Rosso e Nero
anno 1983
 

15 gennaio 1983

31 marzo 1983 20 agosto 1983
27 agosto 1983 3 settembre 1983 10 settembre 1983
24 settembre 1983 1 ottobre 1983 7 ottobre 1983
18 ottobre 1983 22 ottobre 1983 29 ottobre 1983
26 novembre 1983 30 novembre 1983 14 dicembre 1983

 

15 gennaio 1983

Milano «socialista» riscopre Boccioni l'antisocialista


Continua, nella Milano «socialista», la mostra dedicata, nel centenario della sua morte, ad Umberto Boccioni (e il suo tempo), maestro di futurismo.
Arturo Carlo Quintavalle su "Panorama" (3.1.S3) si chiede: quale tempo? E pone le seguenti domande: come ha pesato, e quanto, il movimento futurista nella cultura europea?
Come hanno giocato, e quanto, sul giudizio della critica, le adesioni più tarde dei futuristi, e di Marinetti in primis, al movimento fascista?
La riposta: alla base del futurismo c'è una presa di coscienza nuova dell'intellettuale artista nella società industriale. Gli intellettuali come interpreti di una diversa realtà. Anticipatori dunque. E, nel campo della pittura, quella di Boccioni, una presenza di statura europea.
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Anni 30, mostra di Umberto Boccioni. La Milano socialista è alla riscoperta di valori che, nel loro erompere, furono antisocialisti, impietosamente antisocialisti.
«Alle volte», scriveva Boccioni, «è un pubblico democratico di intellettuali anarchici e socialisti; di quelli col cravattone nero, dai piedoni scalcagnati, che si trascinano dietro, alle conferenze, compagne libere con occhiali, sgangherate e sudice. Si dovrebbe attendere qualcosa da questa estrema sinistra della vita e della politica. Al contrario, sono i più feroci imbecilli, i più volgari assertori di banalità tradizionali, di luoghi comuni morali e reazionari. Noi futuristi li abbiamo sempre trovati violentemente contrari e insensibili davanti a tutte le ricerche rivoluzionarie dell'arte, le quali, logicamente avrebbero dovuto trovare delle analogie elementari nei loro cervelli da Camera del Lavoro... Puah! Che schifo!».
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Chi era Umberto Boccioni? «Vedo Boccioni», scrive Marinetti, «svincolarsi da quattro poliziotti per venire in mio soccorso in quella primissima dimostrazione anti-austriaca del settembre 1914 in piena Milano... All'indomani della presa di Dosso Casina, sui fianchi dell'Altissimo, in vedetta fuori dalle nostre trincee, a cento metri dalle trincee austriache, Boccioni, volontario, costretto a soffocare nella mantellina una tremenda tosse pur di combattere, torturato dal freddo acutissimo, non rimpiangeva della vita cittadina che il tepore goduto in prigione».
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Umberto Boccioni: interventista intervenuto. Dal fronte, dal quale non doveva più tornare, queste righe: «Io sono veramente felice e vedrai che l'Italia salirà ad altezze che nemmeno noi concepivamo ...»; «Il mio ideale futurista, il mio amore per l'Italia, il mio orgoglio infinito di essere italiano, mi spingono a fare irresistibilmente il mio dovere. E stai certo che Io farò...»; «Vado al fuoco felice, felicissimo! Pieno di fede nella vittoria immancabile dell'Italia e con la coscienza di tutto il valore della mia vita!».
«La guerra è una cosa bella, meravigliosa, terribile! In montagna poi sembra una lotta con l'infinito. Grandiosità, immensità, vita e morte! Sono felice e orgoglioso di essere soldato semplice e umile cooperatore all'opera grandiosa. Viva l'Italia!».
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Umberto Boccioni doveva morire, in divisa, nel 1916 all'età di 34 anni. Ciò che lascia è di difficile appropriazione da parte di chi, oggi, organizza marce su Comiso. Anzi. I suoi tratti più significativi lo avvicinano, per dirla con Luigi Einaudi, «ai giovani ardenti che, fra il 1919 e il 1921, chiamarono gli Italiani alla riscossa contro il bolscevismo» ("Le Lotte del lavoro", editore Piero Gobetti, Torino 1924, pagina 15).
Ed allora perché questo riemergere, nella città di Milano governata dalla sinistra, che vide nascere il futurismo prima (1909) e il fascismo poi, di «memorie» che hanno inciso nella storia degli italiani in senso drammatico, al punto che quelle «memorie» sono state, per 37 anni, e per volontà della sinistra, messe al bando della vita civile?
Che significato ha il riproporre oggi i tempi di Umberto Boccioni che anticiparono e prepararono il fascismo?
Ameremmo che ci rispondessero. Senza arrabbiarsi. Con serena, meditata pacatezza.
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Dai giornali: «Ritirato il passaporto al vicepresidente della Regione siciliana e a 51 sindaci» ("la Repubblica", 5.XII.82).
«A Bari assessore in cella: inventava corsi fantasma. È socialista. In cella anche un DC». ("la Repubblica" 5. XII.82).
«La questione morale lacera l'alleanza rossa di Firenze» ("la Repubblica", 10.XII.82).
«II ministro Di Giesi prometteva assunzioni. Nasce a Bari un altro scandalo». ("la Repubblica", 16.XII.82).
«L'arresto dell'armatore-petroliere Cameli. Per costruire la raffineria pagarono DC, PSI e PCI». ("la Repubblica", 19.XII.82).
«Si allarga lo scandalo edilizio di Catanzaro: sette gli arresti, vicesindaco (PSI), un assessore (DC), funzionari e professionisti». ("Corriere della Sera", 20.XII.82).
«Scandalo a Catanzaro: il vicesindaco ammette di essersi lasciato corrompere». ("Corriere della Sera", 24.XII.82).
«Sotto accusa per peculato assessore del PSI a Torino», ("la Repubblica", 5.1.1983).
«Nuovo scandalo in Sicilia: comunicazione giudiziaria a un assessore regionale socialdemocratico». ("Secolo", 6.1.83).

Tutto ciò fra dicembre 1982 e gennaio 1983. Si chiude l'anno vecchio, si apre il nuovo. La saldatura, come si vede, è perfetta. Si continua a rubare. In nome del popolo.
 

31 marzo 1983


«La Camera era impegnata con i decreti economici, stava parlando Gianni del PDUP, quando si è visto Belluscio piombare in aula e mettersi ad urlare, rosso in volto, che "così non si può andare avanti. Chi ha autorizzato il SISMI ad acquistare i fascicoli di Gelli provenienti dal SIFAR?". La Presidente Jotti ha dovuto fare intervenire i questori per riportare l’aula alla calma perché il deputato del PSDI continuava a gridare: "Saragat non si tocca, è un eroe della Resistenza!". ("Il Tempo", 14.1.1982)
* * *
Di che si tratta? È presto detto. I nostri servizi segreti (SISMI), inviati in Sud America alla caccia dell'archivio di Licio Gelli avrebbero acquistato, a suon di miliardi, anche alcuni fascicoli del SIFAR (il disciolto servizio di controspionaggio), compilati negli anni '60; fascicoli che invece di andare distrutti il 9 agosto 1974 nell'inceneritore di Fiumicino, sono finiti, in Uruguay, fra le carte del gran massone.
Ora tornano a galla. E Indro Montanelli, dalle colonne de "il Giornale", in difesa di Giovanni Spadolini che quella operazione-recupero avrebbe ordinato, grida: «Basta! Siamo stufi di vivere in mezzo agli scheletri, di grufolare fra i nostri rifiuti, di mangiare il nostro vomito. Nettezza urbana, a noi!».
* * *
Sì, si tratta di rifiuti, si tratta di vomito, ma sono rifiuti, grazie ai quali, si sono fatte e rifatte le maggioranze parlamentari, si sono formati i governi, si sono eletti Presidenti della Repubblica. C'è di più: dietro quei rifiuti c'è odore di sangue. E che sangue! Perché dovremmo dire «basta!» su vicende rimaste misteriose, che pesano tremendamente sulla vita politica e morale degli Italiani, al punto che si ha l'esatta sensazione che, o si fa luce su queste «porcherie», o questa Italia finirà, tutta quanta, nel proprio vomito?
Vomito, rifiuti, spazzatura. D'accordo. Ma l'Italia politica non è forse impastata di rifiuti e di vomito? Se lo stesso Giovanni Spadolini, Presidente del Consiglio dei Ministri, amicissimo di Montanelli, ordina: «acquistate quella spazzatura!», cosa pensare se non che siamo tutti rifiuti?
Se il potere di Licio Gelli nasce dal fatto che fin dal 1967 entrava in possesso dei fascicoli-rifiuti, grazie al generale Giovanni Allavena, capo del SIFAR, perché archiviare?
Se con quei fascicoli-rifiuti Gelli ha potuto plasmare l'Italia 1983, perché menare tanto scandalo verso coloro che, mettendo le mani in quella pattumiera, vogliono scoprire la verità sull'Italia pattumiera?
* * *
L'onorevole Costantino Belluscio insorge nel nome di Beppino Saragat, al grido fatidico: «è un eroe della Resistenza, Saragat non si tocca!»
Va bene, non tocchiamolo. Sarà anche un eroe, ma perché dimenticare che la sua elezione a Presidente della Repubblica fu concordata con il PCI, alla condizione che il pluriomicida, ergastolano Moranino, eroe della resistenza, venisse graziato?
Come fa Belluscio ad accusare "l'Unità" (vedi n° 11.1.1983) di essere l'artefice dell'attacco a Saragat quando Saragat deve al PCI la sua elezione a Presidente della Repubblica?
* * *
Tutti i quotidiani, "il Giornale" e il "Corriere della Sera" in testa, si trovano concordi nell'attribuire alle perverse arti del generale Giovanni De Lorenzo la compilazione e la divulgazione dei famosi fascicoli, per l'esattezza 33.092 dei quali, 16.000 intestati a singole persone. Montanelli, in particolare, si compiace sfruconare sul nome De Lorenzo. Forse perché missino?
Non è così. E non è onesto, soprattutto per Montanelli che conta, fra i suoi collaboratori a "il Giornale", Renzo Trionfera che, nell'anno 1967, scrisse, per "L'Europeo", una serie di dettagliati articoli sullo «scandalo dei servizi segreti, il dossier Saragat», arrivando a pubblicare addirittura le copie fotostatiche dei documenti riguardanti l'allora Presidente della Repubblica, e raccontando, in polemica diretta con Giovanni Gronchi, già Presidente della Repubblica, come nacquero e prolificarono i fascicoli.
* * *
Renzo Trionfera scrisse, non smentito né querelato, che l'Italia dei dossier segreti cominciò nei sette anni della presidenza di Giovanni Gronchi e che in quei sette anni i fascicoli, di cui tanto si parla ancora, venivano sottoposti all'attenzione del Capo dello Stato e da questi siglati, per l'occasione con una «G».
Belluscio, che è stato Capo di Gabinetto di Giuseppe Saragat al Quirinale, conosce benissimo questa storia. E sa, altrettanto bene, chi ha fornito, a suo tempo, a Renzo Trionfera la documentazione per sferrare l'attacco, senza precedenti, a Gronchi. E lo sa anche Montanelli che, proprio sulle pagine de "L'Europeo", contro Gronchi in carica, per non incappare nelle maglie dell'articolo 278 del Codice penale (quello che tutela l'onore e il prestigio del Presidente della Repubblica), inventò «il Granducato di Curlandia»
* * *
Questa è l'Italia repubblicana. Di sempre. I rifiuti sono sempre stati il suo forte, il suo elemento costitutivo. Fino ad esserne incarnata. Quei rifiuti non possono essere digeriti. Sono destinati a tornare, sia pure sotto forma di vomito.
E, dopo tutto, Belluscio non ha alcuna ragione di lamentarsi. Beppino Saragat, fascicoli o no, è poi finito nelle riserve di caccia di Licio Gelli. Ospite abituale, di casa.
Si scrive che Gelli era diventato potentissimo. E come poteva essere diversamente se era diventato di famiglia del Capo dello Stato?
* * *
Trionfera è la verità? Non sia mai detto. Però la verità è che i Servizi di Informazione sono sempre stati utilizzati a fini partitocratici. Non solo per eleggere Presidente della Repubblica il personaggio amico, ma anche per determinare nuove maggioranze, nuovi governi.
Perfino Pietro Nenni ha il suo fascicolo. Riguarda i fondi del SIFAR concessi a "l’Avanti!", dopo un incontro a tre: il comandante del SIFAR generale Viggiani, il ministro del turismo Corona, e Pietro Nenni, allora Vice presidente del Consiglio dei Ministri. La data: 21 febbraio 1964.
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Perfino Ugo La Malfa ha il suo fascicolo: i soldi (dicembre 1961) del SIFAR utilizzati per corrompere i delegati al Congresso repubblicano di Ravenna, congresso decisivo perché il centrosinistra si mettesse su. La vittima: Randolfo Pacciardi che il centrosinistra non voleva.
Poi, via via, tutti gli altri fascicoli. Gli ultimi riguardano il giovane Pier Luigi Pagliai, assassinato in Sud America, perché non parlasse.
La tecnica del sasso in bocca non è solo mafiosa. È cominciata con il bandito Giuliano e giunge fino ai giorni nostri. E se la mente è la classe politica di vertice, il braccio è dei servizi. Le stragi seguono questo filo rosso. Chi è di parere diverso o è «coglione», o è complice.
Arrivano i fascicoli. Fanno venire il vomito? Ben venga se serve a sputtanare definitivamente questa classe politica di corrotti, dalle mani, spesso, macchiate di sangue.
 

