"Secolo d'Italia", 26 giugno 1977
Per gentile concessione dell'Istituto di Studi Corporativi
pubblichiamo la prima parte di un saggio dell'on. Giuseppe Niccolai,
nel quale sono messe a fuoco le caratteristiche del sistema politico
vigente in Italia e puntualizzati i motivi ed i termini della
opposizione del MSI-DN come partito di alternativa. Il saggio sarà
ospitato integralmente dalla "Rivista di Studi Corporativi" |
Perché siamo
contro questa «democrazia» che è degenerata nel feudalesimo e tende
al dispotismo
Beppe Niccolai
«Il potere decisionale si è spostato fuori del
Parlamento, nonostante la scarsa rappresentatività dei partiti. In
Italia ci sono 50 milioni di abitanti, gli iscritti ai partiti si
aggirano intorno ai 5 milioni, gli attivi nei partiti sono sì e no
500 mila, dei quali la maggior parte ai bassi livelli decisionali.
In sostanza il sistema si regge su un potere oligarchico
centralizzato. La lotta politica è lotta di oligarchie: dobbiamo
avere il coraggio di dirlo. Gli altri, i più, assistono frustrati,
sono "esclusi". La politica si fa nelle botteghe o, peggio, nei
retrobottega e nel sottobottega. Molte cose non affiorano in alcun
modo. Il cittadino operoso, l'uomo della strada, è tagliato fuori
anche quando il suo valore sociale sia alto. C'è un'alienazione
completa. La democrazia non è questo»
prof. Aldo Sandolli, ordinario all'Università di
Roma, già presidente della Corte Costituzionale, nel corso della
tavola rotonda su "La Costituzione e la crisi" organizzata dalla
rivista "Gli Stati" nel dicembre 1972 |
Il Sistema in Italia si basa su quattro pilastri: partiti politici, enti
economici, i sindacati, Regioni ed Enti locali. I rapporti fra il cittadino e lo
Stato, siano questi rapporti politici, culturali, economici, sociali,
amministrativi, cioè in breve l'esercizio della libertà, sono condizionati dalla
presenza di questi fattori.
Nessun cittadino in quanto singolo, può esercitare il suo diritto o godere della
sua liberta se non attraverso questi fattori. Lo Stato, a sua volta, non può
manifestare la sua sovranità verso i cittadini se non tramite di essi.
Il rapporto naturale cittadino-Stato subisce l'intermediazione di questi fattori
che vengono ad incidere sia sulla sovranità dello Stato, sia sulla libertà
individuale.
Di conseguenza quando si paria di «democrazia» di «Stato democratico» o si usano
termini similari si deve intendere «questa democrazia» la quale non è
evidentemente, né la democrazia quale è teoricamente intesa né la democrazia
quale vorremmo che essa fosse. Nei confronti della democrazia italiana si pone
come una forma «sul generis» che potremmo definire «partitocratica».
La nostra polemica, essendo polemica politica, si afferma contro «questa
democrazia» partitocratica che, in quanto tale, ha travolto la Costituzione,
dando vita ad un sistema politico scarsamente espressivo e sostanzialmente
repressivo e dove l'obiettivo finale è la scomparsa della opposizione.
Nella sua concreta manifestazione la democrazia dei partiti, degli enti
economici, dei sindacati e degli enti locali si realizza in una forma di
«feudalesimo moderno», in quanto l'intermediazione dell'esercizio di tutte le
attività del cittadino, quindi delle sue libertà, viene regolato non dalle Leggi
dello Stato ma dall'interesse dei mediatori. Analogamente la sovranità dello
Stato viene usurpata ed espropriata da questa intermediazione che la esercita a
suo beneficio. La lotta per inserire nelle «strutture» questi fattori è il
tentativo di istituzionalizzare «di fatto» questo feudalesimo, tentativo già in
parte realizzato.
La complessità dello Stato moderno rende assai più difficile che nel passato il
rapporto diretto fra lo Stato e il cittadino. Questa difficoltà, che già rendeva
problematica la esistenza di una democrazia in Stati a struttura più elementare,
poteva essere superata, almeno in parte, a condizione di uno sviluppo parallelo
della statura civile, economica, sociale, culturale e amministrativa dei
singoli.
I partiti, gli enti economici, i sindacati, le autonomie locali, non solo non
favoriscono questo sviluppo della coscienza politica, economica, sociale,
culturale, amministrativa del cittadino, ma la mortificano, rendendo sempre più
difficile il rapporto con lo Stato, sempre più ridotto il senso della libertà,
sempre più tenue l'esercizio della sovranità.
Precisiamo anzitutto che quando noi parliamo dei partiti intendiamo riferirci a
ciò che essi sono realmente in Italia e non a ciò che essi potrebbero essere o
dovrebbero essere o a ciò che essi sono in altri Stati.
I partiti politici italiani sono caratterizzati da due fattori fondamentali:
l'IDEOLOGIA
l'ORGANIZZAZIONE.
L'Ideologia dà ai partiti una arroganza metafisica paragonabile al diritto
divino su cui si fondava il potere aristocratico feudale e, in certa misura,
alle verità rivelate su cui si basano le Chiese.
