dal Secolo d'Italia" 31 ottobre 2009
Vent'anni
dopo: Niccolai aveva ragione
Luciano Lanna
Gianfranco Fini,
intervistato nel 2004 da Bruno Vespa per il libro "Storia d'Italia da Mussolini
a Berlusconi", l'ha dovuto confessare confrontando la lucidità politica
niccolaiana con l'immobilismo e il nostalgismo in cui si era rinchiusa la destra
italiana fino agli anni Ottanta: «Allora non esisteva logica al di fuori di
quella. C'era però tra noi qualche eretico come Beppe Niccolai che immaginava di
aprirsi al dialogo e sanare da destra l'equivalente di quella che era stata la
scissione a sinistra del 1914 tra l'anima nazionalista e riformista del
socialismo e quella massimalista. Ma con lui erano in pochi. Noi in genere ci
consolavamo dicendo: siamo un mondo chiuso, siamo i soli a poter camminare a
testa alta in un mondo corrotto, il corpo elettorale ci darà ragione. Per la
svolta era presto ...». E forse non è un caso che sia Fini a riconoscere il
grande ruolo di anticipazione e di preveggenza che ha caratterizzato nel suo
itinerario esistenziale, culturale e politico Giuseppe Niccolai, di cui oggi
ricorrono i venti anni dalla morte. Era nato a Pisa il 26 novembre del 1920 e,
come molti ragazzi della sua generazione, visse con entusiasmo e partecipazione
la modernizzazione della società italiana degli anni Trenta.
Dalla biblioteca di suo padre, preside di liceo e provveditore agli studi, Beppe
apprese subito una dimestichezza e una passione per i libri, le carte e la
cultura che lo condurranno a elaborare la sua visione della politica. Laureato
in giurisprudenza, ventenne fu volontario di guerra in Africa settentrionale. Al
momento della disfatta della prima armata italiana, viene catturato dagli
inglesi e insieme a tantissimi italiani finisce nel celebre "Fascist' Criminal
Camp" di Hereford, nel Texas. Un'esperienza umana e di formazione che lo vide
negli anni di prigionia accomunato e accanto a figure come Giuseppe Berto, che
proprio lì scrisse il suo splendido "Il cielo è rosso", a Gaetano Tumiati,
futuro vicedirettore di "Panorama" e poi capo del settore periodici della
Rizzoli che poi ne raccontò nel romanzo "Prigionieri nel Texas", al pittore
Alberto Burri che proprio lì iniziò a realizzare i suoi "sacchi", a Roberto
Mieville futuro leader dei giovani missini e a Gianni Roberti, poi grande
giuslavorista e dirigente della CISNAL. Appena tornato in Italia, il 27
settembre 1948, scrive una lettera-documento sulla lacerazione della sua
generazione al suo vecchio amico Romano Bilenchi che in quegli anni si occupava
da sinistra, sul "Nuovo Corriere", del dialogo con i reduci non-cooperatori. E
l'amicizia tra Niccolai e Bilenchi durerà per tutta la vita, al punto che quando
il 27 novembre del 1982 si svolgerà a Firenze la storica tavola rotonda in cui
Marco Tarchi e Giano Accame si confrontarono con il filosofo ed ex deputato del
PCI Massimo Cacciari e con lo storico e firma de "il Manifesto" Giovanni Tassani,
Niccolai che era presente consegnò una lettera di apprezzamento per l'iniziativa
scritta da Bilenchi.
Animatore di riviste politico-culturali -prima "Il Machiavelli", poi "L'Eco
della Versilia"- e collaboratore per anni del "Secolo", Niccolai fu prima
consigliere comunale del MSI nella sua Pisa e quindi deputato per due
legislature, dal 1968 al 1976. Venne lodato da Leonardo Sciascia per la sua
relazione di minoranza alla Commissione Antimafia. Nel 1976 decise di non
ricandidarsi motivando la sua scelta come un gesto di moralità pubblica e
spiegando che occorreva lasciare spazio agli altri, lui avrebbe continuato a
fare politica, un impegno che non doveva coincidere con i privilegi dell'essere
eletto. Non a caso il giornalista e scrittore Giampiero Mughini, che lo conobbe
alla fine degli anni Settanta, descrivendolo in seguito nel suo libro "Compagni
addio" lo definiva come «una delle figure più adamantine» da lui conosciute.
Per moltissimi anni stretto collaboratore di Giorgio Almirante, cui all'inizio
lo accomunava la refrattarietà alle derive estremiste e un'idea della cultura
politica di riferimento inserita a pieno titolo nella storia comune del
Novecento italiano, ne divenne però nei primi anni Ottanta il principale
antagonista quando Niccolai ebbe il coraggio -come disse- di «farsi del male» e
di avviare una coraggiosa autocritica, la quale pretendeva da tutto il partito
una riflessione altrettanto sincera. Niccolai sollecitava, infatti, una
rilettura degli errori compiuti nei confronti della contestazione giovanile del
'68, verso i nuovi fermenti culturali che stavano emergendo sin dalla fine degli
anni Settanta e, soprattutto, in tema di diritti civili, garantismo e politica
estera.
Nel 1972, pur di tentare di togliere la parola a Giuseppe Niccolai e di
impedirgli un comizio, perdette la vita a Pisa un anarchico di vent'anni, Franco
Serantini. "Lotta Continua" aveva promesso di mettere a ferro e fuoco la città
toscana. In un manifesto affisso dappertutto c'era scritto: «Caschi il mondo su
di un fico / Niccolai a Pisa non parlerà». Arrivò un battaglione della Celere,
contro trecento estremisti di sinistra si schierarono oltre un migliaio di
poliziotti: negli scontri morì il ragazzo. «Niccolai -ha scritto Mughini- l'ho
conosciuto molti anni dopo, e ancora ricordava con commozione la sorte di
Serantini, l'anarchico morto per aver cercato di togliergli la parola ...».
