7 gennaio 1984
Pertini uno e due
La stampa «moderata» lancia al cielo grandi lamenti: «ma questo
non è il Pertini che conosciamo!». Nel libro "Memorie" di
Alessandro Lessona (Sansoni editore, Firenze), a pagina 73,
trovo descritta questa vicenda:
«Altro episodio che accadde durante la mia permanenza a Savona
fu quello riguardante l'on. Sandro Pertini. Il fratello di lui
era ufficiale nella legione della milizia col grado di
centurione: i rapporti fra i due fratelli erano pessimi non solo
per ragioni politiche, ma anche per motivi familiari. Il Pertini
fascista non si peritava a dipingere il Pertini socialista con
le più fosche tinte e con giudizi offensivi. L'atteggiamento
cosi sfavorevole, assunto da un membro della famiglia,
contribuiva ad infiammare sempre più l'ostilità già molto accesa
verso l'antifascista Pertini fra l'elemento dello squadrismo
savonese. La casa natale del Pertini era a Sassello, un piccolo
paese del retroterra montano. Quivi viveva il Pertini fascista
con la vecchia madre. Il fratello Sandro vi capitava assai
raramente. Un giorno, però, l'on. Pertini improvvisamente
apparve a Savona: fu disgraziatamente riconosciuto da alcuni
squadristi, i quali lo ingiuriarono e percossero malamente. Il
Pertini, vistosi a mal partito, si sottrasse alla foga dei suoi
assalitori fuggendo e venne a cercare protezione ed aiuto alla
Federazione fascista. Io ero a Roma, ma il mio collaboratore e
amico, Aurelio Archenti, che mi sostituiva durante le assenze,
lo accolse cordialmente, stigmatizzò con veementi parole
l'incidente e si dichiarò pronto a tutelare la incolumità
dell'onorevole. Gli ordini miei erano tassativi e l'Archenti
era, per indole e per disciplina, uno scrupoloso esecutore. Io
non volevo più violenze, dacché il Governo era in nostro potere,
ed avevo già dato esemplari punizioni a tutti coloro che avevano
mancato al rispetto che si deve agli avversari o, peggio,
avessero manifestato intenzioni di ricorrere a vie di fatto.
L'Archenti, dunque, promise a Pertini che lo avrebbe fatto
accompagnare fino all'autobus in partenza per Sassello poiché,
soggiunse, non riteneva prudente che egli si trattenesse più a
lungo a Savona in quel giorno. Poco tempo dopo l'Archenti
ricevette una lettera cortese dell'on. Pertini con la quale lo
ringraziava dell'accoglienza premurosa e del trattamento
cavalleresco usatogli. Passarono gli anni, molti anni, e venne
la guerra, la sconfitta e la liberazione. L'Archenti si trovava
a Milano e, nella sua qualità di squadrista ante-marcia, era
continuamente in pericolo. Il caso volle che proprio l'on.
Pertini fosse in posizione di comando a Milano. L'Archenti
allora, ricordando l'episodio savonese, pensò di rivolgersi a
lui per avere un valido testimone del suo equilibrato, se pur
doveroso, comportamento. Il Pertini lo ricevette, ma non dette
segni di riconoscerlo. L'Archenti cominciò a dirgli che aveva
avuto il piacere di incontrarlo a Savona. Ma, non dando ad
addivedere il Pertini di ricordarsene, pensò che fosse opportuno
esibire la lettera che aveva ricevuto dallo stesso Pertini al
tempo dell'incidente di Savona. Con sua grande sorpresa vide il
suo interlocutore andare sulle furie e dirgli che non aveva
alcun motivo di riconoscenza ma, semmai, di rimprovero, per
avere egli, Archenti, impedito a lui in quel giorno a Savona di
godere della sua libertà di cittadino. "Ella mi ha messo al
bando dalla mia città!". L'Archenti rimase di sasso: riprese la
lettera, se la mise in tasca ed uscì salutando un Pertini
sorprendentemente diverso da quello precedentemente conosciuto».
* * *
«Giovanni Spadolini ha energicamente rimproverato il senatore
repubblicano Libero Gualtieri, di fronte ad altri esponenti del
partito, per una dichiarazione sul Libano. Il ministro della
Difesa si è lamentato per questa «libertà d'azione» del
parlamentare su una materia tanto delicata: «ti invito
formalmente a non fare più dichiarazioni sul Libano. Tu del
resto non puoi capire nulla anche perché non hai fatto il
servizio militare». ("l'Espresso", «Sul Libano parlo io»)
Ora sarebbe interessante sapere «quando e dove» il Ministro
della Difesa, Giovanni Spadolini, ha prestato servizio militare.
* * *
«E di Mussolini ne parla con suo padre?». «Certo, come no? Su
Mussolini le nostre opinioni concordano. Io stimo Mussolini. Ho
molta ammirazione per la sua figura di uomo politico "nuovo",
forse perché non ho vissuto quel periodo. Però ho ascoltato i
dischi dei suoi discorsi: la dichiarazione di guerra
all'Etiopia, la dichiarazione contro la Francia e Inghilterra,
quel grido "Vincere e vinceremo", mi ha sempre provocato
tensione, forse paura, però mi piace. Il fatto che la gente,
anche se solo emotivamente, partecipasse alla vita del paese,
che l'Italiano fosse fiero di sentirsi italiano, erano tutti
fenomeni importanti. Mussolini è l'uomo politico più importante
del secolo, come si fa a coprirlo solo di fango? Era un uomo di
straordinaria carica vitale».
("Gente", n. 50 ,23.12.83, "Il Presidente del Consiglio Bettino
Craxi in un racconto inedito del figlio Vittorio").
* * *
«Perchè ha deciso di candidarsi nelle liste del PSI, per le
recenti elezioni e come ha accolto il suo fallimento?».
«Io non ho deciso niente. Sono un socialista ereditario, mio
padre era Segretario della sezione socialista di San Zenone sul
Po. Il partito mi ha chiesto di andare in questua di voti e io
non potevo rifiutarmi. Se fossi stato eletto sarebbe stata una
bella fregatura, perché io guadagno più d'un deputato o d'un
senatore e ho una famiglia gravosa da mantenere. Ho accettato
anche perché stimo Craxi, che è il miglior socialista che abbia
avuto l'Italia dopo Benito Mussolini, uomo di grandissima
statura».
(Gianni Brera, "Giornale di Sicilia", 20.10.1983)
* * *
«Solo una volta, nel corso della lunga conversazione, il viso ha
uno scatto che tradisce la vivacità della sua tiroide. È quando
parla del soldato tedesco. Io conosco, mi dice mentre
conversiamo dell'attuale momento di tensione Est-Ovest, il
soldato tedesco. Sono arrivato con lui, come tenente della Prima
Divisione Panzer, alle porte di Leningrado nell'autunno 1941.
L'anno seguente, sempre con i carri, ci battevamo a meno di
cento chilometri da Mosca: i russi ci erano superiori di numero
come tre a uno, eppure avevamo raggiunto due storiche capitali.
Nell'inverno 1944-45 partecipai all'offensiva delle Ardenne. Li
gli americani erano cinque contro uno: per poco non li
ributtammo nel Mare del Nord. Ancora oggi quelle virtù di
coraggio e di tenacia, ormai a disposizione di tutta l'Europa
Occidentale, sussistono e si appoggiano ad una organizzazione
che non è inferiore a quella di un tempo. Che giorno è oggi?
Venerdì: ecco se oggi, venerdì, il nuovo ministro della difesa
Woerner pigiasse un bottone, mercoledì prossimo vi sarebbero in
armi 1.200.000 tedeschi di meno trenta anni, ben addestrati ed
equipaggiati e motivati. Una aggressione sovietica sul fronte
centrale non sarebbe una passeggiata ...».
(«Colloquio con Schmidt: come nacquero gli euromissili»,
"Corriere delta Sera", 30.12.82)
* * *
L'ex-cancelliere tedesco Helmut Schmidt è socialista. Come
Sandro Pertini. Si notano le differenze.
17 gennaio 1984
Palmiro Togliatti e
un «atto scellerato»
C'era qualcosa di più significativo nella vita di Umberto
Terracini, il leader rifiutato, scomparso di recente, che valeva
la pena di essere ricordato. Nessuno lo ha fatto e ciò ci
conferma come la falsità, l'ipocrisia come sistema, in breve la
doppiezza, non siano solo caratteristiche del PCI, ma di tutto
il mondo politico italiano.
L'episodio che riferiamo, e che tutta la stampa ha taciuto, nel
ricordare Umberto Terracini, risale al marzo 1928. È un episodio
sconvolgente. Fa da «paradigma», da modello, nel dimostrare a
quali estremi giunga, all'interno dei partiti comunisti, la
lotta per il potere.
I protagonisti sono, da una parte Antonio Gramsci e Umberto
Terracini, dall'altra Palmiro Togliatti e Ruggero Grieco.
* * *
Si tratta di questo. È il marzo 192S. A Mosca Stalin espelle dai
partito Trotskj, Zinoviev e Kamenev. Palmiro Togliatti e Ruggero
Grieco si trovano a Mosca. Orbene, a Antonio Gramsci e a Umberto
Terracini, reclusi nel carcere di San Vittore sotto l'accusa di
eversione contro lo Stato, arrivano due lettere (vedi
"Rinascita" n° 32 del 9.8.68) a firma di Ruggero Grieco. Si
faccia bene attenzione al particolare: quelle lettere, da Mosca,
vengono inviate, non attraverso i canali clandestini, come il
PCI era solito fare dati i tempi, ma per via normale. Vengono
imbucate a Mosca, con tanto di francobollo, con tanto di
indirizzo (carcere di San Vittore Milano), con i nomi dei
destinatari (Antonio Gramsci e Umberto Terracini) e del mittente
(Ruggero Grieco).
* * *
È evidente: chi spedisce quelle lettere, vuole che siano lette,
oltre che dagli interessati, anche dal magistrato che, contro
Gramsci e Terracini, ha spiccato mandato di cattura per
eversione contro lo Stato.
* * *
Che c'è scritto in quelle lettere di Grieco che, fra l'altro, si
premura di far sapere che scrive a nome di Togliatti, scusandolo
per la sua nota «avarizia» nello scrivere, degna, dice Grieco,
di un rabbino?
Le epurazioni staliniane in atto, non solo vengono giustificate,
ma esaltate. Aver eliminato la opposizione e ogni altra voce di
dissenso, scrive Grieco, è un atto responsabile in un momento in
cui la minaccia di guerra all'URSS è fatto reale. In questi
frangenti, sottolinea Grieco, «non si può giocare
all'opposizione».
* * *
Fermiamoci su questa frase: «non si può giocare alla
opposizione». Grieco, scrivendo in questi termini a Gramsci e a
Terracini, intendeva informarli su quanto accadeva a Mosca, o
viceversa il riferimento, partendo dal comportamento di Stalin,
era personale?
Il riferimento è personale. È diretto a Gramsci e Terracini che,
fin dal 1926, non si erano peritati di esternare il loro
profondo dissenso dai metodi con i quali Giuseppe Stalin
conduceva il partito. «Trotskj, Zinoviev, Kamenev, hanno
contribuito ad educarci per la rivoluzione, sono stati nostri
maestri, non possono essere espulsi», aveva scritto Antonio
Gramsci in una lettera indirizzata a Stalin, tramite Togliatti,
lettera mai consegnata.
* * *
Ma il «brutto» di quelle lettere che, scientemente, Palmiro
Togliatti voleva che cadessero nelle mani delle autorità
fasciste, stava nel fatto che Grieco, dando quelle notizie,
indicava Antonio Gramsci, non lo si dimentichi in concorrenza
con Togliatti per la nomina a capo della Segreteria del PCI,
come uno dei più alti dirigenti del comunismo internazionale. Il
che veniva a vanificare la difesa dello stesso Gramsci che -in
attesa di essere processato- si era difeso dicendo che non
faceva parte dell'esecutivo del partito, cioè era sì comunista,
ma figura di secondo piano.
Il che, in parole povere, significa che Palmiro Togliatti, per
sbarazzarsi del suo concorrente alla Segreteria del partito, non
si peritava di denunciare Gramsci alle autorità che stavano per
processarlo «per banda armata»!
* * *
È un'accusa pesante quella che il sottoscritto rivolge a Palmiro
Togliatti. Me ne rendo conto. Potrebbe sfociare nella calunnia.
Ma che cosa è che mi fa insistere nella tesi prospettata?
È lo stesso Antonio Gramsci che viene in aiuto a quanto da me
affermato. Infatti, in una lettera indirizzata alla cognata
Tania del 5 dicembre 1932, Gramsci ritorna sulle strane lettere
del Grieco datate 1928.
«Ricordi», scrive Gramsci, «che, nel 1928, quando ero nel
giudiziario di Milano, ricevetti una lettera di un amico molto
strana» e «ti riferii che il giudice istruttore, dopo avermela
consegnata, aggiunse testualmente: "onorevole Gramsci, lei ha
degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo
in galera"». «Tu stessa», insiste Gramsci, «mi riferisti un
altro giudizio dato su questa lettera, giudizio che culminava
nell'aggettivo "criminale"».
«Si trattò -si chiede Gramsci- di un atto scellerato, o di una
leggerezza irresponsabile? È difficile dirlo. Può darsi l'uno e
l'altro caso insieme; può darsi che chi scrisse (Grieco - N.d.R.)
fosse solo irresponsabilmente stupido e qualche altro (Togliatti
- N.d.R.), meno stupido, lo abbia indotto a scrivere ...».
* * *
Umberto Terracini non sarà da meno. Infatti, rispondendo a
Grieco, nel commentare quella frase, per cui Grieco si accingeva
a scrivere per conto di Togliatti in quanto costui era «avaro
nel prendere la penna», commenta: «Per scrivere, oltre al
francobollo, occorre un certo quid di sentimenti e di impulsi
non cedibili e permutabili».
* * *
È una vicenda quantomeno crudele. Fra compagni. Nessuno se ne è
ricordato, commemorando Umberto Terracini.
* * *
«Come prestigio l'Università in Italia è una istituzione
definitivamente sepolta. Consigli dì facoltà e di istituto sono
assemblee di spettri, veri e propri uffici di collocamento di
mano d'opera abusiva o eccedente».
«Usano il sangue degli studenti per celebrare riti sacrificali
di auto-legittimazione».
«Gli accademici sono dei nìcodemiti, parlano in codice. Se ti
dicono sì, vuol dire di no, e viceversa. Le loro regole sono, in
generale, puramente mafiose: di cooptazione degli amici, o di
guerra tra capizona».
«Le Università, invece di essere laboratori, funzionano come
sentine in cui si distillano i vizi più torbidi. Per fare la
ricerca all'università devi bussare a quattrini al tavolo dei
partiti. Attraverso Comuni e Regioni possono finanziarti. La
condizione non scritta ma inesorabile è di non dare fastidio. È
il prezzo che si paga per la commessa che ricevi».
(Salvatore Sechi, professore presso l'Università di Bologna,
politologo, già iscritto al PCI) ("il Giorno", 29.XII.1983).
* * *
«Se non hai la rete protettiva di un partito, conti come la
schiuma della terra. Sei una pizza da immagazzinare».
(idem)
* * *
«Siamo precipitati morbidamente in un sistema di tipo
sovietico-consociativo, dove la reticenza di massa viene
chiamata pluralismo, la spartizione democrazia, la tolleranza
(eventuale) libertà».
(idem)
* * *
«Se dici a voce alta (o peggio scrivi) ciò che dici in privato,
diventi un appestato. Odio i conformismi. A Bologna, dove vivo
da più di dieci anni, ho trovato la capitale sudario del più
soffocante regime di partito».
(idem)
* * *
"Il Corriere della Sera" (5.1.84), in un neretto riquadrato,
molto vistoso, ci fa sapere che sarà interrogato dai giudici
savonesi, che stanno indagando sul caso Teardo, Franco Gregorio,
ex-funzionario di segreteria del Quirinale, allontanato dopo che
il suo nome era apparso negli elenchi della P2 e oggi rinchiuso
nel carcere di Imperia con l'accusa di associazione a delinquere
di stampo mafioso.
«Se conoscevo quella gente» (alludendo ai socialisti finiti in
galera), ha fatto sapere il Gregorio, «è perché fino a qualche
anno fa frequentavano il Quirinale».
27 gennaio 1984
Inquinamento mafioso
Giuseppe Azzaro, vice presidente della Camera, è un galantuomo,
nel vero senso della parola. Ho lavorato con lui, per anni,
nella Commissione antimafia e ho avuto modo di saggiare l'uomo,
in più occasioni. Non ci sono dubbi: la sua denuncia è sincera.
Si sente che gli è sgorgata dal cuore. Non ne poteva più e ha
parlato. Il problema ora è di sapere se avrà altrettanto
coraggio per andare fino in fondo. Intanto ascoltiamo alcune
delle sue accuse.
* * *
«Negli affari di mafia si cerca sempre la testa del serpente. Si
tenta disperatamente di individuare quello che tira le fila, ma
rimane sempre nell'ombra. Tutto questo è importante, tuttavia
quando se ne è tagliata una ne rispunta subito un'altra. Allora
perché non proviamo a mettere a nudo e sconfiggere il sistema di
connivenze e complicità che rende possibile l'infiltrazione
mafiosa in tutte le amministrazioni pubbliche? È patetica
l'affermazione del sindaco di Catania quando dice che la sua
città non è mafiosa. Ma che significa? I comitati di affari
esistono anche nell'amministrazione».
("la Repubblica", 14.1.84)
* * *
«Il sistema è collaudatissimo. Alle imprese che stanno per
vincere gli appalti si chiede di gonfiare i preventivi per fare
entrare anche la tangente che è diventata una componente del
costo. Si tratta di una maggiorazione che mediamente si attesta
al 15 per cento e che alla fine viene pagata dai cittadini. La
mia sensazione di parlamentare siciliano è che ormai non sia più
possibile alcuna azione amministrativa che non sia collegata con
tangenti e bustarelle. La mafia segue da vicino l'evoluzione
economica della società, sta dovunque vi sia un interesse
parassitario. Poi esercita la violenza, la corruzione. È questo
il problema numero uno. In Sicilia, prima o poi, bisogna
capirlo».
(idem)
* * *
Cos' Giuseppe Azzaro. Ma solo in Sicilia? O il sistema ha ormai
dilagato dappertutto?
Qui siamo a Torino. È appena scoppiato lo scandalo delle
tangenti che ha travolto la Città, capitale del perbenismo
piemontese. Ascoltate queste dichiarazioni:
«Un giovane industriale scoppia a ridere: tangenti? Scandalo? Ma
se Io sapete benissimo, ogni galantuomo che commerci in qualcosa
lo sa, che se si vuole vendere, bisogna ungere, gratificare,
assecondare spartizioni umilianti, distribuire secondo il più
aggiornato manuale del parassitismo politico, che prevede le
percentuali, non solo ai partiti, ma anche alle correnti, alle
sottocorrenti, alle famiglie. Torino dovrebbe fare eccezione? E
perché? Forse i nostri magistrati non sanno che larga parte
dell'indotto Fiat è taglieggiato da parassiti che chiedono la
tangente? Millantatori? Si, alcuni sono millantatori. Ma ci sono
anche interi uffici che pretendono la mazzetta. Chieda, chieda,
quali umiliazioni debbono sopportare grandi e medie aziende
costrette ad includere nei costi dei loro prodotti le mance per
i singoli uomini e i partiti politici».
("la Repubblica", 9.3.83)
* * *
Sempre a Torino. Questa volta è un lavoratore che parla. «Guardi
che il sistema della corruzione non è nato mica l'altra
settimana. Giusto ieri sera ho incontrato un mio amico che aveva
il problema di trovare un lavoro al figlio. Gli dico: ohe,
Arturo, come va? E quello: bene, il mio ragazzo lo assumono alla
SIP. Ma ho dovuto tirare fuori otto milioni. Capito? Ed è la
regola».
("a Repubblica", 9.3.83)
* * *
Torino, Catania, Palermo, Roma, Milano, che differenza fa?
Partito eguale mafia, mafia eguale partito. Citerò degli
avversari. Il siciliano Girolamo Licausi: «Ormai la mafia è il
cardine della vita politica italiana». Meglio sarebbe dire:
incarnazione. Il comunista Giancarlo Paietta: «È sempre più
difficile discernere il confine fra politica e criminalità».
Ed allora? Che ne facciamo di questa Repubblica mafiosa? La
teniamo così, in modo che Sandro Pertini possa, confrontandosi
con il fango che ci sommerge, continuare a dire che lui, e solo
lui, è bravo?
* * *
Ma ritorniamo a Giuseppe Azzaro. Ce la farà? Io ho i miei dubbi.
Si, Azzaro è galantuomo, ma è anche uomo di partito, intriso,
spesso, di quel «mal democristiano» che lo porta a cercare
coperture nel PCI.
«Bisogna fare un patto contro la mafia con uomini credibili», ha
affermato Azzaro, «non ricattabili, capaci di prendere decisioni
rapide e impedire l'ulteriore degenerazione del sistema,
evitando che si cada sempre più nelle mani della mafia. Da
questo fronte è assurdo escludere il PCI».
* * *
Perchè questo accenno, così nobile, al PCI, ad un partito che,
proprio in Sicilia, sul piano della moralità pubblica, non se lo
merita?
Cosa teme Azzaro? Che i comunisti gli ricordino che lui è stato
l'estensore della relazione (davvero ignobile, me lo consenta,
onorevole Azzaro!) di maggioranza sul caso Sindona? Che ha
scritto, lui di suo pugno, che nella vicenda del bancarottiere,
accusato di assassinio, «non vi è in alcun modo la
rappresentazione di un momento di degrado delle istituzioni», né
che «ai suoi torbidi disegni si piegarono esponenti politici o
amministrativi»? Teme che gli rimproverino che, con la sua
relazione, ha assolto tutti: il governatore della Banca d'Italia
Guido Carli, i dirigenti del Banco di Roma, il Presidente del
Consiglio Giulio Andreotti che indicherà in Sindona il salvatore
della lira, i segretari di partito che da Sindona presero i
soldi, i banchieri vaticani che ordirono il disegno di
salvataggio per sventare il crack, le collusioni fra il
sistema-Sindona e la P2?
Temeva tutto questo, ed allora, per salvare la Sicilia dalla
mafia, ha invocato l'aiuto del PCI?
Onorevole Azzaro, mi creda, i comunisti, non meritano la sua
attenzione. Non sono dei moralizzatori. Non ne hanno la stoffa.
Infatti, anche sul caso Sindona, sono stati zitti per ben cinque
anni. Dal 1974 al 1979. Nessun documento in Parlamento, in
questi anni, chiede indagini rigorose sul bancarottiere, con
firma PCI. Infatti -e lei onorevole Azzaro lo sa- quel silenzio
del PCI su Sindona aveva un solo ed univoco significato: quello
di non creare noie a Giulio Andreotti, amico di Sindona. E, in
contemporanea, del PCI. Io do una cosa a te, e tu dai una cosa a
me.
* * *
Comunque l'onorevole Azzaro una prima cosa può ottenerla. Il 26
gennaio 1972 il Consiglio di Presidenza della Commissione
antimafia ascoltò il dott. onorevole Alberto Alessi,
democristiano, che aveva chiesto di essere sentito. Da quella
audizione ne è venuto fuori un documento di 22 pagine. Però,
quando si è trattato di renderlo pubblico, il dott. on. Alessi
ha posto il veto. Il tutto è rimasto top secret.
In quel «memoriale» ci sono i nomi. Ebbene, onorevole Azzaro, un
primo passo: faccia in modo che quanto, a suo tempo, fu
affermato dall'on. Alessi, sia reso pubblico. Un primo passo, ho
detto. Verso la verità.
* * *
È tornata di attualità la vicenda della Raffineria ISAB di
Melilli (Siracusa). Un affare, non è una novità, di tangenti. Il
Presidente della Regione Sicilia, l'on. Santi Nicita, è caduto
proprio perché quel vecchio brutto affare di dieci anni fa, è...
ribollito.
Già, ma in quell'affare anche il PCI ha preso i soldi. Domandi
anche questo, onorevole Azzaro: come mai il giudice di Siracusa
Roberto Campisi non abbia ancora provveduto ad inviare al Senato
l'autorizzazione a procedere nei riguardi di Emanuele Macaluso,
direttore de "l'Unità"?