«Il nostro sistema politico non si dimostra In
grado di imprimere alla società una direzione politica, d'orientare
il sistema economico, di programmare l'attività legislativa. Il
potere si arrampica su se stesso e si è trasformato da assetto
istituzionale entro il quale ha luogo la produzione di risorse
crescenti, in centro di accumulazione e sperpero di risorse che la
società produce»
prof. Giorgio Galli, docente di storia delle
dottrine politiche all'Università di Milano, nell'opera "Dal
bipartitismo imperfetto alla possibile alternativa", Il Mulino |
I partiti, Stati nello Stato
Per effetto dell'ideologia cosi intesa il partito cessa di essere uno strumento
per il perseguimento degli interessi politici dei cittadini e diventa una verità
astratta per il raggiungimento della quale i cittadini diventano strumenti.
Il partito dispensa la verità ai cittadini in nome di un dogmatismo canonico
indiscutibile, ne indirizza i giudizi, ne disciplina le attività, ne interpreta
gli interessi.
L'organizzazione dà ai partiti una struttura e una potenza teocratico-statale.
Essa viene organizzata come quella dello Stato, con un suo esecutivo, un suo
legislativo, un suo giudiziario. Si dirama lungo tutto il tessuto nazionale; a
livello regionale, provinciale, comunale e, nelle forme più evolute, investe
tutte le forme di attività militari, economiche, giudiziarie, amministrative.
Nelle forme più perfezionate la sovranità dello Stato si trasferisce e viene
esercitata dai partiti, mentre allo Stato resta, come in un simulacro vuoto, la
semplice parvenza del potere.
Per il cittadino è più agevole trascurare la legge dello Stato che la volontà
del partito. Come in tutte le forme feudali, allo Stato, al principe resta la
titolarità nominale del potere ma l'esercizio effettivo si trasferisce nel
barone (il partito).
La stessa divisione dei poteri, apparente nella forma costituzionale, visibile
negli organi dello Stato, scompare nella realtà dinamica del partiti.
È il partito che, nei suoi organi, stabilisce l'azione dell'esecutivo e le
deliberazioni del legislativo e dirige le decisioni del giurisdizionale.
È nel partito che si regolano i controlli, si nominano i controllori e si
dirigono i controllati.
Parlamento, Governo, Magistratura, Burocrazia, Giurisdizione amministrativa,
civile, penale, Esercito, Polizia, tutto viene progressivamente avviluppato,
influenzato in una mostruosa unitarietà di fatto, e per il cittadino è finita,
Il partito si pone come uno Stato nello Stato così come uno Stato nello Stato
era la baronia feudale.
Imprigionato nella sua dottrina e nella sua disciplina (credi, obbedisci e
vota), il cittadino, lungi dall'acquisire quella espansione spirituale e quella
ginnastica libera che è richiesta dalla complessità dei rapporti politici
moderni, si immiserisce nel conformismo, nella paura, e nel servilismo, perde il
gusto e l'orgoglio della sua personalità, teme l'isolamento, paventa la
minoranza, diventa incapace di qualunque decisione o azione autonoma.
L'uomo sparisce nell'apparato; la sua pace è nel collettivo, il suo orgoglio
nella maggioranza. La libertà, deviata dall'esercizio del diritto, si perde,
diventa arbitrio. L'unica cosa da rispettare: le regole del partito. Chi le
viola, è perduto.
Questo oggi è il partito politico nella sua realtà: non è più movimento di
opinione. È caserma, totalitaria caserma.
La nostra critica si riferisce a questi partiti.
«Quando ci troviamo ad avere a che fare con un
sistema in cui non succede più niente e l'equilibrio dei partiti
impedisce di prendere decisioni, non possiamo più chiamarlo
democratico. Un governo che non governa, non può mostrare alcun
risultato allo scadere del suo mandato. La grande decadenza della
democrazia moderna è causata dalla mancanza di decisioni,
dall'"immobilismo", dall'impotenza politica cui l'hanno condotta la
molteplicità dei partiti e le loro controversie»
Michael Freund, docente di scienze politiche
all'Università di Kiel, nell'opera collettanea "La democrazia alla
prova del XX secolo", Il Mulino |
Lo spreco istituzionalizzato
La logica dell'edonismo, intesa quale perseguimento del profitto, ha spinto alla
ricerca dello strumento più idoneo per superare gli ostacoli che ad esso si
opponevano.
Legata all'uomo che l'aveva originata, l'attività economica ne subiva le
limitazioni. Limitazioni nel tempo, essendo legata al breve ciclo della vita
umana; limitazioni nello spazio, limitazioni, soprattutto, nell'essenza stessa
dell'uomo troppo soggetto alla influenza dei sentimenti e dello spirito che ne
distraggono gli atti verso orizzonti non strettamente economici e, spesso,
dichiaratamente antieconomici.
Lo strumento solamente e puramente economico è la azienda razionale, la ditta,
la società, l'ente illuminato nel tempo, più libero nello spazio e libero da
ogni impaccio etico e sentimentale.
Il capitalismo, come tale, sorge con la creazione di questo strumento. Per la
sua stessa logica lo strumento non solo si svincola dall'uomo e dalla natura
etica, giuridica e sentimentale che lo informa, ma che lo subordina ai suoi
fini.
