PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione delle proposte
di legge Zambelli ed altri: Costituzione di una Commissione parlamentare
d'inchiesta; Boldrini ed altri: Nomina di una Commissione di inchiesta
parlamentare sulle attività extraistituzionali del SIFAR; De Lorenzo Giovanni:
Istituzione di una Commissione di inchiesta parlamentare sulle attività del
servizio informazioni militari dal 1947, data della sua riorganizzazione, ad
oggi, sulla futura impostazione di dare a detto servizio nonché sull'attività
dell'Arma dei carabinieri durante l'anno 1964 (484); delle proposte di inchiesta
parlamentare: Lami ed altri: Sulle attività del SIFAR estranee ai suoi compiti
di istituto (46), Scalfari: Inchiesta parlamentare sulle attività del comandante
generale dei carabinieri e di alcuni alti ufficiali dell'Arma nell'estate del
1964, connesse con iniziative extra-istituzionali ed extra-costituzionali (177);
e della connessa mozione Bozzi.
(...)
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Giuseppe Niccolai. Ne ha facoltà.
NICCOLAI GIUSEPPE. Signor
Presidente, onorevoli colleghi, onorevole ministro, non sono un esperto sul caso
SIFAR: sono un novellino del Parlamento e come tale vivo questa amara vicenda da
pochi mesi. Nove mesi fa ero, diciamo, uno fra i milioni di italiani che del
SIFAR si occupavano attraverso la stampa; da nove mesi bevo alle fonti
parlamentari e, ahimè, la vicenda appare più squallida di quanto apparisse
quando ero fuori da queste mura.
Vi chiedo perciò scusa in anticipo se nelle mie meste e povere considerazioni
che andrò facendo non troverete nulla di sensazionale. Non avrò da leggervi
alcun omissis, da rivelare alcunché di sensazionale o di torbido, da sbandierare
altri assegni, da denunciare complotti o colpi di mano. Tutto è stato scritto e
tutto è stato detto. Fino alla noia. Ci si rivolta oggi nel fango. Ne siamo
tutti sazi; soprattutto l'opinione pubblica, grazie a noi che l'abbiamo
distrutta, se si può parlare ancora di una opinione pubblica in Italia.
Cari colleghi, mi sono letto diligentemente tutti i dibattiti che la vicenda del
SIFAR ha scatenato in quest'aula. Vi devo confessare che, nonostante i toni e le
parole grosse, si rinviene in quei dibattiti, più che la generosa passione, la
santa, virile, civica rabbia, molta recitazione, molti luoghi comuni, il
desiderio semmai morboso di mettere le mani sulle frivolezze. Un linguaggio
insomma che il paese, quello serio, quello che lavora non comprende più; anche
perché il paese sa benissimo da tempo che non ci possiamo arrogare noi la parte
dei protagonisti, dei buttafuori, delle prime donne.
Ha ragione l'onorevole Malagodi quando afferma che nella vicenda del SIFAR,
oltre non capirci più nulla, i parlamentari quel poco che sanno lo apprendono
dai giornali.
È vero, il dibattito autentico, il dibattito che conta non è mai avvenuto qui
dentro. Qui dentro il dibattito è servito a coprire il vero dibattito che
avveniva e che avviene fuori di qui, in altre stanze, in altri luoghi, per il
SIFAR e per altre vicende. La stessa documentazione che è alla base dei nostri
interventi è raccattata dalle veline, in colloqui riservati, dietro l'uscio,
all'angolo della stazione o addirittura nella pattumiera del pettegolezzo e
delle lettere anonime. Quel poco di ufficiale che si è riusciti a strappare ai
reticenti ci è servito ben poco per orientarci e orientare a sua volta
l'opinione pubblica.
In queste condizioni e dopo oltre 20 anni di esperienze del genere, credete voi
che fuori di qui vi sia nell'opinione pubblica una ansiosa aspettativa per
quanto riguarda la vicenda del SIFAR? Disilludiamoci; è più importante, fa più
notizia (lo dico con amarezza) la tattica che il «mago» Herrera adotterà per la
partita di domenica piuttosto che sapere se il Parlamento italiano riuscirà a
mettere o no in piedi questa benedetta Commissione di inchiesta. Disinteresse o
morbosa curiosità. Ecco i due poli in cui si scontra e si incontra questa
discussione. Perché? Vale la pena di farci un pensierino.
Da tempo al Parlamento italiano è data la possibilità di compilare, di
aggiornare, sulla base di elementi certi, non solo la propria cartella clinica,
ma quella ben più vasta e ben più importante, dello Stato italiano. Ma, ahimè,
queste occasioni passano senza che da quella cartella clinica, che peggiora
sempre di più, si traggano gli elementi salutari, gli insegnamenti salutari
perché il mal sottile che ci corrode venga per lo meno arrestato, bloccato e
ricacciato indietro.