Onorevole Azzaro: il senatore Macaluso è un uomo credibile, tale
da dare concretezza al fronte anti-mafia?
* * *
Dalla Sicilia ai soldi riciclati della mafia nel Casinò di Saint
Vincent.
Enzo Biagi, giornalista principe, ha preso una lodevole
iniziativa. Essendo fra i vincitori del premio Saint Vincent di
giornalismo, premio alimentato dai soldi del Casinò, ha scritto
ai colleghi, vincitori come lui del premio, di restituire quei
soldi cosi chiacchierati.
È una iniziativa da apprezzare.
Pare
non debba dirsi Italia
ma lo sfascio.
È un fatto che si allunga
urge studiarlo
perché esiste,
dopo sarà tardi.
(Eugenio Montale) |
4 febbraio 1984
Berto Ricci: l'anticonformista e
il credente
2 febbraio 1941: cadeva, combattendo contro gli inglesi, a Bir
Gandula, in Cirenaica, Berto Ricci, fiorentino, poeta,
scrittore, matematico.
Sono passati 43 anni dalla sua morte. Fu un fascista
anticonformista, sanguigno, strafottente, spavaldo. Nella storia
della letteratura italiana contemporanea il suo nome rimane. Lo
stesso commentatore, nutrito di cultura marxista, è costretto a
citarlo, a ricordarlo.
Il foglio da lui fondato e diretto si chiamò "l'Universale"
(Gennaio 1931 - Agosto 1935).
* * *
Una sua nota -che intitolava "Avvisi"- del 3 giugno 1931: «Certe
nostre noticine di cronaca locale, innocentissime del resto, non
sono andate a genio a certi goletti duri di nostra conoscenza:
son piaciute, in compenso, a vinai, meccanici, macellari.
Benone. Noi facciamo questo "Universale" assai più per i vinai e
i meccanici che per i goletti duri. E proseguiremo con quella
schiettezza fiorentina che dà noia, pare, a tanti galantuomini
indigeni e forestieri e seguiteremo a dir bene e male di quel
che ci piace e non ci piace. Troppa gente c'è oggi in Italia che
batte le mani a tutto e a tutti, e approva ogni cosa, e crede, o
mostra di credere, che discutere un editto d'un podestà sia come
discutere il regime, il che non è fascismo, anzi servilità
vilissima e antifascismo morale. Che in Italia manchi la libertà
è una frottola straniera: ma aiutata, purtroppo, da molte deboli
schiene italiane».
* * *
In tempi di revisione del Concordato, la stampa è tornata a
parlare della Chiesa e della sua storia. Ebbene, fate un po' un
raffronto fra ciò che la stampa scrive oggi (dolciastre
considerazioni!) e la noticina che, sempre in materia di Chiesa,
scrisse Berto Ricci il 3 luglio 1931, cioè 53 anni fa.
«Noi preferiamo il clero dei tempi di Papa Innocenzo e di San
Francesco, crudele e cuncubinario ma anche capace di sacri e
profani eroismi, a questa grande burocrazia di onesti impiegati,
e piccoli risparmiatori che somigliano maledettamente, nel tono
e nei modi, e nella vita, a pastori protestanti; e ci ricordano
un po' troppo le sagome ottocentesche dei nostri amici del
cattolico e poetico Frontespizio, simili a comparse della
Favorita o dell'Emani. Venga presto, per il bene della
Cristianità, un Papa gagliardo e rivoluzionario che
sprotestantizzi la Chiesa, spenga la politica e ravvivi la
religione, lasci alle donnacciole le polemichette puntigliose,
riporti nel mondo l'alito del Vangelo, riceva si i pellegrini
d'America, ma si mescoli anche alla plebe di Trastevere e entri,
Vicario di Cristo, nelle case di San Frediano».
* * *
Giovanni Ansaldo nel suo "Dizionario degli Italiani illustri e
meschini" (edizioni Longanesi, 1980), parlando di Berto Ricci,
così scrive:
«Carattere risentito e fiero, non privo di una certa faziosità
toscana, ma incapace di bassezze e di piccinerie, mente temprata
dagli studi matematici e aperta ai più alti entusiasmi della
poesia, il Ricci, in due piccoli periodici pubblicati a Firenze,
"l'Universale", e poi "Campo di Marte", espose le sue idee in
articoli brevi e taglienti che contrastavano stranamente con lo
stile dei tempi. Mussolini in alto, come l'uomo che esprimeva
meglio le esigenze di grandezza politica del popolo italiano, ma
trattato senza piaggeria. E puntate di ogni sorta contro i
gerarchi ai quali ricordava che «una adunata non è una
Austerlitz» e ironie inesorabili contro le mani che applaudano
tutto. Detestato da molti federali, sospettato di sovversivismo
dai ministri che parlavano di andare verso il popolo, il Ricci
fu sempre Ietto, e, entro certi limiti, protetto da Mussolini;
al quale doveva apparire la personificazione dèi tipo d'uomo che
il fascismo avrebbe dovuto creare, per adempiere davvero le
proprie speranze».
* * *
Indro Montanelli, nella prefazione al suo "Primo tempo" (Casa
Editrice Italiana, Milano 1936) scrive:
«Questo "Primo tempo" è nato quando non si parlava della guerra
d'Africa, quando chi scrive aveva la stessa età o quasi del
protagonista; il secondo tempo, e cioè la definitiva formazione
di un anima e di un carattere in clima fascista, la racconterò
dopo la guerra, se a Dio piaccia. Anzi, nel "Primo tempo", più
del formarsi di una coscienza si narra di uno stato d'animo; e
gli stati d'animo sono storia dell'animo e variano, e niente più
di una guerra vale a superarli.
L'adesione incondizionata di tutta la nostra gioventù a
Mussolini non è ossessione, come spesso si pensa Oltralpe e
Oltreoceano, se bene la figura di Mussolini sia di tale
grandezza da giustificare anche l'ossessione: ma è coscienza
chiara della Rivoluzione (la maiuscola è di Indro Montanelli -
n.d.r.) che in Lui (la maiuscola è di Indro Montanelli - n.d.r)
si identifica. Coscienza che si forma: che si forma attraverso
prove, talvolta attraverso sbandamenti e inabissamenti; ma
sempre tesa verso un ideale che nella storia della società umana
non trova riscontri. E può darsi che nello stato d'animo di
Valerio (il protagonista del libro di Montanelli - n.d.r.)
qualcuno ritrovi il proprio. Qualcuno che poi vuol dire molti.
Questo libro -conclude Montanelli- è dedicato a Berto Ricci,
uomo nuovo di Mussolini, senza deteriorazioni né ideali né
sentimentali; a Diano Brocchi, a Guido Comis, a Romano Bilenchi,
a Giuseppe Bianchini, della stessa razza».
(Indro Montanelli, 5 Gennaio 1936, anno XIV)
* * *
Ricordiamo oggi Berto Ricci, a 43 anni dalla sua morte,
chiedendogli, ancora una volta, perdono per non essere stati,
nemmeno in questo secondo dopoguerra, all'altezza della sua
predicazione, della sua vita di credente, di Italiano purissimo.
* * *
Ho iniziato con il ricordo di Berto Ricci; un ricordo bello,
virile, pulito. Non mi va scendere ora a commentare fatti che ci
tocca vivere. Preferisco ritornare alla memoria, alla memoria
storica. I giornali ci informano che dei sommozzatori israeliani
hanno ritrovato, nelle acque di Haifa, lo scafo del Sommergibile
"Sciré", con i resti dei 59 marinai italiani che, nell'agosto
del 1942, perirono insieme alla loro nave, una delle più
gloriose e prestigiose della Marina italiana, protagonista di
imprese leggendarie. In primo luogo quella di Alessandria
d'Egitto del 19 dicembre 1941 quando lo "Sciré", dopo una
navigazione da manuale, al comando del Principe Valerio
Borghese, emerse davanti al Porto di Alessandria, centrando il
punto esatto da dove doveva iniziare la missione dei
siluri-umani che doveva portare all'affondamento delle corazzate
inglesi Queen Elisabeth e VaIiant.
La TV di casa nostra, anche recentemente, esibendo agli Italiani
1983 gli episodi più salienti delle battaglie combattute nella
2a guerra mondiale dai nostri soldati, si è lungamente
soffermata, con perverso compiacimento, sulle sconfitte subite e
sofferte dagli Italiani, in terra, in mare, in cielo. Nulla da
eccepire. È un copione che rispetta la direttiva: la fuga dalla
storia, il compiacimento del disimpegno, l'esaltazione del:
tutti a casa!
Per ricordare i 59 marinai dello "Sciré", da 42 anni sepolti
nella carcassa del loro sommergibile nel mare africano, caduti
perché fedeli al dovere, al quale erano stati chiamati, non
andrò a pescare possibili riconoscimenti fra le carte
dell'Italia ufficiale, uscita dalla storia. Per ricordarli,
ricorrerò ad un grande patriota che, 42 anni fa, nel momento
drammatico per la propria Patria, l'Inghilterra, assumeva su di
sé tutte le responsabilità del comando, promettendo agli
inglesi: sofferenze, lacrime, sangue. Per rimanere nella storia.
Ebbene Wiston Churchill, parlando ai Comuni, in seduta segreta,
nell'ora più difficile per l'Inghilterra sull'orlo della
sconfitta, riferendo sulle dure prove a cui il Paese era
sottoposto, così descrisse l'affondamento della Queen Elisabeth
e della Valiant, da parte dei marinai italiani:
«Un altro colpo mancino stava per esserci vibrato. All'alba del
19 dicembre, mezza dozzina di Italiani, che indossavano
scafandri di forma insolita, furono catturati mentre nuotavano
nel porto di Alessandria d'Egitto. Estreme precauzioni erano
state prese contro i vari tipi di uomini torpedine o di
sommergibili comandati da un solo uomo che avevano tentato di
penetrare nei nostri porti. Non solo vi sono reti e altri
sbarramenti, ma scariche subacquee vengono ogni tanto fatte
esplodere sulle rotte di sicurezza. Ciò nonostante, questi
uomini erano riusciti a penetrare nel porto. Quattro ore dopo si
verificarono delle esplosioni nelle chiglie della Queen
Elisabeth e della Valiant, provocate da bombe adesive, applicate
dai marinai italiani con straordinario coraggio e ingegnosità,
il cui effetto fu di aprire delle larghe falle nelle chiglie
delle due navi, mettendole fuori combattimento». (Wiston
Churchill, Camera dei Comuni, 23 aprile 1942).
* * *
Sulla bara-ossario dello "Sciré", idealmente, scriveremo queste
parole dell'avversario illustre, dello statista combattente, del
patriota indomito che ai Marinai italiani rende
cavallerescamente, omaggio. Per il loro valore. Per il loro
coraggio.
Per il resto, lasciamo lo "Sciré" là dove è. Sono d'accordo con
l'ammiraglio Giuseppe Rosselli Lorenzini che fece la guerra sui
sommergibili: «Per un marinaio non esiste tomba migliore del
mare». Lasciamoli là. In pace. Questa Italia non capirebbe.
18 febbraio 1984
I burattinai sul «loggione»
«La mia prima fondamentale opinione è questa: la loggia P2 è un
elemento del sistema massonico. Un sistema che, scoperti gli
elenchi della P2, si è cercato di tenere in piedi puntando su
Roberto Calvi, al cui fianco erano stati messi personaggi come
Carboni, fiduciario di Corona e Pazienza, proprio per assicurare
una continuità. Il delitto Calvi può essere nato all'interno di
una certa criminalità legata a questi personaggi».
* * *
È la diagnosi che Bettino Craxi rilascia davanti alla
Commissione P2 (8.2.84). Se è vero, ed io ritengo sia vero, che
secondo Craxi, fra P2 e massoneria ufficiale esiste una
strettissima continuità, mi meraviglia il fatto che il Governo
sia ancora in piedi. E mi spiego.
* * *
Quando gli elenchi vengono trovati nella villa di Licio Gelli a
Castiglion Fibocchi il 17 marzo 1981, è in piedi il Governo
Forlani (DC-PSL-PRI-PSDI). Sulla vicenda degli elenchi non
consegnati, o consegnati in ritardo, spunta la «questione
morale», sulla quale Giovanni Spadolini costruirà l'orditura che
lo porterà a Palazzo Chigi come presidente del Consiglio. Le
dimissioni di Forlani sono del 6.5.81; il veto di Spadolini per
il reincarico a Forlani e, subito dopo, l'investitura di
Spadolini da parte di Pertini, sono del 28.6.81. Cioè voglio
dire che Giovanni Spadolini diventa presidente del Consiglio,
sfruttando vistosamente una faida massonica, ma che faida, in
fondo, non è. È un semplice trapasso di poteri.
* * *
La continuità della P2, ormai sputtanata, afferma Craxi, è
assicurata da Corona, tramite Carboni e soci. È un passaggio di
consegne. Cadono certe teste, ma ne risorgono di nuove, senza
che nulla cambi. E se è vero che Giovanni Spadolini, da
presidente del Consiglio, aiuta l'amico fraterno e di partito
Armando Corona a salire sul seggio di Gran Maestro della
massoneria; è altrettanto vero che Corona continua, sotto il
governo Spadolini, le «operazioni» che, ieri, erano di esclusiva
pertinenza di Lido Gelli. E con gli stessi metodi. Servendosi di
personaggi, come Carboni e Pazienza, che della criminalità
organizzata sono espressioni.
* * *
Giovanni Spadolini non può venire ora a raccontarci di avere
«scaricato» Armandino Corona. Troppo facile oggi, a sputtanatura
avvenuta. Ma prima, quando «Armandino» girava per il Palazzo con
il placet repubblicano e aveva rapporti, tramite i faccendieri
Carboni e Pazienza, con Ciriaco De Mita, con l'editore
Caracciolo, con monsignor Hillary, tutti personaggi impegnati a...
proteggere Roberto Calvi (e i soldi di cui disponeva) e a
mettere le mani sull'impero editoriale dei Rizzoli, quando tutto
ciò accadeva, subito dopo che Corona era stato ricevuto (e
lodato) al Quirinale, per Spadolini andava bene, benissimo. Le
precisazioni, le ricusazioni sono venute. Sì, ma dopo. Quando
Calvi altro non era se non un relitto. Il relitto che si doveva
poi trovare appeso sotto il ponte dei Frati neri, a Londra. Alle
due di notte del 17.6.1982.
* * *
E quando Craxi afferma che «Flavio Carboni rappresenta il filo
della continuità della protezione massonica, il fiduciario di
Corona presso Calvi», che altro vuol dire se non che il punto
nevralgico dì tutta la vicenda P2 è questo, e cioè che, più che
Licio Gelli, sono Flavio Carboni, sono Corona e soci, ì Belzebù
della situazione?
* * *
Il banchiere Calvi» -afferma Bettino Craxi- «quando crolla la
P2, ricerca, sul medesimo binario massonico, la ricostituzione
di una rete protettiva. Trattando della questione del "Corriere
della Sera", per esempio, si arriva (è sempre Craxi che parla)
ad una sistemazione proprietaria, in cui l'Istituzione (la P2, o
meglio la massoneria in genere - N.d.R.) compare a titolo di
garante nella figura di un fiduciario, cui viene intestato
gratuitamente dai proprietari un pacchetto azionario che diventa
arbitro della situazione, il famoso 10,2%, che, è inutile farla
lunga, era il pegno dato all'Istituzione (la P2 - N.d.R.) come
garanzia che arbitrerà il governo di questo controllo».
* * *
Che vuol dire Craxi? A chi e a che cosa si riferisce? Presto
detto: al periodo in cui Tassan Din diviene, con quel 10,2% e
per conto della P2, arbitro della situazione circa il destino
del "Corriere della Sera" e delle altre testate Rizzoli. Craxi
si riferisce, per precisare meglio, all'accordo siglato il 29
aprile 1981 fra il gruppo editoriale Rizzoli e il presidente
della finanziaria Centrale, Roberto Calvi. In quell'accordo -che
Craxi afferma pilotato dalla P2- vi sono due punti, il 5° e il
6°, in cui gli azionisti, nelle mani tutti del piduista Tassan
Din, indicano come «garante» il repubblicano e attuale ministro
delle Finanze Bruno Visentini, affidandogli anche il compito di
trovare altri azionisti.
* * *
La notizia dell'accordo "Calvi - Rizzoli - Corriere della Sera -
Visentini", di cui parla Craxi, qualificandolo operazione P2, è
così commentata da "l'Espresso" (3 maggio 1981):
«I primi elogi sono arrivati dai tre ministri finanziari:
Andreatta, Reviglio e La Malfa, i quali erano stati informativi
tempestivamente da Angelo Rizzoli; poi ha telefonato Adalberto
Minucci, della direzione del PCI, anche egli per complimentarsi
e giovedì, infine, il presidente Pertini ha confidato al
vicedirettore del "Corriere" Gaspare Barbiellini Amidei,
invitato a colazione al Quirinale, che quella era la migliore
notizia che avesse ricevuto nella giornata».
* * *
Ci si chiede nei giorni di quell'accordo (29.4.81): ma chi sono
i soci che hanno portato, o si sono impegnati a portare i loro
denari alla Rizzoli?
Risponde Bruno Tassan Din, il piduista secondo Bettino Craxi:
«Sono impossibilitato a soddisfare queste banali curiosità,
neanche io so chi siano questi industriali e comunque non c'è da
preoccuparsi dal momento che la Rizzoli è diventata una azienda
sana (sic! - N.d.R.) e chi vi entra deve sottostare alle regole
fissate da uno statuto fresco di stampa fatto apposta per
impedire agli azionisti di interferire nella compilazione dei
giornali della casa» (leggi P2 - N.d.R.).
("l'Espresso", 3.5.1981)
* * *
Ora Bettino Craxi, presidente del Consiglio in sostanza,
afferma: Guardate, quell'accordo "Calvi - Rizzoli - Visentini"
era un accordo massonico. Lo portava avanti la stessa P2 che,
benché sotto accusa, si era «rigenerata» sullo stesso tessuto
(massonico). Tanto che la sistemazione proprietaria è fatta in
modo tale che il suo fiduciario (della P2), precisamente Bruno
Tassan Din, fra l'altro vicino al PCI, è messo, azionariamente,
nella condizione dì gestire il governo del gruppo Rizzoli.
E Pertini esclama: «Ma questa è la più bella notizia della
giornata!».
* * *
Spadolini, Corona, Carboni, De Mita. Monsignor Hillary (del
Vaticano), Caracciolo-Scalfari, Calvi, Visentini (e soci).
È uno spaccato che l'attuale presidente del Consiglio mette, di
sua iniziativa, sotto accusa, dicendo alla Commissione P2:
È lì che dovete cercare. E lì che c'è il Belzebù. Fino ad ora le
vostre indagini sono risultate fasulle, perlomeno scontate.
Hanno puntato su falsi scopi, o quanto meno su vicende di cui
già conoscevamo tutto. Quello che deve venire fuori è ben altro.
È la P2 rigenerata sul tessuto massonico ufficiale, quella che
dovete mettere sotto torchio. Ed è una P2 che opera. Eccome se
opera! Non solo ai soliti livelli, ma perfino nella Commissione
P2. Bando, perciò, alle ipocrisie. E ai salvataggi pilotati.
Anche i radicali la smettano di fare i puri. Perché hanno fatto
silenzio (e continuano a fare silenzio), per esempio, sul caso
Zilletti? Chi vogliono coprire? E perché si tace su Lorenzino? E
perché De Mita, amico di Carboni, viene risparmiato? E le bobine
di Carboni? Dimenticate nel cassetto? E perché mai?
* * *
Questo il senso (chiarissimo) delle dichiarazioni di Bettino
Craxi davanti alla Commissione P2.
Mi sono chiesto all'inizio, come faccia il Governo a restare in
piedi in una situazione simile.
Infatti quando Craxi chiama Corona allude a Spadolini. E
Spadolini è ministro della Difesa nel governo Craxi. Quando
Craxi parla del tentativo di Calvi dell'aprile 1981 di sistemare
il "Corriere della Sera" con una operazione concepita dai
piduisti di vertice, chiama in causa Tassan Din, ma allude a
Bruno Visentini, che di quella operazione era indicato come
garante. E Bruno Visentini è ministro delle Finanze nel governo
Craxi.
Quando Craxi parla insistentemente del faccendiere Flavio
Carboni, faccendiere di Corona e legato alla malavita, chiama in
causa Ciriaco De Mita, di cui Carboni sì fece sponsor elettorale
nei riguardi dell'altro gruppo editoriale,
"l'Espresso-Repubblica". E nella fase della elezione a
segretario nazionale della DC, e durante l'ultima competizione
politica del giugno 1983.
Se a tutto questo aggiungete che Forlani, che si volle «fuori»
nel maggio del 1981 per questioni morali, è in questo governo
vicepresidente del Consiglio, accanto a Craxi, Spadolini e
Visentini, credo che ve ne sia abbastanza per dire: ma che razza
di governo è questo? Mai come adesso gli Italiani sono stati
presi per i... fondelli.
* * *
Per riassumere. Da Calvi si sono fatti dare i soldi: la DC, il
PCI, il PSI. Hanno preso i soldi i Rizzoli, vicini al PRI;
Tassan Din, vicino al PCI; Flavio Carboni vicino alla massoneria
di Corona, amico di Spadolini. Con i soldi di Calvi sono stati
pagati gli stipendi ai giornalisti del "Corriere della Sera".
Sette miliardi ha avuto da Calvi il presidente dell'Olivetti
Carlo De Benedetti, amico di Berlinguer e di Scalfari, per
andarsene dall'Ambrosiano dopo un... parcheggio, nel suo
consiglio di amministrazione, di appena due mesi.
Ora Craxi dice: è qui che dovete guardare. Belzebù è qui.
Prendersela con il solo Licio Gelli non ha senso. Ma la
Commissione sulla P2 guarda da tutt'altra parte. Non cerca la
verità.
* * *
È la tesi di Lido Gelli «fascista» che mette su la P2 onde
operare il «golpe»? Dove è andata a finire? Nessuno è rimasto
più a sostenerla. Gli riderebbero sul muso. A Gelli, e ai suoi
simili, piace «questa» Repubblica. Immensamente. Tutte le porte
gli erano aperte: dal Quirinale a Palazzo Chigi, al Vaticano. E
dove troverebbero l'eguale?
13 marzo 1984
Si sta avverando la profezia di
Moro?
Qual'è, a mio modesto parere, la chiave di lettura, la più
appropriata, del recente congresso nazionale della DC?
È che si avvera la profezia di Aldo Moro: «Senza di me non
farete più nulla. Muoio, se così deciderà il mio partito, ma
questo bagno di sangue non andrà bene né a Zaccagnini, né ad
Andreotti, né alla DC ...».
(Commissione parlamentare d'inchiesta sul sequestro e
l'assassinio di Aldo Moro, pagina 110, volume II, Doc. XXIII, n°
5)
* * *
Senza di me non farete più nulla. «Ho un immenso piacere di
avervi perduto e mi auguro che tutti vi perdano, con la stessa
gioia con la quale io vi ho perduto».
(idem, pagina 154)
E qui la chiave di lettura del congresso. Aldo Moro era l'unico
uomo politico capace di guidare, nelle sue tortuosità, un
partito come la DC, partito che lui stesso aveva costruito a sua
immagine. Fin dal 1962. Trasformandolo da partito
social-cristiano a partito di potere. È lui che, autentico
prestigiatore della crisi della decadenza, trova, inventa le
formule perché la DC resti, eterna, al potere.
* * *
E lui che tiene in sella tutti i capi storici della DC, a
cominciare da Andreotti. Sono le sue «formule» magiche che
evitano alla DC la frana totale. Sono le sue formule stregate
che, consentendo alla DC di riprodursi come potere (la nuova
fede) in qualsiasi circostanza, perfino nella sconfitta,
decompongono gli altri, i propri dirimpettai. Qui è la grandezza
di Aldo Moro. Qui sta la sua consapevolezza: Volete che io
muoia? E sta bene. Ho capito. Voi ritenete che, scomparso Moro,
proprio sulla sua morte, riscatterete, rinnoverete, rigenererete
la DC. Voi ritenete, servendovi del mio cadavere, di cogliere
l'occasione storica di riprodurre la DC, il suo eterno potere.
Ebbene, io vi dico che sbagliate. Perdendomi, vi perderete. Non
farete più nulla, volendo la mia morte. Sarà la vostra fine.