20 agosto 1983
Il «venerabile» Licio e la famiglia Di Bella


Il canale due della Rai-Tv, nel consueto telegiornale delle 19,45, ci ha puntualmente e minuziosamente informati sulla fuga di Gelli dal carcere svizzero.
L'informatore, il giornalista Antonio Di Bella.
* * *
Se non andiamo errati, l'assunzione alla Rai-Tv del giornalista Antonio Di Bella è avvenuta senza concorso, per chiamata diretta, nel 1979, in piena crisi delle testate giornalistiche e con numerosissimi disoccupati.
La "Tribuna Stampa" (n° 8/1979), organo dei giornalisti lombardi, polemizzò vivacemente su questa lottizzazione.
* * *
Perchè Antonio Di Bella veniva assunto per chiamata diretta? Cerchiamo di indovinare. Ma perché, a quei tempi, Franco Di Bella padre di Antonio, era, nientemeno che il Direttore del "Corriere della Sera". Sedeva sulla prestigiosa sedia di Via Solferino, in Milano.
Questo «particolare», nella chiamata di Antonio alla Tv, può avere influito sulla scelta, o no?
Ritengo di sì Franco Di Bella, a quei tempi, era potente e protetto.
* * *
Infatti la sua nomina al "Corriere" è del 30 ottobre 1977. Bello il suo articolo di investitura. Rileggiamolo insieme.
«Il Corriere della Sera», scriveva Franco Di Bella, «seguirà attentamente la crisi di crescita del Paese, sempre pronto a raccogliere tutte quelle voci autenticamente pluralistiche che costituiscono l'unico patrimonio di una democrazia in evoluzione» (il 1977 è l'anno in
cui il partito armato passa all'azione diretta, ad assassinare, N.d.R.).
«Un grande giornale come il Corriere della Sera», continuava Di Bella (Franco), «riscattato dalla Resistenza dopo i giorni bui del '43 e del '44, un giornale che ha fatto la Repubblica, un giornale che ha dato un contributo così prezioso alla Carta Costituzionale, che si è battuto contro la rinascita del fascismo, che ha schiuso la via del divorzio, non può che continuare su questo cammino ...».
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Belle parole. Sono del 30.10.77. Giampaolo Pansa, cinque anni dopo su "la Repubblica" (15.9.82) scriverà: «Di Bella è il primo Direttore della storia democratica del "Corriere" che l'editore nomina dopo una consultazione dei partiti. Con i partiti legali (DC, PCI, PSI) ma anche con il partito illegale e invisibile, guidato da Gelli. Don Licio ha un ruolo decisivo nella nomina di Di Bella. Nell'ottobre 1977, Rizzoli porta il suo candidato all'Hotel Excelsior per l'incontro con il Maestro Venerabile.
Nei giorni successivi a questo esame, l'editore prepara la bozza di contratto. Di Bella l'esamina e, non soddisfatto di qualche clausola, riprende la strada dell'Excelsior e va a lamentarsi da Gelli. Il Maestro Venerabile interviene su Angelo Rizzoli e tutto si appiana.
Due mesi dopo (23.12.77) Di Bella, con una sua lettera, testimonierà a Gelli «riconoscenza e devozione».
* * *
La resistenza, l'antifascismo, la Carta Costituzionale, la Repubblica. Sono le parole con cui Franco Di Bella si presenta; sono parole che, come bandiere, serviranno anche a piazzare nel 1979 suo figlio Antonio alla Rai/Tv, per chiamata diretta.
Nei fatti la P2, con Franco Di Bella, si insediava a Via Solferino, diventava potente, arruolava ministri, generali, ammiragli, capi partito, magistrati, banchieri. E dal Grande Maestro andavano editori, giornalisti, rappresentanti delle Istituzioni e dei potentati economici.
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Ecco perché, soprattutto per ragioni di buon gusto, avremmo preferito che a darci notizie su Gelli in fuga, dal canale 2 della TV di Stato, fosse stato un personaggio diverso dal figlio di colui che a Gelli doveva «riconoscenza e devozione».
Un interrogativo: quanto antifascismo è fatto di questa pasta (fasulla)?
* * *
Giovanni Spadolini, rendendo omaggio all'Altare della Patria e alle Fosse Ardeatine nella sua veste di Ministro della Difesa ha, fra l'altro ricordato «la tradizione di fedeltà alle Istituzioni dei militari italiani, una qualità, ha detto, dai cui scaturì la prima resistenza, la quale, anticipando le gloriose esperienze del movimento popolare e nazionale sorrette da diversi filoni ideali, disse a tutto il mondo che c'era un'altra Italia» ("Il Giornale", 11.8.83)
* * *
Un'altra Italia. È una frase che mi hi fatto ricordare che Giovanni Spadolini parlò di «un'altra Italia» anche il 22.4.194 quando, dalle colonne di "Italia e Civiltà", commemorando Giovanni Gentile assassinato da poche ore, scrisse queste parole:
«Strano e paradossale davvero, il concetto che tanti hanno del traditore d'Italia, secondo il quale, alla fine, traditore, diventa colui che al pari del glorioso scomparso di oggi (Giovanni Gentile, N.d.R.), agisce ed opera politicamente sul terreno della realtà e della fatalità storica italiana, colui che rispetta i patti, che riscatta l'onore, che rivendica la tradizione che difende la civiltà classica cattolica, al d fuori e al di sopra di pregiudiziali di partito, colui che soffre e combatte e si impegna perchè all'Italia. spregiata e umiliata, avvilita e smembrata e quasi inerme, siano restituiti dignità di Nazione, prestigio di popolo, coscienza di stato, unità di spirito, volontà di potenza, stimolo di grandezza, desiderio ardentissimo di salire, di allargare il proprio respiro, di nobilitare la propria esistenza; e vero patriota chi, invece, si adopera, in un modo o nell'altro, a che l'Italia sia quella terra di straccioni e di pezzenti, di servi e di lacchè, di albergatori e di mezzani che corrisponde ai desideri del la parte più spregevole e degenerata della nostra razza».
Queste belle parole di Giovanni Spadolini del 22 aprile 1944 le dedichiamo a Leo Valiani.
* * *
Molti, con stupore e meraviglia, si chiedono ancora il perché Eugenio Scalfari, durante la campagna elettorale, dalle colonne de "la Repubblica", abbia fatto un tifo infernale per Ciriaco De Mita.
La spiegazione sta forse in un pranzo. A ventiquattro ore di distanza dalla sua elezione a segretario nazionale della DC, Ciriaco De Mita, si trovava in Via Ignazio Guidi, nell'abitazione di Flavio Carboni, portaborse di Calvi, ora recluso.
Che ci faceva? Con lui, allo stesso tavolo oltre Carboni, c'erano il repubblicano Armando Corona, Gran Maestro della massoneria, monsignor Hilary del Vaticano, il presidente DC della Giunta sarda Angelo Roich e Carlo Caracciolo, l'editore, insieme a Scalfari, de "la Repubblica".
Il patto "De Mita - Repubblica - Scalfari" nasce in casa Carboni. Un pizzico di Vaticano e di massoneria non poteva mancare. E nemmeno, con Carboni, i soldi dell'Ambrosiano.
Bello no?
* * *
Sandro Pertini aveva promesso: non riceverò, non stringerò più la mano a coloro che sono comparsi sugli elenchi di Licio Gelli.
Quattro agosto 1983, ore 11,30, Quirinale giuramento dei Ministri. Pietro Longo, neo ministro, giura fedeltà nelle mani di Sandro Pertini. Il Presidente della Repubblica: «Sono veramente soddisfatto. Ora me ne andrò in Val Gardena».
 

27 agosto 1983
Spadolineide


Un grande titolo su "la Repubblica" (19.8.83). «Spadolini invita Craxi a dare segni di volontà sulla questione morale».
Benissimo; Craxi faccia il suo dovere, ma altrettanto deve fare Giovanni Spadolini. Perché il PRI è tutt'altro che quella specchialissima casa di cui si parla. Anzi.
* * *
La Commissione Antimafia, di cui ho fatto parte, sottopose a stringente interrogatorio il repubblicano onorevole Aristide Gunnella (26.3.1971), e quell'interrogatorio battè, in modo particolare, su un punto: come mai il PRI, con il candidato Gunnella, prima che quest'ultimo assumesse alla "Sochimisi" (azienda mineraria regionale), di cui era consigliere delegato, certo Di Cristina Giuseppe, incontrastato boss mafioso della zona mineraria, prendeva scarsissimi voti? E come mai, dopo l'assunzione di questi, avvenuta alla vigilia delle elezioni politiche del 1968 (28.2.68), grazie a Gunnella, per il PRI (e per Gunnella) vi fu il grande balzo elettorale?
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Aristide Gunnella, dai 4.000 voti di preferenza presi il 28.4.63 (IV legislatura) passa il 19.5.68 (V legislatura) a più di 18.000 voti preferenziali e, grazie ad Ugo La Malfa, che per lui opta per il collegio dì Catania, diventa deputato.
La cittadina di Riesi. patria del Di Cristina, che di solito dava al PRI non più di trenta voti, dopo l'operazione mafiosa dell'assunzione alla "Sochimisi" del Di Cristina, da al PRI 323 voti, di cui 262 sono per Gunnella.
Particolare interessante: il Di Cristina Giuseppe, già sotto processo per omicidio, viene assassinato nel maggio 1978 a Palermo. In tasca gli trovano assegni per il valore di tre miliardi di lire. Traffico di eroina.
* * *
Giovanni Spadolini, sul caso Gunnella, ha sempre taciuto, per poi, nei fatti, schierarsi dalla parte di Gunnella, amico del boss mafioso Di Cristina. La questione morale, per cui nella Sicilia occidentale il PRI odora fortemente di mafia (e l'accusa è contenuta negli atti della Commissione Antimafia) sembra non interessare Giovanni Spadolini. Passa oltre. Con una disinvoltura disarmante.
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Ma ora, dopo le elezioni del 26.6.83, il PRI che sa di mafia in Sicilia, puzza addirittura di 'ndrangheta in Calabria. È un balzo di qualità. Infatti questa «'ndrangheta», che il PRI in Calabria predilige, non ha nulla a che fare con la vecchia mafia agricola, ma piuttosto con quella «onorata società» che, modernamente, facendo ricorso alle categorie di impresa e di imprenditorialità, svolge nella zona, con il delitto e per il delitto, il ruolo di accumulazione del capitale. Mafia imprenditrice e PRI: è il tema del giorno. E tutti, a cominciare da Spadolini, fanno finta di nulla. E la questione morale?
Anche la stampa di informazione, la TV, i sociologi fanno orecchie da mercante. Uno sguardo ai voti. È vero: il PRI guadagna in voti e in percentuale su tutta l'area nazionale; ma la Calabria fa storia a sé e, in particolare, la provincia di Reggio Calabria dove l'edera passa dal 2,3% al 6,2%.
È un salto troppo anomalo per passare inosservato, anche perché nel collegio "Reggio Calabria - Catanzaro - Cosenza" non sono candidati né Spadolini, né Susanna Agnelli, né Visentini, né Arisio. Qua i candidati si chiamano Nucara.
E come sono possibili guadagni così clamorosi?
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Replicherete: ma non vi pare di essere un po' troppo spericolati con un'accusa del genere? Come è possibile: il PRI, il partito del perbenismo, della pulizia morale, del limpido ragionare, il partito raziocinante per eccellenza, il partito di Spadolini, Leo Valiani. Bruno Visentìni, come è possibile che colluda, in Calabria, con la mafia e quella più spietata, più crudele, più sanguinaria?
* * *
Il prof. Pino Arlacchi, professore universitario nell'Università di Calabria, studioso ascoltatissimo del fenomeno mafioso, le cui interviste compaiono periodicamente su "il Corriere della Sera" e su "la Repubblica" (l'ultima il 18.8.83 sull'assassinio a Palermo del giudice Chinnici) ha scritto, edizione il Mulino, un libro, dal titolo "La mafia imprenditrice". È dell'aprile 1983.
A pagina 204 trovo riportale queste affermazioni che affido, oltre che al lettore, all'attenzione delle autorità competenti:
«L'ingresso diretto dei familiari dei mafiosi nel personale politico riguarda in massima parte la provincia di Reggio Calabria. Vediamolo più attentamente. A subire le maggiori pressioni è il PRI. Un gruppo di intellettuali laici che tre anni fa stava conducendo uno sforzo di rinnovamento è stato estromesso in blocco. Il PRI ha espresso un consigliere regionale, cui potrebbe essere affidato il ruolo di assessore. È Pietro Araniti, di professione consulente fiscale. I suoi cugini, Santo e Domenico, sono i «boss» della zona di Gallico, Sambatello, e Cafona. Un altro parente di mafiosi eletto nelle liste repubblicane alla Provincia è Pietro Ligato, veterinario comunale, figlio di un vecchio boss in disarmo, genero di Antonio Macrì, il padrino di Siderno. Fino a poche settimane prima, Pietro Ligato era candidato nelle liste democristiane, poi è passato al PRI che ha visto crescere in maniera inconsueta i suoi voti nella zona. Ancora un parente delle cosche: Antonio Libri, figlio di Domenico, uomo del clan De Stefano, pure lui nel processone dei sessanta, condannato in appello a cinque anni, inviato al soggiorno obbligato, oggi in libertà provvisoria per «motivi di salute»: è risultato primo eletto nelle liste del PRI per i consigli circoscrizionali a Reggio... Tra Pietro Araniti, repubblicano passato alla Regione e Giorgio De Stefano, democristiano eletto al Comune, si assiste a un chiaro travaso di voti. È un vero e proprio travaso fra cosche. Nelle stesse sezioni dove l'elettorato ha premiato Araniti, nei voti per il Comune il PRI praticamente scompare e le stesse preferenze passano a De Stefano. Ora, tutto questo ha bisogno di avalli anche politici. Se Nucara è il padrino dei "nuovi" repubblicani calabresi, i padrini democristiani nella stessa operazione sono il deputato Vico Ligato e il senatore Nello Vincelli, quest'ultimo... sottosegretario ai trasporti».
* * *
Senatore, nonché Ministro, nonché segretario nazionale del PRI, Giovanni Spadolini, moralista di professione, che ne dice di ciò che abbiamo scritto?
Nucara Francesco, da Reggio Calabria, è ora un suo deputato. Come intende comportarsi? L'accusa è precisa: il PRI, in Calabria, è mafia. Che fa? Fa finta di nulla? Snobba il tutto?
Faccia pure, ma si ricordi che, in Parlamento, ci siamo anche noi. E non passerà giorno che non le ricorderemo la questione morale. La sua questione morale, vistosissima. Come la sua imponente mole. E non sarà facile (per lei) evitarla.
* * *
Dimenticavamo. Giovanni Spadolini aveva preso, nella passata legislatura, solenne impegno di restituire alla "Italcasse" i 400 milioni che il PRI, tramite Ugo La Malfa, si era preso per conto dei petrolieri (1974), perché non si costruissero Centrali nucleari.
Quella «restituzione» non è ancora avvenuta. C'è da riparare una truffa. Si affretti, senatore Spadolini, si affretti a pagare. La «questione morale» urge. Dia, in questa materia, un segno di buona volontà. Non perda tempo. Perchè, altrimenti, ci perde la faccia.
 