Non solo: nel 1988, appena scoppia l'affaire Sofri, Beppe si schiera a difesa
dell'ex leader di LC che gli aveva scatenato la piazza contro. Per prima cosa
invia al "Secolo" una lettera (che non verrà però pubblicata) in cui tra l'altro
scriveva: «Caro direttore, non me la sento di gridare che Adriano Sofri è un
assassino. Mi fa male, mi fa soffrire la morte del giovane anarchico Franco
Serantini; al pari di quella, del giovane commissario Calabresi; tutte e due
incastrate e cucite con il filo rosso e nero di una orditura vale ripetersi che,
partendo da Portella delle Ginestre, passa per Piazza Fontana, Brescia, Bologna,
Peteano, Serantini e Sofri. Sofri colpevole? Una cosa mi sono sempre chiesto: in
fin dei conti ero stato io l'elemento determinante ad innestare quei fatti che
avrebbero portato alla morte del Serantini e, di conseguenza, a quella del
Calabresi. Quel comizio del 5 maggio 1972, tenuto in una città assediata. La
domanda è questa: se volontà c'era di vendicare, con il sangue, ciò che nel
sangue era finito a Pisa, perché non uccidere chi scrive? Era facilissimo; certo
molto più facile che assassinare Calabresi ...».
Poi, qualche giorno dopo Niccolai ebbe un infarto dopo un Comitato centrale del
MSI e, ricoverato nell'unità coronarica del'ospedale San Giacomo di Roma,
raggiunto da Umberto Croppi e Giano Accame, scrisse insieme a loro un comunicato
di piena solidarietà a Sofri che venne poi recapitato all'ex leader del
Sessantotto pisano. «Adriano Sofri, questo sessantottino duro, spesso feroce,
nel 1986 -scriveva Niccolai- era riuscito (quando fra gli incalliti nostalgici
della guerra civile e di una Italia eternamente divisa, infuriava la polemica
che ha voluto negare a Giovanni Gentile l'iscrizione del suo nome nella lapide
che ricorda tutti i caduti dell'Università di Pisa) a scrivere parole di alta
umanità rendendo, al grande intellettuale assassinato, quella giustizia che i
neo-democratici a diciotto carati, a oltre 40 anni dal 1945, non riescono ancora
a dagli».
Già nei primi anni Ottanta Niccolai aveva riscoperto la figura del fascista ed
ex anarchico Berto Ricci, e lo faceva nel momento in cui il MSI cominciava a
stragli un po' stretto e l'esigenza di un rinnovamento lo portava a cercare, nel
passato, un riferimento dalla grande capacità fascinatrice. E in questo percorso
non poteva che incontrarsi, naturalmente, con alcuni giovani della generazione
dei Campi Hobbit. Nel 1984 -e quella fu l'unica espressione di approfondimento
al 14° congresso missino svoltosi a Roma- presenterà il documento "Segnali di
vita", che riecheggiava e non casualmente un brano di Franco Battiato, che verrà
sottoscritto entusiasticamente dalle componenti giovanili e creative del
partito. «La scelta -si leggeva nella mozione, i cui primi firmatari erano
Niccolai, Croppi e Nanni- non può essere che una, e inderogabile: lasciare al
loro destino tutto ciò che, partitocraticamente, ha rotto con la vita. Le sedi
di partito, cosi come sono concepite, strutturate, non servono più. Occorre
ripensarle, con una premessa fondamentale e imprescindibile: liberandole da
essere sedi puramente elettorali, luoghi dove avvengono le varie e non pulite
alchimie partitiche e correntizie; per farne invece ponti proiettati verso la
società, i suoi problemi, le sue angosce, i suoi slanci, la sua ansia di un
ritorno felice, soprattutto per le donne». Tra i firmatari del documento Gianni
Alemanno, Enzo Raisi, Fabio Granata, Alessandro Degli Occhi...
Nel 1985, in occasione della crisi di Sigonella, Niccolai fece approvare dal
Comitato centrale del MSI un ordine del giorno di sostegno a Craxi in nome dello
scatto di orgoglio nazionale. E uno dei suoi ultimi scritti, quasi il suo
testamento, è l'invito ad andare in mare aperto con l'obiettivo consapevole di
ricucire le lacerazioni del Novecento e di ridefinire anche un destino
maggioritario in cui tornare a ricollocare la propria vocazione politica. E nel
delineare una sorta di via italiana alla modernità «alternativa alla egemonia
democristiana», Niccolai spronava la destra alla sintonia con i socialisti, i
radicali, gli ambientalisti e i cattolici di CL: «Se anche solo se ne ricavasse
un'Italia meno lacerata, meno nevrotica, più tollerante, più capace di
comprendere se stessa e le parti che la compongono, il risultato sarebbe
apprezzabile». Ci stiamo arrivando, vent'anni dopo.
Luciano Lanna
laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e
scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario
"Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra",
Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si
è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con
trasmissioni radiofoniche e televisive della RAI. Già caporedattore
del bimestrale di cultura politica "IdeAzione" e vice direttore del
quotidiano "L'Indipendente", è direttore responsabile del "Secolo
d'Italia"..
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