È ciò che Aldo Moro scrive dalla prigione delle BR.
* * *
Fateci caso: sul frontone del cimitero di campagna in cui Aldo
Moro viene seppellito, c'è una scritta impressionante: "Nemini
parco". Cioè non perdono, non risparmio nessuno. Un motto
attribuito alla imparzialità della morte, che prima o poi arriva
per tutti. Ma Aldo Moro dice le stesse cose ai suoi amici
democristiani. In una lettera a Zaccagnini, allora segretario
della DC, scrive: «Non creda la DC di avere chiuso il suo
problema liquidando Moro. Io ci sarò ancora come un punto
irriducibile di contestazione e di alternativa. Per questa
ragione, per una evidente incompatibilità, chiedo che ai miei
funerali non partecipino né autorità, né uomini di partito ...»
(idem, pagina 104).
* * *
«Io ci sarò come punto irriducibile di contestazione». È la
profezia. Si faccia attenzione: è da allora che la DC non trova
più una bussola orientativa. Incespica. Brancola. Cade. Pensava
di riscattarsi sulla morte di Moro, ma è la morte di Moro che la
fa franare. Anche all'EUR è una frana...
* * *
Piccoli: «De Mita deve sapere che se vorrà decidere da solo
dovremo scegliere insieme».
Bisaglia: «Non mi piacciono le tentazioni monocratiche del
Segretario. Io chiedo una direzione collegiale del partito».
Zaccagnini: «Caro De Mita avrai in noi dei sostenitori convinti,
ma gelosi della loro autonomia di giudizio».
("Corriere della Sera", 26.2.84)
* * *
Moro, lui solo, con la sua insuperabile arte levantina, avrebbe
potuto tenerli insieme. Non c'è più. E De Mita non è Moro. E i
tempi di De Mita non sono più quelli di Moro. Siamo passati ad
un'altra fase storica. Si chiude con Moro un'epoca di
disfacimento. Il tempo delle mollezze, delle mediazioni a
qualunque costo, che ci hanno regalato crisi, viltà, morte, si è
consumato. Ho l'impressione che la ruota della storia, anche per
l'Italia che ne è stata espulsa, si rimetta in moto. Siamo alle
scelte. A scelte dure. Ecco perché la DC, la molle, la
mediatrice DC di Aldo Moro, costruita sulle macerie delle
ideologie e impastata dell'unità del potere, non serve più. I
tempi si fanno trasparenti. La doppiezza è di ieri.
* * *
Giulio Andreotti, dalla tribuna del congresso DC, ha sostenuto,
incondizionatamente, la candidatura di Ciriaco De Mita. È stato
il suo, fra quelli pronunciati dai Capi storici della DC, un
intervento senza riserve a favore dell'uomo politico avellinese.
Anche qui soccorre Aldo Moro. «Un regista freddo,
imperscrutabile, senza dubbi, senza palpiti, senza mai un
momento di pietà umana», scrisse Aldo Moro di Giulio Andreotti.
Un regista freddo. Giusto. Perché tutti hanno capito che
l'intervento di Giulio Andreotti, più che al congresso DC,
puntasse «a mettere qualche mattone in più alla scala che sta
costruendo e che dovrebbe, quando sarà il momento, farlo salire
al Quirinale».
("la Repubblica", 1.3.84)
* * *
«La sinistra DC rimprovera a De Mita, fra l'altro, di non aver
dato nemmeno un cenno di risposta al discorso di Zaccagnini che
ha rappresentato un vero e proprio programma politico». ("la
Repubblica", 1.3.84).
Aldo Moro: «La pallida ombra di Zaccagnini, indolente senza
dolore, preoccupato senza preoccupazioni, appassionato senza
passioni, il peggior segretario che abbia avuto la DC».
(Commissione parlamentare d'inchiesta sul sequestro e
l'assassinio di Aldo Moro, pagina 153, volume 11, Doc. XXIII, n°
5)
* * *
«A Piccoli gli sono rimasti Gava, Gaspari, Pontello, tutti
fedeli sostenitori di Ciriaco De Mita». ("la Repubblica",
1.3.84)
Aldo Moro: «Onorevole Piccoli, come è insondabile il suo amore
che si risolve sempre in odio. Lui sbaglia da sempre e sbaglierà
sempre, perché è costituzionalmente chiamato all'errore».
(idem, pagine 153-154)
* * *
«Parla Galloni e chiede a De Mita di tenere la DC al riparo
dell'ambiguità socialista e dalle aspirazioni dei laici alleati.
Per De Mita senza riserve, perché De Mita e Zaccagnini sono una
cosa sola». ("la Repubblica", 29.2.84)
Aldo Moro: «Onorevole Galloni, volto gesuitico che sa tutto, ma,
sapendo tutto, nulla sa della vita e dell' amore».
(idem, pagina 154)
* * *
«Eccolo il rinnovamento di De Mita. Ha sfasciato tutto. Ma come
ha potuto lui, speranza della sinistra e del rinnovamento
ideologico, diventare ostaggio di Gava e Bisaglia?».
(Calogero Mannino, "Corriere della Sera", 1.3.84)
* * *
«Ciriaco De Mita dice di apprezzare l'inchiostro indipendente,
il giornalismo non dimezzato. Sono balle, replica Donat Cattin.
Il 22 gennaio l'ex petroliere Monti è a pranzo da Bisaglia e ci
trova Ciriaco De Mita. Notevoli rimostranze di De Mita per gli
scritti di Enzo Bettiza e Francesco Damato su "la Nazione" (di
proprietà di Monti - N.d.R.) Monti se ne va impensierito. Viva
la libertà di stampa!».
(Giampaolo Pansa, "la Repubblica", 28.2.84)
* * *
Nella vita di Ciriaco De Mita c'è un destino che lo porta, alla
vigilia di prove importanti, ad incontrare i padroni della carta
stampata. E da quegli incontri ne esce, puntualmente,
sputtanato.
Anche alla vigilia dell'altro congresso DC (1982), che lo vide
eletto, per la prima volta, segretario nazionale della DC, fu
invitato a cena. E si trovò accanto, oltre all'editore de "La
Repubblica" e de "l'Espresso" Carlo Caracciolo, anche il Gran
Maestro della massoneria Armando Corona e Monsignor Hillary del
Vaticano. L'abitazione (via Guidi) in cui l'incontro avveniva:
quella di Flavio Carboni, un portaborse, oggi in galera,
imputato di reati vari, fra i quali l'omicidio.
17 marzo 1984
Cadaveri e assassini eccellenti
Michele Pantaleone, il famoso mafiologo, insiste. Sia nella
prefazione al libro di Michele Falzone "La mafia: dal feudo
all'eccidio di via Carini" (Flaccovio editore, 1983); sia su
"Pagina" (febbraio-marzo 1984), porta spavaldamente avanti la
tesi, per cui la Commissione parlamentare di inchiesta sul
fenomeno della mafia, che ha chiuso i suoi lavori il 4 febbraio
1976, decidendo di tenere segrete le schede da essa stessa
compilate, e riguardanti i politici, ha praticamente detto «no»
alla verità.
* * *
Nel dicembre u.s. a Reggio Calabria, nel convegno promosso dalle
Regioni Sicilia e Calabria sulla «mafia», Michele Pantaleone,
ripetendo dalla tribuna la tesi su esposta, e con un vigore che
andava al di là di ogni misura, venne avvicinato dal
sottoscritto. E gli fu fatto presente, con tutto il garbo
possibile e senza, per carità, difendere l'operato della
Commissione Antimafia di cui avevo fatto parte, che non era
possibile dare corso alla pubblicazione di quelle schede perché
compilate, in gran parte, anche su denunce anonime, non
verificate. E tanto vera era la mia affermazione che proprio la
scheda intestata a Michele Pantaleone, di cui ero in possesso,
dimostrava che proprio lui, se le schede fossero state
pubblicate, sarebbe stato il primo ad essere «sputtanato».
Perché si ha voglia di dire che quelle sono calunnie; nei tempi
odierni vigoreggia il motto: calunniate, calunniate, qualcosa
resterà.
* * *
Michele Pantaleone non si è dato per vinto e, per giunta, mi
rilascia la dichiarazione che segue:
«Onorevole Giuseppe Niccolai, componente la Commissione
Antimafia. Mi riferisco alla sua dichiarazione fatta poco fa
relativa alla scheda in suo possesso.
La invito e La autorizzo a pubblicarla e segnalarmi il giornale
sul quale sarà pubblicata.
Colgo l'occasione per sollecitare la sua benevola attenzione per
un suo intervento in sede parlamentare per la pubblicazione di
tutte le altre schede delle quali si fa cenno nella relazione
dell'antimafia alle pagine 140 e 141, voi. XXIII n° 2, septies.
La prego gradire cordiali saluti. Reggio Calabria, 17 dicembre
1983, ore 17,15 f.to Michele Pantaleone».
* * *
Ripeto qui quello che a Pantaleone dissi a voce. E cioè che nel
mio comportamento non vi era nulla che potesse essere
interpretato come ostilità nei suoi riguardi. Anche perché
quando in Commissione Antimafia venne discussa (5.2.75, pagina
1041, Doc. XXIII n° 2, VII legislatura) la richiesta di dare, o
no, tutto ciò che noi, come Commissione, avevamo raccolto sul
ministro Gioia, alla 2a Sezione Penale del Tribunale di Torino,
dove era in corso il procedimento intentato per calunnia dal
ministro Gioia contro Michele Pantaleone, fu proprio il
sottoscritto (solo!) a presentare un ordine del giorno che
autorizzava la Commissione antimafia «a mettere a disposizione
dei magistrati torinesi i documenti in suo possesso e da
consultare con le modalità concesse ai membri della
Commissione».
* * *
E se quell'ordine del giorno venne respinto, Michele Pantaleone
non può prendersela con il sottoscritto, ma se mai con l'intera
Commissione che non ne volle sapere. Dissero «no» anche Pio La
Torre, anche il caro amico mio, l'indipendente eletto nelle
liste del PCI, il magistrato Cesare Terranova, entrambi poi
assassinati dalla mafia.
La sinistra, dunque, fu compatta nel dire no. Ed è qui che
faccio io un primo rilievo a Michele Pantaleone. E cioè quello
che, nelle sue analisi sulla mafia, ha sempre evitato di
scrivere alcunché che potesse nuocere all'immagine della
sinistra politica, anche quando questa «sinistra» puzzava
(tremendamente!) di mafia. Michele Pantaleone, il mafiologo lo
fa un po' a senso unico. A sinistra non guarda, non vede, non
sente. È davvero un peccato.
* * *
Ma torniamo alle schede. Pantaleone mi autorizza a pubblicare la
sua. Sono in imbarazzo. Pubblicare o non pubblicare?
Decido di no. Le notizie raccolte nella scheda sono talmente
rozze che le lascio lì. D'altra parte lo stesso Pantaleone
conosce perfettamente quanto in quella scheda c'è scritto; al
punto che, nel lontano febbraio 1975, quando il periodico "Il
Settimanale" pubblicò parte di quello che in quella scheda c'era
scritto, sporse querela per diffamazione (anzi: come è finita
quella vertenza?).
Ora la domanda è lecita: quando Pantaleone chiede
perentoriamente, e in nome della verità, che tutte le schede
vengano rese pubbliche, e sono le stesse per cui lui si lamenta
e querela, che dovrebbero dire gli altri «politici» che, al pari
e come lui, in quelle schede sono rappresentati?
* * *
E bene quindi che Michele Pantaleone lasci in... pace quelle
schede. Invece può fare un'altra cosa, se lo crede. Non io, ma
Alberto Giovannini, ne sono certo, e prontissimo a mettergli a
disposizione il giornale per quanto lui vorrà replicare. Si
tratta di questo.
Michele Pantaleone, uomo di sinistra da sempre, nella citata
intervista su "Pagina", afferma:
«Sono convinto che gli ultimi omicidi, le cui vittime sono state
"eccellenti", sono stati commessi per la volontà di mandanti
"eccellenti"».
Ebbene, la frase: «Non ci sono cadaveri eccellenti senza
assassini eccellenti», non è di Michele Pantaleone, ma del prof.
Nando Dalla Chiesa, il figlio del generale assassinato. E tale
frase è contenuta in questa riflessione (lucidissima!) apparsa
su "la Repubblica" (18.XII.82) sotto il titolo «Pax mafiosa»:
«La mafia, è bene ricordarlo diventa più potente nel decennio in
cui cresce, e non di poco, la sinistra. C'è un interrogativo più
inquietante. Quali sono i princìpi che regolano tattiche,
strategie, formule, e soprattutto alleanze, della sinistra in
quel periodo? Forse le leggi della politica che lì essa pratica
sono le stesse in cui può navigare il potere mafioso? Il fatto è
che è cresciuta la compenetrazione della mafia col potere e per
questo si possono colpire le istituzioni. Non ci sono, cadaveri
eccellenti senza assassini eccellenti. Se ciò è vero, ed è vero
che il salto qualitativo si realizza nel decennio, c'è a
sinistra un approccio al potere e alla politica che va criticato
impietosamente. Senza di che la denuncia delle responsabilità
democristiana resterà sacrosanta quanto inefficace».
* * *
Provi un po', Michele Pantaleone, a rispondere al quesito di
Nando Dalla Chiesa: perché mafia e sinistra crescono insieme?
Perché il salto qualitativo della mafia si realizza nel decennio
in cui la sinistra politica aumenta il suo potere?
È nel contesto di questo interrogativo che occorre porne altri e
tutti molto inquietanti.
È proprio vero che Pio La Torre e Piersanti Mattarella si erano
posti fuori ogni «compromesso»?
È vero: sono caduti sotto il piombo mafioso. Ci togliamo il
cappello. Però il doveroso atto di omaggio si ferma qui. La
morte non può impedirci di ricercare la verità, di capire come
stanno le cose. Non ci può impedire, per esempio, di scrivere,
in contrasto con le gazzette democratiche, che la relazione di
minoranza presentata dal PCI, a firma di Pio La Torre, è una
relazione che non cerca affatto la verità, ma il compromesso con
la DC. La data dice tutto: 2 febbraio 1976. Chi governava? Aldo
Moro. E in Sicilia l'alleanza DC-PCI vigoreggiava. Anche negli
appalti.
* * *
Sedici dicembre 1974, la Commissione antimafia è scesa in
Sicilia. Per indagare. Pio La Torre (siamo in Prefettura, e
scorrono i tempi del compromesso storico) dichiara:
«Do atto che in questi ultimi tempi nella DC siciliana c'è un
processo critico, autocritico, di ripensamento e quindi c'è uno
sforzo di rinnovamento che si tenta in mezzo a mille difficoltà,
di portare avanti ...».
«Non vi è dubbio che la presa della mafia e il suo potere
capillare di controllo sull'elettorato in Sicilia, si siano
ridotti e di sono ridotti per tutto quello di progresso e di
sviluppo che in Sicilia c'è stato».
Così Pio La Torre nel dicembre 1974. Cresceva la sinistra, e
secondo Pio La Torre, insieme a questa crescita, si riduceva la
mafia, e tutto perchè DC e PCI andavano sottobraccio.
Ahimè, sono venuti poi gli assassinati eccellenti, uno di
questi, Pio La Torre. Nando Dalla Chiesa, che è uomo di
sinistra: «Il fatto è che, con la crescita della sinistra, la
compenetrazione della mafia col potere è aumentata, ed è per
questo che si possono colpire le istituzioni. Non ci sono
cadaveri eccellenti senza assassini eccellenti».
Michele Pantaleone è pregato di rispondere. E per ciò che
riguarda l'assassinio di Pio La Torre dia, intanto, una
guardatina approfondita all'appalto riguardante la costruzione
del Palazzo dei Congressi in Palermo. Un appalto di diversi
miliardi. Una ditta, cara a sinistra, data per vincente, e che
poi non ce la fa... Le interrogazioni a Palazzo dei Normanni. Un
materiale da raccogliere. A Michele Pantaleone non mancano certo
le entrature per osservare «bene» come sono andate le cose.
24 marzo 1984
Impronte digitali sporche di
petrolio
Procedimento penale n. 1774/80 R. G. Garrone Riccardo più 44.
Di che si tratta?
Diciamolo con le parole contenute nella requisitoria del
Pubblico Ministero dott. Dolcino Favi, della Procura della
Repubblica di Siracusa.
Gli elementi di prova che l'istruttoria ha evidenziato, e che
riguardano la costruzione della Raffineria ISAB del gruppo
Garrone di Genova, in Melilli (Siracusa), prospettano, per i
loro contenuti, «un caso scolastico di corruzione».
* * *
Caso scolastico di corruzione, da manuale. Il "Secolo d'Italia",
su questa vicenda, c'è tornato più volte; ora c'è la
requisitoria del PM che ci racconta la storia. Possiamo parlarne
con giudizi più pertinenti.
I fatti risalgono a 10 anni fa. La Guardia di Finanza di Genova,
su disposizione della Magistratura, effettua il 10/1/74,
indagini presso dirigenti del gruppo petrolifero Garrone onde
accertare violazioni di legge in materia di prodotti
petroliferi.
* * *
Dai cassetti salta fuori un tabulato in cui sono indicate delle
spese extra non documentabili; spese impegnate nel corrompere
ministri, giornali, partiti, uomini politici, portaborse. Il
tutto, perchè alla società ISAB venissero concesse, velocemente
e senza storie, le licenze di legge per costruire la raffineria
di Melilli.
Direte: roba vecchia. Si, è roba vecchia ma non è male
ritornarci sopra. E per due ordini di motivi. Il primo, ahimè,
per rinnovare il ricordo della vergogna di avere, attraverso
tangenti, massacrato uno dei paesaggi più suggestivi d'Italia,
il golfo di Melilli. Il secondo perché, fra coloro che pigliano
i soldi per favorire l'operazione-massacro dei petrolieri c'è,
inequivocabilmente, anche il PCI.
* * *
La cifra globale, elargita dai corruttori ai corrotti, e che si
è riusciti approssimativamente a quantificare, ammonta a due
miliardi e 677 milioni (valori del 1971).
Come al solito la parte del leone la fa la DC nazionale. A tale
riguardo, il magistrato, nella sua requisitoria, ci fa sapere
che «era noto negli ambienti imprenditoriali che la DC, a
livello nazionale, concordava tangenti con gli interessati, in
misura di lire 350 lire per tonnellata di concessa
raffinazione».
* * *
Ma le elargizioni, oltre andare alla DC, entrano, nelle tasche
dell'ex-ministro, ora defunto Gioia; del ministro, ora in
carica, Nino Gullotti, oltre a personaggi dell'Assemblea
Siciliana come l'ex-presidente dell'Assemblea Nicita Santi,
funzionari, sindaci, presidenti di amministrazioni provinciali,
perfino della Confindustria. Poi, nel tabulato ritrovato, fra i
beneficiati, il PCI, il PSI, il PSIUP, il giornale comunista
"l'Ora" di Palermo. Pigliavano i quattrini con il compito di
dire «si» all'operazione-massacro e di tenere «buona» la
pubblica opinione.
* * *
E i pagamenti, scrive il magistrato, avvengono contestualmente
al rilascio delle licenze, delle modifiche del Piano Regolatore,
dei decreti regionali. Infatti il versamento di due miliardi e
19 milioni ai corrotti, avviene alcuni giorni prima del decreto
assessoriale n. 537 del 21.5.71 dell'assessore Savino Fagone,
che concede la licenza all'ISAB, quella fondamentale, e dalla
quale dovevano partire poi tutti gli altri atti di legge.
Prima il malloppo, poi il decreto.
* * *
C'è di più. Lo scrive il magistrato. L'assessore regionale allo
Sviluppo economico, Giovanni Tepedino del PRI (il partito della
moralizzazione!), se la prende con gli uffici perchè (testuale)
«non si lasciano condizionare sufficientemente dalle sue
pressioni».
Non solo, ma il parere, obbligatorio per legge, dell'assessore
Tepedino fu «apertamente» (sic) contrattato nei suoi contenuti
con l'ISAB e il decreto 90/4 del Presidente della Regione, che
serviva per legittimare atti amministrativi precedenti e poneva
le basi per il rinnovo della licenza dopo la scadenza triennale,
fu comunicato all'ISAB prima della sua emanazione.
* * *
E facevano le cose in famiglia. Si è scritto che l'ISAB sborsa
due miliardi e 19 milioni, subito dopo che l'assessore Savino
Fagone, socialista, poi condannato per truffa e peculato, emana
il decreto regionale concessivo. La somma a chi va? Alla DC. E
poi, con un «rituale» interno, di cui non si conoscono i
criteri, avviene la spartizione: tanto alla DC, tanto al PSI,
tanto al PCI, tanto agli assessori Fagone, Tepedino, Mangione,
tanto al PSIUP, tanto al giornale "l'Ora", tanto alla
Confindustria palermitana. Siamo al livello della «banda».
Indiscutibilmente, in queste faccende, è più... nobile la mafia.
Almeno i suoi affari non li avvolge nella carta dei princìpi e
delle idee, così come fanno i partiti e gli uomini politici. La
mafia i quattrini li rapina. E lo dice. Quest'altri rapinano e
pretendono di governarci e di farci la morale.
* * *
«Il piano corruttivo», scrive il giudice, «ha interessato tutto
il complesso delle forze politiche alle quali di volta in volta
i singoli amministratori appartenevano. A parte quanto si dirà
la evidenza di un coinvolgimento di tutte le forze politiche,
esclusa la destra, a livello regionale, è anche questo un dato
conclusivo sul quale non può muoversi alcun dubbio».
* * *
Il coinvolgimento di tutte le forze politiche, eccetto la
destra, cosi come il giudice scrive dopo dieci anni di indagini,
aveva portato alla ribalta la posizione dell'attuale direttore
de "I'Unità", Emanuele Macaluso che, essendo all'epoca dei fatti
criminosi, segretario regionale dei PCI, veniva indicato come il
probabile percettore della somma arrivata al PCI. A tale
proposito sarà bene ascoltare il giudice.
* * *
«Il quinto gruppo di indicazioni (raccolte nel tabulato
indicante le somme elargite, tabulato trovato nell'abitazione
dei Garrone - N.d.R.) riguardava II PCI, il PSI, e il PSIUP, e
ha posto sin dall'inizio -scrive il magistrato Dolcino Favi-
notevoli difficoltà per la individuazione concreta delle persone
fisiche dei percettori delle somme indicate nel tabulato, e ciò
per l'ovvia considerazione che relativamente a queste voci di
finanziamento non sono stati indicati i nominativi: di fatto
l'indagine si è arrestata di fronte ad un compatto muro di
reticenza».
* * *
Così il giudice. Come rimediare? Il magistrato, nella sua
requisitoria, fa questa considerazione. I soldi, otre la
maggioranza dell'Assemblea regionale, li ha presi anche la
minoranza comunista. Su questo, dice il giudice, c'è certezza.
Infatti lo stesso PCI è passato dal no alla costruzione della
raffineria al si. Ma chi è il percettore diretto di quei denari
che, con la sua autorità, fa sì che il Pei si converta dal no al
sì?
Il giudice argomenta: e chi può essere se non il segretario
regionale dell'epoca? E, dato che segretario regionale del PCI,
era, a quel tempo, Emanuele Macaluso, ecco come il nome
dell'attuale direttore de "l'Unità" compariva fra i possibili
incriminati.
* * *
Ora, come la stampa ha riportato, il Pubblico Ministero ha
chiesto al Giudice istruttore di assolvere Emanuele Macaluso. E
Io fa con queste testuali parole:
«In sostanza in questo caso il tabulato di per sé, a una
obiettiva valutazione, non dà elementi sufficienti alla
implicazione di responsabilità che prima che politiche e
collettive debbono essere specifiche ed individuali, e pertanto
la prova si arresta e non valica il limite della certezza
processuale. È ben vero, e ciò occorre ribadirlo, che il
tabulato è prova certa della effettività, come più volte si è
sopra sostenuto, dei finanziamenti ed è altrettanto prova certa
del coinvolgimento dei partiti che vi sono indicati, ma tuttavia
la considerazione che sopra si è fatta impedisce di pervenire a
questo proposito a conclusioni sufficientemente certe e pertanto
deve richiedersi il proscioglimento di Emanuele Macaluso con
formula di merito, per non essere stata provata la
responsabilità dello stesso o, subordinatamente, con altra
formula anche dubitativa secondo l'apprezzamento e la
valutazione del Giudice istruttore che potrà considerare
insussistenti o semplicemente insufficiente la prova delle
responsabilità».