Ricordate, onorevoli colleghi, la vicenda dell'aeroporto di Fiumicino? C'è forse
nei suoi tratti essenziali qualcosa di diverso dalla vicenda del SIFAR? Anche
allora il solito groviglio: classe politica, burocrazia, militari altolocati,
partitocrazia. Anche allora promozioni che si regalavano sulla base di brevetti
politici; anche allora carriere prodigiose, anche allora gli stracci che
volavano, ma nessun pirata politico da appiccare. Anche allora il ministro che
conta più della legge, anche allora l'amicizia che conta più del regolamento,
anche allora il partito, sua maestà il partito, anche allora il suddito, lo
Stato. E le conclusioni della Commissione d'inchiesta presidente l'onorevole
Bozzi. Un dosaggio da farmacista. I rappresentanti comunisti e socialisti nella
Commissione riconobbero, diedero atto all'allora ministro Togni della sua
dinamicità, per cui, senza quel dinamismo, l'aeroporto di Fiumicino non sarebbe
sorto. Se si farà la Commissione di inchiesta vedrete, riconosceranno,
indubbiamente, le capacità organizzative del generale De Lorenzo; c'è da
aspettarselo. Che meraviglia quella relazione presa ad unanimità dalla
Commissione d'inchiesta! Ricordate? Neutra come la posizione dei liberali in
questo dibattito. Venivano fuori un complesso di irregolarità che potevano
essere al tempo stesso negligenze, debolezze o reati. Un gioco di bustarelle che
potevano essere piene o vuote al tempo stesso. Fu scritto di quella relazione:
tutto si è svolto in una specie di bagnasciuga della malversazione. Il lecito e
l'illecito, il regolare e l'arbitrario si sono mescolati in così sapiente
dosaggio e a tal punto fraternizzano che a ricostruire l'intera storia si può
giungere a qualsiasi conclusione. Così per la vicenda di Fiumicino. Credete voi
che la Commissione di inchiesta per il SIFAR, se riusciremo a vararla, giunga a
conclusioni diverse? E volete voi, dopo quanto sta accadendo in Italia da anni,
meravigliarvi se l'opinione pubblica guarda ai due Herrera e volta le spalle al
Parlamento? Tutto è uguale, tutto si ripete fino alla noia e nessuno provvede.
Dice una legge economica che «la moneta cattiva scaccia la buona e dice una
frase di Voltaire: calunniate, calunniate, qualcosa resterà! Ma in Italia in
questi ultimi 10 anni abbiamo fatto l'esperienza opposta. Se uno scandalo si
gonfia troppo, si tratti di calunnie o di documentate verità, alla fine non ne
resta più nulla. Passato il momento del massimo interesse, che a volte ha diviso
il paese in due parti furiosamente contrapposte, tutti finiscono per
dimenticarsene. Nessuno viene punito, ciascuno dei personaggi coinvolti riassume
tranquillamente le proprie funzioni, prosegue le stesse attività che per un
momento hanno suscitato l'indignazione in tutto il paese. È accaduto per
l'«affare Cippico», per lo scandalo delle valute, per la speculazione sulle
aree, per la sofisticazione dei cibi, per la truffa dei medicinali, per l'INGIC,
accadrà anche per la vicenda di Fiumicino».
Non sono parole mie, sono parole che trovo su "L'Espresso" del 21 gennaio 1962 e
portano la firma di Eugenio Scalfari. Si può aggiungere: accadrà così anche per
il SIFAR. Con l'aggravante che in questo caso avremo dato un altro colpo mortale
alle forze armate. Perché? Ecco il secondo interrogativo che vale la pena di
sciogliere. Perché siamo, come classe politica, incapaci, non dico di rinnovare,
ma di incidere nella realtà in cui ci muoviamo, al punto che infettiamo tutto
quel che tocchiamo? Perché non si riesce mai a trovare il responsabile o i
responsabili? Perché facciamo pagare al paese le spese di questi nostri
irresponsabili e perversi divertimenti? Perché non riusciamo mai ad appiccare
alcun pirata? Perché i vari don Rodrigo sfuggono? Perché dobbiamo amaramente e
sconsolatamente dire che ancora tanti casi Fiumicino e tanti casi SIFAR ci
aspettano?
Penso mi sia consentito, cari colleghi, un riferimento storico, che è ormai al
di là delle nostre spalle, anche se, in opposte visioni, brucia ancora nei
ricordi e nella carne di ognuno di noi. Mi auguro di non suscitare polemiche: è
lontana da me ogni tentazione al riguardo. È vero, la guerra civile ci ha diviso
e ci divide tuttora, ma è anche vero che ognuno per parte sua, per la
responsabilità che ci viene dall'essere su questi banchi, si deve sforzare di
guardare alle vicende passate con mentalità il più possibile storica, perché il
passato ci dia più che la rabbia della passione, che spezza e divide, la chiave
giusta per capire questo intricato presente, la chiave giusta perché il paese
torni politicamente a camminare nella sede giusta. Dove sta la crisi morale che
ci rende tutti quanti incapaci di elevarci perfino allo stadio delle grandi
passioni, per cui anche l'elevatezza morale, parlamentare, lo sprazzo di luce di
cui è stato capace l'altra sera il collega Almirante cade nel vuoto tra le
stanche litanie di compitini messi su frettolosamente, letti senza anima, e dove
si capisce lontano un miglio che la coscienza dei parlamentari dice «no»,
nell'attimo in cui essi annuiscono con le parole, allo strazio delle norme
costituzionali, delle norme che dovrebbero regolare la nostra vita di
legislatori? Dove sta, cari colleghi, in sede storica, la crisi morale che ci
travaglia e ci regala con monotona costanza casi che, come quelli di Fiumicino e
del SIFAR, si somigliano tutti nei loro tratti essenziali? Non se ne dolgano gli
antifascisti autentici e i neoantifascisti di comodo se affermo che la tara
storica della democrazia italiana, risorta nel 1945, si chiama epurazione, si
chiama l'aver processato e condannato il fascismo non già per aver perduto la
guerra bensì per averla fatta. Voi allora non apriste un vero, autentico
processo al fascismo sul piano storico e su quello politico. Voi allora con
l'epurazione elevaste a norma il doppio gioco, il tradimento a morale, la
fellonia a eroismo. (Proteste al centro, a sinistra e all'estrema sinistra).