Lo strumento diventa finalità astratta alle cui esigenze l'uomo deve essere
dimensionato. Forte di questa sua astrattezza razionale e della sua stabile
vasta e rigida organizzazione, l'Ente economico, si avventura nella dinamica dei
rapporti con tutte le componenti della Società. I suoi interessi si mutuano, si
intrecciano, si collegano con quelli dello Stato, dei partiti, delle autonomie.
Nel perseguimento del profitto e per il perseguimento del profitto tenta di
subordinare tutti ai suoi fini con la sua arma naturale: il denaro.
L'ultimo anello dell'evoluzione degli Enti economici è costituito, in Italia,
dagli Enti di Stato.
Nella sfera economica essi si pongono come i partiti nella sfera politica.
Il progressivo estendersi del fatto economico quale elemento fondamentale della
vita moderna e le crescenti responsabilità dello Stato in questo settore e la
graduale inidoneità dagli uomini ad assumersi, anche in questo campo, la
responsabilità di un rapporto diretto giustificano ed agevolano il sorgere e il
potenziarsi di questi elementi di intermediazione. Essi acquistano finalità
pubbliche, sovranità, dominio, indipendenza, predominio rispetto ai cittadini ed
allo Stato. L'attività economica, come nella sfera politica, viene nei singoli
diminuita e mortificata. Come i partiti politici anche gli Enti economici hanno,
come metastasi, la naturale esigenza ad espandersi.
DI qui nasce la loro alleanza con i partiti ai quali elargiscono potere
finanziario in cambio dell'appoggio politico. Sull'usurpazione della sovranità
dello Stato e sulla oppressione dei diritti dei singoli nascono così le baronie
economiche.
La natura dell'Ente economico è varia e si estende per tutta la gamma delle
sfumature dal perseguimento puro e semplice del profitto sino al perseguimento
dei fini etici. Nell'Ente economico di Stato il fine edonistico si fonde con le
finalità etiche dello Stato.
Nell'impossibilità di perseguire le sue finalità edonistiche l'Ente di Stato si
giustifica con il finalismo dei suoi scopi etici e nell'impossibilita di
raggiungere questi ultimi oppone le esigenze delle sue mete economiche.
Ciò gli consente volta a volta di avvalersi della sovranità e dell'autorità
dello Stato e della cinica duttilità del dinamismo mercantile avvalendosi della
solida base di un mancamento pubblico che lo mette al riparo dai rischi
dell'attività economica. In realtà il finalismo degli Enti finisce per non
essere né etico né economico ma puramente politico-clientelare.
Quale sia l'influenza degli Enti economici sulla vita democratica appare oggi
con ogni evidenza attraverso la lotta, in un mare di sprechi, puramente feudale,
che si svolge fra di essi per le investiture e per l'acquisto di privilegi e
sfere di influenza e nella lotta, non meno sintomatica che essi conducono, volta
volta, per acquistare influenza politica e per appoggiare le azioni dei partiti
che si ripromettono di ricambiarne l'alleanza con accresciuto prestigio. È una
lotta a coltello, che non risparmia nessuno, con teste che cadono e altre che
salgono. Il PCI, giunto per ultimo nella area del potere, si comporta come gli
altri, peggio degli altri.
L'intrico dei rapporti per questi Enti, la mole del potere finanziario di cui
dispongono, i collegamenti fra loro e le altre forme feudali politiche, sociali
e amministrative, sono una delle caratteristiche salienti della cosiddetta
democrazia «all'italiana».
La triplice contro la partecipazione
Le forze de! lavoro sono rappresentate dai sindacati. È stato scritto che
nemmeno i Sindacati, come i partiti, svolgono un ruolo «fisiologico» più che
portare la voce dei lavoratori ai loro vertici, essi inquadrano, controlla,o e
spesso spengono la protesta dei lavoratori e costituiscono così delle cinghie di
trasmissione verso la base del potere economico politico (cioè del regime) che,
in tal modo, neutralizza la protesta e ricostituisce il suo equilibrio. Le
tensioni e le polemiche che ogni tanto si riproducono non arrivano mai a
conclusioni di rottura, e puntualmente e disciplinatamente, tra richiami
reciproci al «senso di responsabilità», le vertenze si compongono.
Nei momenti di crisi come questo si scopre il ruolo profondamente alienante di
queste costituzioni corrose dalla partitocrazia e che pure in se dovrebbero
essere strumenti di partecipazione. I famosi scollamenti fra base e vertice
denunciati oggi in partiti e sindacati sono fenomeno logico e abituale. Solo che
vengono avvertiti e denunciati soltanto nei momenti difficili, quando ci si
rende conto più direttamente che il sistema di delegare continuamente il potere
(ai partiti, ai sindacati, agli Enti economici, agli Enti locali) non paga, non
rende, non conviene.
Noi pensiamo che si debba andare più in là. Anche qualora la crisi economica non
sussistesse, e partiti e sindacati potessero svolgere tranquillamente il loro
ruolo di enti «assistenziali» che a loro compete in questo sistema, noi
rifiuteremmo questa situazione, che non vede il cittadino o il lavoratore
protagonista attivo delle sue scelte, ma lo relega ad oggetto di decisioni
altrui.