* * *
Il giudice dice: i quattrini il PCI li ha presi. Non ci sono
dubbi. C'è certezza. Che li abbia presi Emanuele Macaluso non
c'è la prova certa, ci sono dubbi. Nell'incertezza si assolva.
Ma dato che l'on. Macaluso -come ci informa "l'Unità" (17.2.84)-
è stato ascoltato dal Giudice, che cosa ha detto quando il
magistrato lo ha chiamato a rispondere sulla destinazione al PCI
di quei quattrini?
Lui non c'entra? Benissimo, ma il PCI non può dire altrettanto.
Ed allora, non a noi ma ai lettori de "l'Unità", l'onorevole
Macaluso deve una risposta. Quei quattrini dove sono andati a
finire: nelle casse del partito o nelle tasche di qualche
militante? Una delle due, la terza, cioè stare zitti, non è
possibile. Si tratta, direbbe Enrico Berlinguer, della questione
morale. * * *
Il 4 febbraio 1974, nel caldo niello scandalo petrolifero,
"l'Unità" scriveva: «Assai grave è quanto ha pubblicato domenica
il quotidiano "Corriere della Sera". Questo giornale ha scritto
in un suo grosso titolo: tutti i partiti politici avrebbero
incassato tangenti. Un tale modo di informare è da falsari. II
PCI non solo non c'entra, ma è il partito che ha dato battaglia
più aspra contro le sette sorelle e i loro manutengoli».
* * *
Dieci anni fa "l'Unità" dava del falsario a chi accusava anche i
comunisti di avere incassato soldi dai petrolieri. Dieci anni
dopo, su documenti sporchi di petrolio, in mano alla
magistratura, sì trovano le impronte digitali del PCI, del
partito «diverso»; del partito del «nuovo modo di governare»;
del partito pulito. Che tristezza...
3 aprile 1984
«Fummo giovani soltanto allora»
Si è svolto a Firenze, nell'Auditorium del Palazzo dei
Congressi, il convegno su: «L'anticonformismo dei fascisti
critici: da Berto Ricci a Giovanni Gentile».
Nel corso del dibattito è venuto fuori un articolo di Indro
Montanelli scritto per il "Borghese" di Leo Longanesi il 4
febbraio 1955, trenta anni fa.
* * *
Da quell'articolo questa riflessione. È Montanelli che scrive:
«Quando decisi di voltar le spalle al fascismo e andai a
parlarne con Berto Ricci, questi mi disse: pensaci bene. Per non
arrossire di fronte a noi stessi e l'uno di fronte all'altro, se
imbocchi questa strada, devi batterla fino in fondo, sino al
confino o sino all'esilio. Questo solo ti chiedo: di poter
continuare a stimarti come avversario, visto che devo cessare di
stimarti come amico. Lì per lì -scrive Montanelli- quando Berto
mi disse che se imboccavo una nuova strada, era mio dovere di
batterla fino in fondo, mi parve di essere ben deciso a farlo.
Ma poi mi accorsi che, per battere fino in fondo una strada,
bisogna sapere almeno qual'è. E io non lo sapevo. Credevo di
essere diventato antifascista, ma non era vero. Anticipavo solo
di qualche anno quella melanconica cosa che è l'Italia di oggi,
l'Italia smaliziata e utilitaria degli Italiani che non ci
credono più. È cosi che diventai scanzonato ed entrai nella
compagnia dei grandi scettici, cioè di coloro a cui si deve il
bel capolavoro di questa Italia. Mi ero illuso di aver trovato
una bandiera: ora so benissimo che di bandiere non posso averne
altre e l'unica che seguiterà a sventolare nella mia vita è
quella che disertai, prima che cadesse. Fummo giovani soltanto
allora, amici miei!».
* * *
Il 14 febbraio 1984, inviando a Indro Montanelli una vecchia,
commovente, spavalda lettera di Berto Ricci del 3 aprile 1938,
con la quale Berto informava (Romano Bilenchi, Icilio Petrone,
Gino Ersoch, Stelio Bassi, Carlo Cordiè, Roberto Pavese, Edgardo
Sulis, Alberto Luchini, Eugenio Galvano, Diano Brocchi, Adriano
Ghiron, Vasco Pratolini, Indro Montanelli) che avrebbe ripreso
la pubblicazione de "l'Universale", tracciandone le direttive,
chiedevo al direttore del "Giornale", se erano ancora valide le
motivazioni che lo spinsero a scrivere trenta anni fa,
ricordando Berto Ricci, in pieno antifascismo trionfante, quelle
considerazioni di cui sopra.
Indro Montanelli non ha risposto.
* * *
Torniamo, ahimè, ai giorni nostri. È sempre di scena il nostro
Indro. Questa una sua definizione di Giovanni Spadolini: «Un
geniale cretino che riesce a spiegare agli altri le cose che non
capisce».
* * *
Negli scritti postumi di Giovanni Papini (Arnoldo Mondadori,
1966), c'è una annotazione del 5 novembre 1949 che riguarda
Giovanni Spadolini. Dice: «Spadolini, tornato da Roma, mi
racconta di aver conosciuto alcuni uomini politici... Guglielmo
Giannini, l'inventore del qualunquismo, è tutto ritinto, pare
uscito da un caffè chantant napoletano. Ha consigliato a
Spadolini di darsi al giornalismo e di prendersi un'amante
focosa».
* * *
Giovanni Spadolini ha finora seguito quel consiglio a metà: si è
dato al giornalismo (e alla politica) e -dobbiamo riconoscerlo-
con successo. Poco manca che comparisca anche nei caroselli
pubblicitari della televisione, poi la sua faccia invade, ogni
giorno, le case degli Italiani. Non si limita a questo. Sui muri
della periferia d'Italia il PRI (di proprietà esclusiva di
Spadolini) ha fatto affiggere il seguente manifesto:
«A casa / C'è una lettera / di Spadolini / Riservata / Personale
/ Rispondigli».
* * *
È davvero instancabile. Manca, fino ad oggi, nella completa
realizzazione del consiglio datogli da Giannini 35 anni fa,
quello relativo all'amante focosa. Per carità, Giovanni
Spadolini, se un approccio avrà con l'altro sesso, lo rivestirà
di tutto il perbenismo possibile. Prenderà moglie. Questo è il
termine esatto.
Infatti le cronache così dicono. Sarà una nobildonna fiorentina
la consorte del «professore-ministro»: editrice, donna dì
cultura, piena di fascino e di vitalità. Ce lo auguriamo. Anche
perché il professore, ne siamo sicuri, ci guadagnerebbe in
scioltezza.
* * *
Nella relazione di minoranza redatta dal sottoscritto in seno
alla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della
mafia in Sicilia (4.2.76), è scritto (pag. 1115):
«Si è perfino scritto, e a chiare note, che all'interno della
stessa Commissione antimafia operava la mafia; e si è voluto dar
corpo a questa accusa, non solo quando all'interno della
Commissione sono esplosi contrasti polemici per la presenza di
qualche commissario che nelle "carte" dell'antimafia era
abbondantemente citato e registrato, ma anche quando, con
sapienti e teleguidati dosaggi, sui quali i partiti si
guardavano bene dal dare gli opportuni e doverosi chiarimenti,
venivano sostituiti nella Commissione senatori e deputati. A
tale proposito sarebbe interessante sapere i veri motivi per i
quali l'on. Scalfaro lasciò la commissione il 17 aprile 1964,
altrettanto interessante sarebbe conoscere il perché il PCI ha
voluto (si faccia caso, nel clima del compromesso storico) che
la Commissione chiudesse i suoi lavori senza la presenza di un
uomo che, nella lotta alla mafia tradizionale, ha avuto un ruolo
non secondario: il senatore Li Causi Girolamo».
* * *
Ora la verità sulle dimissioni di Scalfaro (ministro
dell'interno) è venuta fuori. Ci sono voluti venti anni esatti.
Francesco Damato (è Giorgio Galli che riporta l'episodio,
"Panorama", 12.3.84, pagina 49) nel libro "L'ombra del generale:
diario di un servizio televisivo sulla mafia dopo Dalla Chiesa",
scrive di una confidenza di Scalfaro, che nel 1983 ricordava:
«Non ebbero fortuna le mie proposte in veste di Vice Presidente
della Commissione Antimafia: indagini sulle banche e sulle
troppe misteriose assoluzioni e, avvertiti i massimi
responsabili del mio partito, ritenni più coerente ritirarmi
dalla Commissione».
Commenta Damato: «Non è il racconto schietto che mi fece quella
notte (del 1976) al Congresso DC che stava per eleggere
Zaccagnini: Scalfaro andò subito da Zaccagnini, allora
Presidente del gruppo dei deputati democristiani, perché in ogni
riunione dell'antimafia venivano fuori accuse e fatti contro
esponenti DC in Sicilia: Lima, Ciancimino e altri. Voleva sapere
se il partito chiedeva la difesa di quegli uomini. Zaccagnini
non se la senti di dargli una risposta. Gli disse che avrebbe
dovuto sentire Rumor, allora segretario del partito. Ebbe una
risposta tanto poco convincente che chiese di essere sostituito.
Scalfaro -è sempre Damato che scrive- me la raccontò per
confutare l'immagine che le sinistre avevano dato in quel
momento di Zaccagnini come campione di rinnovamento e di
pulizia.
* * *
Dell'altro mistero, e cioè del perché il PCI volle fuori dalla
Commissione Antimafia, quando questa stava per concludere i suoi
lavori, Li Causi, l'eroe antimafioso, nulla si sa ancora
ufficialmente, anche se è facile intuire che, dato che in quel
momento DC e PCI filavano il perfetto amore, Lì Causi era
scomodo; non avrebbe mai messo la firma sulla relazione finale
del PCI, una relazione incolore, neutra, scialba, reticente, in
breve mafio-democristiana. Era quello il prezzo che il PCI
pagava per l'accordo con la DC. E lo pagava in moneta mafiosa.
* * *
Si è fatto un gran rumore (nuovamente!) sulle Esattorie private,
in Sicilia. I giornali, a titoli di scatola, mettono ancora
sotto accusa la famiglia Salvo e la incolpano delle connivenze
le più inquietanti. Mafia, politica, Salvo.
«Gli esattori Salvo sì avvicinarono al clan Greco», titola "la
Repubblica" (21.3.84).
A mio modesto parere la vicenda ha dell'incredibile, e non tanto
per le notizie in sé, quanto per il ripetersi di vicende sulle
quali polizia, carabinieri, magistratura, politici, partiti,
ministri, sanno tutto. Da anni. E da anni sì ripete il solito
clichè della notizia sensazionale come si fosse scoperto chissà
che cosa.
È mai possibile, per esempio, che nel 1984 si ignori che, fin
dal 1964, cioè da venti anni, è sotto l'occhio di tutti il
verbale (depositato regolarmente in Tribunale!) di una seduta
del Consiglio di amministrazione della Sigert (vice presidente
Cambria Francesco, azionisti i Salvo) in cui si decide di
mettere le riserve di bilancio ed il fondo di rappresentanza a
disposizione di un Comitato esecutivo speciale, perché li usi,
senza obbligo di rendiconto, per contrastare l'iniziativa
legislativa (1964!) all'Assemblea regionale, per la creazione di
un Ente pubblico di riscossione delle imposte?
* * *
Cosa significava quella decisione? Semplice: ci vogliono
espropriare, dicono gli esattori privati. Ebbene: ecco i
quattrini, andate dai politici; dai partiti, dai ministri,
riempiteli di denaro, comprateli, in modo che l'Ente pubblico
non si faccia! È stato messo per iscritto, con tanto di timbro
del Tribunale di Palermo. E questo nel 1964. E dato che dal 1964
ad oggi quell'Ente pubblico non è nato, è evidente che quei
quattrini i signori della politica se li sono presi. Eccome se
li hanno presi! Tutti quanti.
* * *
I Giornali, con grandi titoli, scrivono che Pertini ha rimosso
dall'incarico il Presidente dell'USL di Alcamo, democristiano.
Motivo: per via dei suoi legami con i mafiosi Rimi,
rappresentava un grave pericolo per l'ordine pubblico.
Siamo al solito copione. Pertini colpisce in basso, mai in alto,
se non a parole. Infatti se il Presidente della Repubblica, per
il bisogno di moralizzazione che lo pervade, non guardasse in
faccia a nessuno avrebbe, e da tempo, fatto dimettere dal
proprio incarico, per i loro pubblici contatti con i mafiosi
Rimi, un membro della Corte costituzionale e diversi
parlamentari, già ministri della Repubblica.
Per essere più chiari ci permettiamo invitare il Presidente
della Repubblica ad un'attenta lettura del Documento XXIII n° I,
fresco di stampa, della Documentazione allegata alle relazioni
finali della Commissione Antimafia, in particolare del Doc. 732,
volume IV, tomo 23, pagine 89-404.
Il tutto, come attesta il citato fascicolo numero 732, saltò
fuori nella seduta della Camera dei Deputati del 22.7.71 quando
il sottoscritto, deputato, denunciò l'incredibile episodio dei
ministri della Repubblica italiana in collusione con gli
ergastolani fratelli Rimi. Quella seduta era presieduta da
Sandro Pertini.
27 aprile 1984
Ricordo di Alberto Giannini
Trentadue anni fa, esattamente in questi giorni di aprile,
moriva Alberto Giannini. Sotto il titolo «Quel merlo che sfidò
Mussolini», "il Giornale", prendendo spunto dal premio di satira
politica presso la Galleria d'arte moderna di Forte dei Marmi,
ci ricorda appunto Alberto Giannini, il giornalista strafottente
e spavaldo che, 60 anni fa, fondando il "Becco giallo",
collezionò tredici duelli, minacce, pressioni e bastonature da
parte dei fascisti. Celebre la frase di Mussolini: «O noi
sopprimiamo il "Becco giallo", o il "Becco giallo" sopprime
noi».
* * *
Quanto «il Giornale», per la penna di Diego Gabutti, ci racconta
sul conto di Alberto Giannini, non ci piace. Affatto. Specie là
dove si racconta del passaggio di Alberto Giannini
dall'antifascismo più intransigente e dall'esilio, al fascismo.
Quattrini e fame, scrive Gabutti, determinarono «il vergognoso
voltafaccia».
Troppo sbrigativo. Alberto Giannini, napoletano, per metà
inglese, socialista, è figura di altri tempi e di ben altri (e
alti) temperamenti perché i Gabutti odierni, in questo
giornalismo di merda possano, non dico rispettarlo, ma
comprenderlo.
* * *
Di lui vivo, nel dicembre 1950 ("La Patria degli Italiani" 9.
XII. 1950 nella rubrica "Galleria nazionale"), Alberto
Giovannini, tracciava questo stupendo ritratto:
«Alberto Giannini, Gennarino il fesso», da 40 anni si batte
contro l'ingiustizia e contro il sopruso con la fredda costante,
e talvolta feroce, determinazione, che gli viene da antenati i
quali, molto probabilmente, erano "teste rapate" di Cromwell.
Il suo tempo, la sua scuola, le sue origini, spiegano più di
ogni altra ricerca Alberto Giannini, la sua vita, le sue
molteplici apparentemente inconciliabili posizioni politiche, le
sue innumerevoli e continue battaglie. Un giorno del 1925
Mussolini disse: «O sopprimiamo il "Becco giallo" o il "Becco
giallo" sopprime noi». E il "Becco giallo" fu soppresso e
Giannini scappò in esilio. Ma quando in esilio si accorse che il
fuoruscitismo, per tornare da trionfatore in Italia, puntava
sulla guerra e sulla sconfitta della Patria, abbandonò il
fuoruscitismo e si schierò a fianco del suo Paese. L'anima
libertaria di Napoli l'aveva portato a Parigi, il sangue delle
"teste rapate" («torto o ragione, è il mio Paese») lo riportò a
Roma odiato dagli antifascisti, sospettato dai fascisti,
discusso da tutti. È nel suo destino e, quindi, nella sua
natura. Perciò quando Matteotti fu assassinato fu accanto a
Matteotti; quando Mussolini fu trucidato fu accanto a Mussolini;
perciò quando i suoi compagni di esilio furono contro la Patria,
egli fu contro di loro; e quando i suoi nemici furono
perseguitati, soprattutto per aver servito la Patria, fu accanto
a loro.
Dicono di lui i fuorusciti: è un traditore.
Dicono i borghesi: è un pazzo. Dicono, infine, i furbi: è uno
che piscia controvento. Per noi, invece, la tragedia di questo
grande giornalista senza fortuna, altro non è che la tragedia
stessa d'Italia degli ultimi quaranta anni. È la tragedia del
nostro tempo interpretata, vissuta e scritta da un italiano, da
un socialista e da uno spirito libero. È il dramma di un uomo
disperatamente portato alla ricerca di una sintesi fra i tre
termini supremi della nostra civiltà: libertà, socialismo e
nazionalismo.
In fondo, prima ancora di tanti altri, Alberto Giannini merita
un posto nella Galleria Nazionale, perché in lui, più che in
ogni altro è evidente, la tragedia del nostro Paese che è allo
stesso tempo fascista e antifascista. E forse Giannini è l'unico
che riesca umanamente a dimostrarci come avrebbe potuto essere
il fascismo e come avrebbe potuto essere l'antifascismo».
* * *
Così Alberto Giovannini di Alberto Giannini, il fondatore del
"Becco giallo" e del "Merlo giallo". Un personaggio stupendo,
irripetibile, indimenticabile. Le «memorie di un fesso, parla
Gennarino "fuoruscito" con l'amaro in bocca», si aprono con una
frase di Jean Jaurès. Eccola:
«È coraggio cercare la verità e dirla; non subire mai la legge
della menzogna trionfante che passa; non fare mai eco, con la
nostra anima, con la nostra bocca e con le nostre mani agli
applausi imbecilli e ai fischi fanatici».
"Rosso e Nero" ricorda Alberto Giannini. Con commozione.
L'amico Beppe
Niccolai è -posso dire- la mia «emeroteca vivente»,
lo non conservo una riga di quanto ho scritto in
oltre mezzo secolo di attività, Beppe invece ricorda
e, praticamente, conserva quasi tutto. Gli sono
grato; soprattutto oggi che ripropone questo
«ritratto» di Alberto Giannini, apparso in un
settimanale -diretto da Filippo Anfuso e Mirko
Giobbe- che ebbe vita breve ma intensa e pulita.
Gliene sono grato, anche perché mi consente di
completare il «profilo» del grande giornalista
scomparso. Infatti, prima di sopprimere il "Becco
giallo", Mussolini, attraverso intermediari, offrì
ad Alberto Giannini di cedere la testata per un
milione di lire: due miliardi e mezzo di oggi. Ma
Giannini rifiutò l'offerta, si fece sopprimere il
settimanale e prese la via dell'esilio. Uomini di
questa tempra non si «comperano» neppure per fame.
Ma per la generazione dei Gabutti l'esistenza di
«fusti» del genere è inconcepibile. Fortunati noi,
quindi, che li abbiamo conosciuti; e qualche cosa,
anche da loro, abbiamo imparato!
a. g. |
1 maggio 1984
Libri, ministri e contrabbandieri
Indignazione per quattro libri sulla P2 tolti cautelativamente
dal commercio. Piero Dini, magistrato a Varese, su richiesta di
Umberto Ortolani sequestra: "Un certo De Benedetti", di Alberto
Statera; "Corrotti e corruttori", di Sergio Turone; "Il
banchiere di Dio", di Rupert Cornwell; "La resistibile ascesa
della P2", di Giuseppe D'Alema.
Protesta il PCI. Pecchioli tira dentro anche Craxi. «L'ondata di
provvedimenti», dichiara il senatore comunista (che si
incontrava, fra il 1975 e il 1979, con i vertici dei «servizi»
iscritti alla P2), «contro gli organi di informazione coincide
con gli appelli al decisionismo di stampo autoritario».
"la Repubblica" (22.4.84) titola: «La P2 è ancora viva?».
* * *
Ma che sta scritto in questi libri? Sergio Turone, l'autore di
"Corrotti e corruttori", libro dal quale Enzo Biagi ha preso
spunto per la trasmissione televisiva sulla corruzione (giovedì
19.4, Rete 1, 22.05, Dossier sul film "La caccia"), replica a
Giulio Andreotti ("la Repubblica", 22.4).
Infatti, secondo Turone, Giulio Andreotti, intervistato da Biagi
sul fatto di avere lui nominato a Comandante della Guardia di
Finanza Raffaele Giudice, lo ha «trasparentemente» definito una
«carogna». E l'ingiuria, afferma Turone, non me la merito perché
Andreotti, con l'aria di smantellare le accuse, le ha
confermate. «Che un cardinale gli avesse raccomandato il
generale Raffaele Giudice due anni prima dell'avvenuta nomina è
irrilevante: è rilevante invece che Giudice sia stato nominato
al vertice della Guardia di Finanza proprio da Andreotti e che
di quella carica abbia approfittato per rubare miliardi». Cosi
Turone.
* * *
Se si trattasse solo di questo, sarebbe senz'altro grave, ma,
ahimè, c'è di peggio. È che la nomina del generale Raffaele
Giudice, a capo della Guardia di Finanza, viene programmata fin
dall'ottobre 1973, attraverso un piano ben preciso, per cui i
petrolieri si tassano fra di loro, raccolgono una somma ingente
e la distribuiscono, come è detto nella sentenza del Tribunale
di Torino (23.XII.82), ai partiti di governo, arbitri della
nomina di Raffaele Giudice: DC, PSDI, PSI.
* * *
In breve i contrabbandieri, per avere le spalle coperte per i
loro traffici illeciti, pur avendo già «comprato» parte del
Comando generale della Finanza (l'Ufficio I, comandato dal
generale Lo Prete), non si fermano qui. Vogliono che il
comandante in capo della Guardia di Finanza diventi il capo di
tutti loro contrabbandieri. E, per ottenerne la nomina, si
rivolgono ai partiti di governo. Li pagano, perchè a loro volta,
ordinino ai «loro» ministri di eseguire: sia dato il benestare a
Raffaele Giudice.
Così avviene. È la più gigantesca frode fiscale che la storia
dello Stato italiano ricordi.
* * *
Ma vi è qualche elemento ancora più grave, delle scontate pagine
del libro di Turone, perché sta scritto nella sentenza del
Tribunale di Torino (23.XII.82), per cui Giulio Andreotti, nelle
giustificazioni che dà del suo comportamento, è «inattendibile»
quando «nega i pregressi accordi con Tanassi sul nome di
Giudice, è inattendibile» quando «ratificando l'operato del
generale Viglione, allora capo di Stato Maggiore della Difesa,
fa sua una scelta basata su argomenti tecnico-militari che non
trovano conferma nella realtà». (Sentenza citata, pagina 182) Il
Tribunale va oltre e fra le circostanze «di elevata probabilità»
mette anche quella che il nome di Raffaele Giudice non facesse
nemmeno parte della terna proposta dai militari, ma che venisse
incluso, all'ultimo momento, in sede di Consiglio dei Ministri
in cui venne decisa la nomina.
* * *
Dunque, in una Italia dove non si riesce a «programmare» nemmeno
il più piccolo lavoro da quattro soldi, tutto va alla perfezione
(e in anticipo) quando, beneficiari contrabbandieri, partiti e
politici, c'è da sistemare ai vertici del Corpo addetto alla
lotta al contrabbando, un contrabbandiere con greca. Il quale,
insediatosi per volontà dei ministri della Repubblica italiana,
si premura subito, appena preso possesso dell'incarico (pagina
205, sentenza citata) di «ristrutturare» gli uffici del Comando
generale, in particolare la centralizzazione delle informazioni,
per cui, a segnalazione pervenuta, lo stesso Giudice poteva
gestire la cosa, rimuovendo gli ufficiali che non stavano al
gioco, omettendo di intervenire là dove si doveva, ponendo altri
sbarramenti là dove il «sodalizio» con i contrabbandieri poteva
essere smascherato e colpito.
* * *
Una vicenda incredibile, tutta da raccontare, appena si rifletta
che è da questa gigantesca truffa fiscale che pervenivano a
Sereno Freato, braccio destro dell'onorevole Aldo Moro, lo
statista principe, i contributi che consentivano a questi di
fare politica, di finanziare la propria corrente, di contare, di
essere il più bravo.
