DOCUMENTI
"Proposta", Anno IV n° 6, novembre - dicembre 1989
Discorso di Beppe Niccolai al XV Congresso del MSI-DN, In nome dell'Italia di tutti
Non se ne dolga, il Segretario del partito se, ascoltandolo assegnare i voti ai vari documenti congressuali, mi è venuto in mente questo giudizio che l'allora ministro della Pubblica Istruzione Misasi -era il novembre 1971- dette di lui: «Ella, onorevole Almirante, quest'oggi ha fatto un discorso che, ad un certo momento, con un approfondimento martellante, ha demolito tutte le posizioni politiche, sia pure trattandole con molta cortesia, con molta abilità, con molta amabilità. Ella mi ha ricordato -me lo perdonerà perché non vi è alcuna cattiveria nella mia osservazione- un personaggio del Teatro di marionette napoletano che si chiama Urbaniello, è il personaggio più dialettico di quel teatro. È un personaggio, infatti, la cui funzione consiste nell'entrare in scena e nel gettare giù a testate, con molta abilità, uno ad uno tutti gli altri personaggi. Alla fine che fa? Quando è rimasto solo sulla scena e non trova più nessuno, allora dà una capocciata al muro e cade pure lui». (Misasi, ministro della Pubblica Istruzione, Camera dei Deputati, 8 novembre 1971) Quale birillo è rimasto in piedi? C'è da chiederselo, visto le risultanze che sono davanti a noi dopo tre anni dal XIV Congresso romano.
I prudenti in mezzo a noi La costruzione umana di questo Congresso -che meglio di ogni altra cosa può misurare la temperatura morale del nostro ambiente-; ciò che accadde nella precedente nostra Assise (il XIV Congresso); la caratterizzazione che quel Congresso ebbe, niente altro che una rassegna ai quadri dirigenti; ciò che è venuto dopo, una logica conseguenza di quei nostri comportamenti, con un partito gestito dall'alto, con il sistematico soffocamento -a detta di tutti- di ogni confronto e dibattito; l'essersi così «costruiti», ci porta a dire dell'importanza che, in questo momento, in questo incontro, vengono ad assumere, in mezzo a noi, i prudenti. Perché i prudenti non potevano non germogliare in mezzo a noi. Eleggeremo un prudente? I prudenti sono dei plaudenti. Non ascoltano, applaudono; vivono di suoni. Confondono il rumore in certezze. Si fidano. Si concedono. Al tormento delle idee, al dubbio, al possibile dissenso, oppongono la «prudenza» dello stare con chi pensa per loro, e li libera da ogni fastidiosa riflessione. Si fanno spettatori e protestano vibratamente con chi non segue, zitto, lo spettacolo. Nasce la subalternità. E con la subalternità le contraddizioni di fondo. Infatti: cresciuti nella prudenza e nell'ossequio (mai un gesto di ribellione nella loro vita, sempre accovacciati all'ombra, alla grande ombra di chi dispone), portano questa subalternità fuori e, fatalmente, sono subalterni di fronte all'altro, al nemico. Se l'addestramento in caserma, anziché il merito, premia la casta, l'abilità nel formare clientele, il caporalismo, la furbizia, insomma i valori capovolti, è fatale che, incontrato fuori il nemico, l'impatto non sia positivo. Amara è la riflessione: fra il partito che ci siamo dati, e i molto prudenti che vi albergano, e i drammi che abbiamo sofferto, c'è stretta correlazione. Quindi, prima riflessione, prima stazione della nostra sofferenza: per battere il nemico, che ci sta davanti, è giocoforza battere il nemico che è penetrato in noi. Lo dobbiamo battere frantumando, all'interno delle aree politiche che ci siamo scelte, stellette, organigrammi, cappelli di lista, incompatibilità, essere parlamentari oltre i settanta anni. È necessario battere questo nemico dentro di noi per non più galleggiare nell'indistinto. Il ritenere che sia possibile governare una Comunità senza fare scelte, perché le scelte creano problemi, alla fine questa Comunità si sfibra, resta senza volto, è tutto ed il contrario di tutto. Quando si perde vigore e rigore all'interno, è la creatività politica a soffrirne. Siamo senza progetto, senza disegno. Esangui. Questa è la nostra condizione. E voi vedete come sia difficile, in questa situazione, tirar fuori una classe dirigente, un capo. Parole molte. Ma dove sono i caratteri?
La diaspora dell’intelligenza Dalla subalternità alla intelligenza, seconda stazione della nostra sofferenza. L'intelligenza e noi. Il «cogito ergo sum» ridotto a «cogito ergo... fuori dai piedi». Le conseguenze di non aver capito che cosa è divenuta la funzione dell'intellettuale nella società, che cosa sono gli apparati della cultura nella realtà che viviamo. La categoria più numerosa oggi è quella degli intellettuali. Gli intellettuali che operano nel mondo della ricerca, della scienza, della produzione, sono i protagonisti del nuovo processo di trasformazione. E noi ... Si è gioito della cacciata di Marco Tarchi (mi vergogno ancora di quella azione da me condivisa); si è gioito della cacciata di Veneziani, da parte di Ciarrapico che, nella circostanza, avrebbe dovuto ricordare che la sua odierna straordinaria fortuna economica, è legata alle prime commesse di lavoro che il MSI gli affidò, generosamente, tipografo in Cassino, al momento del finanziamento pubblico dei partiti. Nessuna preoccupazione, nessuna domanda ci siamo posti dinanzi alla diaspora dell'intelligenza; come mai Monastra, Cardini, Melchionda, Buscaroli, Solinas, Accame, Del Ninno e altri si sono persi; nessuna attenzione a un Cattabiani che, se anche non fu in mezzo a noi, svolse un'opera egregia, negli anni di piombo, come Direttore editoriale della "Rusconi". Completamente dimenticato Giovanni Volpe.