«Il nostro sistema politico non si dimostra in
grado di imprimere alla società una direzione politica, di orientare
il sistema economico, di programmare l'attività legislativa. Il
potere si arrampica su se stesso e si è trasformato da assetto
istituzionale entro il quale ha luogo la produzione di risorse
crescenti, in centro di accumulazione e sperpero di risorse che la
società produce»
prof. Giorgio Galli, docente di storia delle
dottrine politiche all'Università di Milano, nell'opera "Dal
bipartitismo imperfetto alla possibile alternativa", Il Mulino |
Il vero potere è fatto di responsabilità. Fino a quando il lavoratore non
rivendicherà la responsabilità nella impresa, non soltanto il «potere operaio»
rimarrà un sogno storico. ma anche la sua dignità di cittadino sarà avvilita.
Potrà avere più alti salari e anche una vita più comoda, ma sarà sempre un
elemento fungibile e quindi sostituibile, nella vita dell'impresa. Come tale
sarà oggetto a subire la prepotenza inevitabile del capitale, e all'occorrenza
tolto di mezzo. Nella migliore delle ipotesi questo lavoratore-assistito,
vezzeggiato, tutelato da un sindacato-madre che lo protegge da ogni rischio,
sarà sempre un assistito, mai un cittadino.
Purtroppo questa musica non piace ai sindacati italiani, che seguendo appunto la
filosofia ufficiale del sistema partitocratico (non impicciarti che ci penso io)
rifiutano a priori di porsi il problema reale della partecipazione. Si è sentito
più volte proclamare pubblicamente, da parte dei loro leaders, il principio
indiscutibile per cui «il padrone faccia il suo mestiere di padrone e il
lavoratore il suo mestiere di lavoratore». Si tratta di un principio
inaccettabile. Se infatti esso avesse valore, allora non ci si dovrebbe
lamentare poi della logica capitalistica, pretendere riconversioni industriali e
nemmeno lagnarsi della disoccupazione e dei licenziamenti; il padrone fa appunto
il suo mestiere cercando il massimo profitto. Non si può contestare questo dato
di tatto (che è pure quello che più scandalizza nel capitalismo) all'interno
della stessa logica. Bisogna invece che il lavoratore si ponga, anzi si imponga
come soggetto attivo nella vita dell'impresa, assumendosi la responsabilità
della gestione e della proprietà. La socializzazione dell'impresa non è quindi
l'ancora di salvezza (come intendono alcuni) del capitalismo, ma l'unico modo
concreto per superarlo.
Concordiamo con questa analisi. Ce di più. Oggi il Sindacato allontana il
lavoratore dal suo fondamentale interesse di collaborare al fenomeno produttivo
quale presupposto di ogni sua azione rivendicativa e dalla conoscenza tecnica
della dinamica della produzione e della gestione.
Il lavoratore, socio naturale dell'azienda, viene allontanato dalla conoscenza
del mercato e da quella della fisiologia aziendale, cioè dagli elementi basilari
sui quali fondare i propri diritti e attraverso la quale documentarli.
L'organizzazione sindacale, quindi, trasforma la sua mediazione in fine a sé
stante secondo la stessa dinamica dei partiti e degli Enti economici: da
strumento del lavoratore riduce il lavoratore a strumento delle sue finalità, in
concreto cinghia di trasmissione del PCI.
Diventa baronia sociale che impedisce allo Stato in nome della sua autonomia
l'espletamento del suo naturale dovere nell'inserire nel fatto economico ed
edonistico l'elemento etico della giustizia ed impedisce nel contempo al
lavoratore di ottenere questa giustizia in sede politica rivendicando l'ausilio
dello Stato e in sede economica precludendogli il colloquio con l'altro fattore
della produzione, il capitate, ed ostacolandogli la conoscenza della dinamica
aziendale e settoriale.
La lotta, attraente ma vano miraggio del lavoratore, lo porta, finché
soccombente, a vedere frustrate le sue speranze e quando è coronata da successo,
attraverso l'avvento della «classe» al potere a vedere ancora frustrati i
diritti e gli interessi della categoria e del singolo.
In una prima fase il lavoratore lotta per assicurare la vittoria della classe e
in un secondo tempo per assicurare la potenza dello Stato; in entrambe perde il
premio ineguagliabile della giustizia.
Ma l'organizzazione sindacale in quanto tale fonda su questo la sua potenza,
intreccia i suoi rapporti con i partiti e con gli Enti economici e si inserisce
nella corte baronale fra lo Stato e il lavoratore.
Giuseppe Niccolai
«Se ubbidire alle leggi dello Stato diventa un
pericolo significa che lo Stato non funziona. Il rimprovero va
all'impotenza dello Stato. Si è formato un nucleo di violenza tale
che i cittadini si sentono minacciati. La prima funzione dello Stato
è la protezione dei cittadini. Se i cittadini hanno paura, vuol dire
che lo Stato manca alle sue funzioni. È impossibile che la fine
della prima Repubblica possa essere evitata»
prof. Norberto Bobbio, "Corriere della Sera"
|
"Secolo d'Italia", 8 luglio 1977
Pubblichiamo, per gentile concessione dell'Istituto di Studi
Corporativi, la seconda ed ultima parte del saggio che l'on.
