Vietnam
(intervento alla Camera
dei Deputati il 15 marzo 1973)
PRESIDENTE - L'onorevole Giuseppe Niccolai ha facoltà di svolgere la sua
mozione.
NICCOLAI GIUSEPPE - Signor
Presidente, onorevoli colleghi, signor ministro, mi vogliano perdonare i
presentatori delle altre mozioni se affermo che nell'attimo in cui gli americani
abbandonano il Vietnam a seguito del più sanguinoso e violento conflitto della
loro storia dopo la guerra di secessione, si doveva cogliere l'occasione non
tanto per iniziare la solita gara partitica su chi per primo riconosce la
Repubblica di Hanoi, quanto per chiedersi, in una sofferta e collettiva
discussione, cosa significhi -e soprattutto cosa significhi per noi italiani- la
fine di quel conflitto. Perché, se è vero che il fuoco è cessato nel Vietnam,
non si può dire che sia moralmente cessato nelle scuole, nelle università, sulla
stampa, nella chiesa, nelle famiglie degli Stati Uniti d'America, la nazione
alla quale, come alleati, abbiamo affidato la nostra difesa. Non è tanto
importante arrivare prima sul filo di lana del riconoscimento di Hanoi, quanto
piuttosto chiedersi che cosa ha rappresentato e rappresenti per noi la vicenda
del Vietnam.
La sensibilità del Parlamento italiano doveva essere chiamata e sollecitata ad
esaminare questo dato di enorme importanza per l'immediato futuro del nostro
popolo. Invece, eccole qui le forze politiche italiane che nulla hanno imparato
o vogliono imparare dalla vicenda del Vietnam; eccole qui a misurarsi su temi
secondari e strumentali, quasi preoccupate, signor ministro, di riempire
propagandisticamente il vuoto che il «cessate il fuoco» nel Vietnam provoca
nella vita politica italiana con espedienti non certo degni di questa tragedia
non asiatica ma mondiale.
Anche questa occasione, ahimè, è la riprova della profonda crisi del partitismo
italiano, ormai incapace di elevarsi al di sopra dei suoi bisticci, delle sue
risse feroci, dei suoi limitati e meschini orizzonti. Non si vede al di là del
proprio naso. Eppure, l'impotenza del sistema politico italiano la si paga
soprattutto in campo internazionale. Sempre a rimorchio di qualcuno. Fino a
ieri, degli slogans del nostro alleato di turno, sia a occidente sia a oriente;
ora a rimorchio della nuova santa alleanza russo-americana, di cui la mozione
democristiana è chiara manifestazione. Non si impara nulla. E se ieri ci siamo
lasciati trascinare dalla presunzione del nostro alleato di poter condurre
sempre guerre di liberazione tra gli applausi ed i fiori delle popolazioni
restituite al cosiddetto gioco democratico (la qual cosa aveva funzionato in
Europa nel 1943), non riuscendo poi più a capire nulla di quella sanguinosa
vicenda quando la disposizione al sacrificio dei vietcong ha reso insostenibile
quella presunzione; così oggi continuiamo, sulla vicenda del Vietnam, ad
impostare un discorso sbagliato, perché nemmeno un pizzico di fantasia ci aiuta
a capire quello che è accaduto e quello che può significare per noi.
Ci occupiamo del Vietnam e vogliamo aiutarlo, ma siamo noi ad avere bisogno poi
dell'esperienza del Vietnam proprio perché quella esperienza ci sia risparmiata.
Il Vietnam: una Caporetto americana? Ha vinto il comunismo sulla libertà? Non ci
aiuta certo a capire le cose una simile impostazione del discorso. La realtà è
che la libertà non è fatta soltanto di elezioni, non ha solo una dimensione
partitica, ideologica, spesso artificiale. Essa è inseparabile da altre
componenti, altrettanto concrete, che sono le tradizioni, la dignità, la razza,
la stabilità, la sicurezza. Ed ognuna di queste componenti rimodella la
peculiare libertà di un popolo in forme originali.
Sono rimbalzate in questa aula delle date storiche. Trentesimo anniversario, ha
detto l'onorevole Pajetta (1943-1973), schierati sullo stesso fronte, schierati
dalla parte giusta, con i partigiani vietnamiti che combattevano il Giappone
imperialista. Certo, ma il 1943 viene dopo il 1939, l'agosto 1939. Il 1943 viene
dopo il patto Ribbentrop-Molotov, il patto tra la Russia sovietica e la Germania
di Hitler. Erano i tempi in cui la grande Russia di Stalin aggrediva il piccolo
popolo finlandese; erano i tempi in cui i comunisti francesi finivano in campi
di concentramento per non combattere contro la Germania di Hitler; erano i tempi
in cui Terracini veniva espulso dal partito comunista per proteste contro quel
patto, grazie al quale le truppe di Hitler e quelle di Stalin si spartivano la
Polonia. Anniversari e confronti: quando si fanno occorre essere obiettivi e
ricordarli tutti.
