da "il Tempo", 30 ottobre 2009
Ricordo di
Beppe Niccolai a 20 anni dalla scomparsa
Michele De Feudis
Una destra moderna,
dialogante, attenta ai temi dell'immigrazione senza tentazioni reazionarie,
intransigente nella lotta alle mafie, in grado di rileggere il sessantotto come
una occasione mancata, amante della libertà non si inventa dalla sera alla
mattina. È il risultato di un percorso accidentato, complesso, sofferto.
Segnato dall'opera intellettuale di «un maestro di carattere». E se lo scrittore
fiorentino Berto Ricci, «il fascista impossibile», lo fu per l'inquieto Indro
Montanelli, Beppe Niccolai lo è stato senza dubbio per quella parte di giovani
missini che, anche negli anni della marginalizzazione, non si sono mai arresi
alla testimonianza ma hanno puntato a conquistarsi -e ci sono riusciti- uno
spazio di azione rivolta al futuro. Beppe Niccolai, di cui il 31 ottobre ricorre
il ventennale della scomparsa, è stato un galantuomo politico d'altri tempi, un
misto di coerenza e semplicità, di carisma e profondità di analisi: parlamentare
missino «eretico per ortodossia», coltivava il sogno ambizioso di ricomporre «le
fratture tra le grandi culture del novecento».
Per la sua statura integerrima colpì nel profondo anche l'allora presidente
dell'Antimafia, Leonardo Sciascia, e Giampiero Mughini che ne tinteggiò un
ritratto nel libro "Compagni, addio" (Mondadori). «Nessuno è erede di una idea
ma nel filone culturale e politico della attuale destra dei diritti
rappresentata da Gianfranco Fini, con una vocazione unificante e repubblicana,
c'è una consequenzialità con il pensiero di Niccolai»: Umberto Croppi, assessore
alla Cultura del Comune di Roma è stato uno dei giovani negli anni ottanta più
vicini al leader missino, la cui lezione è una delle bussole nel mare delle idee
per il "Secolo d'Italia" di Flavia Perina e Luciano Lanna.
«Beppe era stato prigioniero nel campo di concentramento americano di Hereford,
insieme ad Alberto Burri e Giuseppe Berto. Per questo -racconta Croppi, che
conserva ancora il «sacco» usato da Niccolai in Texas in quei giorni- si sentiva
depositario del fascismo autentico a differenza dei reduci dell'RSI che
considerava, nel partito, un po' guasconi. Era un politico attento ai fenomeni
di trasformazione, aveva letture venate di romanticismo. E poi non era un
fascista di sinistra, era proprio di sinistra».
Il deputato livornese si autodefinì sul "Corriere della Sera" in una intervista
firmata da Francesco Merlo, «più a sinistra di Ingrao», ma allo stesso tempo non
coltivava nessun mito incapacitante: «"Dentro" di noi -scrisse nell'introduzione
del saggio di Adalberto Baldoni, "Noi Rivoluzionari" (Settimo Sigillo)- c'è il
materiale per costruire, per incidere, per lasciare il segno, per tessere una
prospettiva di cambiamento». La sua lezione resta di straordinaria attualità.
Prefigurava un «partito dialettico», dove la discussione doveva svolgersi sulle
idee e non su aridi schemi correntizi: una esortazione calzante per il nascente
"Popolo della Libertà", più incline alla sfida per slogan sui media che alla
elaborazione.
Sull'immigrazione aveva compreso in anticipo il rischio della nascente xenofobia
in Europa. «Una Comunità che si è costruita in quaranta anni di sofferenze è la
più vicina a capire la sofferenza di chi, per fame, emigra. (...) Non negrieri,
ma civilizzatori»: questa citazione di Niccolai, riportata su un opuscolo
militante del Fronte della Gioventù nel 1990, certifica quanto profonda nella
destra italiana sia la vocazione solidarista e da dove provenga la sensibilità
per l'integrazione mostrata da Gianfranco Fini con le recenti proposte
sull'immigrazione. Lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco ne traccia un ritratto
nitido: «Era un politico fuori moda e anche fuori luogo, per come possa essere
immaginato in un ambito di nostalgia. Rispetto ad altri esempi di probità, come
Alcide De Gasperi ed Enrico Berlinguer, Niccolai ci aggiungeva il sorriso. Aveva
un amore sincero non solo per il luogo istituzionale della politica, lo Stato,
ma anche nei confronti del popolo, al punto che definì la tragedia di Piazzale
Loreto, "l'ennesimo atto d'amore degli italiani per Mussolini"».
«Partecipò al convegno che avevamo promosso a Firenze con Marco Tarchi (ai tempi
giovane studioso, espulso dal partito, ma protagonista della corrente delle
"Nuove sintesi" ndr) e il filosofo Massimo Cacciari. Ne apprezzò -aggiunge
Croppi- lo spirito innovatore intravedendo la praticabilità di strade oltre la
destra e la sinistra». Peppe Nanni, intellettuale vicino a Gianfranco Fini,
considera eredità di Niccolai una educazione alla «mistica della politica»,
paragonando gli interventi del deputato pisano «alle rappresentazioni di Eschilo
nei teatri della Grecia antica». Niente a che vedere con le attuali comparsate
nei talk show.
«Ci fornì un esempio di sobrietà -chiosa Croppi- quando rinunciò al seggio
parlamentare, ma continuò a svolgere in pieno la sua missione, indicando al
partito le rotte della rivoluzione sociale». Niccolai era questo e molto altro.
Fu l'interprete irripetibile, insieme a Giano Accame, di un mondo dove avevano
cittadinanza «gli umili e gli indifesi», ai quali donò il sogno di poter
cambiare l'Italia.
Michele De Feudis
è giornalista e scrittore, redattore di "Epolis" e collaboratore di varie
testate tra cui il "Secolo d'Italia". Scrive di libri, cinema, politica e calcio
per quotidiani nazionali. Ha curato il libro "Tolkien, la Terra di Mezzo e i
miti del III millennio", edito da "L'arco e la corte" (Bari).
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