Giuseppe Niccolai ha scritto per la rivista dell'Istituto, nel quale
sono messe a fuoco le caratteristiche del sistema politico vigente
in Italia e puntualizzati i motivi ed i termini della opposizione
del MSI-DN ad esso. La prima parte è stata pubblicata sul "Secolo"
di domenica 26 giugno. |
Ripensare lo Stato
in termini di efficienza e libertà
Giuseppe Niccolai
«Ci avviciniamo forse -non vorrei usare parole o
metafore drammatiche- a quello che, nel rito della corrida, si
chiama il momento della verità. Sono infatti emerse, e si sono
imposte da ultimo, nella nostra vicenda politico-istituzionale, due
specifiche "sfide" (ogni "sfida" implicando per il sistema che deve
affrontarla la provocazione ad una "risposta") ed a queste sfide
ormai non sembra che la "risposta" si possa più eludere. Che ciò non
sia solo frutto di una mia valutazione si può ben dire, quando si
pensi che un personaggio politico insospettabile, un vecchio
"leader", circondato universalmente dalla stima della classe
politica e dalla simpatia popolare, come il senatore a vita Nenni,
ha affermato pochi giorni or sono di "non temere tanto il 'golpe',
quanto il suicidio della democrazia"»
prof. Serio Galeotti, ordinario nell'Università di
Pavia, nel corso del dibattito su
"Crisi: che fare nel sistema", organizzato dalla rivista "Gli
Stati", nel 1974 |
Le Autonomie locali sono caratterizzate in Italia dalla tendenza ad una sempre
più accentuata espansione del loro potere politico. In questi ultimi tempi
l'espansione non conosce limiti. La Commissione parlamentare per le questioni
regionali, presieduta dal comunista onorevole Fanti, chiamata a dare il proprio
parere sullo schema di decreto delegato ai sensi dell'articolo I della legge
22-7-75 n. 382 ha approvato (articolo 4) una norma che consente alle Regioni di
svolgere attività promozionali «anche all'estero».
Sotto il pretesto di acquisire una più completa indipendenza nella gestione
della loro opera di autogoverno amministrativo esse tendono in realtà, i Comuni
come le Regioni, a sottrarre allo Stato autorità e sovranità politica. Nella
polemica contro il progressivo affermarsi di questa forma di feudalesimo
amministrativo si è posto l'accento su un aspetto appariscente quanto banale del
fenomeno, trascurando quello che è viceversa il suo carattere fondamentale, il
pericolo di una involuzione antirisorgimentale, di un ritorno a sentimenti
antiunitari, giustificato solo da manifestazioni superficiali, non costituisce,
a nostro avviso, il problema di fondo dell'esasperazione autonomistica.
Le Regioni, come le Province, i Comuni, nella moderna estrinsecazione della loro
autonomia trovano più motivi di azione unitaria che centrifuga.
Il fatto è che questa azione unitaria ed accentratrice, in luogo di manifestarsi
organicamente ed istituzionalmente, cioè attraverso norme e controllo, si
manifesta in senso politico, sociale ed economico attraverso la realtà dei
partiti, degli Enti economici e dei sindacati, fuori cioè e contro lo Stato. Nel
mentre gli Enti locali, Regione in testa, rivendicano un allentamento dei
vincoli e dei controlli normali, una libera gestione dei mezzi finanziari una
più autonoma decisione e un più largo potere deliberativo, essi (Regione ed Enti
locali) irrigidiscono i vincoli e la dipendenza organica unitaria, disciplinare,
nel campo politico rendendo più rigido il vincolo tra le rappresentanze e il
potere periferico dei partiti, degli Enti e del Sindacati e le loro
organizzazioni centrali.
Quella sovranità ed autorità che strappano allo Stato non la restituiscono, in
termini di libertà al cittadino, ma, ancora aumentata, alle baronie politiche,
economiche e sodali alle quali si collegano e si sottomettono.
Le Regioni, gli Enti locali si inseriscono così, sottraendosi allo Stato e alle
sue Leggi, nel tessuto feudale, in un nuovo ordine sui generis con le sue leggi,
i suoi poteri, i suoi mezzi contrario, nel contempo, sia agli interessi dello
Stato sia agli interessi del singolo cittadino.
Come l'azione politica, economica, sociale anche l'azione amministrativa si
inquadra cosi nella finalità dei partiti rosi dalla partitocrazia, degli Enti
Economici macerati dal clientelismo, dai Sindacati cinghie di trasmissione del
partilo egemone e sorgono le nuove baronie che si inseriscono nel vario gioco
feudale fra il singolo cittadino e lo Stato dando vita alla democrazia feudale,
il tiranno «senza volto» dei tempi odierni.
In questa schematica ricognizione della realtà di fatto che viene definita
«democrazia» abbiamo delineato quelli che ci sembrano i più appariscenti aspetti
che la caratterizzano.