* * * È doloroso chiederci da quali preoccupazioni partivano iniziative come quella di chiedere, nel dicembre 1980, l'intervento del Direttore generale della Rai-Tv, allora Willy De Luca, perché impedisse la trasmissione di Giampiero Mughini, "Nero è bello"; trasmissione che, insieme al Convegno di Firenze della "Nuova Destra" (27.11.1982), presente l'allora deputato comunista Cacciari, insieme alle grandi Mostre sul fascismo di Milano ("Anni '30" - febbraio 1982) e di Roma ("l'Economia italiana fra le due guerre: 1919-1939", settembre-ottobre 1984), organizzate da Amministrazioni di sinistra, contribuivano a sdrammatizzare il clima di odio e di persecuzione che aleggiava su noi. Erano operazioni di rientro nella realtà nazionale; nella propria storia che non ammette vuoti. La cultura e i ragazzi sprangati: c'è correlazione. Quando si sono chiusi i libri, quando l'intelligenza è stata espulsa, quando ci siamo voluti fare «altro» con Armando Plebe, la discriminazione ha raggiunto i livelli della ferocia. Ci hanno colpiti. Anche con la tecnica dello stragismo. È la svolta culturale che determina il passaggio ad una fase di tolleranza, di cui tutti, in primo luogo i nostri ragazzi, beneficiammo. Cosa è stato, se non l'approfondimento culturale, che ha chiarito, davanti alla pubblica opinione e negli stessi tribunali, come stavano le cose in tema di stragi e di terrorismo? Oggi Sanguinetti, intellettuale della sinistra, non teme di affermare che lo Stato italiano è stato l'organizzatore di tutti i grandi attentati commessi in questi ultimi anni.
Davanti alla salma di Enrico Berlinguer Eppure non erano mancati «episodi» fuori della norma, intelligenti, carichi di umanità, perché trasgressivi, eretici, densi di significato. Atti a costruire politica. Davanti alla salma di Enrico Berlinguer. Quel giudizio: perché è venuto? «Sono venuto a rendere omaggio ad un uomo che credeva alle cose che faceva». È un giudizio di profilo forte, per un uomo politico, in questi tempi. È di sapore gentiliano, direbbe il mio amico Franco Massobrio, quel giudizio. Quale messaggio da questo gesto trasgressivo? Se si ha l'avvertenza e la sensibilità di ricordare che, 16 mesi prima di morire, Enrico Berlinguer, trasgredendo lui stesso, si era inchinato alla memoria dell’«altro», il ragazzo missino Paolo Di Nella, ultima vittima di una stagione di violenza e di sangue?
* * * La vicenda ha in sé la forza di una svolta storica. Settant'anni sono trascorsi dalla scissione socialista del novembre 1914. Riflettendoci si ha una specie di vertigine, vertigine storica. Un improvviso cambiamento di clima, di universo. Ci catapulta oltre le misere vicende quotidiane, ci fa sentire altri. Guai se la Comunità non avverte simili sbalzi di temperatura! Se non capisce, se è pigra al valore di certi appuntamenti, se non ne capisce il senso! Mi direte: «Pacificazione», è un vecchio tema, risale al 1948. Mi direte: «gli anni di piombo non devono più tornare». Sì, d'accordo, ma restano risposte deboli. C'è qualcosa d'altro, e di più alto. Davanti alla salma di Enrico Berlinguer. Per comprenderne bene il senso, lo spessore dell'accadimento occorre «mettersi in ginocchio»: davanti all'Italia, alla sua storia martoriata, scissa. All'Italia che si è fronteggiata e si è scannata per le rispettive ragioni; per i rispettivi «sogni», di cui si intendeva incarnarla. C'è Antonio Gramsci a cui si tolgono i libri, si toglie la penna. Non deve pensare. Non deve scrivere. C'è Giovanni Gentile del "Sommario della pedagogia": «Un uomo è vero uomo se è martire delle sue idee, non solo le confessa ma le attesta, le prova, le realizza»; e dirà, prima di essere assassinato: «Non è importante vincere, importante è uscire dalla prova a testa alta, con dignità di popolo». Guardare l'Italia in ginocchio, questa Italia sanguigna, fiera, ribelle, tormentata sui libri che sono azione, costruttrice di storia; non l'Italia dei prudenti, dei pavidi, di coloro che scendono per strada a cose fatte, per dire: «Io c'ero». Guardare l'Italia in ginocchio. È il solo modo per sentirne i suoi propositi, capirne i suoi esiti storici, coglierne i suoi significati profondi che danno senso ad un'epoca, che danno senso alla vita, alla nostra vita, cari camerati. Perché ci siamo fatti comunità: per essere fazione? Quando Mussolini a Maderno ha parole di fierezza per i bersaglieri caduti a Montelungo dall'altra parte, a che cosa pensa, inginocchiandosi davanti all'Italia, se non ad una sua ricostruzione da parte di tutti gli Italiani che si battono perché si sentono vivi? Non certo ai prudenti.