* * *
Comunque nessuna preoccupazione. Aldo Moro è morto. Per i vivi,
tutto procede regolarmente; la TV di Stato si premura di farci
sfilare davanti, a farci la morale su come si amministrano i
quattrini degli Italiani, ministri coinvolti in scandali
allucinanti, che ci esortano: Italiani, pagate le tasse!
* * *
L'altra sera, durante la trasmissione di Enzo Biagi sulla
corruzione, il caso ha voluto che, accanto a Giulio Andreotti,
vi fosse l'onorevole Alessandro Reggiani, presidente della
Commissione Inquirente.
Ebbene, l'on. Reggiani ha spinto la propria imprudenza (ce ne
dispiace proprio perché l'uomo non lo meriterebbe) in difesa,
lui presidente della Commissione che giudica i ministri della
Repubblica, non solo delle scandalose sentenze assolutorie di
cui la Commissione si è resa responsabile, ma dello stesso
onorevole ed ex ministro Mario Tanassi, il quale, poverino,
secondo Reggiani, non godrebbe, per un difetto di normativa
riguardante l'Inquirente, ora che la Corte dei Conti lo manda
assolto dal pagare i danni morali arrecati allo Stato per la
vicenda Lockheed, di una giurisdizione superiore di appello.
Perchè, se così fosse, ha detto Reggiani, Tanassi, potrebbe
essere assolto (e portato in trionfo!). Quindi, non bisogna
abolire l'Inquirente, ma riformarla, dando ai ministri sotto
accusa, qualche garanzia in più per la loro impunità.
Ciò sotto gli occhi di milioni di italiani.
* * *
È incredibile. Nessuno ha fiatato. Nemmeno Biagi. Eppure quando
la trasmissione avveniva (19.4) era già da giorni (13.4) di
dominio pubblico la lettera del consigliere della Corte dei
Conti Bruno Moretti, con la quale il magistrato denunciava le
ignobili manovre che si sarebbero verificate, all'interno della
stessa Corte dei Conti (massimo organo di controllo finanziario
e contabile della pubblica amministrazione) per dare a Mario
Tanassi, condannato a suo tempo alla galera, un collegio
giudicante a lui favorevole, al punto da farlo presiedere da un
consigliere della Corte nominato per meriti politici acquisiti
presso il PSDI, essendo stato capo di gabinetto dei ministri
socialdemocratici Preti e Schietroma.
Tutti zitti ad ascoltare la concione dell'on. Alessandro
Reggiani che, non contento di presiedere una Commissione nel cui
seno le assoluzioni scandalose (e bilanciate) non si contano,
veniva a dirci, in sostanza, che anche l'unico caso in cui un
ministro aveva pagato, era da rivedere.
* * *
Non solo, ma l'on. Reggiani non ha mosso ciglio quando, a due
passi da lui, Andreotti dava la sua versione di comodo sulla
nomina di Raffaele Giudice a capo della Guardia di Finanza. Non
basta, ma si è messo a difendere, nell'occasione, il PSDI
dall'accusa di aver preso soldi dai petrolieri.
Ora delle due l'una. Dato che all'esame dell'Inquirente, di cui
Reggiani è presidente, c'è il procedimento contro Andreotti per
la nomina di Giudice, Reggiani deve dirci se ha letto i
documenti del procedimento in corso, oppure no.
Se non li ha letti, significa che abbiamo un presidente di una
delle Commissioni parlamentari più delicate, quanto meno
disinformato. Giudica, forse, ad orecchio? Se li ha letti, è
ancora peggio. Gli ricordiamo solo un particolare: la colletta
di denaro con la quale furono corrotte le segreterie
amministrative dei partiti di governo (DC, PSDI, PSI), perché
nominassero Giudice, è opera del petroliere Bruno Musselli. I
quattrini, per quanto riguarda il PSDI, li ha ricevuti l'on.
Giuseppe Amadei, più volte sottosegretario alle Finanze.
* * *
Comunque l'on. Reggiani è pregato dì leggere a pagina 189 della
sentenza del Tribunale di Torino, più volte citata, quanto
segue: «Nell'autunno del 1973 numerosi assegni circolari sono
incassati dagli uffici amministrativi di alcuni partiti politici
e da personale delle loro segreterie. Lo riconoscono, ora in
base all'inoppugnabile presenza di timbri sul retro, ora in
forza dell'altrettanto palese presenza di firme di girata per
l'incasso, l'on. Tanassi per il PSDI (pagina 747), il capo dei
servizi amministrativi del PSI Annibale Paganelli (pagina 748),
il segretario amministrativo della DC Filippo Micheli (pagina
749), nonché il cassiere della segreteria stessa Antonio
Morelli» (pagina 750).
* * *
Il tutto, onorevole Reggiani, per far si che i ministri
dell'epoca, Mario Tanassi e Giulio Andreotti, inducessero il
Governo a nominare un contrabbandiere a capo della Guardia di
Finanza.
Può un sistema politico scendere più in basso di cosi?
8 maggio 1984
Il cavallo di Spadolini
A leggere i commenti della stampa sui lavori del 35° Congresso
del PRI, a cominciare da "il Giornale" di Indro Montanelli per
finire a "la Repubblica" di Eugenio Scalfari, c'è da rimanere
interdetti. "La Voce Repubblicana", organo ufficiale del PRI,
non arriva ai toni apologetici di cui si gonfiano i fogli della
grassa borghesia italiana: hanno trovato l'uomo (Spadolini); il
partito (PRI); la bandiera (l'edera); il rigore, la
moralizzazione, la pulizia. È spuntato anche il decalogo della
moralizzazione. Dieci punti. Troppi. Ne bastava uno: non rubare.
* * *
Il partito, dunque, diverso; il partito della questione morale;
il partito della cultura figlio della cultura; impegnato nel
governo, ma non governativo; partito movimento. Il suo posto:
centro del centro, in una sorta di visione tolemaica della
politica italiana. Al centro di DC e PSI. E anche, in quanto
partito della sinistra rispettoso della cultura industriale tra
PSI e PCI.
* * *
Il «Partito Tutto». È cosi? Sarà utile riordinare un po' le
idee. L'ubriacatura (a quante siamo?) di Montanelli per
Spadolini. L'uomo non è nuovo a simili sbandate. Il fondo:
«Spunta il sole, canta il gallo, Spadolini monta a cavallo» ("il
Giornale", 1 maggio). Un pezzo di bravura, come sempre
stilistica. Non si va oltre. Scrisse di lui Fortebraccio: «E di
una fragilità psichica morbosa, se fosse un umore ne sarebbe
sempre sudaticcio. Ed è da questa fragilità che gli viene una
attitudine non rara in certi cinici sfiniti: quella di subire le
influenze più degradanti e di restare loro fedeli con ostinato
accanimento, reso sempre più rabbioso, quanto più gli appare
evidente che sono abiette».
Montanelli non crede in Spadolini, ne subisce l'influenza
degradante, e quanto più ne soffre, tanto più l'esalta. Un
castello incantato di parole. Ne nasce il partito della
moralizzazione. Una bubbola così non si era mai vista. Se c'è un
partito corrotto (108 mila iscritti), clientelare, in tante zone
mafioso, questo è il PRI. Montanelli ce ne fa l'apologia del
partito pulito, rigoroso, carico di pensiero! Dovevamo vedere
anche questa!
* * *
Cominciamo con ordine. E con il mettere un punto fermo. Giovanni
Spadolini, nel luglio 1981, diventa, per la prima volta e per
volontà di Sandro Pertini, Presidente del Consiglio dei
Ministri. In contrapposizione a che cosa? Ad Arnaldo Forlani,
che è costretto a dimettersi perché, fra l'altro, il suo Capo di
Gabinetto compare nelle liste del Venerabile Licio Gelli.
Dunque, le fortune ministeriali di Spadolini hanno un nome:
l'emergenza morale scaturita dalla vicenda della P2.
Ma -ed ecco il punto- il nostro «Giovannone» riesce a tenere il
vento di questa emergenza, o ne è anche lui travolto?
* * *
Giovanni Spadolini crede di essere montato a cavallo. Ed
infatti, lasciata a terra la massoneria perdente, monta sul
cavallo che ritiene vincente. E, insieme a Giorgio La Malfa,
vola, nel dicembre 1981, a Cagliari. L'aereo dello Stato
Maggiore della Difesa lo porta ad abbracciare l'amico del cuore
Armando Corona, il cui figlio va a nozze. È un abbraccio
intenso, lungo, commosso, di quelli che si danno i sovietici con
il bacio bocca a bocca. Spadolini, per Corona, ha avuto delle
tenerezze tutte particolari. Per lui, e per lui solo, ha creato,
ai vertici della segreteria repubblicana, un posto particolare.
Ora è lì, a Cagliari, per le nozze del figlio, ma non solo per
queste. Infatti Corona è in corsa nelle elezioni a Gran Maestro
della Massoneria. Spadolini è li ad assicurarlo che, anche in
quanto Presidente del Consiglio dei Ministri, sarà al suo
fianco. Avrà tutto l'appoggio possibile. E così accade.
* * *
Ahimè, il gruppo vincente della nuova massoneria, con il tandem
Corona-Flavio Carboni, sarà un disastro, soprattutto morale. Un
vero e proprio crollo. Di immagine. Pertini fa finta di nulla.
Non è severo come lo fu con Forlani. II governo Spadolini può
continuare a governare. Ed è un calvario, anche se stampa,
radio, televisione vengano incantati da quel domatore di
serpenti che è il nostro Giovannone.
Però non creda Giovanni Spadolini, né il PRI, di averla fatta
franca. Flavio Carboni e il suo amico Armando Corona -che sanno
tutto sulla morte del banchiere Roberto Calvi- sono destinati a
giocare un ruolo molto importante, soprattutto sulla vita (non
certo pulita) del PRI. C'è tutta una storia da scrivere, e stia
certo Spadolini, la scriveremo.
* * *
Intanto uno spaccato, di cui le cronache non parlano più. È un
vero peccato! Aprile-maggio 1981. A Castiglion Fibocchi, nella
villa di Gelli, vengano fuori le carte riguardanti la vicenda
della restituzione del passaporto a Calvi, restituzione avvenuta
il 27.9.80. Sono carte esplosive: dentro, fino al collo, Ugo
Zilletti, vice presidente del Consiglio Superiore della
Magistratura, Mauro Gresti, procuratore Capo del Tribunale di
Milano, il Quirinale, il Governatore della Banca d'Italia. È uno
scandalo incredibile. Vacillano i vertici istituzionali. Ebbene,
è in quei giorni (24.4.81) che il Direttore Generale della
Rizzoli, il piduista Bruno Tassan Din (amico del PCI), annuncia
che il banchiere Roberto Calvi, con la Centrale, acquista il 40%
delle azioni della Rizzoli-Corriere della Sera. Garante
dell'operazione, udite, udite, il Presidente del PRI, il partito
della moralizzazione: il senatore Bruno Visentini.
* * *
Scrive l'Espresso (3.5.81): «Tassan Din fa sapere che da quando
ha dato notizia dell'operazione, non fa che ricevere applausi. I
primi elogi sono arrivati dai tre ministri finanziari:
Andreatta, Reviglio e La Malfa, i quali erano stati informati
tempestivamente da Angelo Rizzoli (piduista, iscritto al PRI -
N.d.R.); poi ha telefonato Adalberto Minucci della Direzione del
PCI, e anche egli per complimentarsi e giovedì, infine, il
Presidente della Repubblica ha confidato al Vice Direttore del
"Corriere" Gaspare Barbiellini Amidei, invitato a colazione al
Quirinale, che quella era la miglior notizia della giornata».
* * *
Fateci caso: passeranno dieci giorni e ai polsi di Roberto Calvi
scatteranno le manette! Eppure tutti esultano perchè il
banchiere ha comprato il "Corriere della Sera"! Da Sandro
Pertini al Presidente del PRI, che si fa garante
dell'operazione, portata avanti dai piduisti! Intanto dietro le
quinte l'accoppiata Corona-Carboni ne fa di tutti i colori. La
tortuosità dei rapporti fra politica e criminalità organizzata è
tale che perfino la Presidente della Commissione P2, Tina
Anselmi, ha un infortunio pesantissimo e dalle conseguenze
imprevedibili, anche se il «fronte del porto» politico tenta,
sull'accaduto, di fare silenzio. E Visentini? Non gli è mai
stato chiesto: ma perchè in quell'aprile del 1981, mentre
scriveva articoli di fuoco, con il plauso del PCI, contro i
partiti a favore di un governo dei tecnici e degli onesti,
metteva la sua prestigiosa figura a garante del patto "Calvi -
Rizzoli - Corriere della Sera"?
È rimasto un mistero. Riuscirà la Commissione P2 a scioglierlo?
Vorrà Giovanni Spadolini, il moralizzatore, collaborare a
cercare la verità? Staremo a vedere.
* * *
Dimenticavamo. Nel dicembre 1970 venne eletto a Palermo, Sindaco
di quella Città, Vito Ciancimino. Proteste violentissime. In
Parlamento venne chiesto che il «dossier sulla Città di
Palermo», preparato dall'allora colonnello Carlo Alberto Dalla
Chiesa, venisse discusso in aula. Nel contempo, all'Assemblea
Regionale siciliana venne presentata una mozione per le
dimissioni immediate del «mafioso» Vito Ciancimino.
Cosa avvenne? Da Roma la minaccia: se fate cadere la Giunta di
Vito Ciancimino, io faccio la crisi. Firmato: Ugo La Malfa.
* * *
Già Ugo La Malfa. Ventidue anni fa ("la Voce Repubblicana"
5.12.62 e 12.12.62) Ugo La Malfa, in polemica con il Direttore
de "il Resto del Carlino", allora Giovanni Spadolini, dette,
della prosa dello storico fiorentino, questi giudizi: «Un
pasticciato di banalità e di incompetenza»; «una fumettistica
descrizione dell'attuale situazione politica»; «l'ignoranza di
Spadolini è tale per cui tutto fa brodo»; «evidentemente
Giovanni Spadolini ha da tempo rinunciato al benché minimo
sforzo di pensiero e si limita a trascrivere, nei commenti
politici, le opinioni che la sua fantesca ricava nei colloqui di
mercato. Ma in fin dei conti è un segno della provvidenza della
storia che all'opposizione del centro-sinistra presieda una così
abissale stupidità». Ripetiamo la firma: Ugo La Malfa.
* * *
Cari amici di partito: di queste povere note che scrivo, fatene
veicolo di propaganda, di polemica, di confronto. Devono andare
in piazza. Altrimenti avrà la meglio Spadolini, con tutti i suoi
megafoni. Coraggio, dunque!
15 maggio 1984
Moralizzatori
Era sparito di circolazione. Era da tempo che
il focoso ex-deputato del PCI, Giuseppe D'Alema, non compariva
più a fare notizia, come il moralizzatore tutto di un pezzo,
l'implacabile denunciatore dei corrotti. Non passava giorno
senza che una nota di Giuseppe D'Alema comparisse sulla stampa a
fustigare gli imbroglioni. Il suo giornale preferito: "la
Repubblica". Da ciò sempre sugli scudi del PCI: membro del
direttivo parlamentare, presidente della Commissione Finanze e
Tesoro della Camera, membro della Commissione di inchiesta sul
caso Sindona, parlamentare dal 1963.
* * *
Poi l'incidente: un incidente grave, di percorso. Raccontiamolo
fin dall'inizio. È l'ottobre 1982, precisamente il giorno 14.
Alla Commissione Sindona, nel Palazzo di San Macuto dove ha la
sua sede, spariscono i verbali degli interrogatori che l'avv.
Rodolfo Guzzi, ex legale del bancarottiere Sindona, aveva reso
davanti ai magistrati milanesi. Guzzi, in quelle dichiarazioni,
rivolgeva pesantissime insinuazioni nei riguardi di Giulio
Andreotti, all'epoca Presidente del Consiglio, per suoi asseriti
tentativi di salvataggio delle Banche di Michele Sindona.
* * *
La notizia della sparizione fa clamore. Le prime pagine dei
giornali la ospitano a caratteri di scatola. Ma ecco un «di
più». Nei giorni successivi giungono, in busta chiusa, alle
redazioni di alcuni giornali, le fotocopie di tre cartelle del
fascicolo trafugato. Il presidente della Commissione,
l'onorevole Francesco De Martino, subito dopo il furto,
dichiara:
«Si possono fare tre ipotesi, la prima è che qualcuno si
proponga di distribuire a mano il documento per scopi
scandalistici. E allora si potrebbe inquadrare in una guerra fra
bande. La seconda congettura è quella di far sapere di essere in
possesso del testo per poi venderlo. Ma non ci credo. La terza
congettura, personale, è che si voglia esercitare una
intimidazione personale nei confronti dell'avv. Rodolfo Guzzi».
* * *
Sul furto, comunque, apre (ottobre 1982) un'inchiesta la Procura
di Roma e, dopo sei mesi (aprile 1983), la talpa di San Macuto è
individuata. La talpa, per la guerra fra bande ipotizzata
dall'onorevole Francesco De Martino, viene appunto indicata
nell'onorevole (perché deputato) Giuseppe D'Alema, comunista, di
professione moralizzatore. L'imputazione: furto e rivelazione di
segreti di ufficio. Reati che prevedono la galera.
* * *
L'onorevole (perché deputato) Giuseppe D'Alema, al ricevimento
della comunicazione giudiziaria (aprile 1983), si incazza
tremendamente. È una vendetta -grida- è un attacco piduista e
mafioso contro il firmatario della relazione di minoranza sul
caso Sindona... Protesto in nome della mia cristallina onestà...
* * *
Pare sincero, ma un fatto è certo, ed è che da quel giorno il
nome di Giuseppe D'Alema sparisce dai ranghi dei moralizzatori.
E anche da quelli politici. Infatti, lo stesso PCI, nelle
elezioni ultime del 26.6.83, non lo presenta più. Lo lascia a
terra. Depennato. Cosi, bruscamente.
* * *
Perchè abbiamo raccontato questa storia di «furti» nelle severe
aule parlamentari «per la guerra fra bande»?
Perché D'Alema è ricomparso, in questi giorni, sulla stampa e,
come al solito, strilla, in nome (poteva mancare?) della
moralità e della pulizia pubblica. Il pretesto è il
provvedimento del giudice di Varese che sequestra quattro libri
che parlano male del «partigiano» Umberto Ortolani. Uno di
questi libri ("La resistibile ascesa della P2») porta la firma
anche di D'Alema.
* * *
E D'Alema invoca giustizia. Afferma, tramite il suo avvocato,
che il Presidente del Tribunale di Varese, autore del
provvedimento, in quanto ha sottratto (sic! In fatto di
sottrazioni D'Alema si che se ne intende) ad altri giudici la
loro competenza, deve essere messo sotto inchiesta da parte del
CSM ed esemplarmente punito.
Lo afferma D'Alema. E la stampa, come se nulla fosse, ne
accoglie le lamentele. Che vergogna.
* * *
Polemiche feroci sulla Commissione per i procedimenti di accusa
contro i ministri.
Stefano Rodotà, su "la Repubblica" (5.5.84), la chiama «la
vecchia malfamata Commissione Inquirente»; «una Commissione
impresentabile in società, ma indispensabile per i bassi servizi
che rende»; «Commissione intollerabile, indegna di un Paese
civile».
«È vituperata da tutti» -scrive Rodotà- «ma diventa utilissima
quando rimane il docile strumento, grazie al quale, i ministri
riescono a sfuggire al processo penale».
Ebbene che si fa? Nulla. Il presidente della Commissione,
Alessandro Reggiani, dichiara: «Troppe critiche, sono pronto ad
andarmene».
Critiche? Queste non sono critiche. Sono accuse sanguinose.
Onorevole Reggiani, lei non deve essere pronto ad andarsene. Lei
deve andarsene. Affermando quello che lei, da galantuomo sa, e
cioè che è uno schifo. Renda questo servizio, onorevole
Reggiani. Sbatta la porta e se ne vada, subito. Punti, con il
suo gesto, ad un'opera meritoria, che gli sarà riconosciuta da
tutti gli Italiani puliti: l'affossamento definitivo della
Commissione Inquirente, vera ed autentica fogna maleodorante;
indegna, è vero, di un Paese civile.
* * *
Particolare da non dimenticare. Quando nel maggio 1982 in Senato
venne il momento in cui si doveva passare dalle belle
dichiarazioni ai fatti, per cui la Commissione Inquirente doveva
essere interamente riformata, il PSI bloccò la riforma in aula.
Con l'aiuto del PRI e l'assenso DC.
Onorevole Spadolini, in quale parte del suo «decalogo» sulla
moralizzazione della vita pubblica, collochiamo questa triste
vicenda?
* * *
«Passata l'estate, in autunno, Carboni e Francesco Pazienza
vennero da me e mi chiesero di poter sentire il povero dottor
Calvi: mi dissero che lo stavano accompagnando a fare un giro
presso i partiti, perché il dott. Calvi riteneva che l'opinione
pubblica, la stampa, le stesse forze politiche lo avessero
giudicato assai più severamente di quanto egli non meritasse. Lo
ricevetti. Il dottor Calvi mi raccontò la sua odissea della
prigionia, il distacco dai familiari, il modo con cui era stato
trattato; riteneva che in fondo l'esportazione di capitali
all'estero fosse un rischio connesso con il tipo di professione
di banchiere, che fosse stato punito più severamente di quanto
non meritasse e che comunque, da quel momento, aveva intenzione
di dimostrare che non era un esportatore di valuta di
professione, ma che era un caso accidentale quello per cui era
stato condannato. E qui finì il nostro primo colloquio».
(Armando Corona, audizione della Commissione di inchiesta sulla
P2, 29 luglio 1982).
* * *
«Dopo una decina di giorni, ai primi di dicembre, chiese ancora
di essere ricevuto e, questa volta, mi pose il problema del
professor Visentini, cioè voleva sapere se il professor
Visentini aveva smesso definitivamente l'idea di coagulare
intorno a sé un gruppo di imprenditori per l'acquisto del
"Corriere della Sera", o se invece io pensavo che potesse
ripensarci e quale era esattamente la posizione del PRI, come
mai aveva impedito al professor Visentini di portare avanti
questa iniziativa che, secondo lui, era abbastanza plausibile e
lodevole. Spiegai quello che ho detto, che cioè il PRI si
dimostrò assolutamente contrario all'acquisto della testata da
parte di qualunque partito, a cominciare dal nostro, per cui
chiedemmo al professor Visentini che scegliesse: se voleva fare
il presidente del partito, non si doveva occupare dell'acquisto
del "Corriere della Sera" o, se voleva invece acquistare il
"Corriere della Sera" si dovesse dimettere da presidente del
partito. Quindi il dott. Calvi sapeva benissimo che la mia
posizione era contro questo acquisto da parte dei partiti.
Chiese anche se, in questa posizione del PRI sul richiamo
all'osservanza delle norme del Comitato del credito, e quindi al
fatto che venivano sconsigliate le banche dall'acquistare
testate, ci fosse una censura nei suoi riguardi. Dissi: "No, noi
abbiamo richiamato questo; perché le forze politiche lo devono
tener presente. Non c'è nessun giudizio su di lei", dopodiché
nei mesi di gennaio, febbraio e marzo non vidi più il dott.
Calvi, vidi una sola volta, a metà febbraio, il dottor Carboni.
A metà io venni a Roma. Fui eletto Gran Maestro il 28 di marzo».
(Armando Corona, audizione della Commissione di inchiesta P2, 29
luglio 1982).
* * *
Per oggi fermiamoci qui. Racconteremo poi gli altri incontri del
Gran Maestro Armando Corona con il dott. Calvi, sempre sotto
l'ala protettrice di quei due «gentiluomini» che rispondono ai
nomi di Flavio Carboni e Francesco Pazienza.
Per il momento ci preme sottolineare come il dott. Armando
Corona incontrasse il dott. Calvi nella sua qualità di
componente la segreteria del PRI, segreteria che -non lo si
dimentichi- aveva al suo vertice Giovanni Spadolini che, in
contemporanea, era Presidente del Consiglio.