Dall'esame più dettagliato e da un'analisi più approfondita di ciascuno di essi
si trarrà la chiara visione del completo «tessuto feudale» che attraverso
diramazioni e collegamenti avvolge organicamente le attività dei singoli
cittadini e l'essenza e le funzioni dello Stato.
Questa rete di vassalli e valvassori politici, economici, sociali e
amministrativi; le loro alleanze e inimicizie, le loro omertà e concorrenze sono
quella che viene comunemente definita «democrazia» in Italia, quella democrazia
per la quale, secondo Amendola, gli Italiani dovrebbero battersi fino all'ultimo
sangue per difenderla.
Quando noi ci riferiamo all'imperativo, morale prima che politico, di ripensare
lo Stato contro l'attuale sistema, intendiamo questo stato di cose e non le
postulazioni astratte dei filosofi della politica o le diverse manifestazioni
tipiche di altre società o altri paesi in particolari situazioni e condizioni
economiche e storiche.
La prima conclusione che ci pare si possa trarre è che questo stato di cose,
oltre ad avere travolto la Costituzione repubblicana, ha determinato lo
sconvolgimento dei rapporti fra Stato e cittadino, inserendosi fra di essi ed
alterando le finalità naturali, ledendo cioè l'autorità e la sovranità dello
Stato e le libertà civili e politiche dei singoli ed ostacolandone, non solo
l'armonico evolversi, ma la stessa soluzione dei problemi essenziali della
società.
Dall'esame della situazione emergono i termini dell'azione politica, le sue
finalità, il metodo che si debba prefiggere un movimento di opinione che
intenda, nel confronto, mutare la realtà attuale, il sistema, per dar vita ad un
nuovo ordine che sappia valorizzare ed esaltare le libertà civili e politiche
del cittadino. Finalità perciò intese ad instaurare, in termini moderni, nuovi
originali rapporti fra l'uomo e lo Stato reazione, cioè idea di un nuovo modo di
concepire lo Stato nelle dimensioni che gli sono imposte dall'attuale
complessità, della vita associata nazionale e internazionale (siamo nell'era
nucleare: tutti i rapporti sono saltati), che impongono allo Stato l'assunzione
di pesanti responsabilità e richiedono da parte sua una assunzione di poteri e
di autorità prima sconosciuta. Creazione, cioè idea di un nuovo modo di
concepire l'uomo che deve a sua volta elevare i sentimenti e la propria statura
alle nuove dimensioni dello Stato e della vita politica, economica, sociale e
amministrativa. Noi sosteniamo che questa armonia di rapporti non può stabilirsi
con il trasferire le dimensioni dell'uomo nell'artificio della classe, del
partito, dell'Ente, del sindacato.
II rapporto uomo Stato è un fatto diretto e naturale ed un incontro fra l'uomo e
lo Stato deve realizzarsi con il rispetto dei reciproci attributi di libertà e
autorità.
Quando, come ora, la classe, il partito, l'ente, il sindacato ledono la libertà
e l'autorità significa che gli strumenti creati per rendere più armonici i
rapporti fra il cittadino e lo Stato hanno tradito il fine che si proponevano e
vanno sostituiti.
Che questo turbi il conformismo di coloro che con l'arco costituzionale, si sono
seduti a tavola e sollevi le ire di chi ha la pancia piena, non muta la realtà
delle cose.
Noi sosteniamo che oggi è necessario combattere lo strapotere dei partiti, lo
schiavismo che esercitano sul cittadino, il loro clericalismo ideologico, la
loro struttura di falso tecnicismo rappresentativo.
Se è vero, come è vero, che occorre una intermediazione fra il singolo e lo
Stato, cioè uno strumento che renda più chiara l'opinione e più efficace
l'azione per una genuina rappresentanza degli interessi politici occorre che
questo strumento si dimostri idoneo nei fini e nei metodi. Se questo
«strumento», anziché difendere la libertà del cittadino, la uccide, significa
che quello «strumento» non è più idoneo a rappresentare l'Intermediazione
cittadino-Stato. Quando poi questo strumento, oltre a mortificare il cittadino,
porta, con le sue crisi ricorrenti (in trenta anni 35 governi!!!), alla
degradazione della comunità nazionale, dei suoi valori morali, delle sue
attività produttive, della sua stessa vita associata perché producendo
emarginati e disoccupati, porta alla rivolta, al terrorismo, ciò significa che o
si ripensa lo Stato in termini di efficienza e di libertà, o il comunismo ha
partita vinta.
Quali effetti ha sulle istituzioni rappresentative lo Stato feudale?
Lo Stato feudale, roso dal di dentro dalle baronie feudali non è capace di
esprimere governi stabili, organici, funzionali. In questa Repubblica la durata
media dei governi è di nove mesi; la loro composizione non è organica, cioè non
corrisponde ad una unità di criteri operativi, ma è il risultato di complessi
dosaggi di partito, di corrente, oltre che di provenienza regionale e tra
deputati e senatori; non hanno di conseguenza i caratteri più elementari della
funzionalità. Nessuna azienda, anche di modeste dimensioni, si salverebbe dal
fallimento se dovesse cambiare continuamente l'amministratore delegato,
invertire continuamente il ruolo dei direttori; avere dei dirigenti che
rispondono ad interessi diversi e si paralizzino a vicenda (non solo il
democristiano contro il socialista, ma anche il fanfaniano contro il moroteo,
ecc.): ed una gestione resa sempre precaria dalla spada di Damocle dei franchi
tiratori, del voto di sfiducia, o addirittura del semplice articolo di un
segretario di partito che la costringa a dimettersi.
