"Secolo d'Italia", 11 maggio
1977
Un «rivoluzionario» al servizio del
regime e del suo conformismo
Salva il «potere che conta» la satira dissacrante di Fo
Beppe Niccolai
Ha fatto bene il Partito a non chiedere censure sul «caso Fo». Schierarsi al
fianco di coloro che hanno innalzato la bandiera dei valori «sacri» sarebbe
stato oltre tutto ridicolo.
Quando, in tutti questi anni, dall'alto di cattedre altissime, si è assistito
impassibili, o addirittura compiaciuti, al massacro sistematico dei valori della
patria, della famiglia, della tradizione, della propria storia, non è possibile
poi svegliarsi, colpiti ed offesi, perchè anche i valori religiosi sono resi
poltiglia.
E poi, perche farsi promotori, con il... martirio della censura, del successo di
uno spettacolo che è destinato a morire fra gli sbadigli e la noia dei
telespettatori?
Comunque il caso Fo pone una domanda di fondo. Se la morale di "Mistero buffo" è
colpire il potere, comunque inteso, il potere, intendiamoci bene, che conta, che
decide, che dispone della vita di tutti, perchè non andare al «sodo» e anzichè
prendersela con i preti, che non contano nulla o la pensano come Fo, affrontare
in chiave satirica il tema dell'antifascismo che è il grande manto sotto il
quale oggi il potere esercita la sua prepotenza?
Il Vangelo oggi non serve per avere un posto retribuito. L'antifascismo invece è
indispensabile per essere collocati nella piramide sociale, da spazzino
municipale a burocrate dell'Ente di Stato a 100 milioni l'anno.
Non basta e non serve satireggiare su Andreotti e La Malfa.
Il coraggio occorre dimostrarlo andando alla «sacralità» che sta alla base, che
è al cuore delle ingiustizie e del prepotere. Santi, preti, poliziotti,
carabinieri, magistrati: non costa nulla svillaneggiarli. È di prammatica. Siamo
«a la page».
Ma questi non sono i padroni che contano, non è potere effettivo. Il potere è
l'antifascismo, sono i partiti, i sindacati. Controllano tutto: banche, regioni,
province, comuni, enti, ospedali. Partitocraticamente controllati. Mafia. Ma
questa mafia Dario Fo si guarda bene dal toccarla perchè lui stesso forse è
espressione di questa mafia. Ma è questa «sacralità» che occorre aggredire se ci
si vuole misurare con parole come «coraggio», «anticonformismo», «avanguardia»,
«protesta» e «denuncia». Tutto il resto è aria fritta. I Bonifaci VIII da
aggredire non stanno nel Medio Evo. Sono in mezzo a noi. E. contrariamente a
quello che pensa la gente, stanno a sinistra.
Scarseggiano i copioni? Mancano «Vangeli anno 1977» da cui attingere la violenza
satirica e parodistica dello spettacolo?
Vogliamo provarci a delinearne alcuni, a fornire allo stesso Fo elementi di
caricatura che puntino al cuore del potere vero e non a quello fasullo?
Un primo canovaccio. Dario Fo ha militato nei reparti armati della RSI. Perchè
non ci spiega, satireggiando, i motivi di quella adesione? Convinzione? Gesto
«giacobino»? La consapevolezza di mettersi dalla parte perdente? O paura? E
perchè da «quelle posizioni» di allora a quelle odierne? C'è nel comportamento
di oggi la ribellione di allora? Perchè Fo non prova a chiarirci,
«provocatoriamente», quella vicenda che, piaccia o no, rappresenta un nodo non
sciolto della società italiana?
Ed ora i tratti di alcuni possibili schetch. I protagonisti sono coperti da
un'immunità «sacrale», quella dell'antifascismo. Non sono uomini come tutti gli
altri. Sono mostri sacri. Nessuno, per ciò che hanno dietro le spalle, osa, non
dico contestarli, ma nemmeno discuterli.
C'è qualche mimo, della risonanza di Dario Fo, che si senta il coraggio «in
core» di dissacrarli?
Cosi, a caso, prendiamone uno. Si chiama Amerigo Boldrini. Medaglia d'oro della
resistenza. Presidente dell'ANPI. Un papa resistenziale, molto addentro nel
potere. Però, come... Bonifacio VIII, peccatore.
Infatti Boldrini, prima di salire alla sacralità antifascista, fu centurione
della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale. Centurione di Mussolini.
Come renderebbe tale «personaggio», nel suo teatro di impegno politico, Dario
Fo?
Quel centurione... partigiano. Che curiosità! Ma sarà mai appagata?