3 settembre 1983
I ribelli conformisti


Gaetano Afeltra ci racconta, dalle colonne de "il Corriere della Sera" (21/8) come il fascismo tentasse, senza riuscirci pienamente, di asservire ai propri voleri la (si fa per dire) gloriosa testata di via Solferino, in Milano.
Una serie di storielle, davvero curiose, che non sto a descrivere perché, più della drammaticità di cui Afeltra vorrebbe rivestirle (data la cattiveria della Dittatura), vengono fuori episodi esilaranti e cinici al tempo stesso (Piovale antifascista? E le parole di elogio tributate da costui al volume razzista dì Interlandi "Contro Judaeos" nel 1939 come le cataloghiamo?), protagonista un antifascismo salottiero, utilitario, meschino, da quattro soldi; un'offesa per coloro (e sono pochi) che, per desiderio di antifascismo, soffersero sul serio.
* * *
Se quello descritto da Afeltra era veramente la crema del giornalismo anti-regime, ha ragione Indro Montanelli che, in un celebre articolo di 28 anni fa ("Proibito ai minori dì 40 anni", il "Borghese" 4.2.55), scrisse che gli atteggiamenti ribelli di allora contro il fascismo non differenziavano da quelli conformisti e bigotti di altri perché, entrambi, perseguivano lo stesso fine: sistemarsi, guadagnarsi, nel regime, un posto, un posto al sole. Si arrivava, scrive Montanelli, disobbedendo con la stessa ansia con cui molti altri volevano arrivare obbedendo.
Antifascisti, ma sulla poltrona. E che poltrona! Pagati, profumatamente.
* * *
Si dà ora il caso che, nel momento in cui il nostro Afeltra scriveva queste melanconiche note sul foglio di Via Solferino durante il fascismo, dalle Bahamas, spuntassero documenti dì Calvi, in cui si raccontano le «segrete» vicende (democratiche, per carità!) circa il mercato delle testate giornalistiche che, come vacche, vengono comprate dal miglior offerente.
Quelle carte che cosa dicono? Che Eugenio Cefis, membro autorevole della Resistenza, nonché Presidente della Montedison, stipula con Angelo Rizzoli un patto di ferro: io do a te Rizzoli i miliardi e tu metti a disposizione della Montedison e della sua politica la (si fa per dire) gloriosa testata di Via Solferino, "il Corriere della Sera".
Patto scellerato, scrive "la Repubblica" (23.8). La data scellerata: 24 aprile 1974, anno ventinovesimo dell'era resistenziale e democratica.
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Sicché Eugenio Cefis comprava giornali, editori, giornalisti, tipografi. Come vacche.
Ma noi siamo in grado di precisare che a quei tempi Eugenio Cefis non si limitava solo a comprare «penne» e «carta stampata», ma comprava il Parlamento e la magistratura.
Il "Secolo" ("Rosso e nero", 20.9.79) ha già documentato la grave affermazione che abbiamo fatto. A grandi linee la riproponiamo. Soprattutto perché, in tempi di confronti (fascismo-antifascismo), non fa poi tanto male mettere in luce come l'antifascismo, in certe materie, abbia raggiunto delle «finezze» che il fascismo non si è mai sognato, non dico di realizzare, ma di pensare. Davvero irripetibile questo antifascismo!
* * *
È il 27 aprile 1974. Il pretore Viglietta Gianfranco di Livorno condanna Eugenio Cefis alla pena della reclusione, più il risarcimento danni alle parti civili, perché ritenuto responsabile, quale Presidente della Montedison, degli scarichi in mare, fra la Corsica e l'isola di Gorgona, di 3.000 (tremila) tonnellate giornaliere di biossido di titanio, di cui all'11% di acido solforico, provenienti dallo Stabilimento Montedison di Scarlino (Grosseto).
Particolare: a presiedere il collegio di difesa dì Eugenio Cefis è chiamato l'avv. Giuliano Vassalli, oggi senatore del PSI.
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Da quel momento (e noi lo abbiamo documentato con date e cifre mai smentite) Parlamento e Magistratura, sotto il pretesto della difesa ecologica, procedono di pari passo. E si ha questo spettacolo: la magistratura rinvia, di mese in mese, di anno in anno, il processo di appello contro E. Cefis, fino a quando il Parlamento, con procedure che hanno dello spericolato, riesce a varare la legge, nel cui articolato c'è la norma che salva Cefis dalla galera.
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E il 30 aprile 1976. Sono passati due anni dalla condanna, rimasta in sospeso, di E. Cefis. In un solo giorno, anzi in poche ore, in Commissione Lavori Pubblici della Camera, approva in sede legislativa, la norma salvatrice. Il tribunale dì Livorno dichiara il non luogo a procedere. È il 7 luglio 1976.
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Otto luglio 1976. Al collegio difensore di Eugenio Cefis arriva la seguente lettera: «Ho appreso con viva soddisfazione la notizia della favorevole sentenza di Scarlino e desidero esprimervi i miei più fervidi ringraziamenti e rallegramenti per questo esito positivo. So con quanta volontà e passione avete portato avanti il processo e quanto vi siate impegnati al fine di far sì che la sua conclusione fosse posticipata rispetto all'entrata in vigore della nuova legge Merli, che ha costituito il motivo della nostra assoluzione. Nel rinnovare tutta la mia gratitudine, desidero farvi giungere i sentimenti della più viva cordialità». Firmato, Eugenio Cefis.
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1972: Massimiliano Gritti, braccio destro di Cefis e Presidente della Montefibre, è un ex agente del SID. È cosi che, grazie al Grilli, ogni mattina, sul tavolo di Cefis, per anni, compare un mattinale. È stilato dal SID come rapporto informativo riservato. Spazia su tutto: dalla politica all'industria.
Cefis, dunque, ha potuto disporre del SID, cioè del più importante servizio di sicurezza, come di una polizia personale a tempo pieno.
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Ecco ora alcune informative giunte a Cefis il 22.9.1972 da parte del SID:
«On. Francesco De Martino, ing. Nino Rovelli, finanziamento Funzionario amministrativo del gruppo SIR segnala che l'ing. Nino Rovelli ha versato nei giorni scorsi un aiuto finanziario per la propaganda pre-congressuale dell'on. Francesco De Martino in Campania».
«On. Ugo La Malfa, on. Francesco Compagna, Jean Louis Lehmann (Mobil Oil), richiesta di sovvenzionamento. Fonte della segreteria del PRI segnala che l'on. La Malfa ha dato incarico all'on. Francesco Compagna di chiedere a Jean Louis Lehmann l'aiuto finanziario della Mobil Oil italiana per la campagna elettorale del PRI in vista delle prossime elezioni».
«On. Marzio Zagari (PSI). costituzione agenzia stampa. Finanziamento ESSO. Fonte diretta segnala che l'on. Mario Zagari ha dato vita ad una nuova agenzia stampa intitolata "Agenzia socialista". Ha sede in Roma, Via Colonna Antonina 35. La dirige, per conio di Zagari, un suo fiduciario, Giorgio Nardi. Zagari ha ricevuto per questa Agenzia un aiuto finanziario della ESSO italiana».
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Petrolio, quattrini, partiti, correnti. Cose note, cose inquinanti, cose sporche, cose che sfoceranno, nel 1974, in episodi da codice penale, ma nessuno ha pagato. Le abbiamo ricordate per un particolare che direttamente, come famiglia politica, ci riguarda.
Quando Eugenio Cefis imperava, comprava giornali, assoldava i servizi, distribuiva soldi a partiti, correnti, politici, il MSI subiva (sono gli anni '70), dai vari centri di potere, o meglio bande, la più vendicativa fra le rappresaglie politiche. Si veniva messi al bando. Linciati come assassini. Ghettizzati come lebbrosi. Bruciati vivi.
In testa, in questa operazione-linciaggio: "il Corriere della Sera", il quotidiano che oggi sappiamo essere stato al servizio, prima di Eugenio Cefis, poi della P2 di Lido Gelli. E i Servizi a piazzare bombe davanti alle sedi missine, perché l'inevitabile scontro desse sangue e morti. Sì concimava cosi la terra. L'Italia (democratica) cresceva così.
Ricordiamocelo, cari amici, cari camerati. Non dimentichiamolo.
Questi possono ricominciare.

 

10 settembre 1983
Il Presidente e il suo Maccanico


Un finire di estate (politica) turbolento. Da Selva di Val Gardena il Presidente della Repubblica, circa le polemiche sorte sulla sua mancata presenza al meeting cattolico di Comunione e Liberazione di Rimini, per cui la sua defezione dalla manifestazione sarebbe stata, per gli ambienti cattolici, opera della massoneria, esce, con una intervista al «Corriere della Sera» (2.9), con questa frase: «Chi vuole prendersela con me, troverà pane per ì suoi denti... Potrei fare anche un taglio netto».
* * *
Il giorno dopo (3.9) "la Repubblica", per la penna del Direttore, così commenta quella intervista: «Se dovessimo prendere per oro colato quanto riferito da Sandro Pertini al "Corriere della Sera", dovremmo alquanto preoccuparci».
Risulterebbe, scrive Scalfari, che il nostro capo dello Stato non conosce la natura di due importanti movimenti politici italiani e lì scambia per associazioni ricreative di boy scouts; che la famosa storta alla caviglia, con la quale giustificò la disdetta dell'appuntamento di Rimini, è stata una malattia diplomatica: che dove va il Papa ci deve andare anche lui; che Pannella, il quale nei giorni scorsi aveva scritto che occorreva garantire a Pertini il suo mandato «per quanto credeva e fin quando la sua coscienza e i suoi medici gli diranno che è nella pienezza delle sue capacità fisiche e mentali» (sic! - N.d.R.), è, e resta, un suo amico.
Ce ne sarebbe, scrive Scalfari, quanto basta per preoccuparsi, ma c'è una speranza: che il giornalista (Nicola D'Amico) abbia capito male, ma abbia preso fischi per fiaschi. Pertini, conclude Scalfari, «è stato finora uno dei punti di riferimento di tutti gli Italiani. Non si vorrebbe che proprio mentre il Paese attraversa frangenti tanto delicati, quel punto di riferimento si appannasse».
* * *
Questo il 3 settembre. Si aspettano smentite, precisazioni. Nulla. Tutto tace, anzi l'estensore dell'intervista Nicola D'Amico, rincara la dose e sul "Corriere della Sera" (4 settembre), replica, sia a Comunione e Liberazione, sia a Scalfari.
«Il Movimento Comunione e Liberazione non contento di aver provocato le recenti polemiche che hanno sfiorato (sic! n.d.r.) il Capo dello Stato, giunge ora a definire "ignobile" una parte della mia intervista al Presidente Pertini. Il Presidente Pertini non ha smentito una sola parola del nostro colloquio ed è il miglior testimone della mia correttezza professionale, anche di fronte a chi dice di sperare nei miei lapsus».
* * *
Che si deve pensare di tutto ciò? Che sono iniziate le grandi manovre per l'elezione del futuro Presidente della Repubblica, prevista per l'agosto 1985 e che, tanto Pertini (che punterebbe al reincarico), tanto i concorrenti, già si... allenano per tagliare per primi il traguardo?
Mancano due anni e se queste sono te avvisaglie, potete benissimo immaginare cosa accadrà nei prossimi mesi...
Siamo già alla bagarre.
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C'è chi dice che questo «pasticcio estivo» sia opera del Segretario, generale del Quirinale, il dott. Antonio Maccanico, messo nuovamente sotto accusa di collusioni massoniche (il passaporto a Calvi, via Zilletti-Oresti, così vogliono sul Colle, ricordate?). Altri invece propendono nell'affermare il contrario, cioè che l'assenza del dott. Maccanico, in ferie a Capri, per cui Pertini si è trovato solo a decidere, sia stata la causa del pasticciaccio.
Propendiamo per la seconda ipotesi. Non è da oggi che riteniamo che «l'immagine» che gli Italiani hanno di Sandro Pertini, sia opera anche di Antonio Maccanico, il vero, autentico regista della politica del Quirinale.
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Il Quirinale è limpido. Se c'è un collaboratore onesto e leale, questi è Maccanico. Io accetto i suoi consigli, ma li non muove un dito senza il mio consenso. Se no stato io a suo tempo a volerlo Segretario generale della Camera. Maccanico è un irpino intelligente, è un uomo colto, un umanista. E fu antifascista fin da ragazzo... Io mi fido e lui al cento per cento». (Sandro Pertini, "Corriere della Sera", 2.9).
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Questa storia dell'antifascismo (giovanile) di Antonio Maccanico non convince.
Del resto a smentire, in questo caso, il Presidente della Repubblica, è lo stesso Maccanico. Infatti, su "l'Espresso" (17.1.83) alla domanda perché lui, avellinese, avesse scelto quando si trattò di iscriversi all'Università, la città di Pisa, Maccanico, con un discorso alquanto contorto (e sofferto) risponde che, desiderando di essere ammesso alla prestigiosa Scuola Normale di Pisa per la facoltà di giurisprudenza, «concorse, in verità, per l'ammissione al Collegio giuridico annesso alla Normale che si chiamava Mussolini ...».
L'intelligente irpino, antifascista fin da ragazzo, qui non la racconta tutta. L'articolo 1 della Convenzione, che istituisce il Collegio Mussolini annesso alla Scuola Normale Superiore di Scienze Corporative di Pisa, recita: «Il Collegio Mussolini di Scienze Corporative, istituito in Pisa con la Convenzione 12.XII.1931, registrato il 26.XII.31, anno IX dell'Era Fascista, ha lo scopo di accogliere i giovani che intendano dedicarsi agli studi delle dottrine politiche, economiche e giuridiche, secondo l'indirizzo corporativo».
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Ora come si fa ad essere «antifascisti fin da ragazzi», quando si concorre all'ammissione al Collegio Mussolini, il centro culturale per eccellenza del fascismo, voluto e creato da Giovanni Gentile?
Per di più, il Regolamento interno delle Scuola Normale Superiore di Pisa (Bollettino Ufficiale del Ministero Educazione Nazionale 8/5 1934, anno XII EF) recita: «Non possono essere ammessi al concorso coloro che non attestino la loro iscrizione alla Avanguardia Giovanile Fascista, ai Fasci Giovanili di Combattimento o al PNF».
Quale di questi documenti ha esibito il giovane dott. Maccanico per essere ammesso, a spese dello Stato Fascista, al Collegio Mussolini?
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L'attacco freddamente e crudelmente condotto contro l'aereo di linea sud-coreano da parte di caccia sovietici, che ha causato la morte di 269 civili inermi, è non solo un aberrante atto di aggressione ma un crimine contro l'umanità intera, che desta orrore in tutti gli uomini amanti della pace».
(Sandro Pertini, Presidente della Repubblica ad Andropov, 4.9.83).
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«Questo patto è rivolto contro l'URSS. Ma se per dannata ipotesi, l'URSS dovesse crollare, crollerebbe il sostegno principale di tutte le forze progressive dell'umanità e della pace».
(Sandro Pertini, 4.4.1949, all'atto della sottoscrizione a Washington del "Patto Atlantico" da parte del Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Portogallo, USA, per la sicurezza, la difesa collettiva e la preservazione della pace).
 

24 settembre 1983
L'Artista-Maestro del neo-assenteismo e l'ex-repubblichino che fa il repubblicano


Renato Guttuso: 144 milioni «sofferti» in 4 anni di laticlavio, 2 interventi e tante belle parole spese a «requiem» della «seconda fine» di Pompei