Perchè ci siamo scannati? Ebbene, cari camerati, alle soglie del 2000 la storia d'Italia, dopo essere impazzita sotto l'imperversare delle culture delle rivoluzioni, dentro la quale la storia di ognuno di noi è stata marcata dal ferro e dal sangue; dopo averci, quella cultura delle rivoluzioni, divisi, frantumati, fino a farci perdere, in una fuga dalla storia che è durata quarant'anni, la propria dimensione di popolo; dopo le grandi «catastrofi» e i grandi «fallimenti», per cui è giocoforza, nel deserto che si è fatto, costruire punti di riferimento, stelle polari che ci guidino. Dopo i trapassi generazionali, dopo le febbrate ideologiche degli anni di piombo, il suicidio delle rivoluzioni (come direbbe Del Noce) per cui, distrutto il passato, non si è stati capaci di costruire il domani, nichilismo trionfante; dopo la sdrammatizzazione dei rapporti susseguente al secolo delle rivoluzioni, viviamo ora «La Fase della Rimeditazione e della Rivisitazione Storica». Siamo in questa fase. Perché? Perché? Perchè? Ci siamo scannati?
Ricomporre l'Italia scissa È il rientro, per tutti, nella propria storia che non ammette vuoti, che non ammette parentesi, con buona pace di Benedetto Croce, di Norberto Bobbio («impotenti» a creare l'evento creativo si vendicano, falsando la storia). È il recupero della memoria storica, il suo organico prolungamento nel presente. È la ricomposizione del pensiero politico scisso dal secolo delle rivoluzioni. È il superamento delle antitesi disperate, delle demonizzazioni reciproche. È, se me lo consentite, il titolo di nobiltà del «Documento», in cui, insieme ai miei amici, vi chiediamo di giudicarci. Politicamente è il rientro di milioni di italiani, fino ad oggi discriminati (40%, le due estreme); per essere utili al proprio Paese, a costruire, giorno per giorno, l'Italia. Contro coloro, i moderati, i tiepidi, i pigri, i prudenti che, facendosi forza, in modo innaturale e per volere dello straniero, dei temi della democrazia e della tolleranza, hanno tenuto in piedi gli steccati, impoverendo l'Italia, facendo della libertà limitata un punto di debolezza e non di forza e di vitalità della Patria.
La trasgressione Ma per ricomporre è sufficiente «pacificare»? Quel che è stato è stato, diamoci la mano, tutto risolto? Ci vuole la forza della trasgressione che è in tutta la nostra storia: novembre 1914, la trasgressione nazionale del socialismo; la ribellione di Fiume dannunziana, la RSI. La trasgressione (carattere dei tempi che viviamo; come allora: c'è da fondare il nuovo) deve essere proiettata in un Progetto, in una Proposta da offrire all'intero popolo italiano. È il punto più alto della nostra finora incompiuta missione. Il punto più spettacolare. Se questo è il tempo dell'immagine, il Progetto della ricomposizione storica degli Italiani, onde proiettare nel mondo un'Italia unita, forte, libera, con un suo destino; la sola che possa fronteggiare, nel lavoro, la competizione mondiale; questa è la «missione» forte da dare e da affidare alle giovani generazioni, ai nostri ragazzi. Non la fazione, non la setta, non i rancori, non gli odi, dietro ai quali i Popoli si perdono.
* * * La trasgressione, il pensiero forte. Una annotazione politica. Quel nostro 5,8%. Quel 94%, italioti per alcuni, «cog!ioni» per Giorgio Pisanò. È un 94% che sta dall'altra parte, da oltre quarant'anni, cioè un tempo sufficientemente lungo per dirci che nella costruzione dell'alternativa (a parte i voti per Rebecchini, Tupini, Cioccetti, Segni, Zoli, Tambroni, Leone, per Visentini, per Ligato, per Manca, per Andreotti -Inquirente: 8 marzo 1974-; il che fa ritenere che gli Italiani, in fondo, caro Pisanò, non siano tutti coglioni) ... qualcosa, dunque, non ha funzionato e non funziona in questa proposta di alternativa. Restiamo 5,8%. Da 40 anni. Sterili; significa che non ci siamo fatti capire. Pensiero debole. Pisanò: 5,8%, nel giusto; gli altri 94% nel torto. Questo è il mio fascismo, dice Pisanò. È commovente, è bello, provoca applausi scroscianti una simile affermazione; ma non si costruisce politica. Si costruisce la riserva; gli ultimi mohicani scriverebbe Alberto Giovannini; Mormoni; Testimoni di Geova. Fascismo! Sì, il gridarlo è bello. Ma vorrei sapere qualcosa di più: per esempio su quali basi, su quali vincoli, su quali legami, costruire la Comunità fascista degli Anni 2000. Faccio una sola domanda: è compatibile la RSI con quell'americanismo che, per stabilizzare gli equilibri politici in Italia, a favore del partito proconsole, si è servito -contro di noi- delle bombe? Siamo, o no, miei cari contradditori, una Nazione indipendente? Occorre rispondere a questa domanda.