Sono i vizi che pescate quando frugate, smarriti e incerti, nella vicenda del
SIFAR. Vi chiedete: come è potuto accadere? Cari colleghi, ascoltatemi con
estrema pazienza. Non dico certamente cose gradite neanche al mio settore. Non è
forse vero che le leggi eccezionali ed epurative non intesero punire e
perseguitare il fascismo come sistema o come sintesi ventennale delle fortune o
delle sventure dell'intero popolo, ma piuttosto quei fascisti che non avrebbero
voluto perdere la guerra? Perciò i delitti e le faziosità, le prove di
malcostume, comunque manifestatisi fra il 1922 e il 1939, vennero benevolmente
tacitati qualora i giudicati avessero potuto vantare una qualsiasi
manifestazione di sabotaggio alla guerra tra il 1940 e il 1943. Era inevitabile,
cari colleghi: fra le maglie dell'epurazione passarono i doppiogiochisti, i
voltagabbana, gli opportunisti, i capitani di industria che, dopo aver fornito
ai nostri soldati le scarpe rotte, entravano col tesserino partigiano
nell'elenco dei nuovi appaltatori del nuovo regime. «Mi sono adoperato a che la
democratica marina di sua maestà britannica fosse messa a conoscenza del
passaggio di un convoglio navale dell'Italia totalitaria». «Bene, ottimo
soldato, rientri pure in servizio, difenderà le istituzioni democratiche». Così
vi comportaste allora, e vi comportaste male.
Il doppio gioco di allora continua a tutti i livelli e se ne pagano le
conseguenze oggi.
La terza repubblica francese non condannò il generale Bazaine per aver
contribuito ad una guerra imperialista, ma per la fellonia, per il suo scarso
spirito combattivo, a causa del quale Napoleone III, l'usurpatore, era stato
sconfitto a Sedan.
Tutti i regimi passano, cari colleghi, ma le nazioni rimangono. E la Francia di
Sedan prese forza dalla condanna di Bazaine per arrivare alla prima Compiègne.
Non ve ne abbiate a male. Se foste stati sul serio una forza storica, una forza
rivoluzionaria, avreste dovuto mettere al muro quegli ufficiali che, per
adularvi, vi confessavano il loro tradimento. Avete dato loro le decorazioni, li
avete fra i piedi oggi e i risultati si vedono. Perché? Perché siete stati e
siete dei restauratori, perché vi siete fermati a Cassibile e oltre Cassibile
non avete saputo guardare.
Si è molto discusso, specie da parte degli onorevoli Cantalupo e Malagodi, della
vicenda del SIFAR avendo come prospettiva la crisi del senso dello Stato.
Addirittura il «no» dell'onorevole Moro, così categorico e così netto (lui che è
così poco categorico), all'inchiesta parlamentare, pronuncialo nella seduta del
31 gennaio 1968, è tutto incentrato sul richiamo al senso dello Stato.
Crediamo di aver modestamente contribuito a localizzare in sede storica le
ragioni e i motivi di questa carenza del senso dello Stato che fa da sfondo alla
dolorosa vicenda del SIFAR. Perché non si trova mai il responsabile o i
responsabili? Perché non riusciamo mai ad impiccare alcun pirata? Perché
dobbiamo amaramente riconoscere che ancora tanti casi Fiumicino e SIFAR ci
aspettano? Abbiamo visto in sede storica quali sono le tare che vi
caratterizzano e vi attardano. Nati come restauratori sul piano storico, come
restauratori vi siete comportati, e non potevate fare diversamente, sul piano
politico.
Nella seduta del 30 gennaio 1968 (si discuteva del SIFAR), l'onorevole La Malfa
dichiarò che i repubblicani chiudevano la legislatura insoddisfatti perché
nell'intero arco che andava dal 1963 al 1968, nonostante avessero richiesto che
il grande problema dei rapporti fra l'autorità politica e la burocrazia venisse
affrontato, non si era fatto nulla.
Ci fu allora un divertente scambio di battute tra il Presidente del Consiglio e
l'onorevole La Malfa. L'onorevole La Malfa rimproverava che, pur avendo ricevuto
tre lettere dal Presidente del Consiglio in cui si prometteva una relazione
sull'argomento, non si era su questo problema, e per un'intera legislatura,
fatto un passo avanti. Replicava il Presidente del Consiglio che la relazione
era pronta da sei mesi e aggiungeva che il ministro Reale l'aveva letta.
Vedete, si scrivono, si scambiano lettere. Anche recentemente il ministro
Brodolini ha scritto al Presidente del Consiglio riguardo alla vicenda di Avola.
