideologica e politica, riducendo la lotta politica a puri
rapporti di forze, a rapporti clientelari. Nel resto del paese sta accadendo lo
stesso.
L'aumento numerico delle forze dell'ordine, grazie al capo della polizia e alla
mentalità con cui egli la guida, è inversamente proporzionale alla loro
efficienza, e ciò è un tratto distintivo del disordine. Uno Stato in cui ogni
cittadino debba essere sorvegliato da un altro, cioè debba mantenere un altro
perché lo sorvegli, è uno Stato assurdo. A Roma sta toccando la sorte di Saigon:
fuori della cinta urbana non si riesce a controllare più nessuno, se non
pagando!
Alla credibilità e alla fede, i partiti sostituiscono legami finanziari. Non si
crede più, ci si difende soltanto, grazie ai cani da guardia del sistema, tenuti
al guinzaglio dall'indennità, dal gettone, dallo stipendio. Questi cani da
guardia crescono di numero, non di autorità, e più l'autorità si discredita, più
pare necessario aumentare il numerò di chi deve preservarla ed esercitarla.
È un giro vizioso, destinato ad esplodere, a farci saltare tutti. Ed è un
pericolo, signor Presidente del Consiglio (lo diciamo noi, da questi banchi),
molto più grave dell'inserimento del partito comunista nell'area del potere e
del Governo.
Le polemiche da romanzo poliziesco, evocate ancora una volta in quest'aula, sul
colpo di Stato, amplificate con l'evidente proposito di contestare a settori
politici un sottofondo permanente di tentazioni autoritarie, accentuano le
condizioni precarie del sistema, ma allontanano, con una mitizzazione negativa,
ogni possibilità di tranquilla soluzione.
Le vie democratiche di uscita dalla crisi del sistema vengono presentate come
uno spauracchio; unica strada ammessa è il vicolo cieco in cui ci dibattiamo. Ma
questo è il metodo della tonnara, della mattanza! Facciamo attenzione! Chi si fa
complice, anche, per semplice considerazione di opportunità politica, nel
rifiuto acritico, terroristico, di ogni civile discussione su prospettive
democratiche diverse dalle attuali, pone senza contropartita delle
pericolosissime ipoteche sull'avvenire del paese.
Per questo ringraziamo la pur triste vicenda del SIFAR, che ci consente di
rivolgere questo discorso alla democrazia cristiana, domandandole fino a che
punto sia disposta a subire il processo socialista per le «avventure» del luglio
1960 prima, del luglio 1964 poi; processo che immobilizza ed imprigiona l'intero
paese, senza vie d'uscita, fino a soffocarlo nella morsa della crisi del
sistema. Servono male le istituzioni tutti coloro che, come fanno i comunisti
nel loro documento, presentano queste istituzioni più fragili dell'esile figura
dell'onorevole Segni o della tenebrosa «caramella» (mi perdoni l'onorevole
Giovanni De Lorenzo) di un generale.
Non è possibile che il sistema politico italiano trovi sollievo agli acciacchi
di cui soffre in mali più o meno fantasiosi. Dopo Segni, Borghese. Dalla gracile
figura di Segni siamo passati ai «pensionati» che metterebbero in pericolo le
istituzioni.
La profondità della crisi si misura da queste manifestazioni isteriche di una
classe politica che ha perduto perfino il senso del ridicolo; una classe
politica che, dopo avere smantellato lo Stato in omaggio all'antirepressione
all'antiautoritarismo, invoca poi lo Stato forte, repressivo, nei suoi aspetti
odiosi, inviando l'esercito contro una città, Reggio Calabria, rapinata dalle
clientele politiche, ed insegnando ai militari -sempre sospettati di colpo di
Stato- che solo loro possono mantenere l'ordine.
Questa vicenda, quindi, che per tanti versi è servita a molti anche per
diventare deputati e senatori, che certamente non ha portato vantaggi a nessuno
(e meno di tutti all'esercito), che ha esplicato fino ad oggi tutto il suo
potere corrosivo, abbia per lo meno il merito di richiamare responsabilmente
tutti a rimeditare sulle tare che minano il nostro sistema ed impediscono di
avanzare alla società civile. Sia un responsabile richiamo ed un monito, al
tempo stesso, perché venga democraticamente aperto un dibattito onesto, chiaro,
davanti a tutto il paese sul modo per uscire dalla crisi del sistema, prima che
sia troppo tardi, prima che lo squallore che da tutta questa vicenda sale fino a
noi, il marcio profondo di tutto il sistema, il turpe lenocinio tra sottogoverno
e Governo politico, ci travolgano del tutto, affinchè lo Stato italiano, da una
specie di «cosa nostra» quale è diventato, si trasformi sul serio in una
limpida, pulita «casa di vetro»!
(Applausi a destra).
[...]
PRESIDENTE - È iscritto a parlare per dichiarazione di voto l'onorevole Giuseppe
Niccolai. Ne ha facoltà.