* * * E dai temi forti a quelli più deboli: l'attenzione assorbente data al tema della sopravvivenza elettorale, alla topografia parlamentare, ci ha distolto, da tempo immemorabile, dal prendere in esame i fermenti culturali che fioriscono intorno a noi. I libri forti, sul nostro retroterra culturale, li scrivono gli altri. Ve ne siete accorti, cari, simpaticissimi contradditori? Mosse, Nolte, Sternhell, Gregor, i professori tutti di origini ebraica. Perché? Mi offro al linciaggio, è la sinistra culturale che studiando la nostra storia, i nostri tormenti ci dà robuste occasioni di ancoraggio per una visione «nazionalpopolare» del nostro possibile progetto, la Proposta.
Bombacci a Piazzale Loreto Mettetemi pure sul rogo, ma c'è un terreno che si scopre comune sia da destra che da sinistra (lo testimoniano Settembrini, Bocca, Del Noce, Melograni) e dove il sacrificio emblematico di Mussolini, Duce del Fascismo, e di Nicolino Bombacci, capo carismatico del Comunismo, appesi tutti e due ai ganci di Piazzale Loreto; con il declinare, sessant'anni dopo, con lo sciogliersi, sessant'anni dopo, dei PCI nello zucchero del diabete neo-riformista americano, nel cosiddetto mercato, quel sacrificio di Piazzale Loreto assume valore di proposta a tutto il popolo italiano. La politica dello sfondamento a sinistra non ha senso se non si sostanzia del significato del mito, di un mito popolare. Il mito popolare di Piazzale Loreto, ben diverso dalla vicenda dell'autoambulanza del 25 luglio 1943. Lo scenario di Piazzale Loreto è trasgressivo perché c'è, accanto a Lui, Nicolino Bombacci. Nell'ultima, drammatica riunione del 25 aprile, alla Prefettura di Milano, Bombacci, avvicinando Alberto Giovannini (è lui che scrive) dice: «"Caro Alberto, è la fine". Mi abbracciò. Era commosso. Non era la prima volta che era in quella situazione, lo faceva presente anche a Vanni Teodorani: "Anche a Tula nel 1919, eravamo nelle stesse condizioni. Ma allora però i bianchi erano pochi, e poi noi avevamo gli operai dalla nostra". Diceva così, tanto per chiacchierare. Era tutto perduto. "È buffo" diceva, come parlando a sé stesso, "la storia poi si chiederà: come mai in quegli ultimi momenti c'era con Lui Bombacci ... quel vecchio socialista?"». «E quando Mussolini lasciò Milano -è sempre Giovannini che scrive- per l'ultimo suo viaggio terreno, tutto era crollato, era giunto il momento del "si salvi chi può", il Duce era più solo che mai, neppure i tedeschi, che da diciotto mesi non l'avevano abbandonato un istante, erano sulla macchina: accanto c'era soltanto il vecchio leader del comunismo italiano, l'antico membro influente del Comintem, l'amico fraterno di Vladimiro Ulianoff, detto Lenin». «Si separarono a Menaggio e Bombacci fu fucilato unitamente ai gerarchi fascisti. Però quando Pavolini, ferito, diede l'attenti, gridò: "Viva l'Italia" e gli altri gli fecero coro, Bombacci tacque. Rimase fermo, con le mani in tasca, la sigaretta pendente, su quel volto di fauno, e un attimo prima della scarica fatale gridò, con voce un po' stridula: "Viva il socialismo". Poi si afflosciò al suolo con gli altri. Anche il Cavalier Mostardo sarebbe morto così», commenta Alberto Giovannini.
* * * Non abbiamo mai parlato di queste cose fra noi, se non per demonizzarci a vicenda, e lo faremo ancora, come se non ci appartenessero, o fossero situate in terreni proibiti. Eppure è carne della nostra storia. E per non averne mai parlato, e per non averci sopra meditato, forse perché troppo impegnati, fin dagli Anni '50, a mettere d'accordo la monarchia, il Vaticano, il mondo del denaro e della conservazione, con la RSI; l'aver considerata la scissione del PSI nel novembre 1914 (l'eresia nazionale del socialismo), una cosa trascurabile nella nostra vita, ne sono venute, senza che noi riuscissimo ad orientarci, le laceranti dispute «ma chi siamo?». «Cosa vogliamo?». Destra, sinistra, ortodossia, eresia, tradimenti; il nostro quarantennio delle dispute. Non abbiamo mai messo ordine nelle nostre idee. Siamo «oltre», si afferma, siamo l’«unita opposizione», siamo «l’alternativa al sistema». Ma nei comportamenti, nei fatti, nella simbologia, siamo «destra». Una destra, bisogna dirlo, che, per volontà di tutti (destra prudente e plaudente), ha avuto dentro la più alta percentuale di massoni e di uomini dei Servizi; rischiando di annoverare nelle sue file Michele Sindona. Abbiamo, nel momento più acuto dei nostro smarrimento culturale e della nostra emarginazione nella opinione pubblica, in contemporanea al miglior successo nel Palazzo (il 1972 che piace tanto agli amici di "Destra in Movimento"), abbiamo, dicevo, allungato il nostro nome: MSI, MSI-DN, MSI-DN-Costituente di destra, perdendo via via di significanza. Il che faceva dire ad Adriano Romualdi, alla domanda perché la contestazione aveva finito per incanalarsi sui binari dei marxismo, «perché dall'altra parte non esiste più nulla, c'è una destra fossilizzata nelle trincee di retroguardia del patriottismo borghese, incapace di agitare il grande mito di domani, il mito dell'Europa; una destra seppellita sotto un cumulo di qualunquismo borghese». Se ci fate caso, nel momento in cui le cose all'interno, e gli avvenimenti mondiali, ci danno ragione, noi siamo spariti dal dibattito politico; ci serviamo di categorie mentali che, risalenti a quarant'anni fa, non ci aiutano a capire il mondo. Attardati.