* * *
Quindi, prima considerazione logica: Armando Corona, quale
membro della segreteria del PRI, su espresso incarico anche di
Giovanni Spadolini, segretario nazionale del PRI e Presidente
del Consiglio, si incontrava con Roberto Calvi. Lo riceveva, lo
ascoltava, si parlavano dell'... esportazione valutaria. È
evidente che Roberto Calvi andava da Armando Corona, non per
divertimento o per ricevere parole, ma per chiedere qualcosa...
Che cosa? Roberto Calvi non può più rispondere, ma Giovanni
Spadolini e Armando Corona si.
Forse il «decalogo» sulla moralizzazione impedisce a Giovanni
Spadolini di parlare?
Punto 5 del «decalogo»: «I repubblicani non debbono trattare
operazioni commerciali, né a livello di ministri né di
assessori».
19 maggio 1984
La colpa è tutta di Gelli
Le carte dell'Anselmi. Scrivono, fanno rimbombare: sconvolgenti,
una bomba. È acqua fresca. È una azione combinata. Perché, se la
relazione Anselmi è tempesta, per cui il governo (è stato
scritto) potrebbe andare in crisi, che sarà mai la relazione
finale che, evidentemente, sulla base delle orchestrate reazioni
che si sono oggi registrate, sarà ulteriormente addolcita? Se ci
si arrabbia, se si impreca, lo si fa per un fine ben preciso:
stemperare, ancor di più, le melensaggini che si sono scritte.
Questa è l'azione combinata: si fa chiasso per chiudere il caso.
In silenzio, nell'addormentamento generale della pubblica
opinione che di queste «sceneggiate» ha capito tutto.
* * *
Ma che c'è scritto in quéste carte? Innanzi tutto una cosa
scontatissima: Licio Gelli non è espressamente accusato di avere
crocefisso Nostro Signore, ma poco ci manca. È responsabile di
tutto: delle stragi, del terrorismo, della morte di Moro,
dell'eversione nera e rossa, di avere messo suoi «scherani» ai
vertici delle Forze Armate, dei servizi segreti, dell'editoria,
delle banche, della Magistratura. Gelli, insomma, ha invaso,
come un cancro, l'intero corpo della Nazione e, per vent'anni,
ha amministrato, ha ucciso, ha finanziato, ha riciclato, ha
deciso, ha giudicato, ha scritto, ha lottizzato, ha governato.
* * *
E la Repubblica? E la Resistenza? E Pertini? E l'antifascismo? E
il Parlamento?
Che hanno fatto? Spettatori?
Forse, si sono fatti irretire. Ma è accettabile una tesi simile?
Pensate un po': Sandro Pertini, ligure, è dal 1945 il «Grande
Vecchio» della Resistenza nella circoscrizione di Genova,
Imperia, La Spezia, Savona. Più propriamente è di Savona, la sua
città. E di Savona «democratica», da 40 anni a questa parte,
conosce vita morte e miracoli. Figuriamoci del PSI locale, di
cui è il santone venerato.
Ebbene, proprio a Savona, nel seno del PSI, nasce, cresce,
prolifica una banda di stampo mafioso che, pur di arraffare
denaro, non guarda in faccia a nessuno, usa anche il tritolo. Il
capo banda, il socialista Alberto Teardo (in galera), è
piduista.
* * *
Che dire? Che pensare? Sandro Pertini, al quale qualche amico di
casa nostra invia messaggi per chiedere la verità sulla P2,
sapeva o non sapeva?
Se sapeva, tanto da ospitare al Quirinale il capo banda Teardo,
è una brutta cosa che si qualifica da sé. Se non sapeva (e deve
essere senz'altro cosi) è grave lo stesso. Per una semplice
considerazione: come si fa a stare ai vertici dello Stato
quando, pur vivendo per 40 anni a contatto di gomito con dei
manigoldi, non ci si accorge di nulla?
Comunque le carte delI'Anselmi nulla dicono della banda
(piduista) Teardo. Quella vicenda, per la nostra Tina, non
esiste. La colpa è tutta di Gelli.
* * *
Scrive l'Anselmi, pagina 64 della relazione: «Gelli,
sicuramente, influisce sulla nomina del generale Raffaele
Giudice, che figura fra gli iscritti alla Loggia, a Comandante
generale della Guardia di Finanza: esercita a tale fine
interventi sui ministri interessati. Palmiotti (P2), segretario
dell'on. Tanassi, all'epoca ministro delle Finanze, si adopera
per la sua nomina ...».
* * *
Tutto qui? Tutto qui, per l'Anselmi. E Giulio Andreotti dove lo
mettiamo? Ma la nostra Tina li ha letti i documenti pervenuti
alla Commissione, o se li è fatti raccontare?
E come fa a dimenticare che fra questi documenti c'è una
illuminante sentenza del tribunale di Torino (23.XII.82, volume
000556) in cui è descritto, minuziosamente, l'interessamento di
Giulio Andreotti perchè a capo della Guardia di Finanza venisse
nominato Raffaele Giudice? Come fa a dimenticare che nella
sentenza è scritto che la nomina di Giudice, da parte dei
politici, era finalizzata a che il generale trasformasse il
Comando generale in un centro di contrabbando, per dare soldi ai
partiti?
Silenzio. Dicono che la relazione Anselmi è sconvolgente. Sì,
perché colpisce i perdenti (Tanassi), ma salva i potenti
(Andreotti). Tanto la colpa è tutta di Gelli.
* * *
Sentite questa. Pagina 67 della relazione. «Indubbiamente alcuni
militari agirono anche per interessi personali o parteciparono a
traffici illeciti, cui erano interessati direttamente e/o
riguardavano uomini politici ad essi collegati: questo può
desumersi dal coinvolgimento dei generali Giudice e Lo Prete e
del capitano Trisolini, in fatti come quelli attinenti al
traffico dei petroli, per i quali pendono vari procedimenti
avanti l'autorità giudiziaria ...».
Tutto qui? Ma è proprio fanciullescamente ingenua questa
Anselmi! Ma come: lei, così intima di casa Moro, non sa che
parte dei proventi di questi illeciti traffici pervenivano, via
Lo Prete - Musselli - Freato, alla segreteria particolare
dell'on. Aldo Moro? Non sa che quei soldi, che caratterizzarono
la più gigantesca truffa fiscale che la storia d'Italia ricordi,
contribuivano a costruire l'immagine del grande statista
pugliese?
Già, dimenticavamo. La colpa è tutta di Licio Gelli.
* * *
Proseguiamo, pagina 66 della relazione. «Anche dopo la riforma
dei servizi segreti nel 1978, i capi dei servizi risultano tutti
negli elenchi della P2: Grassini capo del SISDE, Santovito capo
del SISMI, Pelosi capo del CESIS ...».
Si, ma perchè l'Anselmi (questa smemorata) dimentica di scrivere
che tali nomine, su dichiarazione dello stesso senatore del PCI
Amerigo Boldrini, furono tutte concordate con il PCI, in
incontri che avvenivano (1975-1979, così data Boldrini) in
alcune sedi «coperte» dei servizi segreti? Perché dimenticare di
scrivere che quelle nomine furono concordate fra Amerigo
Boldrini, Ugo Pecchioli e il generale (piduista) Gianadelio
Maletti, condannato in ordine alle vicende riguardanti la strage
di Piazza Fontana?
* * *
Sicché, secondo l'Anselmi, Licio Gelli, servendosi
dell'eversione nera, operava per un progetto di governo che
escludesse il PCI ma, nel frattempo, lo stesso PCI si premurava
di concedere il suo nulla osta perché ai vertici dei servizi
segreti venissero nominati militari, tutti iscritti alla Loggia
P2.
Ma si può essere, lo dico alla toscana, più bischeri di così?
Secondo l'Anselmi sì. O meglio lei ritiene che agli Italiani si
può raccontare tutto ciò che si crede. Ma si sbaglia. E di
grosso.
* * *
Cinquantasei pagine (da 99 a 108 e da 1 a 43) della relazione
sono dedicate all'editoria, in particolare alla vicenda del
"Corriere della Sera".
Ci credereste? Nelle 56 pagine non ricorre mai, nemmeno per
sbaglio, il nome del presidente del PRI: il ministro delle
Finanze Bruno Visentini. Eppure era il «consigliere» del
piduista Angelo Rizzoli.
Non un cenno sulla nomina del senatore Branca, eletto nelle
liste del PCI, a garante del "Corriere della Sera", da parte di
Angelo Rizzoli e Tassan Din, tutti e due negli elenchi di Gelli;
non una parola dei... rapporti fra Umberto Ortolani e il
senatore Rino Formica (e sono in ballo bazzecole come 500
milioni); paginette di nessun senso dedicate a Francesco
Pazienza e a Flavio Carboni, il mondo viene definito dalla
relazione (è piena di humour questa Anselmi) «pittoresco»,
quando è solo criminale, al punto che Roberto Calvi, per averlo
praticato, si ritrova, appeso, sotto il Ponte dei Frati Neri a
Londra.
* * *
Invano, nella relazione, cercherete qualcosa sull'aiuto ricevuto
da Calvi dall'allora sottosegretario Pisanu, dagli amici di
quella sinistra DC di cui l'Anselmi è gran parte, dal dott.
Binetti consulente dell'allora ministro del Tesoro Andreatta,
dal Gran Maestro Armandino Corona, l'amico di Spadolini (non un
rigo, nella relazione su questo personaggio. Ecco perché il PRI
esulta), da Flavio Carboni, socio di Eugenio Scalfari e di Carlo
Caracciolo, personaggi, tutti intorno ai quali ruotavano dei
malavitosi dello stampo di Danilo Abbruciati e Ernesto
Diotallevi.
* * *
Per Tina Anselmi, uscito di scena Licio Gelli, ciò che accade
dopo è marginale. Non interessa. Nemmeno il verbale di una
conversazione telefonica, verbale che il giudice Domenico Sica,
diligentemente, ha fatto, pervenire alla Commissione. Vi si
parla dell'uomo d'...affari piemontese Lorenzino De Bernardi,
arrestato in una storia di una associazione a delinquere di
stampo mafioso, protagonista Pazienza, per aver telefonato
all'industriale trentino Mariano Volani, affinché si decidesse a
mantenere l'impegno di pagare la tangente a Francesco Pazienza,
per una commessa di 60 miliardi per fabbricati destinati alle
zone terremotate dell'Irpinia.
* * *
Si tratta di estorsioni. Aprile-giugno 1981: il faccendiere
Lorenzino De Bernardi, per conto di Pazienza, contatta
l'industriale Volani. «Vuole mettere le mani sugli appalti delle
zone terremotate dell'Irpinia? Noi conosciamo la via». Sì, tutto
bene: ma chi è il politico (in gonnella o no) che, dietro
Lorenzino De Bernardi, è il regista dell'operazione?
Alla Commissione P2, su questa vicenda, perviene la
documentazione. Non se ne fa di nulla. L'Anselmi vuole chiudere
in fretta. È sua l'affermazione: «In fondo fatti nuovi non
modificano l'insieme dell'inchiesta».
* * *
I conti, dunque, per Tina Anselmi sono stati già tutti fatti.
Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. È la sua filosofia,
e non solo sua. Titola "la Repubblica": «Lotta alla P2. Pertini
si schiera con Tina Anselmi. Tutta la verità sulla Loggia
chiesta dal Presidente della Repubblica».
D'accordo, però il Quirinale dovrebbe farci sapere se la verità,
tutta la verità, la vuole anche sul caso Zilletti. Sarebbe
interessante saperlo. Visto che ad impedirla, questa verità,
sono intervenute la Corte di Cassazione, la Procura del
Tribunale e della Corte d'Appello di Roma, nonché il Consiglio
superiore della Magistratura, il cui presidente è il Presidente
della Repubblica.
1 giugno 1984
Michele Sindona e il suo
«consigliori»
C'è una lettera di Michele Sindona. È del settembre 1976. È
indirizzata all'allora Presidente del Consiglio in carica,
Giulio Andreotti, capo di un governo retto anche dai voti del
PCI. Proviene dall'America. La busta reca il recapito: Hotel
Pierre, Nuova York. Il bancarottiere inseguito da un mandato di
cattura della magistratura italiana, traccia per il Presidente
del Consiglio, un vero e proprio programma di azione. Eccolo:
contrastare l'estradizione chiesta dai giudici milanesi;
esercitare pressioni sull'apparato giudiziario e amministrativo
perché recedano dai comportamenti contrari a lui, Sindona;
sistemare gli affari delle Banche dichiarate fallite; opporsi
alla sentenza di insolvenza. La lettera-programma, dopo avere
accennato, che linguaggio tipicamente mafioso, a possibili
azioni di ricatto, se le cose si dovessero metter male, termina,
inviando al Presidente del Consiglio i «ringraziamenti per i
rinnovati sentimenti di stima con lui, Andreotti, anche
recentemente, ha manifestato per lui, Sindona, a comuni amici».
* * *
La lettera viene ad assumere particolare rilievo dopo che il
"Corriere della Sera" di domenica 20 maggio (come del resto
tutta la stampa italiana) ci ha fatto conoscere, in un inserto
di quattro pagine, gli atti dell'inchiesta dei giudici di Milano
contro Michele Sindona per il delitto di Giorgio Ambrosoli, il
liquidatore delle banche di Sindona; atti che sono stati
rivelati negli Stati Uniti, nel contesto della richiesta di
estradizione in Italia del già «benefattore della lira», così
come ebbe ad esprimersi Andreotti in un pranzo in suo onore,
organizzato da Sindona a Nuova York all'Hotel Regis nel dicembre
1973.
* * *
Il quotidiano milanese, sotto il titolo «Il delitto Ambrosoli,
ecco il dossier su Michele Sindona», scrive: «Alcuni colpi di
pistola in una notte del luglio 1979 uccidono un uomo che sapeva
troppo, anzi che aveva scoperto troppo; l'avvocato milanese
incaricato di liquidare i conti del bancarottiere di Patti. È il
punto centrale e tragico di una storia cominciata nel 1974 e
sviluppatasi poi, per anni, a tela di ragno coinvolgendo
gangsters, politici, banchieri e agenti segreti, massoni e
mafiosi: un'enorme piovra contro le istituzioni dello Stato.
Soltanto ora, nel 1984, dopo che la magistratura USA ha detto si
all'estradizione di Sindona è possibile conoscere la
ricostruzione che della grande trama hanno fatto i giudici
italiani».
* * *
Dagli atti, 9.1.1979. Giorgio Ambrosoli, commissario
liquidatore, riceve nel suo studio una telefonata anonima.
Telefonista: Pronto, l'avvocato? Buona sera, sono io. Senta
avvocato, se le può far piacere le volevo dire questo, dato che
domani lei ha quell'appuntamento...
Ambrosoli: Si.
Telefonista: Guardi che puntano il dito soprattutto su lei, io
la sto chiamando da Roma, sono a Roma, e puntano il dito su di
lei come se lei non volesse collaborare...
Ambrosoli: Ma chi sono questi?
Telefonista: Tutti sono pronti a buttar la colpa su lei...
Ambrosoli: Puntino la colpa che vogliono, ma...
Telefonista: Sia il Grande Capo...
Ambrosoli: Chi è il Grande Capo?
Telefonista: Lei mi capisce, sia il Grande Capo sia il piccolo,
il signor Cuccia e compagni, danno la colpa a lei. Io lo vedo
che lei è una brava persona, mi spiacerebbe...
Ambrosoli: Ma puntano per che cosa, me lo spiega?
Telefonista: Si dice che lei non vuole collaborare ad aiutare
quella persona, capisce? Il «grande», lei ha capito chi è, o no?
Ambrosoli: II grande immagino sia Sindona.
Telefonista: No, è il signor Andreotti...
Ambrosoli: Chi? Andreotti?
Telefonista: Si. Ha telefonato e ha detto che aveva sistemato
tutto ma che la colpa è sua.
Ambrosoli: Ah, sono io contro Andreotti...
Telefonista: Esatto. Perciò stia a guardare perché vogliono
metter lei nei guai. Arrivederci.
* * *
Sempre dagli atti dei giudici. È il 12.1.1979. Nello studio
Ambrosoli arriva un'altra telefonata anonima.
Telefonista: Buon giorno avvocato. L'altro giorno ha voluto fare
il furbo. Ha fatto registrare tutta la telefonata.
Ambrosoli: Chi glielo ha detto?
Telefonista: Sono fatti miei. Io la volevo salvare ma da questo
momento non la salvo più.
Ambrosoli: Non mi salva più?
Telefonista: Non la salvo più, perché lei è degno di morire
ammazzato come un cornuto. Lei è un cornuto e un bastardo.
* * *
Dalla deposizione di Henry Hill, trafficante di droga, divenuto
collaboratore della FBI. È l'11 febbraio 1983, ore 11.30.
Domanda: Nel corso dei rapporti con William Aricò (un killer di
professione, detto lo «sterminatore» accusato di avere ucciso
Giorgio Ambrosoli su commissione di Sindona) ha mai avuto
occasione di discutere con lui di affari che egli faceva con
altri?
Risposta: Sì, in numerose occasioni. Egli mi informò che stava
lavorando per Michele Sindona, Nino Sindona, e suo genero o
anche cugino. Domanda: Che cosa le disse che faceva Aricò per
loro?
Risposta: Omicidi su commissione.
Domanda: Le disse dove egli faceva questi omicidi?
Risposta: Sì, li faceva in Italia.
Domanda: Può stabilire una data approssimativa in cui seppe che
Aricò lavorava per Sindona?
Risposta: Sì, era nel settembre-ottobre 1978, quando io
ricevetti due valigie di armi... Le armi erano destinate a me.
Aricò ne acquistò sei e mi disse che le avrebbe usate per questi
omicidi in Italia... (Ambrosoli fu ucciso con una di queste armi
- N.d.R.).
* * *
Scrive il "Corriere della Sera" (pagina 16, 20.5.84), «Il 15 e
il 25 luglio 1978 Rodolfo Guzzi (avvocato di Sindona, arrestato
per estorsione in questi giorni) viene ricevuto a Palazzo Chigi
da Giulio Andreotti, Presidente del Consiglio. Lo mette al
corrente del piano di salvataggio delle Banche di Sindona.
Andreotti spiega all'interlocutore che la persona più adatta per
valutarlo è il Ministro dei Lavori Pubblici Gaetano Stammati. Il
nome di Gaetano Stammati risulterà poi nell'elenco degli
iscritti alla P2. È lo stesso on. Andreotti che fissa l'incontro
Guzzi e Stammati. II 20 settembre 1978 il ministro dei Lavori
Pubblici presenta il progetto di salvataggio a Carlo Ciampi
Governatore della Banca d'Italia. È bocciato. Il parere negativo
viene riferito tanto all'on. Andreotti quanto all'avvocato.
Guzzi». Cosi il "Corriere" ...
* * *
Se mettete a confronto le date, noterete che Michele Sindona,
per salvarsi, opera su due fronti: quello politico, in cui il
suo «consigliori» è Giulio Andreotti, Presidente del Consiglio
dei Ministri; l'altro, a contatto con la criminalità organizzata
dove, attraverso la via della droga, assolda killer di
professione per intimidire e assassinare, se la via politica
dovesse risultare vana.
Ed è così. Infatti Andreotti non ce la fa. Nemmeno Enrico
Cuccia, consigliere delegato di Mediobanca che, minacciato di
rapimento dei figli, collabora alla stesura di un piano di
salvataggio.
* * *
A dire «no» ai piani di salvataggio-truffa è ancora Giorgio
Ambrosoli. Le telefonate con le quali lo si minaccia di morte,
non Io fanno recedere, anche se si sente solo, ed è rimasto
solo. Episodio inquietante. Settembre 1974: l'impero di Sindona
è allo sfascio. Occorre rimettere ordine. Giorgio Ambrosoli è
chiamato a Roma dal Governatore della Banca d'Italia, Guido
Carli. È convinto di essere chiamato a far parte dello staff di
liquidatori che dovranno occuparsi del crack Sindona. Non è
così. Da Milano, la sera stessa, chiama la moglie: «Sono solo»,
dice. La sua voce è preoccupata.
Perché Guido Carli lo lasciò solo? Nell'agenda di Giorgio
Ambrosoli si troveranno queste parole: «Pagherò a prezzo molto
caro questo incarico, ma per me è stata un'occasione unica di
fare qualcosa per il mio paese ...».
* * *
Siamo alla stretta finale. Nel gennaio 1979, Giorgio Ambrosoli,
dopo avere raccontato a Sarchielli, responsabile dei servizi di
vigilanza della Banca d'Italia, le continue minacce di morte che
riceve, rifiuta l'incontro a tre fra l'avv. Guzzi e il
Governatore dott. Ciampi; incontro caldeggiato dal ministro
Stammati. Arriva l'estate. Manda la moglie e i tre figli al
mare. Ad un avvocato amico confida: «Mi minacciano di morte. Ho
sinceramente paura. Ma non posso tirarmi indietro: ne andrebbe
della credibilità dello Stato».
Mercoledì 11 luglio, ore 23.30. Ambrosoli torna a casa.
Posteggia l'auto. Scende. Quattro colpi. La sua fedeltà allo
Stato viene ripagata così. Con la morte. Come Carlo Alberto
Dalla Chiesa. Ricordate? Così il Generale si espresse, pochi
giorni prima di essere assassinato: «Credo di avere capito la
nuova regola del gioco. Si uccide il potente quando è diventato
troppo pericoloso, ma si può ucciderlo perchè è rimasto solo».
* * *
Sabato 14 luglio 1979, ore 11: i funerali di Giorgio Ambrosoli.
Solo tre corone. Manca quella dello Stato. Nessun uomo politico
presente. Nemmeno il prefetto.
Così cadono i migliori in questa Italia.
* * *
Ultimo inquietante interrogativo. Lo pone "il Giornale"
(19.5.84) in un corsivo di Indro Montanelli. Sotto il titolo «La
famiglia Ambrosoli chiede l'intervento di Pertini per
l'estradizione di Sindona», ci si chiede il perché il trattato
di estradizione tra Italia e USA aspetti, da sette mesi
l'approvazione parlamentare. Lentezza della burocrazia
parlamentare? Può essere, ma vi è un'altra ipotesi, scrive
Montanelli, molto peggiore. «E cioè che, adendo come agiscono,
gli esponenti della politica vogliano evitare, finché è
possibile il prestito di Sindona all'Italia e la sua comparsa in
una delle nostre aule di giustizia. Un Sindona pentito che parli
a ruota libera, fa paura. È una ipotesi -scrive Montanelli- che
fa gridare al vilipendio, ma smentirla è semplice: si dia rapido
corso all'approvazione del trattato e si chiami qui Sindona.
Almeno questo lo Stato lo deve all'assassinato Ambrosoli e ai
suoi familiari».
Fin qui Montanelli. Un particolare: ministro degli Esteri della
Repubblica italiana è Giulio Andreotti.
5 giugno 1984
Pietro Longo e la questione
morale
Questo il ritratto di Pietro Longo. È di Enzo Biagi, "Panorama"
del 17 agosto 1981:
«Pietro Longo mi fa venire in mente l'incompiuta: ha una faccia
sbozzata e approssimativa, come quella dei burattini. Eppure,
assicura la madre, da bambino era bellissimo. È stato a lungo
vicino a Nenni, e pupillo di Saragat, ma non si capisce da chi
ha preso. La mamma lo ha incoraggiato alla politica; lui ricorda
con simpatia un bisnonno poeta che scappò prima con una
sciantosa, poi con Garibaldi. Forse fece più danni la seconda
volta. Gli va riconosciuta, senza ironia, molta abilità: è a
capo di una specie di Armata Brancaleone, in perenne marcia alla
conquista di clienti. Per essere forti, han bisogno di stare al
governo; l'opposizione li uccide. Debbono distribuire favori:
ideali sono le Poste, le Finanze, i Trasporti. Quando non si può
concedere, si può minacciare. È vero che anche i concorrenti non
sono degli angioletti, che la croce della DC l'hanno dovuta
portare in tanti, e come lottizzatori i compagni del PSI non
sono stanchi di dover recitare la seconda parte, ma il sole che
sorge è il marchio della più grande agenzia di collocamento
nazionale. È la "Gabetti" della supplica: compera, affitta,
vende ...».
* * *
Domanda: perché proprio adesso un'apertura di credito al PCI?
Risposta: il PCI è in difficoltà perché ci sono forze al suo
interno che stanno tentando di cancellare l'evoluzione
democratica vissuta in questi anni dal comunismo italiano. E ciò
è molto pericoloso. Bisogna fare di tutto per favorire
l'ingresso definitivo del PCI nell'Occidente e nell'Europa.