Non riescono mai ad incontrarsi, a parlarsi: si mandano lettere. E volete voi
che in questo clima problemi di questo tipo vadano avanti? Comunque, ecco il
tema centrale: rapporti tra burocrazia e politici.
L'onorevole Piccoli, sempre sul SIFAR, ci fece qui, nel febbraio 1968,
intrattenendo un accorato colloquio con l'onorevole Giorgio Amendola, una
dissertazione psico-filosofica sulle armi tradizionali (come egli disse) dei
ricattatori: la lettera anonima, la falsificazione del documento, la fucilata
morale; non fece cenno, evidentemente per ragioni di buon gusto, alla lupara.
Egli disse che l'attacco mirava lontano, che si trattava di un piano che non era
segreto: che si voleva la distruzione morale della classe dirigente per creare
il vuoto sul quale muovono i totalitari.
Disse ancora Piccoli che bisognava colpire alle radici il ricatto e i
ricattatori, i centri di intimidazione. Ecco la direttiva che l'onorevole
Piccoli dava allora.
Ma di grazia, cari colleghi, dove stanno questi centri di intimidazione? C'è
proprio bisogno di un'inchiesta per snidarli? Come scoppia, onorevoli colleghi,
il caso Giuffrè? Di dove parte la fucilata? Parte dall'anticamera dell'ufficio
del ministro delle finanze del tempo, allora socialdemocratico. E dove è diretta
quella fucilata? Al cuore della democrazia cristiana.
Come scoppia il caso Fiumicino? Da quale centro di intimidazione parte la nuova
fucilata? Parte dall'ufficio stampa di un ministro democristiano, ma, guarda
caso, doroteo. E dove è diretta? Il gioco si fa più interessante. Questa volta
non si mira più al partito amico, ma alla corrente avversa nel seno della
propria famiglia politica: fucilate in famiglia.
Non ricorda più, l'onorevole Piccoli, quanto ebbe a riferire alla Commissione
d'inchiesta l'onorevole Andreotti? «Tanto più grave -disse l'onorevole
Andreotti- siffatto malcostume nel caso in esame» (e si riferiva all'episodio
Matacena relativo allo scandalo Giuffrè) «in quanto le affermazioni di stampa e
di agenzia non appaiono determinate dal desiderio di punire delle malefatte, se
ci fossero state, o di vedere chiaro sui problemi tecnici di Fiumicino, ma da
finalità di lotta politica, addirittura di lotta politica personale». Siamo alla
lupara, l'arma tradizionale in queste occasioni. Di bene in meglio.
Da dove parte, cari colleghi, la fucilata che da avvio al caso SIFAR (anzi, sono
più fucilate)? Con quale mentalità il ministro Tremelloni affronta i nuovi
compiti di ministro della difesa? Si tratta della solita faida interalleata.
L'onorevole Tremelloni vuole dal nuovo osservatorio rivedere le bucce, certe
bucce, all'onorevole Andreotti.
Intanto il senatore Messeri, partito per l'America dopo un colloquio con
l'onorevole Moro e l'onorevole Fanfani, trova ostacoli per piazzare una commessa
militare a favore di una ditta privata con la quale è in concorrenza la
Finmeccanica. La colpa è del SID che informa il ministro degli esteri. Comunque,
il senatore Messeri, tornato dall'America a mani vuote, accusa il ministro
Tremelloni di avere ordito la manovra allo scopo (questo è il linguaggio
parlamentare che si usa tra alleati di Governo!) « di dare sfogo ai suoi bassi,
meschini interessi personali».
Risentimenti. Poi la frana, come si direbbe, l'onda di piena, anch'essa carica
di fango, che si può sintetizzare nelle parole dell'onorevole La Malfa: se si
sono trovati 30 milioni per un piccolo partito, come quello repubblicano, è
evidente che l'uso dei fondi del SIFAR deve essere stato piuttosto generoso.
I centri di intimidazione sono stati da tempo tutti individuati e schedati nella
coscienza del cittadino. Il centro di intimidazione primo si chiama:
partitocrazia. E per sapere queste cose, che fra l'altro lo stesso onorevole La
Malfa conosce bene, c'è proprio bisogno di studiare, indagare, frugare nei
rapporti fra classe politica e burocrazia? Ma se questo è l'unico libro aperto
sulla scena politica italiana!
Abbiamo su tale argomento collezioni pregevoli, e se la conclusione è sempre
quella, cioè le casse della partitocrazia, le vicende sono fantasiose: si va
dallo scandalo INGIC allo scandalo Santalco-Corrao, allo scandalo di Savona (un
miliardo sparito secondo la tecnica abituale), allo scandalo dell'ECI, allo
scandalo della penicillina (anche lì, 1945, si incontrano democristiani e
socialisti), allo scandalo del tabacco messicano, a quello del Banco di Sicilia.
E l'elenco è incompleto. E c'è di tutto, per tutti i gusti e per tutti i palati,
ma gli ingredienti e la cucina sono noti, e si chiamano: partitocrazia.