NICCOLAI GIUSEPPE - Signor
Presidente, onorevoli colleghi, il nostro no alla risoluzione della maggioranza
prende corpo dal suo comportamento, onorevole Presidente del Consiglio, che
nella replica, sbilanciandosi a sinistra, in riconoscimenti che più che umani
sono apparsi politici, non ha raccolto i molti ed inquietanti interrogativi che
stamane noi le abbiamo posto. Fate cadere la mannaia sulla testa di De Lorenzo
ed assolvete l'intera classe politica, e ciò fate in un profluvio di parole,
come democrazia, libertà, Resistenza ed istituzioni. Si tratta di un verdetto
ingiusto che non possiamo condividere e che l'opinione pubblica italiana non
potrà accettare. Noi le avevamo chiesto, onorevole Presidente del Consiglio,
quali fossero le sue valutazioni morali in ordine ad alcune vicende che il
popolo italiano, attraverso processi clamorosi, sta vivendo e dalle quali esce
distrutta la vostra sentenza, il verdetto che vi accingete ad emanare.
È stato detto da parte comunista e da parte dell'onorevole Scalfari che è stato
accertato che il cosiddetto «piano Solo» è del febbraio 1964; ma sono anche di
quel periodo, onorevole Presidente del Consiglio, cioè del febbraio 1964, i
mandati di pagamento emessi dal SIFAR destinati al partito socialista italiano.
Cioè nel momento in cui il SIFAR preparava il suo colpo, il partito socialista
italiano prelevava denari dalle sue casse. Il tribunale di Roma ha altresì
accertato che fin dal 1962 il partito socialista italiano affondava le sue mani
nei fondi del Servizio di sicurezza: nel 1962 germoglia il centro-sinistra, nel
1964 il cosiddetto colpo di Stato che, guarda caso, rimette in sella il Governo
di centro-sinistra. In queste due date, in queste due vicende, c'è la vostra
storia, la storia non pulita di come siete nati, di quale tipo di colla vi tenga
uniti, nulla di diverso della rissa che vi distingue ora per le varie poltrone
da assegnare nei vari enti. Fate pagare a De Lorenzo maleodoranti azioni; azioni
che però sono opera dei politici.
Noi le abbiamo chiesto questa mattina, onorevole Presidente del Consiglio, quali
fossero le sue valutazioni morali in ordine alle smentite che in quest'aula, in
una famosa seduta, in ordine a quei mandati di pagamento che riguardavano
"l'Avanti!" ed illustri personaggi, dettero i Moro e i Nenni, Presidente del
Consiglio l'uno, vicepresidente del Consiglio l'altro; smentite che il tribunale
di Roma nell'ottobre del 1969 ha considerato infondate e non veritiere. Noi le
abbiamo chiesto questa mattina quali fossero le sue valutazioni morali in ordine
a quello che avviene in un'altra aula del tribunale di Roma dove i 30 milioni
affidati al colonnello Bono, destinati al congresso repubblicano di Ravenna,
evidenziano una situazione da basso impero, dove le istituzioni nate dalla
Resistenza, come ella ha affermato, onorevole Presidente del Consiglio, vengono
da chi siede ai vertici della vita politica italiana mercanteggiate. Non credo
che questa sia la via, se così si fanno le maggioranze e i deputati, di
irrobustire la Repubblica italiana intorno alla quale ella ha fatto vibrare le
sue armoniose considerazioni.
Onorevole Presidente del Consiglio, ella ha taciuto su tutta la linea; non ha
reso un buon servizio a nessuno, né allo Stato né alle istituzioni, né alle
forze armate, né agli stessi politici. Non credo di dire cosa inesatta
affermando che, nel momento stesso in cui si lasciava andare sull'onda di
meditazione intesa a irrobustire da un lato la libertà dei cittadini e
dall'altro l'autorità dello Stato, ella ha vibrato nella sostanza il più duro
colpo al prestigio dello Stato e delle istituzioni che si potesse immaginare,
sancendo un triste e distruttivo principio, quello della distinzione fra i
subordinati militari che pagano e i superiori politici che godono di immunità di
casta. È questa la via sulla quale non sarà dato più di trovare un cane che osi
servire lo Stato, è la via sulla quale si minano tutti i rapporti gerarchici,
nel momento stesso in cui il Presidente del Consiglio pretende, con il solito
discorso, che la stampa di opinione definirà domani «nobile», di ristabilirli e
di irrobustirli. Lasci che io le dica, dato che si è soffermato sulla sofferta
inquietudine della maggioranza e dell'opposizione, che questo settore ha
sofferto per le sue dichiarazioni. Questa sofferenza nasce dalla constatazione
amara e triste insieme che ancora una volta quest'aula ha ospitato un dibattito
che ha avuto sì per protagonista le forze armate, ma per metterle sotto accusa.
In un momento in cui i soldati d'Italia sentono l'imperiosa necessità di
prospettare, come artefici della sicurezza di tutta la nazione i tanti loro
problemi insoluti, materiali e morali, perché il paese li capisca, li sorregga e
li aiuti, ancora una volta regalate delusione, amarezza, sfiducia alle forze
armate. Non è certo questo un buon servizio che rendete alle istituzioni. Noi
non vi possiamo seguire su questa strada: il nostro «no» sofferto prende,
onorevole Presidente del Consiglio, corpo e forza da queste valutazioni che
prima di essere valutazioni politiche sono valutazioni morali.
(Applausi a destra)
Beppe Niccolai
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