La scissione del PSI nel novembre 1914 E veniamo al tema più propriamente politico. Bettino Craxi, aprendo i lavori del Congresso dei PSI nell'aprile scorso, inizia con queste parole: «Sapeva bene Carlo Rosselli che l'errore più grande dei PSI, per quanto nato dai moti e dai fermenti risorgimentali, era stato proprio quello di non aver saputo fare i conti né con il Risorgimento, né con la Nazione. Invece di farsi popolo i socialisti si restrinsero sempre più nella classe, rinunciando al patrimonio risorgimentale in cui affondavano le proprie ragioni dimenticando le parole e gli insegnamenti degli Eroi che avrebbero dovuto essere loro«. «L'errore più grande del PSI è quello di non aver saputo fare i conti con la Nazione, di essersi fatto classe e non popolo». La scissione del novembre 1914, l'eresia nazionale del socialismo, la piazza che ha ragione del Parlamento, ed è la guerra per Trento e Trieste. Se il PSI ha torto (e lo si riconosce) ha ragione Mussolini. Il partito della cultura, eccetto Benedetto Croce, è per la guerra, compresi gli ordinovisti torinesi Gramsci e Togliatti, l'ultimo interventista intervenuto insieme a Giuseppe Di Vittorio, già collaboratore de "Il Popolo d'Italia". Il fascismo -piaccia o no- nasce da questo fatto culturale. È fatto culturale. Se di illegittimità storica si può parlare di questa Repubblica è la pretesa di ritenerla fondata, in un conflitto di classi e di valori, contro una escrescenza innaturale e malefica, da estirparsi. No, il fascismo è storia di tutti. Infatti -fateci caso- tutte le volte che la coscienza nazionale ha un sussulto, i conti si devono fare con il fascismo. Sigonella. Giorgio La Malfa: «... sì, sì, è vero, anche nel 1935, contro la perfida Albione ci fu consenso intorno al fascismo. Ma la ragione da che parte stava?» Si incaricò di rispondergli sulla prima pagina de "l'Unità" (non del "Secolo d'Italia") il poeta Giovanni Giudici: «No, onorevole La Malfa, la ragione era dalla parte nostra, dell'Italia, anche se allora vestivamo la divisa di balilla e avanguardisti». Quando spunta fuori la Nazione i conti, piaccia o no, si devono fare con il fascismo ...
Il colloquio con gli altri Mi devono dare atto gli amici estensori di tutte le altre mozioni che, a diversità di loro, "Proposta Italia" non teme di scendere sul terreno impervio, pieno di insidie, del colloquio con gli altri. Lo pone il problema e ne fa l'anima del dibattito e qui sta il coraggio, direi il carattere di Domenico Mennitti. Io lo pongo, dando una mia versione che si guarda bene dall'essere ritenuta la sola valida, anche all'interno della mia area. Vi sono camerati che non la pensano come me. Però su un punto siamo concordi: la questione del colloquio con gli altri non può essere elusa, pena vanificare questo nostro incontro congressuale. Della scissione dei novembre 1914 dobbiamo dire se è superata o no. Ci sono varie risposte al riguardo, circa il colloquio con gli altri. Cerchiamo di ragionare. Liberandoci, una buona volta, dei termini ultimativi, delle demonizzazioni, degli anatemi che sono, se ci pensate bene, dei comodi alibi che ci dispensano da pensare. È il massimalismo di destra che torna a manifestarsi così come si è manifestato alla vigilia di ogni «emergenza» elettorale: non avendo un disegno politico, un progetto, la pesca delle occasioni. Per stupire, per meravigliare, per dare spettacolo: l'ammiraglio, la pena di morte, il divorzio, i bassi napoletani, i bottegai, le elezioni anticipate. La meraviglia, se non abbiamo costruito dietro un buon retroterra politico, dura lo spazio di un mattino. Comizi numerosi, piazze piene, poi il 5,8%. Molti giovani scioccati, ma poi delusi. Che cosa ci è rimasto? Siamo al limite della sopravvivenza se dovessero passare certe proposte di riforma elettorale. Lo stesso massimalismo ora, con l'assunto perentorio, comodo alibi: dobbiamo guardare, puntare alla società civile, non al Palazzo. Poi, in sede concettuale, la contraddizione: lo Stato viene prima della Nazione. Sì, d'accordo, ma come la risolviamo la vistosa incoerenza che, per entrare nel Palazzo, alla Società che del Palazzo ha le chiavi, ci rivolgiamo con delle contraffazioni, prima fra tutte quelle di dare vita e spettacolo, per entrare nel Palazzo, a furibonde lotte per i voti preferenziali che nulla hanno da invidiare ai più smaliziati marchingegni tipici della partitocrazia. Il partito -qui davanti a me- ne è testimone. E ne è adirato, giustamente adirato. Siamo arrivati, vedi l'episodio che è costato il seggio ad una persona pulita, il senatore Finestra, a vicende incredibili, anche nel loro seguito; si sono premiati i protagonisti. Come si fa a scrivere che privilegiamo il Popolo al Palazzo quando, e uso una espressione cortese, ci rivolgiamo al Popolo con il pensiero debole che, essendo ormai comune a tutti gli altri, ci fa essere, non eguali, ma peggio degli altri, come nella sua relazione, anche recentemente, al Comitato regionale siciliano, ha scritto a chiare lettere Dino Grammatico? I prudenti, il caporalismo non si adattano alla politica: «Prima il Popolo, poi il Palazzo».