Un altro centro di intimidazione -sempre per usare il linguaggio dell'onorevole
Piccoli- su cui vale la pena di soffermarsi si chiama (perdonate se il mio
intervento si fa personale) Pietro Nenni. Che centro di intimidazione! Anche in
questa vicenda, come in altre, Pietro Nenni è il principale artefice. Vi
ricordate il 1960? Vi ricordate la lapidaria risposta che Pietro Nenni dette, in
una intervista televisiva, dopo i noti episodi -che l'antifascista Vinciguerra
definì delinquenziali- di Genova? «Il congresso del Movimento sociale italiano?»
disse Nenni «per carità, è stato solo un pretesto». Un pretesto... Il pretesto
di Pietro Nenni. Si raccolsero morti, sangue, dolore, violenza; il Parlamento fu
rinnegato nella sua funzione primaria; lo Stato, da allora, comincia a
sbriciolarsi: tutto per un pretesto, il pretesto di Pietro Nenni. Il pretesto di
dar vita alla formula che ci delizia. I socialisti al potere, per restarci,
hanno bisogno di intimidire. Nata dalla piazza, la formula ha come estrema
riserva, per vivere, la piazza. È il 1960 che ci perseguita e vi perseguita.
Nella vicenda del SIFAR nulla di diverso. Il centro di intimidazione Pietro
Nenni opera con un'abilità ed una spregiudicatezza diaboliche.
Crisi di Governo, luglio-agosto del 1964. Il partito socialista si trova
sull'orlo della rottura. Addio potere! Ma ecco Pietro Nenni stendere la sua
ragnatela. Su "l'Avanti!" appaiono sei articoli, alcuni firmati Pietro Nenni,
altri "Stella nera". Si denuncia una situazione di pericolo. Si ripete il gioco
del 1960: le istituzioni in pericolo... Sembra un richiamo alla responsabilità:
stiano attenti i socialisti. No! È solo un ricatto, un ricatto operato alle
spalle di quei socialisti che non intendevano più protrarre la loro
collaborazione con la democrazia cristiana. È stato detto (credo dal collega
Almirante): l'onorevole Nenni ha, non dico inventato, ma certamente ingrandito
con notevolissima abilità politica e con il ricorso anche alla fantasia voci di
«colpi di Stato» per compiere ritmici «colpi di Governo». Il giuoco è tutto
socialista; e che sia stato un abile, ma turpe giuoco, un pretesto
intimidatorio, ce lo testimoniano due alti personaggi socialisti: l'onorevole
Brodolini e l'onorevole De Martino. Il 4 agosto 1964, l'onorevole Brodolini così
si esprimeva in quest'aula a proposito dei fatti del luglio 1964: «Vero è che le
voci di congiura di palazzo o di colpo di Stato, di cui s'è accennato nel corso
della crisi, appartengono soltanto al mondo della fantasia e del ridicolo, e
d'un ridicolo che si riversa per intero su chi tali voci ha artificiosamente
alimentato». Questo diceva l'onorevole Brodolini, oggi ministro del lavoro.
Che sia stato un turpe gioco, un turpe ricatto, ce lo ha confermato l'onorevole
De Martino quando, deponendo al processo De Lorenzo-L'Espresso, ha dichiarato di
aver saputo dall'avvocato Pasquale Schiano che il generale De Lorenzo aveva
messo in atto manovre miranti a colpire le istituzioni democratiche, di aver
reso edotto Pietro Nenni dì ciò e di aver ricevuto da questi la seguente
rassicurante risposta: «stai tranquillo, è amico dei socialisti, è un
sostenitore del centrosinistra, è un partigiano; sarà un buon capo di stato
maggiore». Ecco il centro di intimidazione Pietro Nenni, il centro di
intimidazione che è arrivato al punto di dichiarare che egli non sapeva nulla di
questi eventi e che, se lo avesse saputo, lo avrebbe dichiarato a tutte lettere,
mentre il Parlamento sa e il paese sa che conosceva perfettamente tutto, perché
l'apprendista stregone del colpo di Stato era stato lui. Direte che adopero un
linguaggio pesante e irriguardoso quando definisco Pietro Nenni un centro di
intimidazione, quando definisco le sue manovre come ricattatorie e di basso
conio. Ma non sono io il colpevole. È il vicepresidente del Consiglio, onorevole
De Martino, che sotto giuramento ha dichiarato quanto ho riportato; è
l'onorevole De Martino che sotto giuramento ci documenta le manovre di Pietro
Nenni! Che fu un pretesto, ingenui ed irresponsabili colleghi della democrazia
cristiana, ve lo dice l'atteggiamento dei comunisti, che oggi, dei presunti
fatti del luglio 1964, si interessano solo marginalmente, perché puntano su
altre e più sostanziose cose. Nulla di male se tali esercitazioni avvenissero su
terreno neutro, a spese del partito o dei partiti o delle correnti; ma quando
queste esercitazioni a fini di potere avvengono sul corpo vivo delle
istituzioni, sul corpo vivo delle forze armate, ebbene, si ha tutto il diritto
di denunciare e condannare con forza, specie se si rifletta ai posti di
responsabilità dai quali ha operato ed opera questo vecchio tribuno della plebe.
Sono nel giusto coloro che scrivono che Pietro Nenni ha conservato al Governo la
mentalità dell'antico massimalista protestatario. Dalle sue epistole ridicole
agli studenti de "la Zanzara" e a Sandra Milo alle cose date ad intendere sul
presunto colpo di Stato del luglio 1964, la carriera dell'attuale ministro degli
esteri è costellata di incoraggiamenti diretti alla sovversione: e tutto dal
banco del Governo. Ma non si può stare al Governo con la mentalità del
giornalista -sia pure robusto e suggestivo- del "Lucifero", del "Popolo
d'Italia", de "l'Avanti!" edizione frontista. In tal modo attraverso il Governo
altro non si fa che diffondere i germi di dissolvimento della società nazionale:
e così tutto si sfarina nel paniere di questi rivoluzionari da operetta, con le
teste dei generali, si raccolgono i cocci di uno Stato in disfacimento.