E non è forse vero che la Saigon di questi anni somiglia molto alla Napoli del
1943-44, dove -ma guarda caso!- le bombe della ricca America, come ad Haiphong,
avevano colpito le case e la roba dei poveri? Non ci risulta che per Napoli vi
fosse un articolo 2 -come ha ricordato l'onorevole Pajetta- in cui si stabiliva
che gli Stati Uniti d'America dovevano prendere l'impegno morale di ricostruire
le povere cose dei poveri distrutte. Vi furono fiori e applausi per i
liberatori. Saigon un bordello! Perché, la Napoli, la Napoli di Malaparte del
1944, no?
Ecco, ritornando, dopo i confronti, al Vietnam, libertà è anche la fine del
mercato nero, libertà è anche la fine della prostituzione, libertà è anche non
dipendere dai capricci di un ambasciatore che diventa arbitro di vite umane fino
all'assassinio, libertà è poter rimanere saldi nella fede e non essere pugnalati
da mutamenti di opinione avvenuti a migliaia di chilometri di distanza. È quello
che è capitato ai cattolici del Vietnam, resi prima esuli in massa dall'appello
alla lotta anticomunista, secondo lo spirito pre-conciliare, e poi, quando si
trovavano nei guai, con tutti i ponti rotti e una catena di odio, di
rappresaglie, investiti dalla ventata pacifista e dialogante della chiesa
post-conciliare. Libertà è avere alleati solidi, ancor più libertà è non
dipendere dallo straniero.
Per esserci rifiutati di capire queste cose, ci siamo trovati prigionieri di un
groviglio di contraddizioni, e ancora non ce ne liberiamo, se è vero, come è
vero, che facciamo finta di dimenticare che se l'epopea vietnamita si è chiusa
sullo scenario del mondo, anche se là si continua a morire, ciò è dovuto ad un
accordo fra i cosiddetti grandi, alle spalle e sulla testa dei rispettivi
satelliti.
Yalta è tuttora una triste realtà. E la mozione democristiana che chiede il
riconoscimento di Hanoi, buttandosi alle spalle ciò che avverrà di fatto nel
paese, cosa accadrà di quella terra martoriata e spaccata, non è né un gesto
coraggioso, né nuovo, né lungimirante se abbiamo la bontà di riflettere che si
sviluppa sulle linee di una America che vive, grazie al consigliere di Nixon, il
clima -come scrive “Le Monde” del 16 febbraio 1973- di un'intesa diretta fra
americani e comunisti vietnamiti. Già Nixon, parlando alla televisione
sovietica, aveva fatto intendere come andasse concepita ad alto livello la
faccenda del Vietnam e delle altre zone di attrito che disturbano i grandi della
terra. Le intemperanze dei piccoli -disse Nixon alla televisione sovietica-
mettono le grandi potenze a repentaglio di doversi battere tra di loro. Ed è
finalmente ora che i grandi non si lascino più trascinare sulla cattiva strada
da questi impertinenti. Non è dunque la concorrenza egemonica fra le
superpotenze che mette a rischio la pace mondiale spaccando la terra in due
blocchi, ma sono le intemperanze dei rispettivi satelliti o quelle degli
impertinenti che satelliti non vogliono essere.
Tutta colpa, dunque, dei vietnamiti e dei cecoslovacchi che vorrebbero
l'indipendenza, degli arabi o degli ebrei che continuano ad affrontarsi come se
avessero il diritto di collocare le loro inestricabili divergenze su di un piano
storico, anziché consegnarle alla decisione salomonica di un protettorato. E
siccome anche nella giustizia terrena alla colpa segue frequentemente il
castigo, appare più comprensibile -alla luce di questa teoria dei grandi della
terra- che i carri armati sovietici facciano di tanto in tanto la loro
passeggiata punitiva a Budapest o a Praga e che gli americani giungano a sfidare
crisi interne di dimensioni imprevedibili pur di continuare a massacrare i
disturbatori del Laos e del Vietnam.
Al teatro Bolscioi di Mosca, durante lo spettacolo di gala in onore dei coniugi
Nixon, una italiana si è messa a gridare: «Via gli americani dal Vietnam!». Non
aveva capito nulla.