Domanda: e chi potrebbero essere i protagonisti di questa
svolta?
Risposta: nonostante tutto, Enrico Berlinguer e gli uomini che
gli sono più vicini. Berlinguer in generale è lento e fin troppo
prudente. Ma è deciso nelle scelte che contano, come Io strappo
con Mosca.
Domanda: quale sarà l'occasione per cominciare a discutere con i
comunisti?
Risposta: in primavera ci sarà il congresso del PCI ma in
autunno già conosceremo le tesi e i documenti preparatori...
("Panorama", 9 agosto 1982, conversazione con Pietro Longo)
* * *
«Non è sicuro che questa piccola bufera scatenata da Pietro
Longo di fine agosto possa lasciare qualche traccia. Egli stesso
ha dichiarato del resto di voler riprendere il discorso solo
dopo le vacanze: è per settembre o per ottobre quel "dialogo"
con il PCI annunciato con tanto anticipo dal segretario
socialdemocratico. Dialogo su che cosa? Vedremo. Noi non siamo
impazienti, anche se abbiamo da sempre una buona disposizione a
dialogare con chiunque abbia da dirci qualcosa di interessante,
tanto più che la materia non manca (a Roma, in Campidoglio, per
esempio, il dialogo PCI-PSI-PSDI-PRI un risultato lo ha avuto,
con la nuova giunta presieduta dal comunista Ugo Vetere ...».
("l'Unità", 3 agosto 1982)
* * *
Pietro Longo comunemente (e razzisticamente) definito «l'anello
mancante», è il gioco delle tre carte in politica (con tutto il
rispetto per i professionisti che campano la vita a questo
modo). Pietro Longo è la politica del borseggio. È il leader
politico che guadagna voti sulla galera del suo presidente
Tanassi; è l'unico uomo politico che non può sottrarsi
all'obbligo di solidarizzare pubblicamente e privatamente con la
P2; è il leader dell'arco costituzionale per il quale la
Costituzione è poco meno che il tombino nel quale far scivolare,
fisiologicamente, il liquame degli scandali nazionali. ("il
manifesto", 3 agosto 1982)
* * *
Domanda: ma non siete mica l'unico partito implicato nella P2.
Risposta: «Però io sono l'unico Segretario di partito che si
trova in questa situazione (negli elenchi della P2 - N.d.R.),
sono in certo senso il protagonista politico di questo scandalo
che si vorrebbe montare alle mie spalle. E spero che molti mi
diano il voto proprio per questo».
(Il Segretario PSDI Longo: «Che imprudenza feci con quella
visita di ottobre a Gelli», "Corriere della Sera", 20.6.81)
* * *
«Lei come giudica il rifiuto di socialisti e repubblicani di
partecipare alle trattative per la formazione del Governo
insieme a Pietro Longo, implicato nella P2?
Sono chiacchiere. Comunque scriva pure che il PSDI non potrà
rimanere fuori dal Governo per questo fatto».
(«Chiacchiere, insinuazioni, torbide manovre, il PSDI si stringe
intorno al Segretario», "la Repubblica", 12.6.1981).
Infatti il PSDI di Pietro Longo entrerà, a vele spiegate, nel I
Governo Spadolini (DC-PSI-PSDI-PRI-PLI), il presidente della
«questione morale».
* * *
La DC ha perso il primo round della crisi e di brutto, ma ora è
costretta a far buon viso a cattivo gioco. Lo staff di Piazza
del Gesù ieri era impegnato a spegnere il malumore e il
nervosismo che serpeggiano nelle fila del partito. «L'incarico a
un laico? Non è che ci faccia perdere il sonno... Eppoi, avete
visto come Spadolini è subito diventato più prudente sulla P2
appena ricevuto il mandato?». ("la Repubblica", «DC divisa,
Piccoli in difficoltà, la sinistra favorevole a un bicolore con
il PRI», 12 giugno 1981)
* * *
Da quanto tempo è in politica? «Le mie prime esperienze
politiche risalgono addirittura all'occupazione tedesca di Roma
quando non avevo neanche nove anni e mia padre mi portava alle
riunioni clandestine e mi mandava in giro per Roma in bicicletta
a distribuire il materiale propagandistico».
(«Pietro Longo, Interrogatorio di terzo grado», "l'Espresso",
23.11.80)
* * *
Sicché abbiamo Pietro Longo «partigiano» a nove anni. Quale
meraviglia allora che a 19 anni Giovanni Spadolini partecipi
alla vita della Repubblica di Benito Mussolini?
* * *
Un breve commento alle note che più sopra abbiamo riportato (e
che occorre, noi missini, portare in mezzo alla gente). Come
constaterete quando per Longo si tratta di conquistare fette di
potere, allora sta bene mettersi d'accordo anche con il PCI.
Quando ai comunisti preme piazzare un proprio sindaco a Roma,
allora anche il voto del «piduista» Pietro Longo non fa schifo,
ma è bene accetto. Quando a Giovanni Spadolini interessa portare
in porto il suo primo governo, per cui deve trattare con il
piduista Longo, manda al diavolo la questione morale. Quando i
DC si vedono portar via la sedia del Presidente del Consiglio,
imprecano e attaccano Spadolini che, per desiderio di seggiola,
dimentica la P2.
È una bella compagnia. Ora Longo chiama Spadolini «nazifascista»
e Spadolini replica: «Mafioso»!
Questo è il Governo della Repubblica italiana. E il Presidente
della Repubblica, anche lui moralizzatore, sta a guardare. In
silenzio.
* * *
E che dire del fatto che noi siamo stati ghettizzati per 40 anni
(e ancora non è finita) da gente simile? E lo siamo stati in
ordine proprio all'accusa di «nazifascismo», accusa che fa
scrivere a Spadolini che, quando si ricorre a simili polemiche,
si scende all'imbarbarimento aberrante e miserabile?
Lo sapevamo. L'«arco costituzionale», che anche Spadolini e
Longo si sono adoperati a tenere in piedi a fini di potere, non
poteva non essere impastato di imbarbarimento aberrante e
miserabile. Chi lo ha messo su ne dà oggi le prove.
Inequivocabili.
* * *
Sentite questa. «E per quanto forte possa essere il disgusto e
l'avversione verso uomini e cose del recente passato in taluni
strati della gioventù, non si illudano i liberali e i
democratici e i massoni di riconquistare, con i loro dogmi
mummificati e svigoriti, l'animo dei giovani. Prova ne sia il
fatto che fra i giovani antifascisti più vivi e animosi delle
città e fra gli sbandati che, sulle montagne dell'Italia
centro-settentrionale, conducono una guerriglia, talora
sanguinosa più spesso simbolica, contro i rappresentanti del
fascismo, più ancora che contro i tedeschi, non le idee putride
e senili del liberalismo attecchiscono, ma i forti, suggestivi,
rivoluzionari propositi del comunismo. Segno che il fascismo,
nel decapitare gli idoli del parlamentarismo e della democrazia,
era andato incontro nel '22 a un bisogno generale, che è vivo
ancora oggi. Segno che, se un problema dei giovani esiste per
tutti gli innamorati fedeli della libertà, è la scelta fra
essere liquidati dalla gioventù fascista o dalla gioventù
comunista».
(Giovanni Spadolini, "Italia e Civiltà", anno I, n. 8°, 26
febbraio 1944)
* * *
Diciannove anni, va bene, ma idee (e cuore) ne aveva Giovanni
Spadolini, checché ne dica Saragat!
Chi è che si azzarda a dire che Spadolini è senza coglioni?
31 luglio 1984
Serviva il sistema
Scrive Tina Anselmi nella sua relazione sulla Loggia massonica
P2: «Gli elementi conoscitivi, in possesso della Commissione,
inducono a ritenere improbabile che Licio Gelli e gli uomini e
gli ambienti dei quali egli era espressione si ponessero
realisticamente l'obiettivo politico del ribaltamento del
sistema, mentre assai più verosimile appare attribuire loro il
progetto politico verso forme conservatrici di più spiccata la
tendenza. Comprova questa interpretazione l'esame delle
testimonianze e dei documenti sinora ampiamente citati, e se
tutto ciò è vero, e tutto di induce a questa analisi, non è
azzardato allineare, accanto all'interpretazione più evidente
dei fatti, un'altra ipotesi; ipotesi ricostruttiva di pari
possibile accoglimento, che la prima non esclude: quella cioè
che la politica di destabilizzazione, nella quale Gelli e i suoi
accoliti, si inserivano mirava piuttosto, con paradossale ma
coerente lucidità, alla stabilizzazione del sistema».
* * *
Fate bene attenzione. L'affermazione di Tina Anselmi è
sconvolgente. Per l'autorità della sede da cui viene
prospettata, e dalla maggioranza del Parlamento (Camera e
Senato) che la fa sua. In questi giorni estivi, alla vigilia
della ricorrenza della sanguinosa strage della Stazione di
Bologna dell'agosto 1980.
Che vuole dire Tina Anselmi?
Rendiamo il discorso il più chiaro possibile, con l'abituale
avvertenza perché le Federazioni che leggano, comprese le più
sperdute sezioni periferiche del MSI, vi sappiano costruire una
politica, la politica della verità. Sulle stragi.
* * *
L'Anselmi scrive le note riportate nel capitolo «I collegamenti
della P2 con l'eversione». Licio Gelli, secondo queste note,
uomo dei Servizi segreti, sarebbe stato l'elemento di
articolazione nel torbido rapporto tra le istituzioni (la
Anselmi descrive i servizi segreti come una setta criminale) e
le varie frazioni del partito armato. Vi sarebbe stata quindi
una strumentalizzazione, da parte di Gelli e della P2, delle
sacche più deliranti del: terrorismo, per ricompattare il
sistema con le stragi e con l'assassinio (vedi vicenda di Aldo
Moro). Le stragi quindi, scrive l'Anselmi, e la maggioranza del
Parlamento approva, hanno matrice moderata.
* * *
È il Sistema che, giocando sul sangue, strumentalizzando «rossi
e neri», ricompone se stesso «al centro», ricostruisce la
propria immagine moderata, si riproduce immacolato e puro, dopo
averne fatte di tutti i colori.
* * *
È la tesi della «strage di stato». Ci siamo arrivati. Ci arriva
l'intero parlamento italiano. Nel 1984. Ed ora, le conseguenze?
Non ce ne rendiamo conto perché ci siamo sotto. Scrivere che
sono sconvolgenti è poco. Ma tutto ciò non deve rimanere
patrimonio di pochi intimi, o nel chiuso delle nostre sedi;
queste verità che stanno venendo fuori devono essere portate fra
la gente. È qui che si misura la vitalità di un partito, la
forza del suo messaggio e della sua storia.
* * *
Nella Commissione parlamentare di inchiesta sulla Loggia
massonica P2 c'è stato, fra il comunista onorevole Achille
Occhetto e il senatore socialista Luigi Covatta, questo scambio
di opinioni (pag. 442, Resoconti stenografici sedute
Commissione, Doc. XXIII n° 2 - ter/15, IX legislature):
Achille Occhetto; «se ho capito bene il senso del tuo
ragionamento, poteva esserci una convergenza di interessi tra
Est e Ovest per eliminare l'originalità del caso italiano,
rappresentato dalla politica di Aldo Moro, cioè di incontro tra
una parte della DC e il PCI. Se ha senso questo tuo
ragionamento, allora questa parte della DC e il PCI sarebbero le
vittime di questo interesse convergente. Questa è l'unica
spiegazione che si può dare del tuo intervento».
Luigi Covatta: «A parte il fatto che, caro Occhetto, insieme a
qualche altro compagno del PCI, mi hai insegnato, nei giorni del
sequestro Moro, che esiste anche la "sindrome di Stoccolma", per
cui le vittime spesso sono complici dei loro esecutori, per
essere chiari possiamo anche ricordare che all'interno del PCI
non mancavano, e non mancano, gli oppositori rispetto a questa
linea e che questa linea che si è interrotta, si chiamava
eurocomunismo».
* * *
Insomma, veniamo al sodo: chi è che ha assassinato Aldo Moro?
L'antifascismo è diviso. Una parte dice: CIA. Un'altra afferma:
KGB. Un'altra ancora: CIA e KGB insieme. E Gelli a fare da
intermediario. Pesa essere arrivati, in Italia, dietro le
salmerie straniere. Fatto sta che nessuno dice che, comunque la
cosa si metta, «qualcuno» ha infeudato lo Stato italiano a uno o
più servizi segreti stranieri. Gelli, burattinaio dei politici
italiani, era a sua volta un burattino di potenti organizzazioni
internazionali. Ecco perché l'efficientissima Svizzera ha fatto
fuggire dalle sue efficientissime carceri Gelli.
Erano in gioco interessi superiori. Non certo italiani.
* * *
C'è chi afferma che la «questione morale» è tutto. Che da essa
dipende se il Paese si salverà, o no.
Senz'altro, ma la questione morale è, a sua volta, dipendente
dalla «questione nazionale». Da 37 anni l'Italia è governata da
un partito, o da una coalizione di partiti, che non si sono mai
posti il problema della sovranità nazionale.
Le credenziali di lealtà nazionale e di indipendenza dall'estero
vanno chieste non solo al PCI. Vanno chieste anche, e
soprattutto, alla DC, al PRI e al PSDI.
Ecco il punto. Perché è da questo torbido universo che vengono
le bombe e gli assassini. Tutta la vicenda P2 (e le sue carte)
testimonia quanto affermo.
17 novembre
1984
Il compagno Natta in camicia nera
E veniamo ora al caso Natta, segretario del PCI. Il suo caso ha
fatto rumore in questi giorni.
Remigio Cavedon, vice direttore de "Il Popolo", attingendo da
notizie che "Il Secolo d’Italia" aveva riportato fin dal 13
aprile 1979 (cinque anni fa, e nessuno ci aveva fatto caso. Si
vede che registrano e poi mettono, per ogni evenienza, nel
cassetto), ha titolato il suo pezzo (6/11/84): "l’ex-fascista
Natta vuol mettere le mani sul sistema".
Scagliati cielo. È accaduto il finimondo. "l’Unità" ha prima
replicato (7/11/84) con un corsivo dal titolo "Quando il Popolo
impazzisce" («i comunisti non scenderanno mai a simili livelli:
l’insulto personale, la rissa, la provocazione»); poi, il giorno
dopo (8/11/84), con un lungo articolo, rispondendo alla
provocazione, ci ha narrato una lunga storia che, simile ad una
fiaba paesana, ha ricostruito Alessandro Natta, iscritto (con
cariche) al PNF (Partito Nazionale Fascista) fin dal 1937, come
l’antifascista più puro e più intemerato.
Ed allora qualche precisazione non guasta.
Scrive "l’Unità", sotto il titolo "1937-1941: l’antifascismo di
Natta, fine di una meschina provocazione": «La verità è che il
compagno Natta era stato educato, fin dall’adolescenza,
all’antifascismo, che diverrà vera e propria milizia appena
diciottenne lasciò Imperia per l’Università pisana».
Fermiamoci qui. "l’Unità" è inesatta. Alessandro Natta non
lasciò Imperia per l’Università pisana, ma per la prestigiosa
Scuola Normale Superiore di Pisa (la Scuola che dà Premi Nobel),
allora diretta dal filosofo Giovanni Gentile.
«Educato, fin dall’adolescenza, all’antifascismo», scrive
"l’Unità".
Oh! Santa bugia!
I posti alla Scuola Normale Superiore, classe di Lettere, per il
1937, erano nove. Selezione, dunque, severissima, con concorso
nazionale.
Ora, delle due l’una: o il regime fascista, nel 1937, cioè nel
suo fulgore, non guardava alla tessera, ma premiava, grazie a
Giovanni Gentile, i meritevoli; oppure, la selezione avveniva
tenendo conto della tessera (fascista), che Alessandro Natta
possedeva, fin dall’adolescenza («antifascista»). La scelta la
lasciamo a "l’Unità".
C’è qualcosa di più. Alessandro Natta, nel 1941 -quando già,
secondo "l’Unità", fondava, fascismo imperante, cellule
comuniste in quel di Imperia-, annoverava nel PNF un doppio
incarico: non uno, ma due.
Infatti, non si limitava a far parte del comitato di redazione
della rivista "Il Campano", organo del GUF (Gruppo Universitario
Fascista), ma addirittura veniva chiamato a dirigere la cultura:
cioè, responsabile del settore più delicato della organizzazione
fascista, nell’ambito universitario.
La verità la dice, non "l’Unità", ma Degl’Innocenti Danilo,
allora addetto all’organizzazione e che, con Natta, faceva parte
del direttorio del GUF pisano: «Alessandro Natta era un
ambizioso impenitente. Voleva arrivare. E, per arrivare, dava
gomitate incredibili. Fascistissimo. Un primo della classe E, se
non fosse stato così, come avrebbe potuto avere quegli
incarichi?».
Non la giovane età (a 23 anni si è già maturi); non gli
avvenimenti (Natta risulta iscritto alle organizzazioni
giovanili fasciste, poi al GUF, poi al PNF); non fa registrare
un suo sdegnoso appartarsi, ma ricopre cariche (e che cariche,
le più delicate nei settori giovanili del partito): questo è il
Natta edizione 1937-1941, attuale segretario del PCI, il partito
di Palmiro Togliatti e di Enrico Berlinguer.
Perché dunque prendersela con Remigio Cavedon che, poverino, non
ha fatto altro che riportare fatti certi e accaduti?
E, come sempre, la sbavatura DC, il partito della doppiezza:
Remigio Cavedon viene rimproverato da Flaminio Piccoli. «È stato
un grave errore» -ha detto Piccoli- «rimproverare a Natta il suo
giovanile fascismo».
Ipocrita, per non dire di peggio.
Alla vigilia del referendum sul divorzio, Flaminio Piccoli, a
chi gli chiedeva conto, alla TV, dell’accostamento, in quella
campagna referendaria, con i «fascisti» del MSI, rispondeva che,
per la DC, quei voti erano «colerici».
Anche per quelle parole, giovani meno che diciottenni, sono
stati assassinati.
«Uccidere un fascista non è un reato». Allora, nessuna
dichiarazione del presidente della DC, contro quella barbarie.
Oggi un ben diverso «colera» infetta (il partito di) Flaminio
Piccoli. È nell’occhio del ciclone. E che fa?
Adotta un comportamento sperimentatissimo: quello di mettersi
sotto la protezione comunista quando lo sporco ci sommerge. E
tenta di salvare Alessandro Natta. Che ne viene fuori? Schizzi
di fango.
«Personalmente ho sempre ritenuto che Giovanni Gentile, uno dei
massimi responsabili del tradimento degli intellettuali, dovesse
finire così». Così dice Alessandro Natta del suo Maestro, il 12
agosto 1984 ("L’Espresso"), appena eletto, tronfio di gloria,
segretario nazionale del PCI. (per chi non lo sapesse, Giovanni
Gentile, filosofo e docente universitario, ministro della
pubblica istruzione 1922/1924 e senatore, direttore della
Normale di Pisa e dell’Istituto per l’Enciclopedia Italiana,
presidente dell’Accademia d’Italia, fu vigliaccamente
assassinato da una banda di partigiani comunisti, il 15 aprile
1944, a Firenze).
Novembre 1984: l’antifascismo di Natta si squaglia, come melma,
al sole. Appena tre mesi. Sufficienti però, per chi aveva
tacciato Giovanni Gentile, il proprio maestro, di tradimento,
per cadere nella merda.
Giuseppe Niccolai
L’articolo di Niccolai era corredato della riproduzione
fotografica della nomina di Alessandro Natta al Direttorio del
Gruppo Universitario Fascista pisano, tratta dalla rivista "Il
Campano", numero di marzo-aprile 1941.
Riporto qui per esteso il testo di tale nomina:
Nomina del Direttorio.
In data 18 marzo u.s., il Segretario Federale ha ratificato la
nomina del Direttorio del GUF Pisano, che risulta pertanto così
costituito:
- Nardi Pilade Osvaldo, laureato in Medicina e Chirurgia,
iscritto al PNF dal 1° agosto 1922, volontario in AOI (Africa
Orientale Italiana), tenente medico: Vice Segretario;
- Degl’Innocenti Danilo, laureando in Economia e Commercio,
iscritto al PNF dal 23 marzo 1928, proveniente dalle
Organizzazioni Giovanili, sottotenente di fanteria, pilota
civile: Addetto all’Organizzazione;
- Natta Alessandro, laureato in Lettere, iscritto al PNF dal 24
maggio 1937, proveniente dalle Organizzazioni Giovanili: Addetto
alla Cultura;
- Lucarelli Antonio, laureato in Legge, iscritto al PNF dal 24
maggio 1934, proveniente dalle Organizzazioni Giovanili,
volontario in AOI, sottotenente di fanteria: Addetto allo Sport.
8 dicembre 1984
Moto di mafia (in Parlamento)
Dal documento XXIII 1/2, IX legislatura, XXV Tomo del 4° volume,
pagine 3011 e seguenti, allegato alla relazione conclusiva della
Commissione antimafia, la seguente intercettazione telefonica,
effettuata per la fuga di Luciano Liggio:
«Turno con orario 14-22 del 6.3.1970, ore 14.35. In entrata,
voce di uomo a nome Simone Gatto, risponde voce di uomo, a nome
Peppino e parlano:
Simone: Ti ho telefonato per dirti che ho parlato con Pietro e
con la moglie di Pietro di quel loro contrasto.
Peppino: Sì, esatto, esatto..
Simone: Io ti volevo proporre una cosa, se ci vediamo domani, in
mattinata.
Peppino: Quando vuoi Simone, sinceramente non ti dico che sono
lieto di questo incontro, per questa occasione, ma ne sono lieto
per vederti Simone.
Simone: Verso le 10, le 10.30. Vieni al Senato, cerca di me. Ti
accompagneranno sopra.
Si salutano.
I personaggi: Simone Gatto, già del gruppo parlamentare della
Sinistra indipendente. Vice presidente del Senato. Eletto nel
collegio di Trapani e di Enna per tre legislature.
Sottosegretario al Lavoro nel 1° Governo Moro, presidente della
Commissione Lavoro del Senato. Ha fatto parte della Commissione
di inchiesta sulla mafia fin dalla sua costituzione.
Peppino, o meglio Giuseppe Mangiapane. La Commissione antimafia,
nella relazione conclusiva, si occupa di lui alle pagine 263,
271, 378, 413, 490, 492, 1039, 1072 e passim, 1268.
Il senatore MacLellan riferisce, nel suo famoso rapporto, che
Frank Coppola, «oltre essere un noto criminale, un Killer, era
associato nel traffico internazionale della droga a Lucky
Luciano, a Giuseppe Mangiapane e a Carlos Marcello, noto
gangster ...».
* * *
Quando l'intercettazione telefonica sull'apparecchio di
Mangiapane Giuseppe, trafficante internazionale di droga,
avveniva, correva il 3 marzo 1970, quattordici anni fa... Dunque
quattordici anni fa il Vicepresidente del Senato della
Repubblica italiana riceveva, nelle... severe stanze di Palazzo
Madama, un trafficante di droga internazionale.
1970-1984: quanti assassini, eccellenti e no, sono accaduti in
questi anni?
Andate a vedere se, dopo quell'intercettazione, vi sia stato, al
riguardo, qualche provvedimento.
Nulla; si è soffocato tutto, dolcemente... E le lupare hanno
continuato a crepitare.
* * *
In data 13.1.1972, con numero di protocollo z23/461-1, corredato
da 8 allegati, giunge alla Commissione antimafia, allora
presieduta da Francesco Cattanei, il famoso rapporto del
Comandante la Legione dei carabinieri di Palermo, Carlo Alberto
Dalla Chiesa su «Francesco Vassallo, costruttore edile», e i
suoi amici politici.
Nell'allegato numero 5, citato nella relazione di minoranza dal
sottoscritto, si raccontano le vicende della società cooperativa
a.r.l. "Banca Popolare di Palermo", fondata nel 1956 da diversi
soci, fra i quali Salvo Lima e noti mafiosi, come Prestifilippo
Giovanni, nipote del noto mafioso (così Dalla Chiesa nel suo
rapporto) Prestifilippo Girolamo, uno dei maggiori esponenti del
clan Greco.