In una sentenza emanata dal Tribunale di Rieti il 27 aprile 1949 traiamo
scritto: «Con denunzia in data 9 agosto 1944, Balduzzi Angelo residente a
Fiamignano esponeva che il 14 giugno stesso anno tal Cariglia Antonio,
qualificandosi per comandante di truppe partigiane, gli aveva ingiunto di
consegnare trenta pecore, Kg. 10 di grassi, Kg. 15 di legumi, litri 50 di vino,
e Kg. 50 di farina minacciando in caso contrario decisioni di estrema gravità;
che a seguito di ciò esso Balduzzi era stato costretto a consegnare i generi e
il bestiame richiesto, ma il Cariglia non soddisfatto gli aveva imposto
successivamente di fornire pecore migliori e poi lo aveva fatto arrestare; che
nessun prezzo era stato corrisposto ad esso Balduzzi per la consegna effettuata
del generi e del bestiame. Effettuate indagini dai CC, si accertava altresì che
il Cariglia il 12 giugno 1944 aveva fatto arrestare e rinchiudere nella camera
di sicurezza della Caserma dei Carabinieri di Fiamignano tal Miarelli Alfredo
sotto l'accusa di avere oltraggiato l'onorabilità di due famiglie del luogo,
presso le quali il Cariglia conviveva, che lo stesso Cariglia l'11 giugno 1944
aveva tatto pure arrestare tal Leoni Volfango sfollato a Fiamignano, che il
giorno 12 giugno 1944 alcuni partigiani, per ordine del Cariglia, mediante la
scalata di un balcone, si erano introdotti nella casa di Calderini Carlo, in
Fiamignano asportando lenticchie, che un altro giorno del giugno detto, sempre
su ordine del Cariglia, alcuni partigiani si erano introdotti nella casa del dr.
Iacobelli Antonio, asportando grano, farine, mandorle…
Questo uno squarcio della sentenza del 1949. Non abbiamo bisogno di aggiungere
che Antonio Cariglia venne assolto. Perchè il furto di pecore, galline e
lenticchie venne, dal Tribunale di Rieti, equiparato ad «azione di guerra contro
il tedesco invasore». Ma il canovaccio militerebbe incompleto se non
ricordassimo che Antonio Cariglia, dal giugno 1944 ai giorni odierni, ha fatto,
nella socialdemocrazia, una carriera brillantissima.
Quale Dario Fo se la sente di illustrare il potere (quello che conta),
utilizzando le vicende che hanno caratterizzato la vita di Antonio Cariglia?
Quelle pecore, quelle galline... Sullo sfondo l'antifascismo. E poi, a guerra
finita, come conquistò la federazione socialdemocratica di Pistoia facendo
votare -si dice- anche i morti. E gestendo i corsi professionali...
Per ultimo, e per oggi basta. David Lajolo. Un soggetto quanto mai interessante
per un teatro dissacrante il potere. Già direttore de "l'Unità". Già deputato
comunista. Oggi direttore del rotocalco del PCI "Giorni", un tempo "Vie Nuove".
È vero: proviene dalla resistenza. Ma prima della resistenza fu nella RSI. E,
ancor prima, nella I Divisione volontari del Littorio (I Btg., II Reggimento) in
terra di Spagna al fianco di Francisco Franco. Ed ancor prima è stato Vice
Federale di Ancona.
C'è un suo libro, "Bocche di donne e di fucili", che racconta la sua vicenda
spagnola. Ascoltiamo il finale. È tutto di pugno dell'ex direttore de "l'Unità".
Racconta il suo incontro col Duce al ritorno dalla Spagna.
«Si sente ancora l'attenti. Ma non ci si può contenere più. Bisogna urlare per
non annegare sotto l'onda dei sentimenti che travolge.
«Duce, Duce! L'urlo tremendo scuote la sala, ripete gli echi in tutto il
palazzo, su Roma!
«Duce, Duce! gridato con la passione di allora, quando ogni salto si portava su
una nuova trincea, ed ogni morto faceva brillare una baionetta in più sulle
posizioni nemiche. Duce, Duce! e l'urlo fermava il nemico, gridava il nostro
valore italiano, la nostra intransigenza fascista.
«Il nemico doveva arretrare o morire. Quel grido poteva esaurirsi solo nella
vittoria, quando il tricolore con il gagliardetto fiero sventolavano sulle
roccaforti rosse.
«Ora lo urliamo a Lui che ci sorride, la mano alta nel saluto romano.
«Nel nostro urlo c'è qualcosa di puro, di degno. Sono voci di trinceristi.
«È ancora là, sotto la gran porta. È Cesare, davanti ai Capi delle legioni che
ha mandato pel mondo nel nome di Roma.
«"Legionari". Mai come ora il suono di questa parola batte sul cuore
l'orgoglio».
Ha fatto tutto David Lajolo, comprese le maiuscole, gli esclamativi, la
punteggiatura. Il PCI ha portato quest'uomo (dai garretti induriti), questo
volontario mistico, questo guerriero d'acciaio, questo Legionario di Roma alla
direzione del giornale dei lavoratori. "l'Unità". Così, come se nulla fosse
stato. E ce lo ripropone, solennemente, dagli schermi televisivi tutte le volte
(e sono tante) che c'è da affrontare qualche dibattito culturale antifascista. E
guai a chi obietta il verbo di David Lajolo!
La sacralità antifascista. Come è possibile, dopo le cose che ha scritto il
nostro David, venire collocati ai vertici della piramide del PCI?
È possibile: David Lajolo eccolo lì. Con i garretti induriti ha fatto il grande
balzo.
Avanti: c'è qualche Dario Fo che si senta di mimare un personaggio simile?
Non si può? Non è permesso? Non è concesso?
E perdio mai? Si tratta di sacralità, sacralità antifascista. È tabù.
Mi è concesso dirlo alla toscana? Libertari dei miei coglioni, siete dei
buffoni!
Giuseppe Niccolai
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