Quando Spadolini non aveva ancora la pancia da cardinale laico e ardiva biasimare, sulle colonne di una rivista fascista, l'italico malvezzo di «tagliarsi gli attributi della propria virilità (nazionale)»
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Ho, davanti a me, il resoconto dell'attività parlamentare del senatore, il celeberrimo pittore Guttuso Aldo Renato. Riguarda gli anni 1979-1980-1981-1982.
Ricordo che alla decisione di lasciare il Senato, Enrico Berlinguer gli inviò un telegramma caldissimo, ringraziandolo della «prestigiosa» opera prestata, in qualità di senatore della Repubblica italiana, a favore del popolo. Vediamo questa «opera».
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Nel 1979 parla una sola volta. Il 24 ottobre, in Commissione Istruzione, sul rendiconto generale dell'amministrazione dello Stato per l'esercizio 1978. In contemporanea, fra indennità e altri «ninnoli», incassa per il 1979 trentasei milioni.
Nel 1980 non c'è traccia di attività se non presso la Tesoreria del Senato dove il celebre pittore Guttuso Aldo Renato si reca per percepire, in nome del Popolo (che non serve), altri trentasei milioni.
Nel 1981 interviene il 3 febbraio in aula sulla discussione del provvedimento per la conservazione, il restauro e la valorizzazione dell'antica Pompei e del suo territorio. Il 31 marzo, sempre in aula, in sede di interrogazione, per cinque minuti, si interessa della salvaguardia dei beni culturali nelle zone terremotate. Il tutto per altri trentasei milioni.
Nel 1982 si limita a firmare due proposte di legge (28.1 - 9.2, data di presentazione) sulla conservazione e valorizzazione dei beni culturali e ambientali. E passa dalla Cassa per ritirare altri 36 milioni.
1979-1980-1981-1982: 144 milioni. Mica male per essersi recato in Senato» sì e no, tre volte l'anno!
D'altra parte è lo stesso Guttuso Aldo Renato a riconoscere la bontà di quanto scriviamo. Il 6 dicembre 1981, intervistato da "l'Espresso" dichiarava: «In Senato ci vado poco; ogni tanto mi ordinano (sic!, N.d.R.) di fare un intervento, allora lo faccio».
Un giudizio? Grande artista, pessimo parlamentare, formidabile... incassatore!
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Gaetano Afetra continua a raccontarci le vicende del "Corriere della Sera" nei 45 giorni badogliani. Nell'articolo dell'8.9, ricordando le vicende dell'otto settembre 1943, si legge: «Milano era in mano ai nazisti. Gli operai fremevano. Le armi erano arrivate ben oliate. Via Solferino divenne per qualche giorno l'Alcazar del giornalismo. Certo con i "Tigre" di Hitler non si poteva resistere a lungo. Ma l'animus c'era. Tacchini, Fraschini, Zacchertti e altri operai, notte e giorno, a turno, erano sui tetti, pronti a dare l'allarme per difendere il loro giornale, il "Corriere" era un osso duro anche per i Tedeschi...».
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A leggere la prosa di Gaetano si trattiene il fiato. Ora chi sa che cosa accade: sparatorie, morti, feriti, una carneficina!
Niente di tutto questo. Il nostro Gaetano prosegue e scrive: «I tedeschi capirono e fecero agire i fascisti. Dopo sei giorni, per ordine delle autorità civili, il Giornale riprese ad uscire».
E le armi ben oliate? E la guardia sui tetti? E l'animus di resistere? E l'Alcazar del giornalismo?
Abbiamo pensato: Afetra,ce lo racconterà nella prossima puntata, ma poi ci siamo accorti che, con questo racconto, si chiudeva la rievocazione di Gaetano.
Un Alcazar, dunque, in tono ridotto. Molto ridotto. Come, del resto, salvo rarissime eccezioni, tutta la lunga vita del "Corriere della Sera". Infatti là dove nemmeno i "Tigre" di Adolfo Hitler poterono, Gelli, Ortolani, Rizzoli e Tassan Din (senza Tigre)... sfondarono il tutto. Con i miliardi della P2.
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Il "Corriere della Sera" ci informava che Giovanni Spadolini aveva celebrato, in Germania, il 25 aprile. Ora (8.9.83) ce lo dà presente a Milano, nella sua qualità di Ministro della Difesa, a celebrare l'anniversario dell'8 settembre e sottolinea questa sua frase: «La Repubblica dura e pura che sognammo durante la Resistenza». Andiamo avanti, Spadolini è infaticabile. Infatti il 13 settembre c.m. è a Roma, con Pertini, a ricordare il 40° anniversario della battaglia di Porta San Paolo contro i nazisti. Non si ferma. Il 19.9 vola a Cefalonia e, commemorando l'eccidio, parla degli Italiani che in terra straniera, nel disfacimento dello Stato dopo P8 settembre, «scelsero la via dell'onore e della dignità».
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Tutti conoscete quale via scelse Giovanni Spadolini dopo l'8 settembre 1943. Si dirà: non era in grado di capire, era giovane, non connetteva, certo è che a 19 anni scriveva bene e, a proposito della guerra, nel marzo 1944, su "Italia è Civiltà", vergava queste parole: «L'Italia di Mussolini, grande potenza, non poteva appartarsi da un conflitto in cui si poneva in gioco il destino dell'intero mondo... poiché un popolo non acquisterà mai pace e riposo e rispetto e sicurezza col tagliarsi gli attributi della propria virilità nazionale».
* * *
Non solo, ma tutta la famiglia di Giovanni Spadolini, a cominciare dal padre, Gino Spadolini, pittore, capitano, era schierata sulla «via dell'onore e della dignità» (quella di Benito Mussolini). Tanto è vero che quando suo padre cadde vittima del bombardamento alleato su Firenze dell'11 marzo 1944, le autorità della Repubblica Sociale Italiana gli riservarono onori di primo grado. Il Sindacato Nazionale Fascista Belle Arti, di cui il prof. Gino Spadolini era Segretario regionale, annunziò la morte del «pittore», «caduto sotto l'incursione nemica nell'adempimento del proprio dovere che lo portava a soccorrere i feriti, lui che aveva saputo abbandonare la tavolozza e i pennelli per indossare una divisa» (Mirko Giobbe, "La Nazione", 15.3.44, anno XXII dell'Era Fascista).
* * *
Ebbene, la sapete l'ultima? Giovanni Spadolini, tanto ha brigato e fatto che è riuscito, nel 1979, a far conferire alla memoria di suo padre, dal CLN, la medaglia d'oro per meriti partigiani!
* * *
Il trasformismo (se cosi si vuol chiamare) di Giovanni Spadolini ha assunto toni e forme insolenti. Anche la memoria del padre, se serve a buttarlo sul proscenio e a far carriera, può essere strumentalizzata e manomessa!
Basta poi guardare come ha ridotto il PRI, il suo palcoscenico. Da partito di autentico popolo, è divenuto al Nord il partito di Gianni Agnelli, e al sud di Nucara Francesco e di Aristide Gunnella, tutti e due accusati di essere «espressione» della mafia.
E lui, Giovannone, ad occupare la scena: da mattina a sera, vestendo tutti gli abiti (politici) possibili, purché riescano a lanciarlo sul proscenio!
E Mazzini? E chi è mai costui?
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Un terremoto che non accenna a finire. Tutto il PSI del Savonese, la terra di Sandro Pertini, è finito in galera. Con il Presidente della Giunta della Regione Liguria Teardo, sono finiti «dentro» i sindaci di Albenga e Finale Ligure, l'ex-deputato Paolo Caviglia, Presidenti e amministratori di Casse di Risparmio, delle Camere di Commercio, dell'Ente autonomo Case popolari, della Confesercenti, della Società gestione Aeroporto, del Comitato tecnico urbanistico della Regione, personaggi sindacali, della Finanziaria Ligure, di Società sportive. L'accusa: appartenenza ad associazione a delinquere di stampo mafioso. Con uso di esplosivo per i riottosi.
Particolare curioso: fra gli arrestati Leo Capello, consigliere di amministrazione della Cassa di Risparmio, albergatore, candidato al Senato per il PSI, Presidente del Savona Calcio.
Quando, insieme a Teardo, si recava a Roma, dormiva al Quirinale. È il primo Cavaliere al merito della Repubblica insignito da Sandro Pertini. il 29 luglio 1978.

 

1 ottobre 1983
I comunisti e la mafia


Oscar Luigi Scalfaro è stato ascoltato (15.9) dalla Commissione parlamentare antimafia. In qualità di ministro dell'Interno. Il suo è un ritorno. Infatti il 14.2.1963, più di venti anni fa, con la legge che istituiva la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia, Oscar Luigi Scalfaro veniva designato dalla DC quale membro della stessa, e il 6 luglio 1963 veniva eletto vice presidente della Commissione, insieme al senatore Girolamo Licausi del PCI.
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Ahimè, dopo appena pochi mesi, Oscar Luigi Scalfaro se ne andava, (24.4.64) con una lettera generica, senza significato.
Sulla natura di quelle dimissioni, Oscar Luigi Scalfaro ha mantenuto il più impenetrabile dei silenzi. Un silenzio che è parso tutto «democristiano», lontano dal carattere che si vuole attribuire al ministro.
Perché ora non svela quel segreto?
Non è una questione «pettegola», è una vicenda, ne sono convinto, che aiuterebbe a capire come stavamo (e come stanno) le cose.
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Al posto di Oscar Luigi Scalfaro, il 24.5.1964, viene eletto vice presidente della Commissione Antimafia, l'onorevole Antonino Gullotti da Messina, più volte e anche ora ministro della Repubblica, un leader (da sempre) della DC.
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Particolare da non trascurare. La sua elezione a vice presidente della Commissione parlamentare antimafia dette vita a proteste molto vivaci: infatti l'attuale ministro democristiano venne accusato di essersi fatto fotografare accanto a Genco Russo, un capo mafia, un mammasantissima dì tutto rispetto.
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Ho davanti a me un foglio. È ingiallito dal tempo. È di 40 anni fa, esattamente 24 giugno 1944. Si tratta di un settimanale, "La voce comunista", della Federazione provinciale dì Palermo del PCI. Sotto il titolo «La mafia» esprime concetti e intendimenti un po'... diversi da quelli che -comunemente- esprime oggi il PCI. Ascoltate:
«I componenti della vecchia mafia nella lotta per la conquista della terra non avranno più bisogno di mettersi fuori legge: solo adattandosi ai nuovi tempi ed ai nuovi bisogni di unione con tutti i lavoratori essi potranno realizzare le loro aspirazioni ed emanciparsi economicamente come tutti i contadini. Il separatismo e la mafia hanno interessi diametralmente opposti: se oggi questa è allettata dai latifondisti con lauti stipendi e larghi utili per il concorso al contrabbando, è perché essa è utile; ma se per caso domani i latifondi si dovessero di nuovo consolidare, troverebbero un altro Mori per reprimere nuovamente i loro alleati. Separati dall'Italia i latifondisti potrebbero essere ancora forti per difendere i loro privilegi e il loro dominio, ecco perché sono separatisti. Il trionfo del separatismo significherebbe dunque il consolidamento dei latifondisti, l'accentramento della proprietà, l'esclusione dalla terra degli stessi mafiosi che continuerebbero se mai in sott'ordine a ricoprire il ruolo di sicari prezzolati».
* * *
Giancarlo Pajetta (quanto mutato da quello!), da un pezzo a questa parte, compare, quasi giornalmente, alla TV di Stato. È diventato un ninnolo. O è perché deve ritirare un premio letterario per le sue memorie di «ragazzo rosso» o è perché la TV deve chiedere a lui un autorevole parere sull'Afghanistan, sulla Polonia, sull'aereo abbattuto, o su qualche altra birbonata commessa dall'URSS.
Fa tenerezza, tanto tenerezza. Soprattutto perché, malgrado ce la metta tutta, l'antico scatto -lo si vede lontano un miglio- è del tutto appannato, è perduto. Specie quando, per difendersi, ricorre al contropiede e se la prende con il fascismo e con Mussolini.
D'accordo: è stato un comunista coerente, coraggioso, degno di stima. L'unico neo è che oggi, dopo tutto quello che è accaduto nel mondo, lui, personaggio dalla sincerità istintiva, stenti ancora a riconoscere che se oggi è «in prima fila», fra belle donne, fra l'intellettualità più vistosa, piena di lustrini, accanto a magnati del denaro, nel luccichio del mondo borghese, tutto ciò lo deve, ahimè, a Benito Mussolini.
Non se ne offenda l'onorevole Pajetta, ma se Mussolini non avesse capito (lui solo!), sessantaquattro anni fa, «che l'URSS non era un regime socialista, ma una autocrazia rossa con i suoi zar, i suoi arciduchi, i suoi funzionari, i suoi poliziotti, le sue forche» (parole di Mussolini del 1919), dove sarebbe oggi Giancarlo Pajetta, con un comunismo vincente nel 1919?
La previsione non è difficile: con il suo carattere Beppino Stalin l'avrebbe mandato al creatore.
Ed invece quel Mussolini! Come è ingrato il mondo, onorevole Pajetta!
* * *
Pertini è andato a Plevlja, in Jugoslavia, ad inaugurare un monumento in memoria dei soldati italiani che, da partigiani dopo l'8 settembre, morirono combattendo, a fianco di Tito, contro i tedeschi.
È stato fatto notare che a Plevlja i partigiani della divisione Garibaldi non avevano mai combattuto, ma se mai lo avevano fatto i reparti della divisione alpina Pusteria che, in una dura ed epica battaglia contro le forze titine, avevano avuto morti, feriti, prigionieri trucidati sul posto.
A Pertini è stato chiesto: porta un fiore, dì una parola, se non sulle tombe che non esistono più perché le ruspe jugoslave le hanno distrutte, almeno al ricordo di quanti, italiani, caddero in quei giorni. Sappi essere Presidente di tutti gli italiani! Ricorda gli uni e gli altri, ormai accomunati nella morte!
* * *
Il "Corriere della Sera" (22.9.83) ci informa che Sandro Pertini, a quella umana, civile richiesta di portare un fiore alla memoria di quei «desaparecidos» italiani, cancellati dalla... civiltà titina, ha risposto di no, dicendo: •
«Non ho mai inteso, né intèndo oggi spogliarmi dell'altra veste che non cesserò mai di indossare: quella di antifascista, di resistente, di partigiano».
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Il Cancelliere tedesco Konrad Adenauer, antinazista, quando si recò in Russia a conferire con Giuseppe Stalin, avendo saputo che il cerimoniale prevedeva che, prima di incontrarsi con il dittatore, avrebbe dovuto passare per un lungo corridoio dove ai lati erano appese le bandiere dei reggimenti tedeschi, strappate in battaglia dai russi nella 2ª guerra mondiale, richiese e ottenne che fossero tolte.
«Si, sono e resto antinazista, ma oggi sono Capo della Nazione tedesca, di tutta la Nazione tedesca e ho il dovere di tutelare la memoria storica della mia Patria, nelle sue luci e nelle sue ombre», disse Konrad Adenauer.
* * *
Che differenza c'è fra Konrad Adenauer e Sandro Pertini? Che il primo è uno statista e tale resta, il secondo un Presidente-partigiano e tale resta. Il primo ha scritto storia, il secondo scrive cronaca.
* * *
D'altra parte il Presidente della Repubblica non è nuovo a queste cose. Nel giugno del 1979 Pertini, in visita alla città di Firenze, venne avvicinato nel foyer del Teatro Comunale, dal giornalista Alfonso Ughi, presidente nazionale dell'Italia Irredenta, che gli rivolse la calda preghiera, come Presidente di tutti gli italiani, di visitare, sul Carso, le fosse di 20.000 italiani infoibati dai titini, anche partigiani, colpevoli solo di essere italiani e di volere rimanere tali.
Il Presidente rispose: «Le assicuro che io sono Presidente di tutti gli italiani, non dubiti, vedrò se potrò farlo».
* * *
L'incontro fra Sandro Pertini e Alfonso Ughi venne raccontato in una lettera dello stesso Ughi che, inviata al "Secolo" e al "Corriere della Sera", venne pubblicata dal primo il 24.6.79. Quella indirizzata al "Corriere" subì traversie che vale la pena di raccontare.
* * *
Infatti, l'allora direttore del "Corriere", il dott. Franco di Bella, appena ricevette la lettera che pregava il Capo dello Stato, come da sua promessa, ad andare sul Carso a rendere omaggio alle tombe degli infoibati, ritenne suo... dovere spedirla a Pertini, perché desse il suo consenso alla pubblicazione.
E a Di Bella, il 30.7.1979, protocollo 3164, pervenne, da parte del capo del servizio stampa del Presidente della Repubblica, allora Antonio Ghirelli, la seguente lettera:
«Caro Di Bella, in merito alla lettera del presidente della Associazione Nazionale Italia Irredenta, ti faccio sapere che il Presidente Pertini lo ringrazia moltissimo ma preferisce non rispondere e non entrare nel merito del problema adombrato da questa lettera. Egli, infatti, si trova -e te lo comunico in via strettamente riservata- alla vigilia di un viaggio in Jugoslavia. Pertanto, preferirebbe che la lettera non venisse, pubblicata. In ogni caso non può dare alcuna risposta. Affido alla tua sensibilità e comprensione il tutto mentre ti saluto caramente. Antonio Ghirelli».
* * *
Ora il dott. Ghirelli dirige l'Ufficio Stampa del Presidente del Consiglio, Bettino Craxi. C'è da augurarsi che abbia perduto la consuetudine di inviare ai giornali la classica velina: questa si pubblica, questo no. Se il Quirinale è stato per lui, una pessima scuola, Palazzo Chigi sia il suo riscatto!