Ricordate come Pietro Nenni chiudeva, nel gennaio del 1948, il congresso del
partito socialista italiano? «Anche noi, compagni, invece di avere decine e
centinaia di giornali che ci oltraggiano ogni giorno, potevamo essere ben visti
dalla borghesia italiana, essere celebrati come uomini di governo e uomini di
Stato. Per me, io non sono né un uomo di Parlamento, né un uomo dì governo, né
tanto meno un uomo di Stato; sono un militante della, classe operaia e ho una
sola speranza: quella che il giorno in cui morirò gli operai possano dire: è
morto uno dei nostri, uno che sentiva come noi, uno che lottava come noi, uno
che non ci ha mai abbandonati».
Molto meglio, onorevole Nenni, se fosse stato così, se le tentazioni delle
stanze dei bottoni non vi avessero mai colpito. Quanti guai risparmiati, quanti
contrattempi, quante manovre, quante amarezze, quante bugie, onorevole Nenni!
L'onorevole Nenni fece sapere, nel momento in cui scoppiava -per dirla con
l'onorevole Moro- «il più amaro e ripugnante capitolo di questa vicenda - la
propalazione (sono sempre parole dell'onorevole Moro) di alcune voci
diffamatorie nei riguardi dell'onorevole Nenni e dei colleghi Pieraccini e
Corona» - che, come «figlio del popolo», non aveva alcun dovere di ricorrere al
magistrato per avere giustizia, e che, per difendersi dalla calunnia, era
sufficiente la sua affermazione che di calunnia si trattava.
Diverso comportamento l'onorevole Nenni tenne nel lontano 1946. Pubblicamente
accusato di aver sottratto dall'archivio della polizia il fascicolo dell'OVRA a
lui intestato, di averlo trattenuto alcuni giorni, di aver sottratto documenti
in esso contenuti e di averne successivamente fatti inserire altri dopo la
riconsegna del fascicolo stesso all'archivio, l'allora vicepresidente del
Consiglio e alto commissario per le sanzioni contro il fascismo si querelava
-dico: «querelava»- per diffamazione contro l'accusatore, il giornalista
Trizzino. Il processo si fece dinanzi al tribunale di Roma, e l'accusatore di
Nenni venne assolto perché il fatto addebitatogli non costituiva reato, dopo che
il pubblico ministero ebbe testualmente dichiarato che il Trizzino aveva esposto
i «fatti realmente accaduti».
Vedete, cari colleghi: nella vita tutto torna, anche la pagina dell'OVRA; e chi
l'avrebbe mai detto! Anche allora fascicoli che si ritiravano, che si
rificcavano nell'archivio, che si manipolavano direttamente dal vicepresidente
del Consiglio in carica. Allora non c'erano ministri che non sapevano: c'erano
ministri che direttamente andavano negli archivi ad informarsi, a vedere come
stavano le cose, a prelevare fascicoli senza rispetto di leggi, di regolamenti o
altro; e c'erano ministri che si querelavano e che quando venivano condannati -e
questo va a loro onore- non cercavano, no, di metter su Commissioni d'inchiesta
parlamentare per vendicarsi di aver avuto torto in sede giudiziaria.
Forse è stato quell'esempio ad indurre Pietro Nenni a non adire l'autorità
giudiziaria. Però non ci si venga a dire che i socialisti hanno fatto pulizia,
che, come diceva l'onorevole Fortuna, mettendo le mani su questo ingranaggio del
SIFAR non già si svela alcun segreto, ma si mette a nudo la sostanza di un
meccanismo autoritario e totalitario in atto. Non lo si dica, quando si ha ai
vertici del proprio partito, in cima alla piramide, un uomo che la magistratura
nel 1946 coglieva con le mani nel sacco dei fascicoli dell'OVRA. No, onorevole
Mauro Ferri, non ci sono partiti che si possono porre al di sopra della calunnia
e del fango. Quando si hanno simili precedenti, quando accadono episodi che
danno a vedere che si sono ficcate le mani e la bocca nei fondi del servizio
segreto, c'è un unico dovere, se non si crede nella magistratura e ci si batte
per l'inchiesta parlamentare: che fra i compiti della Commissione, al primo
punto, vi sia quello dei rapporti tra il SIFAR e il partito socialista e, se si
ha il coraggio di andare in fondo, anche la vicenda di un finanziamento -prima
che l'onorevole Saragat salisse al seggio di Presidente della Repubblica- dei
socialisti austriaci, nel momento in cui si discuteva il problema altoatesino.
Sul terreno politico, una pennellata sugli strani rapporti tra la democrazia
cristiana e il partito comunista non guasta. Non so se gli onorevoli colleghi ci
hanno fatto caso: anche alla vigilia dell'entrata dei socialisti al Governo vi
fu una discussione aspra e dura, che io ho rievocato: l'aeroporto di Fiumicino.