* * * Con quale «progetto» si va in mezzo al popolo? Se leggo i documenti, intelligenti, trovo indicazioni sacrosante ma, me lo consentano i carissimi amici, scontatissime e comuni a tutti gli schieramenti riformisti; dalla DC al PCI. Lo sfondamento a sinistra è di tipo elettoralistico, non è strutturale, non è corredato da un disegno politico. «Sei in crisi, compagno, vota per me!». È troppo poco. Perché dovrebbe votare per noi? Che cosa gli offriamo di forte che già non sia nel patrimonio dei "Verdi" e dei "Radicali"? Non si può pretendere che l'assenso avvenga così per miracolo, dopo settant'anni di conflittualità, e che conflittualità! Privilegiare la società, non il Palazzo. Ma con quale strategia -faccio un esempio- negli Enti locali? Anche qui adotteremo il massimalismo del gesto inteso a meravigliare? Buttiamo in faccia i voti all'avversario? E poi? E poi vengono i casi di Napoli. Una sorta di disperazione politica: essere senza progetto. Oppure, mi rivolgo agli amici circa il Palazzo, in cui stanno e, spesso, «non vedono, non sentono, non parlano» come le tre scimmiette, oppure dare ad addivedere che, insomma, con qualche poltrona, tutto è risolto? (Queste poltrone che non ruotano mai). Ma questo non è costruire politica, è costruire intrallazzi. È la china, lungo la quale il partito ha perduto molto del suo stile. Oppure ritenere che tutto, nel tempo vada, a posto stilando una Costituzione perfetta in tutti i suoi articoli (oltre 100). Si dice: è destinata al Popolo, non al Palazzo. A parte che ci sdilinquiamo, ci viene lo zucchero alla bocca quando, in qualche nostro Convegno studi, fanno capolino gli uomini del Palazzo, e il "Secolo d'Italia", compiaciuto, ne registra la presenza, resta che quella perfetta Costituzione, con il 5,8% non riesce a decollare. E ci sentiamo dire dal prof. Fisichella che il tutto è predisposto come cortina fumogena perché impotenti a fare una scelta di campo. Per affermare quella Carta occorrono soggetti politici in grado di farla valere. Ma dove sono? La Riforma costituzionale è possibile se diventa passione, ma se, invece della passione, trasmetto al popolo valori capovolti; se faccio vedere che, nei comportamenti, sono più partitocratico degli altri, come faccio a rendere credibile la predicazione, fra il popolo, della Nuova Repubblica? Oppure la politica urlata, quella degli insulti. Rivolta in particolare a coloro che, sul tema della Nazione e della Grande riforma, sarebbero i più vicini alle nostre importazioni di sempre: Caporetto! Misiano! Disfattisti! La storia italiana degradata ad elenchi di reciproche carognate. È anche questa una forma di massimalismo: inchiodare gli avversari ai propri errori di settant'anni fa. O non hanno fatto per quarant'anni verso di noi altrettanto? Cosa c'è al fondo di questo massimalismo, molto popolare (lo devo riconoscere) fra noi? L'inconscio desiderio di avere avversari sempre più criticabili, sempre più spregevoli. Perché? Per vederne rafforzati i motivi del proprio isolamento nel ghetto. La paura di navigare nei mari aperti. Restare una «riserva». Chiusi, dal di dentro. È una manifestazione di impotenza, di comoda rassegnazione. Il partitino dei vinti, non la grande Comunità messa su, nel 1946, per il riscatto degli Italiani, di tutti gli Italiani, comunque avessero combattuto. Eccetto i prudenti, coloro che prediligono le finestre. Stare alla finestra. Questa costruzione di una strategia di concreta proposta nazionale pone due interrogativi che vanno affrontati con chiarezza: a) - vi sono dei rischi per la tenuta interna ed elettorale del partito? b) - perché la proposta del dialogo nelle mie parole si orienta a sinistra? Il primo quesito. Il partito non merita la sfiducia che è sottintesa all'istinto autodifensivo che porta a tenere chiusi i cancelli del ghetto all'interno, anche quando questi non sono più sbarrati dall'esterno, per paura che la Comunità si sfasci appena venuta meno la tensione dell'isolamento. Il partito corre dei rischi nel prolungare troppo la propria autoconservazione. Oggi che la persecuzione si attenua, la coesione -che può venir meno- deve essere ricostituita da un Progetto; chiarire l'offerta che facciamo al Paese, renderla convincente con una strategia e con una proposta volta all'avvenire. La classe dirigente periferica ne sente il bisogno. Perché verso sinistra? Perché la sinistra è più accessibile a un discorso culturale progettuale. Brancola, barcolla, balbetta: miglioristi, riformisti, monetaristi. Trovano, incontrano il denaro, non la Nazione. C'è uno sconfinato terreno aperto di discussione sulle cose forti. La DC, partito di potere, sente meno il discorso culturale, tuttavia, una volta rotto il sigillo della discriminazione, si apre anche in questa direzione un processo emulativo. Dialogare non significa sbracarsi; significa misurare e responsabilizzare il proprio linguaggio e le proprie capacità di analisi. Camerati, amici, guai rendersi inutili alla Patria! Incapaci di cogliere e di sostenere con il dialogo i primi segnali tricolori che ci giungono dalla stessa famiglia da cui uscirono Corridoni e Mussolini, Pascoli e De Amicis, Nicola Bombacci e Panunzio.