«Se avremo la Grande Coalizione la seconda
Repubblica sarà un sistema scarsamente espressivo e sostanzialmente
repressivo, e quindi non pluralistico. Innanzi tutto scomparirà la
opposizione, quella opposizione la cui funzione è essenziale a un
vero sistema democratico, senza la quale c'è solo un dispotismo più
o meno illuminato, e non un potere responsabile, perché controllato
da un altro vero potere. Scomparirà l'opposizione, perché i partiti
del centro sinistra verranno facilmente schiacciati dato che il loro
naturale elettorato verrà assorbito dalla DC e dal PCI: i partiti
che non vorranno stare al gioco, verranno emarginati fra i fascisti;
verrà impedito alla società civile di esprimersi in modo autonomo e
consistente, al di fuori dei due canali che detengono il potere.
Insomma: diventerà inoperante nella nostra Costituzione tutta quella
parte di articolazioni istituzionali attraverso le quali lo Stato
liberale garantiva ai cittadini libertà ed eguaglianza. Perché la
Grande coalizione, operante nei Comuni, nelle Province, nelle
Regioni, in Parlamento avrà, come sedi decisionali, sempre meno i
luoghi previsti dalla legge, sempre più le segreterie dei partiti,
la cui forza reale sarà, come ieri, "la tessera del pane". Questa
gigantesca opera di sottogoverno sarà accompagnata e coperta da una
gigantesca manipolazione dall'alto della partecipazione, per imporre
alla società nuovi contenuti "popolari". Il regime ha già la sua
ideologia: all'Università si comincia ad insegnare la cultura
antifascista, dimenticando che la coltura, come ci ha insegnato
Croce, non è né fascista né antifascista, ma solo cultura, e il
resto è solo propaganda»
Nicola Matteucci, direttore de "il Mulino" nel
saggio "La Grande Coalizione"
pubblicato nel gennaio 1971 |
Le conseguenze di questa cronica debolezza e instabilità dello «stato feudale»
sono sotto gli occhi di tutti, fallimento e bancarotta dell'economia e dello
Stato di diritto, espansione della violenza, violenza che non risparmia più
nessuno, nemmeno coloro che si rimpiattono dietro la finestra.
Non c'è tempo da perdere se si vuole salvare la libertà. Il primo passo da
compiere: battersi per l'elezione popolare diretta del Capo dello Stato. Anche
per puntare all'efficienza e battere la crisi economica.
Nessun disegno di programmazione, non solo in economia, ma anche in ogni altro
settore d'intervento pubblico, può avere basi realistiche con dei governi la cui
vita media è di nove mesi. L'impotenza dei governi di espressione popolare
favorisce solo la proliferazione di altri centri di potere, pubblici,
parapubblici e privati, in una confusione anarchica e arbitraria che ricorda,
come abbiamo più volte scritto, in versione moderna gli antichi sistemi feudali.
Se vogliamo tradurre in episodi le considerazioni che abbiamo sviluppato
esaminando il sistema non ci sarà difficile individuare le baronie: FIAT, ENI,
EFIM, EGAM (defunto), segreterie di partito, direttivi di corrente, poi partiti,
sindacati, enti locali, tutti con la loro capacità incontrollata di
indebitamento, e via dicendo. Si tratta di centri di potere che in un sistema
ordinato hanno ciascuno una sua precisa, legittima, apprezzabile e
insostituibile collocazione; ma in un sistema strutturalmente inefficiente ed in
crisi sono fatalmente portati a riempire altri vuoti di potere, sconfinando
dalla loro sfera, usurpando funzioni che non sono le loro, sovrapponendo
interessi particolari a quelli della collettività, divenendo fonti di continuo
arbitrio dei potenti contro i deboli.
È purtroppo comprensibile che questo tipo di pseudo-democrazia feudale sia
sempre meno credibile e provochi sempre più vaste crisi di rigetto fra i
giovani, fra gli strati popolari più indifesi e si regga solo sulla paura di
cambiamenti da cui la qualità della vita sociale potrebbe uscire perfino
ulteriormente peggiorata. Ma a questa disgregazione dei tessuto sociale non si
pone solo la drammatica alternativa comunista. Si può e si deve indicare, come
alternativa ad un sistema precario e sempre più difficilmente difendibile, un
modello di democrazia credibile.
Si può farlo. Abbandonando le ottuse discriminazioni collegate con la
feticistica teoria dell'arco costituzionale. Che la Costituzione resti così,
immutabile anche in certi meccanismi secondari che ci hanno regalato
trentacinque crisi di governo e due crisi di legislatura, può far comodo solo ai
comunisti. In un sistema come questo, soggetto per la sua strutturale debolezza
a tutti i ricatti, una partecipazione dei comunisti al potere diventerà
inevitabile. Loro lo sanno e nulla vogliono mutare. Infatti i comunisti,
immancabili patroni di tutte le riforme. L'unica riforma che non vogliono è
quella dello Stato, è quella che in una moderna concezione istituzionale saldi
la libertà con l'efficienza.