 

7 ottobre 1983


Nella vicenda «petrolio» ancora mandati di cattura. A raffiche! Un altro generale della Finanza, Domenico Pelloso, è finito sorto inchiesta. Reato contestato: corruzione, contrabbando. Particolare curioso: tempo fa ministro delle Finanze Francesco Forte (PSI), c'era da affidare nell'ambito del ministero, un incarico delicatissimo; ebbene il ministro Forte aveva affidato l'incarico a Domenico Pelloso, appunto per la sua... delicatezza.
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Cose da... poco in questa Italia che frana, soprattutto moralmente. Nella vicenda Pelloso però c'è qualcosa di peggio. Tornano, direi prepotentemente, alla ribalta i finanziamenti che, attraverso la Società Deposito costieri alto Adriatico di Bruno Musselli (arrestato in Spagna), di Mario Milani (latitante), di Sereno Freato (in galera in Italia) e la collaborazione del generale Lo Prete (arrestato in Spagna), finivano nelle casse della Segreteria particolare dell'onorevole Aldo Moro. Si cita anche la cifra: cento milioni al mese.
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«Moro, fu vera gloria?». È il titolo di un libro uscito in questi giorni. L'autore: il giornalista Italo Pietra, già direttore de "il Giorno".
«Quanto alla gloria proprio no, non fu vera gloria», sentenzia Pietra.
«E quanto alla moralità?» «Moro e la sua famiglia», afferma Pietra, «non si sono arricchiti, ma una cosa è l'onestà personale, un'altra cosa è il clima che si crea intorno a un uomo politico. Non c'è dubbio che Moro aveva al suo fianco uomini di indubbia probità. Aveva però un uomo come Sereno Freato che viveva in simbiosi con lui, era un suo complemento».
* * *
Freato faceva affari non puliti per miliardi nel nome di Aldo Moro. Il giudice di Torino Elvio Fassone, condannando il Generale Giudice, comandante della Guardia di Finanza, a sette anni di reclusione, scrive nella sua sentenza (30.3.83), che la sua nomina ai vertici delle Fiamme Gialle, «era dolosamente preordinata alla collusione», il che significa che Raffaele Giudice veniva innalzato (dai politici) a Capo della Finanza perché si rendesse «contrabbandiere», in modo che parte dei proventi criminosi finissero alla Segreteria particolare di Aldo Moro.
Fatemi il favore: giriamo tutti pagina. Moro è stato barbaramente assassinato. Pace all'anima sua. Ma non si venga a dire che lui non sapeva la provenienza di quei soldi. Aldo Moro aveva scelto un mestiere, quello del politico, dove «sapere» diventa un «dovere».
* * *
Alcuni deputati democristiani, in testa il sottosegretario Bartolo Ciccardini, intendono promuovere una inchiesta parlamentare sui brogli elettorali, in particolare per quanto riguarda le preferenze.
Ciccardini ha detto che l'indagine si rende necessaria di fronte a fatti gravissimi, riscontrati anche da magistrati incaricati di proclamare i risultati. La credibilità delle Istituzioni è in gioco, ha sentenziato il sottosegretario democristiano. i!
Bene, ma già che ci siamo estendiamo l'inchiesta ai voti che la mafia in Sicilia, la 'ndrangheta in Calabria, la camorra in Campania, concentrano sui candidati amici.
Faccio un esempio: in Calabria, quella «mafia» predilige, da tempo, il PRI. Giovannone (Spadolini) tace e incassa. Intanto fa il moralizzatore.
Ma credete voi che il Parlamento voglia prendere una iniziativa del genere?
Quando mai! Il Parlamento si tiene i suoi parlamentari mafiosi e gira pagina. Non ha tempo da perdere con queste quisquiglie.
* * *
Ha avuto inizio a Milano (28.9.83) il processo contro Michele Sindona per il crack colossale delle sue banche (fasulle). Lui sarà assente, l'estradizione dall'America, dove si trova in carcere, non è stata ancora concessa.
"la Repubblica" del 28.9 butta giù un articolo di fuoco. Nessuno si salva: Nixon. Vaticano, personaggi politici, P2, Calvi, Gelli, Cosa Nostra, la mafia, tutti amici perversi del bancarottiere.
* * *
Strano. Noi ricordavamo altri «amici» di Michele Sindona. Per esempio Eugenio Scalfari, il direttore di "la Repubblica", che in una campagna giornalistica, tutta d'assalto, condotta su "l'Espresso" (settembre-ottobre 1971) e in una non dimenticata interrogazione parlamentare (21.9.71), quando il «nostro» era deputato, chiedeva di dare «via libera» al bancarottiere di Patti che stava dando, in contrapposizione ad Eugenio Cefis presidente della Montedison, la scalata alla Bastogi, la maggiore finanziaria italiana, e chiedeva, perentoriamente, al Governo di smettere di interferire in questioni che esulavano, totalmente (sic! N.d.R.), dalle sue competenze.
* * *
Ma come, nella redazione de "la Repubblica", si sono dimenticati che Eugenio Scalfari, su "l'Espresso" n° 21 del 1973, sotto il titolo «Fermi tutti: torna Sindona», definì il piduista, il mafioso, il criminale Sindona, «il più abile banchiere italiano»?
Che Renzo di Rienzo, collaboratore de "l'Espresso", di cui Scalfari era Direttore, scrisse che Sindona era un «genio», che Ugo De Luca e Carlo Bordoni, finiti nelle patrie galere, erano dei banchieri abili?
Che, dulcis in fundo, l'operazione Finambro che, secondo "la Repubblica" di oggi (28.9) fu l'inizio della fine di Sindona e dei suoi imbrogli, venne da Scalfari in persona, dieci anni fa ("l'Espresso", 26.8.73, n° 34), definita vantaggiosa, non solo per i risparmiatori italiani, ma anche per la bilancia valutaria, in quanto capitali sarebbero arrivati anche dall'estero?
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Questo è Eugenio Scalfari. Pensate, dopo avere preso quelle posizioni che abbiamo sommariamente descritto a favore di Michele Sindona; dopo aver messo al servizio del «bancarottiere» la sua penna e i suoi giornali; eccolo scrivere ("L'Italia della P2", Mondadori, settembre 1981) che la loggia P2 mai avrebbe potuto espandersi così come è stato, se non vi fosse stato l'incontro Sindona-Gelli; Sindona -scrive Scalfari- che significa senatore Connally, David Kennedy, Dallas e il suo sottobosco finanziario, Cosa Nostra, e la mafia siculo-americana.
«E non a caso -scrive Scalfari- quando Sindona scatenò l'assalto alla Borsa per il controllo della Bastogi, sarà il Banco Ambrosiano di Calvi, la banca incaricata di gestire l'OPA».
* * *
Sì, ma quando Sindona scatenava l'assalto alla Bastogi, dove era e con chi stava Eugenio Scalfari?
Con Michele Sindona, l'uomo di Cosa Nostra, il mafioso, il criminale... Aveva il successo e i soldi, allora. E sono questi i personaggi che piacciono a Scalfari, salvo poi azzannarli quando cadono nella polvere.
* * *
Scrive Scalfari che l'Italia della P2 è un'altra Italia. Senz'altro, ma l'altra Italia, quella di Scalfari, è un'altra P2.
Infatti anche lui (eccome!) è nelle carte del Gran Maestro. 5 luglio 1979: Eugenio Scalfari e il suo partner, il principe Carlo Caracciolo, stipulano con i piduisti Angelo Rizzoli, e Bruno Tassan Din, un cartello editoriale per dividersi il mercato dell'editoria e dell'informazione. L'accordo viene trovato ad Arezzo, in calce, come garante, c'è una firma: è quella di Licio Gelli.
* * *
C'è di più. II Presidente dell'Editoriale "l'Espresso", il principe Carlo Caracciolo, è dentro -fino al collo- nell'episodio di gran lunga più importante, decisivo direi, di tutta la melmosa vicenda della P2, quella di Flavio Carboni, il faccendiere, il porta borsa di Calvi, oggi recluso. E tanto Caracciolo, tanto Scalfari devono ringraziare l'Anselmi se, fino ad oggi, la loro «loggia» o «lobby» non è stata scoperchiata del tutto.
C'è di mezzo Ciriaco De Mita. C'è di mezzo Armando Corona. Avendoli messi tutti insieme (anche a cena), con Caracciolo dentro, ha fatto scattare le necessarie difese e tutto si è chiuso manovratrice l'Anselmi.. Defilando Flavio Carboni, per salvare De Mita, il Vaticano, Scalfari, e la massoneria cara a Spadolini, la vicenda P2 è diventata indecifrabile. Un polverone, dal quale non si riesce a venir fuori.
È vero: scrivere la storia de "l'Espresso" e de "la Repubblica" è scrivere la storia di questa Repubblica. Non quella di Sandro Pertini (che è solo colore), ma quella di Licio Gelli (che è sostanza).
* * *
E poi... E poi c'è il discorso "PCI - Michele Sindona", ma sarà per un'altra volta.

 

18 ottobre 1983
Il venerabile Licio e il «divo» Giulio


Ricordiamoci: tutto ha inizio con Michele Sindona, e tutto ci riconduce alla mafia. Da Sindona si risale alla P2; da Sindona si risale a Calvi e a ciò che gli ruotava intorno. Nulla si sarebbe saputo se Sindona fosse rimasto in piedi.
Ed è il caso Sindona a determinare le premesse della svolta politica che ci portò, con Giulio Andreotti, ai governi di solidarietà nazionale con il PCI.
Si è fatto un gran parlare, in questi giorni, di ciò che Moro costruì, politicamente, in questo Paese. Nulla da eccepire; con una variante: il vero, autentico manipolatore del magma politico italiano è, e resta, Giulio Andreotti.
* * *
Andreotti, alle ultime rozze accuse che sono piovute sulla sua persona, fra le tante quella di essere il capo occulto della P2, ha reagito duramente. È nel suo pieno diritto, specie quando lo si vuole «sotto» per faccende di infimo ordine e per opera di personaggi che, sul piano della moralità pubblica, lasciano molto a desiderare.
Però il ministro Andreotti, ne siamo certi, non vorrà contestarci l'altrettanto diritto di ragionare sulla sua persona, soprattutto sui suoi comportamenti di uomo pubblico e di trarne la dovuta morale, anche perché sarebbe impossibile ragionare delle vicende italiane, facendo astrazione dalla sua persona.
La sua persona domina, prepotentemente, il paesaggio. E il paesaggio risulterebbe vuoto, senza senso, senza significato togliendo di mezzo Giulio Andreotti.
* * *
E veniamo a Sindona. Giulio Andreotti, su "l'Europeo" (15.X), rispondendo ai commissari «faziosi e bugiardi» della Commissione P2 che lo vogliono il Super-Gelli, scrive che, per arrivare alla verità, occorre percorrere due piste: sapere dove si trova il personaggio-accusatore (Carlo Bordoni, braccio destro di Sindona, N.d.R.) e se è sotto tutela di qualche organismo estero di sicurezza; secondo sapere quale connessione c'è tra l'ultimo polverone e il processo iniziato a Milano e al quale, purtroppo, non è presente Michele Sindona.
* * *
Fermiamoci qui. Credo che nella prosa del Ministro degli Esteri ci sia un «purtroppo» di... troppo. Ho scritto che la vicenda Sindona, in modo bizzarro, determina, nel nostro Paese, svolte politiche di rilievo; svolte che sono coincise anche con repentini mutamenti di rotta da parte di uomini politici che, come Giulio Andreotti, sono passati, indenni, da un fronte all'altro, grazie ad operazioni che, alla fine, non Andreotti, ma tutto il Paese ha pagato. E duramente.
* * *
E valga il caso dell'estate 1974, quando Giulio Andreotti, ministro della Difesa, sentendo avvicinare l'uragano Sindona, il crack delle sue banche, e volendo stornare da sé le conseguenze della sua «calda amicizia» con il banchiere siculo, non seppe trovare di meglio, per coprirsi dai prevedibilissimi attacchi della sinistra, che offrire in olocausto, alla sinistra stessa, l'immagine delle Forze Armate. Infatti (siamo nel 1974) il Ministro della Difesa, per la prima volta, consente che il quattro novembre, insieme ai reparti militari sfilino anche gli extraparlamentari di sinistra che inaugurano, con quella cerimonia patriottica, gli anni di piombo del terrorismo. Una vera e propria «legittimazione».
* * *
Non si fermava qui, Giulio Andreotti. In contemporanea, sempre per compiacere la sinistra, apriva il fronte dei Servizi di informazione con il «caso Giannettini» (Giannettini che, ad assoluzione avvenuta, avrà cura poi dì sistemare al lavoro); servizi che, già debilitati e ampiamente corrotti dalla partitocrazìa, finivano, con quella operazione, per essere del tutto disattivati. Con le conseguenze del caso, non ultima quella di farsi trovare del tutto impreparati quando, con il rapimento e l'assassinio Moro, l'Italia si trovò in balìa del terrorismo, interno e internazionale.
* * *
Non si dica che con quella «operazione», Giulio Andreotti, così come tutt'ora scrivono le sinistre, aveva fatto pulizia e riportato ordine nei Servizi di informazione. Non è vero.
È con Giulio Andreotti, e con i governi di unità nazionale con il PCI, che Lido Gelli riesce a piazzare ai vertici dei Servizi e delle FF. AA. uomini di propria fiducia. Qualche esempio?
* * *
A capo dei Servizi... rinnovati, vedi il SISMI (controspionaggio militare), va il Generale di Corpo d'Armata Giuseppe Santovito, nominato il 31.1.1978, con il parere favorevole dei senatori del PCI Amerigo Boldrini e Ugo Pecchioli che, per concorde loro ammissione ("Panorama", 14.9.81), si incontravano, per discutere le nomine ai vertici delle FF. AA., con il pieno riconoscimento di Enrico Berlinguer, con il Generale Gianadelio Maletti, del Servizio «D» del SISMI.
Tanto Santovito, tanto Maletti fanno bella mostra di sé negli elenchi della Loggia di Lido Gelli.
* * *
Non basta. Il Generale dei Carabinieri Giulio Grassini, capo del SISDE (servizio sicurezza interno), segue la stessa sorte. Andreotti-Boldrini-Pecchioli. La sua nomina è del novembre 1977. Ma anche Grassini compare nella lista Gelli, il Gran Maestro.
* * *
Il CESIS (organo di coordinamento Servizi Segreti), la cui costituzione è del 30.1.1978 (governo di unità nazionale con il PCI), vede alla sua testa il prefetto Walter Pelosi, la cui nomina (5.5.78) non si discosta dalle altre: Andreotti-Boldrini-Pecchioli. Ma anche Walter Pelosi è arruolato da Licio Gelli. È piduista.
E se si guardano le date delle iscrizioni alla Loggia del Gran Maestro, tutte coincidono negli anni in cui DC e PCI governavano insieme. Infatti Giulio Grassini (tessera 1620) si iscrive l'1.1.1977, Giuseppe Santovito (tessera 1630) l'1.1.77, Walter Pelosi (tessera 754) il 27.3.79. Anzi c'è di più: le date ci inducono a credere che, per avere le nomine, gli interessati dovevano esibire l'iscrizione alla Loggia di Gelli, altrimenti... niente! .
Lo stesso dicasi per Giovanni Torrisi, nominato Capo di Stato Maggiore della Difesa nel 1979. La sua iscrizione alla Loggia è del 26.1.1978. Senza quel «lasciapassare» non si fa carriera e, pensate un po', ai collaboratori esterni: Amerigo Boldrini, Ugo Pecchioli. Come è buffo il mondo.
Sicché il Gelli tramava per fare un «golpe fascista» e, intanto, ai vertici dello Stato, i comunisti piazzavano uomini suoi.
Lasciatemelo dire (alla toscana): ma quanto sono bischeri!
* * *
Stupisce poi la caparbietà con cui Giulio Andreotti, fino all'ultimo, anche quando Sindona era boccheggiante, abbia voluto tentare di salvarlo. Infatti, fra la fine del 1978 e i primi del 1979, da Presidente del Consiglio di un Governo appoggiato dal PCI, fu proprio lui a raccomandare al governatore della Banca d'Italia, Carlo Ciampi (sett. 1978), un piano per chiudere il fallimento Sindona e restituire a quest'ultimo libertà di lavoro e dì movimento. La proposta consisteva nel far sborsare alla Banca d'Italia 150 miliardi che, passando attraverso la Comit, il Credito Italiano e il Banco di Roma, sarebbero serviti a colmare, assieme ad altri artifici finanziari, il buco lasciato da Sindona.
Non se ne fece niente, soprattutto perché l'avv. Ambrosoli, dotato di un coraggio civile insolito per questi tempi, disse no alla truffa proposta. Fu un «no» che doveva poi pagare con la vita.
Povero Ambrosoli, eroe dimenticato da un'Italia cinica e crudele.
* * *
«Con Andreotti sono rimasto in rapporti di amicizia anche dopo le mie tristi vicende. L'ho incontrato a New York in un mattino, mi pare, del 1976, all'Hotel Essex House».
Così Sindona, nel dicembre 1980, ai giudici Guido Viola e Bruno Apicella. Si faccia caso alla perfidia di quelle parole: «Un mattino, mi pare, del 1976». Per caso Giulio Andreotti era già Presidente del Consiglio? E se è vero (non ha mai smentito), che dire di un incontro fra il Capo del governo e un latitante, con mandato di cattura per bancarotta fraudolenta, e oggi accusato di assassinio?
Lascio all'on. Andreotti la risposta.
* * *
È da Sindona che i giudici Giuliano Turone e Gherardo Colombo arrivano a Lido Gelli; è da Sindona che i giudici di Milano arrivano a Roberto Calvi e a chi gli sta intorno; è il caso Sindona che scoperchia il tutto, compresa la più grande frode fiscale (2.000 miliardi) mai scoperta in Italia, quella che vede il Capo della Guardia di Finanza essere, in contemporanea, il capo dei contrabbandieri e, nello stesso tempo, il finanziatore, attraverso il duo Loprete-Musselli, via Freato, della segreteria particolare dell'on. Aldo Moro.
Non si salva nessuno, nemmeno la memoria dei padri spirituali della Repubblica.
* * *
Tredici anni fa ("Corriere della Sera", 19.7.70) Indro Montanelli, soffermandosi sul «protagonista» Giulio Andreotti, scrisse che «questo romano pontificio in cui convivono in perfetta armonia un Monsignore e un Pasquino», aveva l'arte di «andare a metano», cioè senza far fumo né residuati. «È una specialità di Andreotti -scrisse Montanelli- quella di non lasciare mai impronte digitali». Da un pezzo a questa parte (sarà l'età?) le impronte fanno la loro apparizione. E, malgrado ciò, Andreotti resta in piedi.
È questo il suo capolavoro.
 