PAJETTA - Era una comunista, tanto perché lei lo sappia!
NICCOLAI GIUSEPPE - Ma questa
comunista la polizia sovietica l'ha presa per la «collottola» e l'ha sbattuta
violentemente fuori. Certe molestie si addicono alle piazze d'Italia, onorevole
Pajetta, ma non devono giungere a infastidire i nuovi zar del Cremlino, mentre
si intrattengono con il presidente degli Stati Uniti d'America per un più
dettagliato programma di intesa sulla gestione del mondo.
A mio parere anche noi, come quella italiana al teatro Bolscioi di Mosca che si
fa mettere alla porta perché grida «Via gli americani dal Vietnam!», continuiamo
a non capire, perché continuiamo a muoverci e a comportarci con la mentalità di
satelliti che fanno il gioco dei grossi, che puntano -mai come dopo la vicenda
del Vietnam- a rinsaldare un condominio planetario, esponendo proprio i piccoli
ai rischi di una guerra per delega.
Nessuna delle mozioni presentate dai nostri dirimpettai da l'allarme sulla nuova
Yalta che spunta dagli acquitrini e dalle plaghe insanguinate del Vietnam. C'è
di più. L'epopea vietnamita, secondo lo spirito di certe mozioni, potrebbe ora
concludersi -lo ha ricordato anche l'onorevole Pajetta- con nuove edizioni del
piano Marshall, per cui il Vietnam potrebbe essere «comprato» da parte
dell'America, e una mazzetta di assegni riuscirebbe là dove le armi non hanno
potuto, e nemmeno un milione di morti. Non crediamo a simili risultati, in se
stessi ripugnanti, signor ministro. Non crediamo al cosiddetto realismo dei
furbi che sottovalutano la forza delle convinzioni e soprattutto del fanatismo.
La miscela del sociale con l'idea nazionale ha funzionato bene, e non credo che
quella «carica» possano disinnescarla le opportunistiche intese tra alcune
grandi potenze e le astuzie diplomatiche del signor Kissinger. Il primo a
crederci poco, del resto, è lo stesso Nixon, che non a caso ha definito quella
pace una pace fragile. La fragile pace è una scelta di convenienza in cui
restano evidenti i risvolti dell'insuccesso.
“L'Herald Tribune” del 25 gennaio 1973 scrive: «La potenza statunitense è uscita
dall'esperienza vietnamita molto scossa. Non ha subito la batosta di Diem Bien
Phu, ma è rimasta impegnata in un conflitto limitato, rimettendoci di prestigio,
spendendo l'ira di Dio, compromettendo la posizione del dollaro, seminando per
il mondo migliaia di disertori, trovandosi con dei reduci pieni di sconcertanti
complicazioni psichiche ed imbottiti di droga, costretta a fare i conti
all'interno con un movimento di dissidenza pacifista di proporzioni preoccupanti
e all'estero con la dissociazione di quasi tutti i suoi principali alleati».
Sono lezioni, e disavventure, aggiungiamo noi, che quasi sicuramente non
toccano, nella sostanza, l'enorme potenziale economico, militare e diplomatico
degli Stati Uniti (anche la Francia si è ripresa bene dalla sconfitta indocinese
e algerina e probabilmente se ne è avvantaggiata), ma non possono non accentuare
i già forti dubbi sulla credibilità americana come protettrice di altri popoli,
compresi quelli dell'Europa occidentale.
Ed ecco il punto, cioè la lezione che per noi italiani ed europei viene dal
Vietnam, lezione che ci rifiutiamo di apprendere, andando a parare in quel
riconoscimento di Hanoi che è nelle cose, e soprattutto fa parte dei disegni
egemonici tanto sovietici, quanto americani, quanto cinesi. Siamo oltre i
riconoscimenti: l'America già tratta con la Cina l'abbandono di Formosa. Siamo
in ritardo. La solita furbizia all'italiana! Ma spesso la furbizia toglie
l'intelligenza e il coraggio, due dati indispensabili per vedere bene le cose,
per vedere lontano. Ci preoccupiamo di avere voce in capitolo nella
distribuzione delle derrate nel nord Vietnam, ma non ci chiediamo se, per caso,
internazionalmente, rischiamo di contare sempre meno.
Non ci chiediamo se, proprio grazie alle vicende vietnamite, anche i nostri
strumenti difensivi siano entrati in crisi, in una fase di progressiva
smobilitazione, addirittura nel terreno adatto alle grandi manovre per un
accordo globale russo-americano sulla testa dell'Italia e dell'Europa. Occorre
una politica estera autonoma, una politica militare per l'Europa: è
l'indicazione prima che ci viene dal lontano-vicino Vietnam.