Vi ricordate la filippica antidemocristiana dell'onorevole Amadei? Si dovevano
fidanzare, la democrazia cristiana e il partito socialista italiano: e il
fidanzato, pochi attimi prima di prendere possesso della futura sposa, ne disse,
sul conto della fidanzata, di tutti i colori. Ve ne ricordate? Poi è accaduto
quel che è accaduto: si sono sposati, e dei traviamenti governativi del
fidanzato socialista sono così piene le cronache da far impallidire le antiche
esperienze della fidanzata.
E che clima c'è oggi, onorevoli colleghi, nell'aria? Che aria si respira? È di
moda il divorzio (l'onorevole Fortuna non lavora per nulla), e la consorte
democrazia cristiana -sempre viva, sempre arzilla, sempre pronta a meravigliare,
a passare sopra alle ormai superate convinzioni morali, a restare à la page,
moderna- è pronta per nuove nozze.
Il fidanzato socialista è un po' consumatello: una parte di quel partito se la
sta catturando la democrazia cristiana, l'altra il partito comunista, che è il
prossimo -diciamolo in termini affabili- playboy della situazione.
Ecco il nuovo incontro: democrazia cristiana-partito comunista, il nuovo
matrimonio, la nuova esperienza! Ed ecco il SIFAR. Perché, se Fiumicino,
nonostante tutto, fu il terreno d'incontro fra la democrazia cristiana e il
partito socialista, tale non dovrebbe essere il SIFAR per la democrazia
cristiana e il partito comunista? Fantasie? Ma date uno sguardo agli oratori
comunisti: sono tutti di secondo piano, comprimari. Fino a ieri, il SIFAR era
stato il terreno di battaglia dove pascolavano indisturbati i grandi personaggi
del partito comunista. Perché ora queste assenze? E perché questi toni smorzati?
Che c'è sotto? È proprio azzardato dire che è desiderio vivo sia della
democrazia cristiana sia del partito comunista far pagare parte delle
conseguenze del SIFAR al partito socialista italiano? Non direi. È proprio
azzardato affermare che la democrazia cristiana, purché il partito comunista
allenti un po' la morsa sui suoi uomini compromessi nella vicenda, è disposta a
far pagare alle forze armate tutto il prezzo della vicenda?
Ecco la nuova maggioranza, ecco, già se ne intravedono i tratti caratteristici;
e il luogo del delitto: le forze armate. Che tristezza! E che disperato avvenire
si prepara!
Si è fatto ieri riferimento in quest'aula a un precedente storico: si è citata
la vicenda del nostro Parlamento quando decise nel 1917 di riunirsi in seduta
segreta per discutere a fondo e responsabilmente la condotta delle operazioni
belliche. Si è reso omaggio a quel gesto coraggioso; ma se si va alle carte, ai
verbali, alle fonti, si trova che la nostra classe politica di allora non aveva
nulla di importante da dirsi in proposito. Pensate: in seduta segreta, il
Parlamento italiano del 1917 lamentò il mancato internamento di 4.000 tedeschi
della riviera ligure che erano poi tra l'altro vecchie coppie di poveri
pensionati. Si denunciò la presenza di un'istitutrice tedesca presso l'onorevole
Guicciardini e la situazione dell'ispettore forestale Dall'Agata, la cui moglie
risultava la cognata del generale Conrad (e poi si scoprì che questa non era
austriaca, ma triestina). Il De Felice-Giuffrìda segnalò, allarmato, che il
conte Luigi Aldovrandi Marescotti, capo di gabinetto del ministro degli esteri,
aveva la madre austriaca, e che la vedova del generale Alberto Pollio aveva un
fratello ufficiale austriaco.
Piccole cose, bisticci, cari colleghi! Anche allora, dopo Caporetto, il liberale
giolittiano Marcello Soleri sostenne che Cadorna «perseguiva chimere di
dittatura», lasciando chiaramente intendere che si era sfiorato il colpo di
Stato. «L'audacia giunse fino al tentativo di porre a capo del Governo un
generale, ottimo, ma comandato da Cadorna. La tragedia d'Italia stroncò il
torbido disegno». Già mesi prima, sempre in seduta segreta, il repubblicano
Pirolini dovette giustificare un suo scambio di telegrammi col generale Cadorna
dichiarando formalmente «di non aver mai pensato ad una dittatura militare», e
il socialista Ferri aveva chiesto di essere tranquillizzato «sulla difesa delle
pubbliche libertà dalla minacciata dittatura militare». E, di rincalzo, Treves
interrogava il ministro dell'interno: «Esiste, accanto alla polizia civile, una
polizia militare la quale non limita le sue investigazioni contro lo spionaggio
militare, ma le estende alle opinioni politiche, e sulla condotta dei cittadini
costruisce le sue fiches, agendo in piena indipendenza da ogni potere
governativo?».
Ecco: giugno-dicembre 1917. Siamo a cavallo della tragedia di Caporetto. Decine
di migliaia di giovani muoiono al fronte, ma il nostro massimo organo di
rappresentanza politica gira a vuoto, anticipando di mezzo secolo le discussioni
sui fascicoli del SIFAR. Pensate, amici miei: a due passi abbiamo il conflitto
aperto fra Israele e i paesi arabi, la flotta russa nel Mediterraneo, Berlino
minacciata; ed eccoci qua a mettere sotto accusa le forze armate! Ieri
l'onorevole Ciccardini ci ha invitati tutti a star lontani, specie quando
discutiamo temi connessi alle forze armate, dalla retorica. E siamo d'accordo.