22 ottobre 1983
Vito Guarrasi, i comunisti e la mafia


Nel diario del consigliere istruttore Rocco Chinnici, barbaramente assassinato dalla mafia a Palermo, si trova questo appunto:
«Ore 18. Viene a trovarmi il marchese De Seta: dopo avermi raccontato delle sue vicende con l'avv. Vito Guarrasi, mi fa presente che costui è intimo amico del senatore Emanuele Macaluso. Mi riferisce che alla Galleria d'arte la Tavolozza (il cui proprietario effettivo è Renato Guttuso) si recava spesso il dott. Boris Giuliano (Vice questore di Palermo, assassinato dalla mafia - N.d.R.), il quale in quella sede, parlando con Leonardo Sciascia e qualche altro, si riteneva certo che responsabile del sequestro De Mauro era proprio il Guarrasi» (Foglio del 19.XI. Appunto relativo al 14,7.81).
* * *
Mauro De Mauro è il giornalista de "l'Ora" di Palermo che la sera del 16 settembre 1970, rincasando, venne sequestrato. Da allora, e sono passati tredici anni, non se ne è saputo più nulla. Con tutta probabilità il suo cadavere riposa in un pilone di cemento armato di qualche lussuoso palazzo di Palermo.
Le ragioni del suo assassinio?
Si sono fatte varie ipotesi, fra queste che De Mauro stesse indagando sui trafficanti di droga e fosse venuto a conoscenza di santuari proibiti. Oppure che De Mauro, indagando sulla morte di Enrico Mattei, il Presidente dell'ENI, precipitato con il suo aereo, di ritorno dalla Sicilia, vicino Milano, avesse scoperto qualcosa che doveva rimanere segreto. Fatto sta che di lui non si è saputo più nulla. Sparito, volatilizzato.
Ora c'è, nel diario di Chinnici, quell'accenno a Vito Guarrasi come responsabile del sequestro De Mauro.
Chi è questo Vito Guarrasi?
* * *
Invano quel nome lo cercherete nella relazione conclusiva sul fenomeno mafioso presentata dal PCI. Non c'è. Non c'è traccia, mentre su tutte le altre relazioni sì, anche se la più esauriente è quella missina.
Pio La Torre, commissario del PCI, ha sempre difeso Vito Guarrasi. Con caparbietà, quasi con rabbia.
Dal suo punto di vista non aveva torto perché Vito Guarrasi, chiamato in causa dai diari di Chinnici, è sempre stato il personaggio-chiave, seppure coperto, del PCI, in Sicilia.
Infatti, tutti gli affari consistenti e tali per cui, sia la DC, sia il PCI, da quegli affari, venivano «premiati», passano attraverso le sue mani. Preziosissime, come la sua mente, se riusciva ad essere vicino anche alla sinistra DC, all'ENI di Enrico Mattei, di cui era il rappresentante in Sicilia, al latitante senatore Verzotto, Presidente dell'EMS e consigliere di amministrazione delle banche di Michele Sindona. Insomma, Vito Guarrasi lo si trova sempre vicino agli episodi che contano, soprattutto se questi hanno la possibilità di far circolare denaro.
* * *
Importante Vito Guarrasi per il PCI. AI punto che il 30.5.1974 (sommario della Camera dei Deputati n° 250) l'allora deputato, e oggi senatore, Emanuele Macaluso, direttore de "l'Unità", inviò al ministro dell'Interno una interrogazione, chiedendo, in modo perentorio, l'allontanamento dal servizio del Questore Angelo Mangano perché costui, in dichiarazioni rese davanti alla Corte di Assise di Palermo, aveva osato dire, sul conto di Guarrasi, quello che oggi si trova scritto sui diari di Rocco Chinnici: Vito Guarrasi, la testa pensante della mafia, in Sicilia.
Notammo allora, e lo scrivemmo, che quella interrogazione dell'on. Macaluso era strana. Infatti si faceva richiesta di risposta orale, il che significava che non si voleva una risposta. E cosi fu.
* * *
Siamo perfettamente d'accordo con Leonardo Sciascia quando scrive che nulla sapremo della mafia in Sicilia, fin quando non indagheremo, a fondo, sul passaggio delle miniere di zolfo, dalla mano baronale a quella pubblica della Regione siciliana. È un gigantesco affare di miliardi. La «testa» che pensò l'operazione fu Vito Guarrasi. Il suo gioiello (di sperpero del denaro pubblico) la legge regionale 13.3.1959 n° 4 che istituisce il fondo di rotazione per le Industrie minerarie.
* * *
Ora questa rete di affari che Vito Guarrasi metteva su, a chi recava vantaggi, oltre, naturalmente, che ai baroni? L'uomo, apparentemente amico di tutti, con entrature in tutti gli ambienti, specie repubblicani, a chi apparteneva, politicamente parlando?
Al PCI. Fin dal 1946. Vito Guarrasi è la dimostrazione visiva che, in Sicilia, il PCI è sempre stato partito di potere, né più né meno, della DC. E se anche il PCI è entrato nel mirino della mafia, come la DC, non c'è entrato perché nemico della mafia, ma perché dentro gli affari si è trovato esposto a vicende che hanno determinato miscele esplosive e che, ahimé, si sono tinte di sangue. Cioè si muore di «appalti».
* * *
C'è un particolare nella vita di Vito Guarrasi, su cui tutti sorvolano e che, invece, dovrebbe essere chiarito. Fino in fondo, per capire.
È che l'8 settembre 1943 Vito Guarrasi è ad Algeri, con la commissione italiana, a trattare la resa dell'Italia agli Alleati.
Con quali compiti, e in quale veste, se Guarrasi è un ufficiale di complemento del servizio automobilistico?
Che ci fa ad Algeri, in quei giorni? Chi ce lo ha portato? Chi rappresenta?
* * *
La risposta può venire da un documento del Dipartimento di Stato di Washington. È del Console generale americano di Palermo, Alfredo T. Nester, ed è indirizzato (27.XI.1944) al Segretario di Stato e porta il seguente titolo:
"Formazione di un gruppo favorevole all'autonomia della Sicilia sotto la guida della mafia".
Nell'allegato n° 1, il Nester racconta al suo superiore come il problema del separatismo della Sicilia dall'Italia fosse stato discusso a tavolino tra alti ufficiali americani e personalità dell'Isola. E le personalità italiane indicate dal Nester sono: Calogero Vizzini, Virgilio Nasi, Calogero Volpe, Vito Fodera e Vito Guarrasi.
Ecco, ritorna la domanda: in quale veste il Guarrasi si trovava l'8 settembre 1943 ad Algeri? E di che natura la sua relazione con Don Calogero Vizzini, allora Capo indiscusso della mafia, in Sicilia e oltre, delegato dal Servizio segreto alleato di organizzare, alle spalle delle truppe italo-tedesche, lo sbarco?
* * *
Ora, dopo tanto silenzio, il nome di Vito Guarrasi rispunta fuori e, guarda il caso, proprio dai diari del giudice Chinnici, assassinato dalla mafia. E, guarda, il destino, il suo nome è messo accanto ad Emanuele Macaluso, direttore de "l'Unità".
* * *
Come la mettiamo? L'interrogativo è tutt'altro che retorico. Ed è Io stesso Macaluso ad autorizzarci a chiedere di più! Perché, pubblicato il diario di Chinnici, il Direttore de "l'Unità" (29.9.83) ha fatto emanare la seguente precisazione:
«L'avv. Guarrasi, noto professionista di Palermo, è stato amico del senatore Macaluso, in conseguenza dei rapporti politici che lo stesso Guarrasi intratteneva con tutto il gruppo dirigente comunista siciliano. Infatti Guarrasi fu candidato nel 1948 nella lista del Fronte Popolare capeggiata da Licausi e successivamente fu amministratore del giornale democratico di Palermo "l'Ora", consigliere economico del governo Milazzo e consigliere giuridico di Enrico Mattei e dell'ENI. Dopo l'esperienza del Governo Milazzo, Guarrasi non ha avuto più rapporti politici con il PCI e con i suoi esponenti. C'è da dire -continua Macaluso- che l'accusa lanciata dal marchese De Seta, ex-cliente del Guarrasi, si è rivelata infondata come risulta dalle cause per calunnia intercorse fra i due».
* * *
Sembrerebbe una dichiarazione perentoria, che tronca la testa al toro, ma non è così. È invece pervasa da messaggi cifrati che vanno tutti tradotti.
È che Emanuele Macaluso, chiamato direttamente in causa dai diari di Rocco Chinnici e su materie scottanti, mette, vistosamente, le mani avanti, dicendo: Vito Guarrasi mio amico? Senz'altro, ma anche amico di tutto il PCI, tanto che il partito lo metteva in lista, nel '48, insieme al «prestigioso» Licausi. Fate attenzione perciò, cari compagni, se intendete rifarvela con me, per quella amicizia «chiacchierata», non vi conviene, perché compromesso, nella vicenda Guarrasi, è tutto il partito.
* * *
È un brutto pasticcio. Anche perché Macaluso, manda un altro avvertimento in codice quando precisa: Vito Guarrasi, dopo l'esperienza Milazzo, non ha avuto più rapporti politici con il PCI e con i suoi esponenti.
Che cosa vuol dire il senatore? Che ciò che è raccolto in quei diari potrebbe anche essere vero? E se è così, io Macaluso preciso che la morte di Enrico Mattei risale al 27.X.1962, il sequestro De Mauro è del 16.9.70, cioè in periodi posteriori all'esperimento Milazzo (1959), quindi il PCI (e i suoi esponenti) non c'entrano. Quello che il Guarrasi può aver fatto, dopo Milazzo, non ci riguarda.
Il pasticcio resta.
* * *
Intanto, in Sicilia, è stato eletto, dopo diverse traversie, il nuovo Presidente della Regione. È il DC Santi Nicita, seguace del duo Andreotti-Lima.
"l'Unità" (12.X.83) scrive che «la sua elezione rappresenta un recupero silenzioso di interessi e gruppi affaristici parassitari». E il quotidiano, diretto dal senatore Macaluso, fa un minuzioso elenco delle vicende, poco pulite, in cui sarebbe incorso il Nicita. Strano, non è citato l'episodio dei milioni presi dal Nicita dai petrolieri genovesi, per agevolare le pratiche della costruzione della grande Raffineria di Melilli, vicino Siracusa.
Perché? Come mai, questa dimenticanza?
Forse perché, in quella circostanza, ì quattrini dei petrolieri li ha presi anche il PCI?