La realtà è che i comunisti non hanno bisogno di buone Istituzioni per
esercitare il potere. In Romania, in Bulgaria hanno governato persino un paio
d'anni con la monarchia, prima di impossessarsi definitivamente di tutte le leve
di comando. Per loro, sia la monarchia balcanica che la partitocrazia feudale
italiana, non rappresentano un ostacolo rilevante all'esercizio effettivo del
potere, giacché una volta messo il piede nella stanza dei bottoni, il resto non
lo fanno certo con delle Istituzioni fatiscenti, ma con le strutture del
partito, con una gerarchia parallela; e quella sì che funziona!
Sono gli uomini liberi che hanno assoluto bisogno di buone istituzioni, moderne,
funzionali, per riuscire a governare. Ed è agli uomini liberi e pensosi delle
sorti d'Italia che ci appelliamo affinché abbandonino la tetra e mortificante
superstizione dell'arco costituzionale per cercare insieme un modello più
credibile di democrazia. Questo appello può apparire ingenuo, dal momento che
persino uomini come Cadorna, come Pacciardi, come Vinciguerra, figure
emblematiche dell'antifascismo, sono stati addirittura accusati di fascismo per
aver proposto una nuova Repubblica, ispirata al nuovo modello gollista francese,
che in Francia oggi è pienamente accettato anche dai socialcomunisti come
soluzione al clima di disfacimento assai simile al nostro, in cui versava la IV
Repubblica. Ma il dilemma resta ed è chiaro e perentorio: vogliamo provarci come
Parigi o finire come Praga?
I politici italiani sono di tre tipi. Ci sono i comunisti, che hanno già modelli
realizzati all'estero, ma non osano prenderli come punti di riferimento e
preferirebbero farli dimenticare. Ci sono dei democratici al governo, che non
vogliono guardare neanche loro ai modelli democratici stranieri, assai più
funzionali del nostro, perché i loro giochi di potere sono troppo strettamente
legati ed invischiati nel sistema (feudale) attuale e non vogliono cambiarlo. Ci
sono infine uomini liberi all'opposizione che hanno lo sguardo aperto ad ogni
confronto. Vedono i regimi comunisti, sanno che cosa rappresentano, ne conoscono
l'orrore e non vogliono che esperimenti di tal genere vengano compiuti sulla
pelle del popolo italiano. Vedono altri sistemi di libertà, la Repubblica
presidenziale francese e americana, il Cancellierato tedesco, il governo inglese
del Primo Ministro, sanno che sono migliori del nostro e vorrebbero che anche la
cosiddetta democrazia italiana si evolvesse su qualcuno del modelli più
aggiornati e funzionali.
Ecco, se stare dentro l'arco costituzionale significa rendersi ciechi ad ogni
confronto, non desiderare qualcosa di meglio per l'Italia «tanto quello che vale
è la propria pancia», allora, soprattutto per una ragione di pulizia morale, ci
sentiamo fieri di essere fuori dell'arco costituzionale. E pensiamo che gli
uomini liberi dovranno, o prima o poi, decidersi ad uscirne se vorranno salvare
la causa della libertà in Italia.
Giuseppe Niccolai
«Noi sappiamo dunque che
nessun sistema politico è pii forte di una democrazia fondata su
basi sincere e funzionali. Sappiamo che il complesso di paralisi e
malcostume contro il quale insorgiamo non è la democrazia, ma è la
frode antidemocratica. Sappiamo di rivendicare diritti elementari di
ordini democratico: quello di votare non per una lista di uomini
ignoti, decretata da caporali di partito, ma per singoli uomini, la
cu personalità ci sia in qualche misura nota e gradita; quello d
determinare attraverso il voto almeno gli indirizzi politici d
fondo: cosa che con l'attuale sistema non accade, come documenta il
fatto stravagante che uno stesso parlamento, senza nuova
consultazione popolare, possa esprimere di centro, di centro
sinistra, di sinistra. Domandiamo soprattutto che il potere
effettivo risieda in quegli organi che ne sono formalmente investiti
dall'ordinamento costituzionale; e sappiamo che per ottenere questo,
dobbiamo dare ad ogni organo un sicuro margine di libertà e
autonomia: bisogna che i deputati non siano alla mercé dei caporali
di partito, come bisogna che i governi non siano alla mercé dei
deputati e che i giudici o i professori non siano alla mercé del
governo. Bisogna che i partiti non siano ridotti alla triste
necessità di corrompere partiti e deputati per conservare il potere,
né abbiano gli strumenti per farlo: bisogna che i governi abbiano
davanti a loro con certezza il tempo limitato che è tuttavia
strettamente necessario per operare responsabilmente e per offrire
al giudizio degli elettori, alla scadenza elettorale, almeno un
saggio di lavoro costruttivo organicamente condotto.
Giuseppe Maranini, già Preside
della Facoltà di Scienze Politiche "Cesare Alfieri"
di Firenze, ne
"Il tiranno senza volto», Bompiani, 1963 |
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