Ma allora, fuori di ogni retorica, è doveroso sottolineare, proprio nel
cinquantenario della Vittoria, come il processo di estraniamento del regime
assembleare dalla viva realtà del paese abbia radici ricorrenti e lontane. Anche
al fronte, allora, nel 1917, la nuova coscienza delle masse, ormai consapevoli
del loro valore, stava approfondendo il distacco dal vecchio linguaggio
politico. Ce ne ha lasciato una testimonianza viva Ardengo Soffici, là dove, in
un suo libro di guerra, ci racconta la visita al fronte del vecchio socialista
umanitario onorevole Bissolati: «I soldati accorsi intorno a lui, dai loro
buchi, ansiosi come fanciulli della novità, l'ascoltano fino alla fine in
silenzio. Ma quando egli, dopo aver detto di parlare non come ministro, ma come
italiano e loro compagno, rammenta che è sergente degli alpini... »
VASSALLI. Signor Presidente, vedo che l'articolo 77 del regolamento è tenuto
scarsamente in considerazione.
PRESIDENTE. Onorevole Vassalli, ella sa che l'articolo 77 del regolamento da
tempo si applica con larga tolleranza.
VASSALLI. Ne prendo atto: d'altronde, io sono un novellino
.
ALMIRANTE. Ma come, onorevole Vassalli? Poco fa un suo collega, da quei banchi,
ha letto un discorso che non sapeva neppure leggere! {Proteste a sinistra).
NICCOLAI GIUSEPPE. Forse
perché ho detto male di sua maestà Pietro Nenni?
PRESIDENTE. Onorevole Niccolai, la prego di non raccogliere le interruzioni e di
proseguire.
NICCOLAI GIUSEPPE. Citavo Ardengo
Soffici (forse non sapete nemmeno chi sia). (Proteste a sinistra). «Quando egli
[Bissolati], dopo aver detto di parlare non come ministro, ma come italiano e
loro compagno, conclude accennando alla necessità di continuare la lotta contro
il nemico già vacillante fino alla vittoria, pochi rispondono con un applauso.
E, nella truppa in giro, passa come un freddo che si propaga, e resta unico
risultato di tanta buona volontà del vecchio socialista. Io mi compiaccio
dell'attitudine dei miei soldati dinanzi alle parole del ministro. È come un
segno dei tempi, di un nuovo carattere nazionale; e dico: questo buon Bissolati
è un vecchio come tutti i suoi pari, come la maggior parte degli uomini che
rappresentavano l'Italia prima della guerra. Egli crede che le belle parole
dell'eloquenza parlamentare e dell'accademia patriottica, che le frasi
ideologiche, ì minuti moralismi astratti possano soddisfare della gente alla
quale si domanda e ridomanda la vita. Per costoro è impossibile capire che i
mezzi di cui si sono serviti durante tutta la vita per dominare le moltitudini
hanno perduto tutta la loro efficacia. Parlare di patria, di civiltà, di nemici,
di vittorie militari dopo che una politica abietta ha fatto sì che per anni e
per lustri si impedisse al popolo di capire il reale significato di queste
parole, peggio, se ne alterasse il significato fino al rovesciamento dei
concetti che esprimono, è per lo meno triste ingenuità, la prova di una
mentalità esautorata da questa guerra».
Onorevoli colleghi, quelle esperienze non ci dicono, non ci insegnano nulla?
L'opinione pubblica, attonita, ha anche questa volta capito: la classe politica
non ha i titoli morali per intentare processi e per mettere le forze armate sul
banco degli imputati per salvare se stessa. Lo si vede da lontano un miglio: non
si vuole la ricerca della verità. Ne siamo incapaci, soprattutto perché non
crediamo più in noi stessi. C'è solo il morboso desiderio azionista di mettere
le mani nel fango politico di questa povera Italia, a frugare nelle frivolezze,
nelle lotte di fazione, nelle faide delle ambizioni, degli intrighi, delle
congiure, delle corruzioni. Ci si vuole asciugare la bocca con il grigioverde
dei nostri soldati. Che, nel mezzo, ci siano dei generali, non ci sorprende;
come compari degni della classe politica, si rivoltino anche loro nel fango di
questa amara vicenda.
Ma si tengano lontane le forze armate, che nulla hanno a che fare con certi
generali. E si raccolga l'insegnamento primo che dalla vicenda sale fino a noi:
dobbiamo curare noi stessi, essere medici impietosi di noi stessi. Se una
richiesta dal paese saie fino a noi, è di questo tenore: pulizia, pulizia
morale, che è la condizione prima per fare che anche il vecchio, l'inadeguato,
l'ingiusto siano spazzati via. E si abbia una volta tanto, come Parlamento, come
espressione della nazione, delle sue ansie e delle sue speranze, la forza di
levarci, come dice padre Dante, «dalla cintola in su», dal fango dei nostri
piccoli bisticci quotidiani per guardare oltre, più in alto, più in là, in nome
di coloro che umilmente caddero da soldati, perché la patria vivesse! (Applausi
a destra - Congratulazioni).