Per costruire il progetto Il nostro documento affronta, a viso aperto, questo problema: il colloquio con gli altri. Allora questa scissione del novembre 1914 deve ritenersi ancora aperta, o no? Se Craxi afferma che il più grande errore del socialismo fu quello di dimenticare la Nazione, di farsi classe e non popolo, dobbiamo far finta di nulla, continuare a gridare: «traditore!»? Capitò anche a Mussolini, due volte. Nei giorni dell'intervento: «Cosa viene a fare quello lì che faceva il disfattista alla guerra di Libia?» Quel «traditore!»; nel 1921, durante il tentato patto di pacificazione con i socialisti. Gli squadristi della mia Toscana, espressione della borghesia agraria, a me non simpatici, cantavano: «Chi ha tradito, tradirà. A Benito Mussolini botte, botte, in quantità». Il Progetto da offrire all'Italia, 40 anni dopo la fine della guerra e della guerra civile. Nella riscoperta dell'identità nazionale la ritessitura della propria Storia con la verifica, sul piano delle idee, delle possibili concordanze. Far crescere nell'altro le tendenze, i temi che più si avvicinano alle nostre idealità. Indicare per l'Italia, a 40 anni dalla sconfitta, delle mète, un destino. Obiettivo immediato: scavalcare la Francia come 4ª potenza industriale del mondo; presenza attiva nel Mediterraneo; rafforzare, insieme alla Francia e alla Germania, il nostro ruolo in una Europa concepita e sognata fino agli Urali. Libertà intesa non come reciproca paralisi, ma come energia, come forza creativa della Nazione che, nella competizione mondiale del lavoro, deve presentarsi come un prorompente modello di efficienza -faccio per farmi intendere- «alla giapponese». Piantare bandierine tricolori del lavoro italiano in tutto il mondo. Il nazionalismo moderno, spirituale, diverso dall'antico: superare i Popoli con una grandezza che non si misura in territori; con una forza che le armi non bastano ad esprimere.
* * * La grande riforma delle Istituzioni che, nel ritrovato ruolo dell'Italia nel mondo, sia intesa come passione popolare, l'Italia di tutti, e per la quale, essendo di tutti, tutti lottano, lavorano, gioiscono. Con lei, l'Italia.
La Comunità di tutti gli oppressi MSI: la Comunità delle identità minacciate -come direbbe Veneziani- a difesa del Borgo, della Cattedrale, del Fiume, del Mare, dell'Albero, del Vecchio, della felicità da costruire per la donna, della Fiaba, di Dio, il Cristo delle Cattedrali, il Grande Dio bianco e virile, un Re, Figlio di Re, come scriveva Drieu La Rochelle; accanto all'Afghanistan, ma con la stessa passione e commozione accanto alle 40.000 Famiglie argentine i cui figli sono stati massacrati dalla dittatura militare. Nessuna demonizzazione della modernità, ma per l'Uomo e in nome dell'Uomo, no al Dio denaro e all'economia come destino; fra i compiti quello di rappresentare una sovranità popolare superiore al potere del denaro. MSI: la voce di tutti gli oppressi. Costruire uomini, non i prudenti, non i maneggioni, non i caporali. Essere liberi, trasgressivi, eretici. E quando ci vuole, ribelli. Gennaio 1944, ... il grande signore di Regime Fascista, Roberto Farinacci, scrive: «Qui da noi non vi può essere che una sola Repubblica, quella fascista!». «Sbaglia», gli rispondevano i giovani repubblicani de "Il Campano di Pisa", «sbaglia. La Repubblica dovrà essere, da noi, la migliore, e non per forza la fascista ... Si ricordi che le armi le abbiamo impugnate per una causa superiore ad ogni partito». Gennaio 1944, in piena RSI. Questa è la RSI. Il mondo dei «repubblichini» gioca tutto sé stesso sul banco di un azzardo storico: l'avventura di chi, pur impegnato a combattere, disegna, percepisce, intuisce, sogna una realtà politica di Superamento, al di là dello stesso Fascismo, al di là delle vecchie consunte categorie di destra e di sinistra, in nome dello Stato Sociale che si pone come Stato di tutti e che chiede sacrifici e promette un destino nella misura in cui è Stato di tutti. Oltrepassando le antitesi, la RSI può diventare l'Italia. Di tutti. RSI: c'è Roberto Farinacci, l'intransigente; c'è Rolandi Ricci, l'antifascista, il giurista insigne; c'è Alessandro Pavolini, mistico, la religiosità della sua fede, vuole vestire i Soldati della tuta dell'operaio; c'è il filosofo Edmondo Cione, antifascista, crociano, fonda, d'accordo con Mussolini, il "Raggruppamento Socialista", il partito d'opposizione al PFR; c'è Carlo Borsani, cieco di guerra, che, con Mussolini, cerca il colloquio con i socialisti, senza riuscirci per la cecità e la bestialità dei socialisti di allora; c'è Don Calcagno che sogna una Chiesa nazionale svaticanizzata, c'è l'anarchico Pulvio Zocchi; c'è il socialista Carlo Silvestri, c'è Concetto Pettinato, filo-sovietico, assertore di una pace separata con la Russia; c'è la "Decima Mas" che fieramente combatte ma che, altrettanto fieramente, in nome delle sue insegne di sempre, dice di no all’ordine che i suoi Reparti vestano la camicia nera; ci sono i tradizionalisti di "Italia e Civiltà", ci sono gli ultimi dannunziani in cerca della bella avventura.