 

29 ottobre 1983
Scotti e Macaluso nel balletto delle tangenti


Nell''ultimo numero dì "Rosso e Nero" (22.X); parlando dell'elezione a Presidente della Giunta regionale siciliana del discusso Santi Nicita, terminavo con un interrogativo. Chiedevo infatti i motivi per i quali "l'Unità", nell'elencare le... malefatte del Santi Nicita, ometteva, vistosamente, di ricordare che il Presidente della Regione siciliana è tuttora sotto processo per aver percepito tangenti, dai petrolieri genovesi, onde favorire le pratiche per la costruzione della Raffineria di Melilli, vicino Siracusa, una delle tante che hanno distrutto quei magnifico angolo di terra. E chiedevo: forse perché il PCI ha preso soldi anche lui?
* * *
Non mi sbagliavo. Sono andato a rivedere meglio le cose e ho trovato che «anche» il PCI ha preso le sue bravi tangenti.
I fatti risalgono a tredici anni fa. L'ammontare delle tangenti distribuite ai vari partiti (DC - PCI - PSI - PSIUP), a singoli personaggi, e a strane associazioni come la Pro-Alcamo, ammonta a più di due miliardi di lire, valore 1970.
Il 16.XII.82, per ordine del magistrato Roberto Campisi di Siracusa, venne arrestato l'armatore Sebastiano Cameli, poi rimesso in libertà (2.1.83), dietro il versamento di una cauzione di 600 milioni e il ritiro del passaporto.
* * *
Fra i provvedimenti presi dal magistrato siracusano (ecco, qui sta la novità), l'autorizzazione a procedere contro I'allora deputato Emanuele Macaluso del PCI, oggi direttore de "l'Unità", perché accusato di avere percepito i soldi spettanti al PCI, nella sua veste di Segretario regionale del PCI.
* * *
Fatto curioso. Un magistrato del Tribunale di Siracusa sentenziò: «Scommetto qualunque cosa. Questo processo non si farà mai, ci sono dentro i politici, si può già tutto archiviare».
In contemporanea a questa dichiarazione, Emanuele Macaluso tuonò: «Chiederò che l'autorizzazione a procedere contro il sottoscritto venga immediatamente concessa. Sfido gli altri a fare altrettanto. Se l'autorizzazione a procedere non dovesse essere data, mi dimetterò da deputato».
* * *
Emanuele Macaluso non è più deputato. È diventato senatore, per di più è stato chiamato a dirigere "l'Unità".
Non ho avuto il tempo di controllare che cosa sia accaduto nella Commissione delle autorizzazioni a procedere della Camera, relativamente alla «pratica» Macaluso. Riferirò appena possibile. Fatto sta che quel processo non si è fatto. Vuoi vedere che hanno archiviato tutto! Due miliardi (valore del 1970) di tangenti, non sono mica uno scherzo!
* * *
"l'Unità", sotto l'imperversare dello scandalo dei petrolieri del 1974, titolò il suo fondo: «Uno, di certo, no. Voleva dire che tutti avevano preso i soldi dei petrolieri, il PCI no».
Come potete constatare era una bugia. E che bugia se a riscuotere ci andava il Direttore de "l'Unità"!
Poi sono venuti i casi di Torino, ora di Napoli. Tangentocrazia comunista. Addio orgogliosa diversità del PCI! Tu sei eguale a tutti gli altri! E forse un tantino peggio: perché hai la presunzione di dirti pulito e sei sporco come gli altri!
* * *
I giornali titolano: la DC, a Napoli, contro Almirante schiera Scotti.
Si, è il ministro della protezione civile, è il politico che, in polemica con De Mita perché non gli ha dato un ministero più autorevole, rivendica il volto popolare della DC. Per dirla in gergo doroteo, Scotti è un democratico, un antifascista, un popolare.
Però è anche... inquinato di camorra. Infatti, fra le carte del boss camorrista Ciro Iavorone, detenuto, è spuntata fuori una lettera di Tommaso Morlino, allora Vice Presidente del Senato. È indirizzata a Scotti e lo si assicura che tutto sarà fatto per... alleggerire la posizione processuale del boss Ciro Iavorone.
Perché quella lettera si trovava nelle mani del mafioso? Presto detto: Scotti, per testimoniare che di lui si era di persona interessato, gli ha passato la missiva di Morlino, missiva che è poi finita nelle mani dei carabinieri.
La DC, a Napoli e altrove, è come la cartasuga. Assorbe tutto.
* * *
L'episodio su riferito inguaia, ancor di più, il personaggio Scotti per un'altra vicenda, altrettanto emblematica.
Si tratta delle trattative che hanno portato alla liberazione del democristiano Cirillo, sequestrato dalle BR, trattative svolte con il concorso della camorra.
È stato pagato un riscatto dell'ordine di miliardi, riscatto che è servito poi ad ammazzare altra gente.
Scotti è stato un intermediario? Prima che quella lettera fosse trovata fra le carte di lavorone, gli era facile replicare, a quanti lo accusavano, che si trattava di calunnie. Ma ora, con quella lettera, come la mettiamo?
È augurabile che il ministro Vincenzo Scotti, capolista DC a Napoli, Io spieghi ai suoi elettori. In un comizio, sul tema: «La moralizzazione della vita pubblica».
* * *
Pigliamoci un attimo di riposo. Questa dichiarazione di Tina Anselmi presidente della Commissione d'inchiesta sulla P2: «Dopo 18 mesi di Commissione P2, dopo avere ascoltato decine di massoni, ho scoperto che gli odi e i rancori che ci sono all'interno della massoneria, sono secondi solo a quelli che albergano nella DC».
* * *
Ci si chiede il perché siamo finiti nelle presenti condizioni. State ad ascoltare questa storia.
Nove anni fa (febbraio 1974) comparve la notizia che Ciriaco De Mita figurava nel meccanografico dell'ENI come funzionario stipendiato. La vicenda venne fuori quando Ciriaco De Mita era ministro dell'Industria, cioè capo di un dicastero fra i cui compiti c'era (e c'è) quello di controllare l'ENI, allora diretto da Eugenio Cefis.
La notizie fece un rumore relativo. Che è una prebenda dinanzi ai miliardi che volano? Eppure quella rivelazione veniva data in contemporanea ad una celeberrima intervista del nostro Ciriaco, in cui al giornalista Cesare Zappulli, candidamente, confessava che «fra gli obblighi sub-istituzionali dell'ENI c'era quello di finanziare i partiti».
* * *
Allora l'economia tirava, e la dichiarazione del ministro che confessava che le Aziende a partecipazione statale, di cui lui era al tempo stesso dipendente e controllore, dovevano, istituzionalmente, dare soldi ai partiti-mafia, lasciò quasi indifferenti.
Sono passati dieci anni. Siamo a terra. Non c'è città, grande o piccola, che non abbia ferite economiche aperte. Il disastro finanziario è paragonabile a quello di una guerra perduta.
Perché? Che è accaduto? Quali le ragioni? Si torni alle dichiarazioni del ministro De Mita di dieci anni fa. Alle sue teorizzazioni di grande elemosiniere dei partiti. Le ragioni del disastro sono lì.
De Mita è stato rimosso? Ha pagato? È stato interdetto dal guidare dicasteri, enti pubblici, partiti? È stato chiamato a dirigere il partito della maggioranza relativa: la DC.
Gli italiani non se ne sono ancora resi conto, cioè di vivere in un paese occupato, alla mercè di autentiche bande: i partiti politici, peggio della mafia.
* * *
La battaglia per la conquista del Quirinale è in pieno svolgimento, anche se i pretendenti ora preferiscono esprimersi con linguaggi cifrati, come i mafiosi. Quello che, invece, parte lancia in resta, all'attacco, al grido «il Quirinale è mio e guai a chi lo tocca!», è Giovanni Spadolini. Approfitta di tutto. Anche delle interviste, le più banali, per vantare il suo diritto a sedersi sui seggiolone.
Gli hanno chiesto: ma lei come si sente dall'essere passato da Presidente del Consiglio dei Ministri a ministro?
State a sentire la risposta: «Il mio rientro ha un solo precedente storico. Risale a 30 anni fa, quando Antonio Segni, dopo essere stato Presidente del Consiglio, tornò in un governo costituito da un suo successore come titolare della Difesa e poi, qualche anno più tardi, fu eletto Capo dello Stato».
* * *
Che vuol dire Spadolini? Semplice: il mio caso è simile a quello di Antonio Segni che, da ministro della Difesa, venne eletto Presidente della Repubblica. E perché non dovrebbe capitare anche a me, che sono nella stessa identica «posizione» del vecchio Antonio Segni?
Quest'uomo ha una ambizione fuori del comune. Da diventare insultante.
* * *
Manifestano per la pace. Se avviciniamo costoro non è difficile accorgersi che, più che la vita, amano le cose della vita: le cosiddette nuove infelicità predicate da Pannella: sono fuggiti dalla madre e dal padre e sono sempre più soli; si intruppano, si strusciano l'uno con l'altro, oscillano fra lo spinello e l'eroina, e diventano disperati; cavalcano, spesso, con i soldi di papà, motociclette da fantascienza, auto da trenta milioni e si sentono stanchi; in genere non lavorano, stanno stravaccati, l'occhio spento.
Perché questi disperati pacifisti abbiano tutte le cose piacevoli della vita e altre ancora, occorre il petrolio. Senza petrolio le cose non si producono. E perché quelle cose non cessino di giungere a simile genia, i soldati sono in Libano. E vengono massacrati.
Sputano sulla divisa, sulle stellette. Poveri disgraziati! Non sanno costoro che i «pacifisti» hanno sempre reso le guerre più dure, più cruente. Disarmano. L'anima prima che il braccio. Ed è la catastrofe. Vogliono la permanente vacanza dalla storia. E non sanno, poverini, che fuori dalla storia c'è il massacro. Di coloro che si arrendono alla vita, a favore di coloro che della propria vita vogliono fare Storia.

 

26 novembre 1983
Maestri e Padrini di un regime mafioso


Valerio Zanone, Segretario del PLI, in una lettera a "Panorama" (31.X.83), ci fa sapere che, fra il '73 e il '75, ha frequentato una loggia massonica non coperta: che non se ne vergogna, e che dal febbraio 1976, cioè da quando è stato eletto segretario del PLI, non ha più frequentato, né avuto rapporti con logge di sorta.
L'onorevole Valerio Zanone dice le bugie. Infatti la Guardia di Finanza ha trovato una fitta corrispondenza fra il «nostro» e il Gran Maestro Venerabile Gianni Ghinazzi.
Di che si tratta?
Il Gran Venerabile scongiura Zanone di intervenire perché due prodotti farmaceutici (Broncolit e Micofugal) vengano prontamente registrati e inclusi nel prontuario farmaceutico, con relativa pubblicazione sulla "Gazzetta Ufficiale".
Il che viene prontamente eseguito. Grazie alla collaborazione del ministro (liberale) Renato Altissimo.
Non esistono denunce al riguardo. È stabilito: i liberali hanno le mani pulite. E guai a chi ne dubita!
* * *
Scandalo dei Casinò. È li che si ripulivano i denari sporchi della mafia.
Una comunicazione giudiziaria è giunta anche all'ex-Presidente dell'Amministrazione Provinciale di Palermo, già deputato nazionale, il democristiano Ernesto Di Fresco, già in carcere con l'accusa di avere truccato un'asta alla Provincia.
Particolare interessante: quando, alla vigilia delle ultime elezioni politiche, il Di Fresco viene dimissionato dalla lista DC, è aiutato dai fratelli massoni. Infatti Manlio Cecovini, sindaco di Trieste, leader del Melone, gli mette a disposizione il simbolo della propria formazione politica e gli fornisce dieci nomi da inserire in lista.
Manlio Cecovini non è un magliaro come Gelli. È gran commendatore del Supremo Consiglio dei 33, è un personaggio al quale la stessa Commissione P2, quando lo ha ascoltato, è stata carica di riconoscimenti.
Come la mettiamo? Soprattutto nei riguardi di coloro (e sono molti) che ritengono che fra P2, mafia e massoneria ufficiale non ci sia alcuna differenza.
Infatti, mafia e massoneria, sono due «regali» che gli alleati fecero all'Italia quando sbarcarono in Sicilia.
Il 10 luglio 1943.
* * *
Fra il disinteresse generale, si sta celebrando a Milano il processo contro Michele Sindona.
Giampaolo Pansa ("Epoca", novembre 1983) scrive; «Gli italiani farebbero bene a seguire con attenzione il processo. Il crack Sindona è uno spaccato della storia d'Italia. Ce ne è abbastanza in quel processo per avere un'idea di quale immenso cumulo di sporcizia si intraveda da quello spacco. La stessa sporcizia che rischia di sommergere la Repubblica e farne, senza rimedio, un regime mafioso.
* * *
L'Italia è già un regime mafioso. Fin nel profondo. Non si salva nulla. Per fermarci a Sindona basta questa considerazione: dalle carte processuali è venuto fuori che il... banchiere di Patti, già creatura di Luky Luciano (boss mafioso, condannato all'ergastolo in America e poi «liberato» alla condizione che aiutasse lo sbarco alleato in Sicilia), era uomo della mafia, le sue banche servivano a ripulire il denaro sporco ricavato dal traffico dell'eroina, mandante dell'omicidio di Giorgio Ambrosoli, il liquidatore delle banche sindoniane.
Ebbene, intorno a questo personaggio, troviamo Presidenti del Consiglio dei ministri, ministri, governatori della Banca d'Italia, banchieri, uomini politici, sindacalisti di vertice. E tutti protesi ad ascoltare i suoi consigli, a ricevere i suoi miliardi!
L'Italia non rischia, come scrive Pansa, di diventare un regime mafioso. Lo è.
* * *
A proposito di Sindona, la sapete l'ultima? II crack Sindona è dell'estate del 1974. Nel 1979, cioè cinque anni dopo, troviamo ancora la Presidenza del Consiglio dei ministri mobilitata per salvare, a tutti i costi, il bancarottiere siciliano. Fra l'avvocato Rodolfo Guzzi e il Presidente del Consiglio vi sono scambi di note, di memorandum che, a sua volta, via Palazzo Chigi, vengono trasmessi alla Banca d'Italia e al Banco di Roma, con l'invocazione: salviamo Michele Sindona!
Si compiono, per quel salvamento, gravissimi reati, indebite interferenze. Alla fine non se ne farà di nulla. Non certo per il Palazzo. Per merito di Giorgio Ambrosoli, il liquidatore delle banche di Sindona, il cittadino integerrimo. No, dirà, no!
Gli costerà caro. L'ultimo memorandum consegnato al Palazzo è dell'aprile 1979. Due mesi dopo, il 12 luglio, quattro colpi di pistola assassinano Giorgio Ambrosoli. Aveva detto ancora: no!
* * *
Ebbene, dal I974 al 1979, passano cinque lunghi anni. Sono andato a controllare che cosa mai abbia fatto il Parlamento in questi lunghi cinque anni in relazione a ciò che accadeva intorno a Michele Sindona.
Non ci credereste: eccetto missini e radicali, per il resto è silenzio. Acqua in bocca.
* * *
E il PCI? Silenzio. Michele Sindona? E chi è mai costui? E perché il PCI fa silenzio? Semplice: il PCI (1976-1979) fa parte della maggioranza e c'è da difendere «quel» Presidente del Consiglio che, con Sindona deve fare i conti. E il PCI, disciplinato, tace. Anche davanti al delitto. I suoi 321 parlamentari hanno un solo ordine: ignorare Sindona. E per cinque anni, i comunisti, i moralizzatori, i puri, i diversi, tacciono. Il mafioso Sindona non esiste.
Questo è il PCI. Il comportamento, non ci sono dubbi al riguardo, è mafioso.
* * *
Ho davanti a me un vecchio settimanale. È "l'Idea Fascista". Porta la data del 6 gennaio 1929, 54 anni fa. Leggo questa notizia: «il Podestà di Terranova Pollino, responsabile di atti compiuti a fine di personale interesse, ed in danno del Comune, è stato mandato al confino; come sono stati mandati al confino per la durata di tre anni ciascuno il marchese Reggio d'Aci Stefano, avvocato di Firenze; il cavalìer Olinto Fanfani, possidente di Poppi; il comm. Don Giovanni Mazzoni, arciprete di Loro Ciuffenna; il cav. uff. Don Giuseppe Duranti, arciprete di Rapolano, responsabili del dissesto della Banca di Credito e Risparmio di Arezzo».
* * *
"L'Unità" ha dato grande risalto alla scomparsa del prof. Giuseppe Samonà, «insigne figura di urbanista», «grande maestro», «organizzatore infaticabile di cultura». «Uomo di sicuri orientamenti democratici e socialisti» -scrive "l'Unità" (1.XI.83)- «Giuseppe Samonà entrò in Parlamento della Repubblica: il PCI, nel 1972, gli offri infatti a Venezia la candidatura, e fu senatore fino allo scioglimento della legislatura».
* * *
È un vero peccato che "l'Unità", cosi precisa, diremmo meticolosa, nel raccontarci la vita di Giuseppe Samonà, dimentichi (ah, la sbadata!) che lo stesso venne nominato Rettore dell'Istituto Universitario di Architettura di Venezia. Il 4 maggio 1944. Con decreto del Duce, Capo della Repubblica Sociale Italiana.