Chi si oppone ad un rafforzamento del dispositivo militare europeo lavora
oggettivamente, comunisti compresi, per la permanenza di un presidio militare
statunitense in Europa. Chi non è in grado di assicurare da sé la propria difesa
dipende da altri; e ciò costa sempre caro, non solo in termini di sicurezza, ma
anche in capacità di iniziativa politica. Per noi significa, ad esempio, non
avere voce in capitolo nel Mediterraneo, né come italiani, né come europei. Il
mare dove viviamo è controllato da due flotte estranee, quella americana e
quella sovietica, ed in fondo ci siamo giocati il diritto storico a lamentarci
della presenza sovietica, molto recente, dal momento in cui noi non abbiamo
fatto nulla di serio per sostituire gradualmente, con mezzi nostri, la presenza
statunitense, per lo meno altrettanto estranea. Abbiamo lasciato passare un
miracolo economico credendoci molto furbi perché riuscivamo a delegare ad altri
la responsabilità più onerosa della nostra difesa. Ma con queste astuzie si
diventa mercé di scambio negli accordi tra le grandi potenze che pesano sulle
nostre teste.
Nel dialogo tripolare tra America, Russia e Cina, l'Europa deve mettersi in
grado di intervenire con voce propria. La Cina apertamente ci sollecita a farlo.
I due super-grandi non hanno presumibilmente la stessa fretta e lo stesso
interesse a trovarsi fra i piedi un altro interlocutore di pari grado. D'altra
parte lo status di grande potenza continentale non può essere regolato, non
dipende dalla buona volontà di terzi, ma da condizioni oggettive che devono
essere assolte da chi vi aspira.
Gli obiettivi che deve porsi l'Europa sono quindi la sostituzione degli
americani con forze proprie (il che non esclude affatto la prosecuzione di
stretti rapporti e può anzi contribuire a migliorarli e a chiarirli) e
l'integrazione del deterrente nucleare francese e britannico in un dispositivo
comune. Appoggiarsi alle falde dei soldati americani affinchè non se ne vadano,
significherebbe alla lunga mettersi nelle condizioni morali e politiche di un
paese che non ha ideali né avvenire. “L’Economist” ha scritto che l'Italia è
un'espressione geografica. Ecco la lezione che ci viene dal Vietnam e che le
forze politiche italiane si rifiutano di meditare, di apprendere, di far
propria. È una lezione di patriottismo nel senso tradizionale del termine. E non
l'hanno certo compresa coloro che, stolti rivoluzionari, hanno invaso scuole e
università inalberando la bandiera dei vietcong. Quella bandiera, che essi hanno
offeso, riducendola al simbolo di una sinistra carnevalata, è stata, comunque la
si pensi, nelle mani degli uomini che a lei affiancati sono morti nell'Asia
lontana, il segno di un ordine morale, di una disciplina, di un amore supremo.
Avesse fra noi, signor ministro, una minoranza, la virtù e il coraggio di
sollevare in alto la nostra bandiera, nelle inevitabili e necessarie lotte che
ci attendono, col fervore, l'umiltà, la dedizione con cui quegli uomini, laggiù,
da una parte e dall'altra, hanno onorato la loro! La nostra bandiera, signor
ministro, la nostra dignità, dov'è? E forse contenuta in questa mozione di
maggioranza che nemmeno si preoccupa di coloro che, dopo aver bandito la
bandiera dell'anticomunismo, si trovano ora nel Vietnam allo sbaraglio,
destinati con ogni probabilità ad un orrendo massacro, che si compirà nel
silenzio del mondo?
Dov'è questa politica estera del nostro paese che, dopo aver fatto fuggire in
elicottero il presidente Nixon, il «grande alleato», riceve di soppiatto, com'è
avvenuto in questi giorni, il ministro degli esteri spagnolo, per timore delle
proteste di un De Martino, di un Pajetta, di un Mario Capanna? Siamo di fronte,
signor ministro, a fenomeni di vera e propria dissoluzione, senza più bandiere
(lo dico sottovoce), senza più tricolore. Non ci ritroviamo più, siamo scollati
e divisi.
Come uscire da questa dissoluzione, da questa disperazione? Vi è un unico modo,
signor ministro: con un ritorno paziente e virtuoso, ma anche eroico ed
ascetico, al culto e alla pratica dell'idea di nazione. Questa è la lezione che
ci viene dal Vietnam.
(Applausi a destra).
Beppe Niccolai
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