Ezra Pound e Filippo Tommaso Marinetti L'Italia di tutti, lì dentro, a soffrire, sognare, combattere. Ciascuno con la propria storia di ieri. Cantata da Filippo Tommaso Marinetti e da Ezra Pound; il primo, fondatore del futurismo, la più grande avanguardia letteraria europea e mondiale; il secondo, il più grande poeta del mondo moderno. E sarà Ezra Pound a salutare Marinetti nel primo dei due "Cantos Pisani" scritti (racchiuso in una gabbia da cani) vicino a Pisa in italiano per onorare la disperata battaglia della RSI. «Dopo la morte mi venne a trovare Filippo Tommaso Marinetti dicendo: "Beh, sono morto, ma non voglio andare in Paradiso, voglio combattere ancora ...» E qui Pound ricorda di Marinetti la sua ultima composizione dedicata, prima di morire, alla Decima Mas: «Non vi grido arrivederci in Paradiso che lassù vi toccherebbe ubbidire all'infinito amore purissimo di Dio, mentre ora voi smaniate dal desiderio di combattere ... Avanti Autocarri!». Bastano questi messaggi di grandi Poeti, il loro rifiuto, nella notte della rivoluzione fascista (Pound sconterà con 12 anni di manicomio criminale la sua battaglia del sangue contro l'oro); basterebbero questi messaggi, basterebbe l'ultimo libro-testamento di Giovanni Gentile, "Genesi e struttura della società", per immortalare quei drammatici mesi tra il 1944 e il 1945 come uno dei punti più alti nella cultura del secolo. Che cercano i vari Occhetto, i vari Natta, i vari Napolitano; che cercano, quale rivoluzione, quali idee-forza da iniettare nel corpo esangue del comunismo? Che cercano? La vicenda Guttuso li interpreta. Fedelmente. Non furono rivoluzionari, non lo saranno più. Ausiliari del capitalismo, dell'americanismo. Restauratori. Inghiottiti tutti in uno stesso ignobile pappone neo-capitalista, socialdemocratico; in una stessa melma moderata, dove il gulasch sovietico si dissolve nella coca-cola.
L'Italia guardata in ginocchio: l'Italia di tutti Gli eredi delle passioni che incendiarono il mondo stanno qui, in questo mondo; alla condizione che questo mondo, anziché perdersi dietro lo 0,8% in più o in meno, sappia guardare nella sua storia, intrisa di sofferenza, sangue, poesia, passione, arte, cultura, la storia di tutti, anche dell'altro. In nome dell'Italia di tutti. Ho detto che l'Italia, per comprenderla, va guardata e amata in ginocchio. Specie quanto più infierisce, quanto più ci colpisce. È vero: ci fa bestemmiare, spesso. Non perché ci fa soffrire, ma perché la vorremmo, come diceva Berto Ricci, più rigida, più attenta, più macra, vicina alla perfezione dei Santi.
* * * Che accadrà, cari camerati? Questi partiti, diventati cinici, sono destinati a morire. Non c'è via di scampo. Cosa sopravviverà dopo di loro? Sopravviveranno coloro che sapranno essere il contrario di ciò che sono oggi i partiti, coloro che riusciranno ad esserne l'antitesi netta e radicale. Un'altra cosa. Chi saprà essere, pur diviso nelle idee, amicizia, strumento di una amicizia. Il grande capolavoro da compiere: creare noi un pezzo di società cambiata. Essere altro. Non con le declamazioni, con i manifesti, le contraffazioni. Ma con le opere, con l'esempio. Se riusciremo a costruire questo pezzo di società cambiata, cari camerati, avremo i numeri per vedere l'avvenire. Dobbiamo farcela. Giuseppe Niccolai |