Dalla Chiesa, nel rapporto, li enumera, uno per uno, questi
soci, con le note caratteristiche accanto: arrestato,
pregiudicato, mafioso, elemento pericoloso, appartenente ad
organizzazione a delinquere. Accanto al nome di Lima è detto:
Lima Salvatore, classe 1928, da Palermo, deputato nazionale per
la DC.
L'allegato citato, pubblicato nel Doc. XXIII 1/V, VIII
legislatura, volume 4, tomo X (pagine 534-539), dopo avere
raccontato l'attività della Banca, gli sportelli aperti in
Palermo, Partanna Mondello, Villafrati, Misilmeri, termina cosi:
«In merito all'attività della citata Banca, sono state raccolte
voci in diversi ambienti relative a finanziamenti ottenuti da
personaggi dediti al contrabbando internazionale, in qualche
modo collegati ad alcuni soci, non potuti identificare, della
Banca stessa».
* * *
Il rapporto, con gli allegati, capita sul tavolo del Presidente
dell'antimafia, il democristiano Cattanei, nel gennaio 1972.
Credete voi, che sia stata presa la decisione di interrogare
Salvo Lima?
Nemmeno per idea. E dato che Dalla Chiesa sospettava che dietro
gli sportelli di quella Banca controllata fra l'altro dal clan
dei Greco, si facesse contrabbando internazionale (e non certo
di sigarette), quale occasione migliore, per i... notabili di
questa Repubblica, se non nominare sottosegretario alle Finanze,
con la delega di sovrintendere alla Guardia di Finanza, proprio
Salvo Lima?
E così è avvenuto. Chi era (ed è), in Roma, il protettore di
Salvo Lima?
Giulio Andreotti. Come volevasi dimostrare.
* * *
Fatto curioso, che affidiamo all'attenzione dei magistrati
palermitani. Degli otto allegati al rapporto Dalla Chiesa, già
citato, ne vedono la luce solo sei. Due, e precisamente il sesto
e l'ottavo, non vengono pubblicati per volontà dell'onorevole
del PCI Pio La Torre, assassinato dalla mafia.
Infatti nel volume citato è testualmente detto: «Viene omessa la
pubblicazione dell'intero allegato, in quanto, a giudizio del
relatore di minoranza, deputato Pio La Torre, le notizie in esso
contenute non hanno specifica concludenza rispetto agli
argomenti trattati nella sua relazione».
Che c'è scritto in questi allegati rimasti top-secret?
E perché Pio La Torre pose il suo veto alla loro pubblicazione?
Eppure quelle note erano di mano dell'allora colonnello Carlo
Alberto Dalla Chiesa.
* * *
Nell'articolo n. 7, Carlo Alberto Dalla Chiesa, compie una
radiografia dell'impresa edile Averna e Geraci, e poi Geraci
Saverio e C.
Tra gli affari dell'Impresa, Dalla Chiesa enuncia i seguenti:
17.XI.1961: acquisto dal noto mafioso Rosario Mancino di un'area
edificabile, sita nella villa Orleans di Palermo, a prezzo
unanimemente ritenuto irrisorio.
15.XII.1961: vendita a Pennino Vincenzo, cugino del noto
Ciancimino Vito, di un appartamento in via Tevere, al prezzo
dichiarato di 7 milioni.
17.XI.1961: vendita al noto mafioso Angelo La Barbera di un
appartamento, in Via Veneto, al prezzo dichiarato di 7.300.000.
9.VI.1962: vendita a La Barbera Salvatore, fratello del più noto
Angelo, mafioso, scomparso, di un appartamento in Via Veneto, al
prezzo dichiarato di 13.500.000.
3.X.1961: vendita all'on. del PRI Aristide Giumella, di un
appartamento in Via Veneto, al prezzo dichiarato di 12 milioni.
Le indagini, scrive Dalla Chiesa, acclararono che. l'impresa si
dovette assoggettare a regalare appartamenti ai detti mafiosi La
Barbera, e Mancino, al fine di ottenere protezione.
A tale riguardo, e per le singolari coincidenze che si
evidenziano a vista d'occhio, l'on. repubblicano (il partito
della questione morale) Aristide Gunnella, non è stato mai
ascoltato. Anzi. Il PRI, il partito della moralità pubblica, lo
ha fatto sottosegretario e, più recentemente, vice segretario
nazionale del PRI.
15 dicembre 1984
Torino, la Mecca della
tangentocrazìa
Lo scenario: la cappella dell'antico Istituto delle Rosine, in
Torino, trasformata in tribunale.
Protagonista: il gran corruttore, il ragioniere Adriano Zampini,
piemontese. Gli fanno corona il vice sindaco di Torino, il
socialista Enzo Biffi Gentili; il deputato del PSI Giuseppe La
Ganga, uno dei vertici del partito; gli ex-assessori alla
Regione Piemonte, i socialisti Claudio Simonelli e Gianluigi
Testa; l'ex-deputato del PSI Francesco Frojo; l'ex-assessore al
patrimonio del Comune di Torino Libertino Scicolone del PSI; il
prof. Giuseppe Gatti consulente a più riprese di diversi governi
nazionali, già capo gruppo della DC alla Regione Piemonte,
vicinissimo al vice segretario nazionale della DC Bodrato; gli
ex dirigenti della DC Liberto Zattoni e Giovanni Falletti; Nanni
Biffi Gentili, fratello di Enzo, già vicesegretario di Torino
del PSI; Umberto Pecchini responsabile Fiat del settore
relazioni istituzionali; Giancarlo Quagliotti, capogruppo del
PCI al Comune di Torino e Franco Revelli, capogruppo alla
Regione per conto del PCI.
Le imputazioni: interesse privato in atti di ufficio,
corruzione, associazione per delinquere.
* * *
«È un'ora triste» -scrive il "Corriere della Sera" (27.XI.84),
sotto il titolo "Watergate subalpino"- «per la città di Einaudi,
di Gobetti, di Gramsci, di Bobbio. Ma c'è chi si consola
guardando al resto d'Italia... La corruzione fa leva anche sulle
frustrazioni individuali e sulla noia di una città priva di
salotti e di terrazze mondane. Un viaggio a Las Vegas -è sempre
il "Corriere" che parla- una palettata di caviale, possono far
breccia anche nel cuore di un assessore comunista. Piaccia o no,
il PCI non rappresenta più un'umanità diversa, un'isola di
spartana sobrietà. La cultura del successo, ormai dominante in
Italia, è penetrata anche li».
* * *
Vediamola questa cultura del successo, cosi come veniva
praticata dal ragionier Adriano Zampini per corrompere una
intera città, la città di Torino: Comune, Provincia, Regione, la
Fiat, politici, sindacalisti, industriali, banchieri,
portaborse.
«Un viaggio a Las Vegas, una palettata di caviale, possono far
breccia anche nel cuore di un assessore comunista», afferma il
filosofo di sinistra Gianni Vattimo.
Infatti il ragionier Adriano Zampini aveva, al riguardo, una
tecnica tutta sua, ma, se ci fate caso, talmente generalizzata
in Italia, da non essere affatto difficile ad individuare uno
Zampini in ogni città.
* * *
Per me questi viaggi intorno al mondo» -spiega lo Zampini
("l'Espresso" 18.XI.84)- «avevano un obiettivo molto preciso:
riuscire in poco tempo a passare con questi personaggi, da
quell'amicizia che lega chi fa gli affari insieme a quella,
molto più solida, che lega, che viene dall'andare in piscina
insieme, dall'ubriacarsi insieme, dal fare porcate insieme (...)
I viaggi organizzati da me univano l'utile al dilettevole. Erano
ufficialmente spedizioni di lavoro perché si andava a visitare
gli impianti da fornire al Comune, alla Regione, ma c'era anche
il tempo per divertirsi. E chi è quell'uomo, o quella donna che,
così lontano da casa, in mezzo a champagne e caviale, non
commette qualche sciocchezza che lo renderà se non ricattabile,
quanto meno compromesso agli occhi del corruttore che li
accompagna passo passo, pronto a farli star bene, a fare in modo
che non si annoino?».
(Adriano Zampini, "l'Espresso", 18.XI.84)
* * *
«I soldi scorrevano veloci. Una volta, in aereo, era il
Concorde, comprai regalini per tutti, spendendo tre milioni. Mi
ricordo che feci compilare la distinta al prof. Giuseppe Gatti
(già consigliere economico del ministro Bodrato, democristiano
di sinistra dell'area Zaccagnini, già capo gruppo DC alla
Regione Piemonte, N.d.R.). Rimase allibito dalla cifra, ma non
disse niente e, da quel momento, per ciò che mi riguardava, era
fatto, era compromesso, cioè pronto a far parte del gioco».
(A. Zampini, "l'Espresso", 18. XI. 84)
* * *
«Un'altra volta, eravamo a Stoccolma, andammo a cena in un
locale dove c'era uno spettacolo fatto da uomini travestiti.
Eravamo in sei o sette e spendemmo due milioni e mezzo: bevemmo
un paio di casse di Veuve Cliquot e finimmo a palettate di
caviale, a tirarci il caviale in faccia ...».
(A. Zampini, "l'Espresso", 18.XI.84)
* * *
«Sempre sul Concorde un comunista, Raffaele Radicioni, assessore
al Comune di Torino, si lasciò andare dopo aver mangiato di
tutto (aragoste, caviale ...) e bevuto un bel po' di Brunello di
Montalcino (100.000 lire a bottiglia - N.d.R.): "però -disse-
questo capitalismo ha anche i suoi Iati positivi" ...».
(A. Zampini, "l'Espresso", 18.XI.84)
* * *
Una pausa, per riflettere. Chi sta raccontando le vicende su
riportate, ha dichiarato di avere versato tangenti per più di
due miliardi di lire, e per sua stessa ammissione, si stava
accingendo (se i carabinieri non fossero intervenuti a mettere
le manette all'intera banda superpartitica) ad intascare
illecitamente qualcosa come 20 miliardi di lire, tutti
provenienti dalle casse pubbliche di Torino, la Torino rossa, la
Torino operaia, la Torino intellettuale, culla dell'antifascismo
e della resistenza.
* * *
State a sentire. 23 novembre 1984: il Presidente del Tribunale
chiede a Zampini: come ha conosciuto gli uomini che sono seduti,
insieme a lei, sul banco degli imputati?
Risposta: ... «Salvini della Siemens Data mi fu presentato da
Claudio Bellavista della sinistra del PSI. In cambio io diedi
dei milioni per la campagna elettorale della sinistra
socialista. Servivano ai candidati Giovanni Astengo e Michele
Moretti. Consegnai i soldi (fate bene attenzione! - N.d.R.) in
presenza di Nerio Nesi, dell'onorevole Fiandrotti e di altri
esponenti del PSI che ringraziarono. Astengo non voleva saperne,
ma i soldi erano necessari perché secondo quanto poi disse uno
di loro, Nesi aveva venduto (sic! - N.d.R.) la corrente di
sinistra a Craxi per la presidenza della Banca Nazionale del
Lavoro... Nesi mi ringraziò e mi disse anche di portare la
documentazione della mia azienda perché poteva essere utile alla
Banca Nazionale del Lavoro, di cui è presidente»..
* * *
Abbiamo notato sulla stampa le smentite del sindacalista Giorgio
Benvenuto, accusato da Zampini di avere ricevuto, dal presidente
della Federmeccanica Walter Mandelli, 20 milioni di lire «in una
scatola di cioccolatini»; abbiamo notato la smentita dell'on.
Arcangelo Lobianco, presidente della Coldiretti per l'accusa di
tangenti percepite; ma, fino ad oggi, dal presidentissimo della
Banca Nazionale del Lavoro, una delle più prestigiose del
sistema bancario italiano, non è giunto, al riguardo, nemmeno un
rigo. O non ce ne siamo accorti?
* * *
Quando venti mesi fa (2 marzo 1983) scoppiò lo scandalo di
Torino, per cui oggi si celebra il processo, Luigi Arisio,
deputato, animatore della famosa rivolta dei quadri intermedi,
la marcia dei quarantamila, dichiarò: «Ciò che è accaduto a
Torino in materia di tangenti è peggiore del terrorismo ("la
Repubblica", 7 marzo 1983). Gli fece eco lo scrittore Giovanni
Arpino che sul settimanale "Gente" (8.3.83) affermò: «La
corruzione dei politici è per Torino la vera morte civile».
Dunque: un super-partito, dalla DC al PCI, al solo scopo di
mettere le mani sui soldi dei cittadini.
E la Lookheed della classe politica torinese. La «leggenda»
della Torino rossa che occupa le fabbriche, diventa la «favola»
della Torino «progressista» che occupa il Comune, la Provincia,
la Regione, per rubare.
Che tramonto.
* * *
Quando nel marzo 1983, i carabinieri misero le manette alla
classe politica torinese, "la Repubblica" mandò un suo redattore
ai cancelli di Mirafiori, a tastare il polso ai lavoratori. Ve
le ricordate le risposte?
«E Novelli che cosa vuole? Che aspetta ad andarsene? Aveva il
circolo dei ladri intorno a sé e lui dove era? Non vedeva? Se ne
vada, se ne vada...». (16.3.83)
«Questa giunta è stata una delusione, creda a me. Lo sa come lo
chiamano il sindaco? Lo chiamano "Diego il fiorista", perché da
quando c'è lui la città è invasa da fiori ed aiuole, ma non si
costruisce una casa». (16.3.83)
«Non bisogna più farli entrare in Comune, venti anni di galera
ci vorrebbero, altroché!»
«Vadano a lavorare alle quattro del mattino in fabbrica e a
vedere quanto costa sudarsi un milione... Quei porci si fottono
miliardi. Ma è giustizia questa? E proprio la giunta rossa
doveva permettere queste cose? Al muro li metterei, lo scriva,
che li metteremo tutti quanti al muro!» (16.3.83)
* * *
Torino non è un episodio da poco. Ciò che è accaduto a Torino è
più importante di ciò che accade a Napoli, a Palermo. La storia
è tutta raccontata ora in Tribunale. Le Federazioni del MSI-DN
sappiano leggere, in questa vicenda, la lezione che ne
scaturisce; ne facciano politica-forte da portare in mezzo alla
gente.
Ecco che cosa capita quando i partiti, anziché occuparsi dei
problemi della gente, privilegiano la politica come
arricchimento, la politica come lottizzazione, la politica come
corruzione.
Spregiudicatezza, avventurismo, trasformismo; ma poi vengono le
manette.
22 dicembre
1984
Visentini e l'ambizione
«Rappresenta uno stile nuovo». «Sembra che voglia redimere i
peccatori». «È uno che non pratica la discutibile arte del
compromesso». «Ha una dote: sa andarsene».
E giù ancora: «Visentini mette in crisi le coscienze». «Gli
operai sono visentiniani». «Rigorista laico». «È ironico, ha
gusto, è composto, è colto». «Il suo: un nuovo modo di fare
politica».
Così "la Repubblica" del 15.12.84, a firma di Paolo Guzzanti.
* * *
Già, il 13.12, sempre su "la Repubblica", una intervista con
Giorgio Ruffolo, presidente socialista della Commissione
Finanze, aveva stabilito lo spartiacque: da una parte l'Italia
dei bottegai: cialtrona, gentaglia, esercito di evasori fiscali
di professione; dall'altra parte, quella di Visentini: l'Italia
degli onesti, l'Italia civile, che lavora; che paga le tasse.
I socialisti, sottolineava Ruffolo, sono con l'Italia di
Visentini. «La riforma fiscale è cosa nostra, è nella storia del
partito: se cade Visentini cade tutto il riformismo del PSI».
* * *
È esatta questa analisi? È vero che esiste questa frontiera: il
Paese moderno, civile e il Paese dell'intrallazzo e
dell'arrangiamento? E possono i socialisti fare, a tale
proposito, la morale, stabilire dove stanno i buoni, dove
collocare i cattivi, parlare e discutere di onestà, di
correttezza, di rigore amministrativo? Ma Giorgio Ruffolo le
cronache scaturenti dal processo di Torino, sulle «tangenti» e
altro, le ha presenti? Legge? Ma in che mondo vive?
* * *
Cosa sta accadendo? Come è possibile che «il nuovo modo di fare
politica» di Bruno Visentini, il disegno politico che spunta
dietro la criminalizzazione dei bottegai, veda, oggi,
consenzienti proprio quei socialisti che, appena qualche anno
fa, furono i più feroci avversari del «disegno» politico portato
avanti dal ministro delle Finanze, arrivando perfino
all'ingiuria più plateale?
E come si spiega che il colto, il misurato, il giusto Bruno
Visentini se la intenda proprio con quei socialisti, da sempre
accusati di essere dei pasticcioni, dei volgari arrampicatori,
dei politici da quattro soldi?
Affermazioni false? Andiamo a vedere.
* * *
Ventinove febbraio 1980, proprio alla vigilia dell'introduzione
della ricevuta fiscale obbligatoria nei ristoranti, il "Corriere
della Sera" pubblica un articolo di Bruno Visentini. Titolo:
«Ricevuta fiscale, ma all'italiana».
Prendendo le difese degli osti, Bruno Visentini, già ministro
delle Finanze, mette sotto accusa Franco Reviglio, il ministro
socialista delle Finanze in carica, l'inventore della ricevuta
fiscale. Si tratta, scrive Visentini, di improvvisazione e di
esibizionismo.
Il 29 marzo 1980, seconda bordata. Sempre sul "Corriere della
Sera", allora organo della P2, Visentini mette sotto processo
tutte le iniziative del «socialista» Reviglio: ricevuta fiscale,
superispettori, l'imposta sulla seconda casa, il libro rosso
degli evasori. «Tutto questo -scrive Visentini- costituisce
soltanto la parodia della lotta all'evasione».
Questi i giudizi di Visentini sui socialisti, quattro anni fa.
* * *
Abbiamo scritto che Bruno Visentini ha illustrato se stesso (e
le sue proposte), servendosi della... cattedra del "Corriere
della Sera", quando il quotidiano di Via Solferino era
controllato dalla P2.
Non sarà male ricordare che quello che sta spuntando dietro le
quinte della «legge Visentini», e cioè una nuova maggioranza (il
governo dei tecnici e degli onesti), è un disegno che il
ministro delle Finanze, con quella caparbietà che gli è propria,
porta avanti da anni. Di variato c'è solo la componente
socialista: quattro anni fa esclusa da simile progetto, oggi ne
fa parte. Dallo scontro all'incontro Craxi-Visentini.
* * *
Ricordate? Dicembre 1980, rapimento D'Urso. L'emergenza fa
salire dai centri di potere, dal mondo imprenditoriale
«impegnato», dalla stampa radicale e piduista ("la Repubblica",
il "Corriere della Sera"), richieste e invocazioni di «governi
forti», di rimedi eccezionali. Quasi, quasi ci si augura che
anche D'Urso faccia la fine di Aldo Moro. Sarà cosi più facile
realizzare il disegno autoritario dei tecnici e degli onesti. È
in questo quadro che Gelli elabora il suo «Piano di rinascita
democratica» (DC-PSI-PSDI-PRI-PLI-DN), ma è anche in questo
contesto che Bruno Visentini (13 ottobre 1980), dalle colonne
del piduista "Corriere della Sera", lancia la proposta di un
governo omogeneo di capaci e di onesti, con o senza tessera di
partito (modo velato per dire: aperto al PCI).
* * *
Aprile 1981, Palermo, Congresso del PSI. Bettino Craxi,
replicando alla proposta avanzata da Bruno Visentini circa il
governo dei capaci e degli onesti, replica, citando Benedetto
Croce:
«L'ideale che cova nell'animo di tutti gli imbecilli e prende
forma nelle non cantate prose delle loro invettive,
declamazioni, utopie, è quello di una sorta di aeropago di
onestuomini ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del Paese».
In breve Benedetto Croce serve a Craxi per dare del «cretino» a
Visentini. È il 24 aprile 1981.
* * *
Non basta. Ottobre 1981, presidente del Consiglio è Giovanni
Spadolini, succeduto a Forlani, caduto sulla vicenda P2.
Su "il Sole - 24 ore", Bruno Visentini, in un lungo articolo fa
la (sua) storia circa lo scontro, fra le forze politiche, per il
controllo politico del "Gruppo Rizzoli - Corriere della Sera".
Ed è subito rissa.
Visentini, non solo accusa i socialisti di servirsi del caso
Rizzoli come di un diversivo per stornare l'attenzione dalle
dichiarazioni del banchiere Calvi che indicano il PSI «come
destinatario all'estero di cifre ingenti», ma scrive che della
trattativa, circa l'acquisto del "Corriere" da parte di Carlo De
Benedetti, era stata data notizia al Presidente del Consiglio
dei ministri Giovanni Spadolini; con il che Visentini andava a
cercare rogna in casa propria, chiamando pesantemente in causa
lo stesso presidente del Consiglio, accusato di sapere che il
"Corriere" passava di mano...
* * *
Al che, questa interpellanza (ottobre 1981), a firma del
socialista Claudio Martelli, diretta al presidente del Consiglio
dei ministri, Giovanni Spadolini:
«Se il presidente del Consiglio dei ministri sia al corrente di
incontri e di trattative aventi lo scopo di definire il
passaggio delle quote di maggioranza della Rizzoli, valutate
oltre 100 miliardi di lire; incontri e trattative aventi per
protagonista il senatore Bruno Visentini presidente del PRI (di
cui è segretario il presidente del Consiglio) nonché presidente
della società Olivetti e il dott. Carlo De Benedetti,
amministratore delegato della stessa società, con Bruno Tassan
Din e quindi in forma personale o delegata con l'avvocato
Umberto Ortolani».
Accusa pesantissima: Visentini, tu tratti con il piduista
avvocato Ortolani, e il presidente del Consiglio ti tiene
mano...
* * *
Al che, la replica di Spadolini: «Si precisa che il presidente
del Consiglio (a diversità di quanto afferma Bruno Visentini) è
stato informato dell'avvenuta trattativa fra il gruppo Rizzoli e
il gruppo De Benedetti soltanto il giorno 30 settembre, a
seguito di una telefonata dell'on. Bettino Craxi che ne aveva
ricevuto comunicazione da Milano».
Così Bruno Visentini, il colto, il giusto, il composto ministro
delle Finanze, si prende, e da parte del segretario del suo
partito, la qualifica di bugiardo.
Tutto quello che volete: un grande uomo, ma anche uno che dice
le bugie. Ce la vogliamo aggiungere alle molte virtù che
arricchiscono la figura di Bruno Visentini, anche questa
«qualità», la qualità di dire le bugie?
* * *
Cerchiamo di trarre la morale da questa vicenda visentiniana,
con lo sfondo, come pretesto, i bottegai.
Allora è giusto dare il potere ai tecnici, agli imprenditori
privati, ai sostenitori del libero mercato? Solo loro gli
onesti?
È una colossale mistificazione.
Ma come si fa a sostenere, tanto per fare un esempio, che Carlo
De Benedetti al governo, che ha coperto Calvi in difficoltà
assumendosi la carica di vice presidente dell'Ambrosiano,
sarebbe più credibile di un Craxi che ha difeso Calvi in
Parlamento?
Come si fa a sostenere che «tecnici» dell'iniziativa privata
come Sindona, come Calvi, come Caltagirone, come Gelli, come
Cruciani, come Rovelli, possano risolvere i mali d'Italia?
Ci vuole ben altro. La Nazione è infetta. Il disegno caro a
Visentini dimentica, o fa finta di dimenticare, che gli esempi
più clamorosi di corruzione, di cui è piena l'attuale storia
italiana, vedono come protagonisti proprio i potentati
dell'economia cosiddetta libera, i più grandi finanzieri, le
tecnostrutture, gli apparati separati dello Stato.
A Torino -non lo si dimentichi- nella palude maleodorante della
vicenda delle tangenti, oltre il mondo politico, giganteggia la
Fiat.
Ed allora, torniamo all'inizio del nostro ragionamento, è vero
che il decreto Visentini rappresenta l'altra Italia, quella
pura, limpida, onesta?
I socialisti applaudono. Anche i comunisti. Tutti contro i
bottegai.
Ma i bottegai sono davvero la ragione della grande bagarre? O si
tratta d'altro? Ma di che cosa?
Proviamo a dirla. Visentini sarà giusto, colto, grande. Ma è
anche un impenitente ambizioso. Fino alla follia. E sente che
può farcela. Il Quirinale è lì, tentatore.
E Visentini ci prova.
Giuseppe Niccolai |