Il «fratellismo» di casa-Berlinguer


Con un titolo su sette colonne, "il Corriere della Sera" (3.XI.83), dando la notizia che il fratello di Enrico Berlinguer è stato eletto Segretario della Federazione Regionale del Lazio, uno dei Comitati comunisti più importanti d'Italia, titola: «Giovanni Berlinguer e i suoi incarichi: nel PCI non c'è fratellismo».
Si tratta di una intervista, «I cognomi», dice Giovanni Berlinguer, «nel PCI non hanno mai creato fenomeni di nepotismo, o se vuole di fratellismo».
* * *
È vera questa affermazione? Controlliamola. Se non nel PCI, all'esterno, il cognome «Berlinguer» conta, pesa assai. Infatti, attraverso quali «procedure» il prof. Giovanni Berlinguer, insegnante a Sassari presso quella Università, eletto deputato nel 1972 nella circoscrizione di Roma, ottiene, nel 1976, la cattedra a Roma?
Il "Gruppo Universitario Alleanza Laica", in una lettera al quotidiano "la Nazione" del 24 luglio 1976, spiegava che la sistemazione a Roma dell'onorevole prof. Giovanni Berlinguer, parassitologo e professore di medicina sociale, era dovuta al ministro democristiano Malfatti che aveva assegnato al senatore del PCI Carlo Bernardini, Preside della Facoltà di Scienze di Roma, ben dieci cattedre, «prelevate» dal paniere segreto del ministro, una delle quali espressamente concessa per sistemare a Roma (dove già faceva politica) il fratello dell'onorevole Enrico Berlinguer, segretario del PCI.
È certo che se Giovanni, anziché Berlinguer, si fosse chiamato Rossi, si troverebbe ancora «esiliato» presso l'Università di Sassari. Il fratellismo conta, eccome se conta!
* * *
Non solo fratellismo, ma anche... cuginismo. Infatti il cugino (di Enrico) Luigi Berlinguer conta carriere non indifferenti. Già deputato, già Preside della Facoltà di Giurisprudenza a Sassari, poi ordinario di diritto a Siena, funzionario del Monte dei Paschi, consigliere regionale a Firenze. I sardi, ahimè, soffrono di emigrazione e di disoccupazione.
Non certo chi si chiama Berlinguer!
* * *
L'ANPI (Associazione Nazionale Partigiani Italiani), «rilevato il torbido tentativo di legittimazione democratica e morale del MSI-DN e di valorizzazione del periodo storico della dittatura fascista, rivolge un appello chiaro e severo affinchè si mediti su ciò che sta accadendo». ("l'Unità", 13.XI.83).
Il presidente dell' ANPI: il senatore del PCI Amerigo Boldrini. Già Centurione della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale (MVSN).

 

30 novembre 1983
Quel pasticciaccio brutto del «caso Gelli»


Nei giorni scorsi la Commissione parlamentare P2 ha decretato la propria «fine» morale. Era da stabilire se interrogare o no i politici che avevano avuto rapporti con Gelli e le sue vicende. Non se ne farà di nulla. Addio verità!
* * *
Chiuso quindi il caso Zilletti Ugo, vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, il vice Pertini.
I fatti sono noti. Corre il giorno 16.4.1981. La Guardia di Finanza, per ordine della magistratura di Brescia, perquisisce a Roma, nel Palazzo dei Marescialli, sede del Consiglio superiore della magistratura, l'ufficio del vice presidente Ugo Zilletti e, in contemporanea, a Milano, presso quel Tribunale, l'ufficio del procuratore Mauro Gresti.
Stupore, sgomento. Fino a quel giorno, l'organo di autogoverno dei giudici, una delle Istituzioni più delicate in quanto garanzia del corretto funzionamento della giustizia, aveva conservato integra la sua immagine. Ora non più. Anche il Consiglio superiore della magistratura viene travolto nel fango dello scandalo.
"l'Unità" (16.4.81), commentando l'accaduto, pone questo interrogativo: «Ma con quale autorità una classe dirigente così screditata può rivolgersi al Paese degli onesti per chiedere sacrifici, blocchi di scala mobile, strette economiche?».
* * *
Quegli avvenimenti sembrano cosi lontani! Sepolti nell'oblio. È tale, in Italia, la sequenza degli accadimenti che fanno sensazione che «chiodo scaccia chiodo»; avvenimento mangia avvenimento, eppure quelle due perquisizioni dell'aprile 1981 rappresentavano il fondo, oltre il quale, la putrescente vicenda della politica italiana non poteva più andare.
Ma perché si è dimenticato? Vale la pena di raccontare come stanno le cose, a testimonianza almeno che qualcuno, nel silenzio di tutti, a cominciare dalla Commissione parlamentare P2, non si è tirato indietro, davanti ad episodi che venivano ad investire ambienti ritenuti intoccabili.
* * *
Era accaduto che, nella ormai famosa incursione nell'abitazione e negli uffici del Gran Maestro Lido Gelli, in quel di Castiglion Fibocchi (17.3.81), per cui poi tutta l'Italia repubblicana doveva tremare, erano state trovate fra l'altro, due buste con l'intestazione: «Calvi Roberto: vertenza con la Banca d'Italia» e «Calvi, copia comunicazione Procura di Milano».
* * *
Dentro quelle buste la documentazione di avvenimenti accaduti fra il luglio 1980 e il marzo 1981 «in luoghi diversi del territorio italiano», perché a Roberto Calvi fosse ridato il passaporto, ritiratogli nel luglio '80 dal questore di Milano, in quanto imputato di truffa pluriaggravata. E di ciò si occupava alacremente il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura (il vice Pertini) che, dall'alto della sua autorità di Capo dell'organo di autogoverno dei giudici italiani, esercitava pressioni perché il procuratore della Repubblica di Milano, Mauro Gresti, provvedesse a risolvere la pratica Calvi. Zilletti aggiungeva di essere stato interessato alla cosa da «alte personalità» dello Stato repubblicano.
Nel contempo, in quelle buste, viene trovata la documentazione di un imponente giro di denaro fra Marco Ceruti, fiorentino latitante amicissimo di Zilletti, e Licio Gelli; un giro di denaro che le successive indagini, espletate presso le banche svizzere, quantificheranno in 5.400.000 dollari, vari miliardi di lire.
* * *
Ebbene, in una delle reversali di questi pagamenti figuravano i nomi di Ceruti e Zilletti per la somma di 800.000 dollari. La data: 6.X.1980, cioè proprio nei giorni in cui gli incontri Zilletti-Gresti, in Roma, sul caso Calvi, diventano sempre più frequenti, e tali che, alcune trasferte del giudice Gresti, da Milano a Roma, se le accolla direttamente il Consiglio superiore della magistratura.
* * *
Questo, grosso modo, l'antefatto. Le indagini hanno inizio e, poiché nella vicenda è protagonista un magistrato del Distretto di Milano, la pratica passa, per competenza, ai giudici di Brescia. E i giudici di Brescia si mettono al lavoro, indagando, perquisendo, interrogando e, soprattutto, resistendo alle pressioni della magistratura romana che chiedeva, per sé, tutti gli incartamenti. Si ripeteva una vecchia scena: i magistrati lombardi (accusatori) contro i magistrati romani (insabbiatori).
Sorto il conflitto, la Corte Suprema, con sua decisione del 29 settembre 1981, ordina: tutto a Roma!
* * *
E come era facilmente prevedibile, tutto è finito a tarallucci e vino. Infatti le accuse di corruzione, di interesse privato in atti di ufficio, di rivelazioni di segreti di ufficio, nei riguardi dello Zilletti, vengono fatte cadere, al punto da trasformarsi in «inni» alla sua dirittura morale nelle sentenze romane del 29.5.82 (procuratore Achille Gallucci) e dell'Ufficio Istruzione del 17.3.83 (giudice istruttore Ernesto Cudillo).
* * *
Particolare da non dimenticare. Quando la sentenza del giudice istruttore Ernesto Cudillo, interamente assolutoria nei riguardi di tutti i protagonisti della vicenda P2 è conosciuta, scoppiano le polemiche, tanto che la Procura generale della Corte di Appello di Roma, per arginare l'impopolarità di quel provvedimento, è costretta a presentare appello (11.4.83). Ma in quell'appello, collezionato con banalità da quattro soldi, ci si guarda bene di chiedere la riapertura del caso Zilletti. Quel caso va chiuso. A tutti i costi. Perché, negli atti raccolti dai giudici del Tribunale di Brescia, finché li hanno lasciati lavorare, vengono alla luce «episodi» riguardanti proprio quelle alte personalità, di cui lo stesso Zilletti parlava, e che lo avrebbero indotto ad occuparsi del caso Calvi.
* * *
Altro particolare. Le sentenze assolutorie della Procura e dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Roma, affermano che il dott. Zilletti deve essere prosciolto da ogni accusa perché la Banca d'Italia, la stessa che aveva provocato, con la sua indagine, l'incriminazione nei riguardi di Calvi e il susseguente ritiro del passaporto al banchiere, intervenne presso di lui, in quanto l'impedimento a Calvi a partecipare a Congressi internazionali, a causa di pendenze penali, creava, su tutto il sistema bancario italiano, un immagine sfavorevole.
È una giustificazione contorta, quasi risibile ma, pur prendendola per buona, «chi» della Banca d'Italia intervenne presso lo Zilletti perché a Calvi fosse ridato il passaporto?
Dato che lo Zilletti parla di interessamento di «alte personalità», non può essere stato che il governatore in persona, il dott. Ciampi. E se è così perchè il procuratore della Repubblica di Milano, dottor Mauro Gresti, nei suoi interrogatori, attesta che a convocare il dott. Ciampi, negli uffici del Consiglio superiore della magistratura, fu proprio il dott. Zilletti; il che dimostrerebbe che il caso Calvi non interessava affatto alla Banca d'Italia, ma allo Zilletti in persona?
Si sono svolte indagini al riguardo?
Non ci risulta. Le sentenze romane tacciono al riguardo. Il procuratore dott. Achille Gallucci prende per buone le dichiarazioni, non accerta nulla, non ordina interrogatori. Prende atto e chiude, al grido: si assolva!
* * *
E questo (udite! udite!), anche quando il dott. Carlo Marini, nientemeno procuratore generale della Corte di Appello di Milano, testimonia che il dott. Ugo Zilletti, vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, anche dopo il rilascio del passaporto a Calvi, non cessò di interessarsi al banchiere, tanto che lo Zilletti chiese al Marini di non affidare l'istruttoria contro Calvi né al sostituto Ovilio Urbisci, né al sostituto Luigi D'Ambrosio e di adottare al riguardo tutte le cautele possibili «perché il procedimento interessava al Colle».
* * *
Il procuratore della Repubblica di Roma Achille Gallucci, il giudice istruttore Ernesto Cudillo, le hanno lette queste carte? E se le hanno lette che dicono? Assolvono? E la Commissione P2, che queste cose le sa, perché tace?
Di che cosa ha paura? Si rende conto che, impedendo di sapere la verità su vicende di questo genere, affossa tutto, e che perfino Lido Gelli viene autorizzato a dire: voi non siete in condizioni di giudicarmi, voi siete peggiori di me.
* * *
Le vicende che ho riportato, i cui riscontri sono in atti ufficiali dello Stato repubblicano, inducono a pensare che siano accaduti, dietro le quinte, fatti inquietanti.
Per dovere di correttezza li enumero:
a) che l'inchiesta Calvi sia stata tolta, nel settembre del 1981, dalle mani dei giudici, di Milano e di Brescia e affidata a quelli romani, soprattutto perché preoccupati di «gestire» il caso Zilletti che, portato alle estreme conseguenze, avrebbe potuto rappresentare il colpo decisivo alla credibilità della prima Repubblica italiana. Il che comporta che, per ottenere il pronunciamento della Suprema Corte di Cassazione, si sia potuti «arrivare» fino a tale altissimo consesso;
b) che le sentenze 29.5.82 del procuratore della Repubblica di Roma Achille Gallucci, e del 17.3.83 del giudice istruttore Ernesto Cudillo, abbiano dovuto dare un colpo di spugna all'intera vicenda P2, perché, altrimenti, avrebbero dovuto chiamare in causa, non solo il Consiglio superiore della magistratura (infatti, oltre allo Zilletti, altri membri del Consesso risultano coinvolti), ma qualcosa di più alto.
* * *
È stato scritto che le inchieste sulla loggia P2 attraversano ben tre diversi organismi inquirenti: gli Uffici giudiziari di Roma (Procura e Ufficio Istruzione), dichiaratamente innocentisti; dall'altra la Commissione di inchiesta P2 e il Consiglio superiore della magistratura, decisamente colpevolisti.
Divisioni illusorie, fumo negli occhi.
La P2 è talmente penetrata dentro il sistema «partitocratico» che tutti, dico tutti, ne sono prigionieri.
 

14 dicembre 1983
Quando la malavita prende il posto della politica


Quale «caratteristica» si portano dietro gli arresti che, a valanga, colpiscono gli uomini politici? Perché, come a Torino, finiscono in galera comunisti e socialisti, che sono maggioranza, e al tempo stesso e per gli stessi fatti, i democristiani che sono minoranza?
La stessa scena in Liguria. Vanno in galera socialisti, ma anche democristiani, per lo stesso episodio criminoso. Perché?
* * *
La vita politica è divenuta una finzione, una recita. Maggioranza e opposizione di regime non esistono più. Fanno finta di confrontarsi. Recitano. Fanno finta di confrontarsi sull'affare proposto. Poi, dietro le quinte, magari nei piano bar come accadeva a Torino, si dividono il malloppo. Tanto a te, tanto a me.
In tal modo la politica è uccisa, assassinata. Al suo posto, la frode, la malavita.
* * *
"il Giornale" (1.XII.83), sotto il titolo «Quando la 'ndrangheta sposa la politica», dedica una intera pagina (cosi come se nulla fosse) al voto criminale in Calabria e racconta di una grande cena mafiosa che si è svolta in casa del pregiudicato Libri, a Cannavò (Reggio Calabria), per festeggiare i risultati elettorali. «La mafia», scrive "il Giornale", «ha riversato alcune decine di migliaia di voti dalla DC al PSI e dal PSDI al PRI. Anche quella sera, come nel lontano 1969, la festa è stata guastata dai carabinieri: ma stavolta i picciotti sparano per coprire la fuga dei politici e dei mammasantissima; quattro carabinieri rimangono a terra feriti, i nomi eccellenti si sottraggono all'arresto».
* * *
«Tra i nomi che corrono -continua "il Giornale"- c'è quello del deputato repubblicano Francesco Nucara. Il PRI è accusato di aver ricevuto tanti voti dalla mafia. L'on. Vico Ligato, DC, ha ripreso tali notizie in una interrogazione al Ministero dell'Interno e a quello della Giustizia. La polemica si trascina dal luglio. Nucara e Ligato battibeccano duramente, ma tutti gli "alti personaggi" interrogati continuano a tacere. Si dice che sia stato telefonato a Roma, la notte stessa della cena delle beffe, per ottenere copertura».
* * *
Sono affermazioni gravi, che diventano addirittura inquietanti per il silenzio che, su questa vicenda, lo stesso Scalfaro, ministro dell'Interno, mantiene.
Qualcuno, secondo "il Giornale", ha imposto il silenzio sulla materia. Che ne dice il Ministro? C'è, al riguardo, una interrogazione missina. A diversità di quella del DC Ligato, che chiede risposta scritta, quella del MSI-DN vuole che il Governo venga a rispondere in aula. Davanti a tutti. Lo faccia, onorevole Scalfaro, Io faccia.
La sua onorabilità è fuori discussione. Si discute della tempestività. Tempestività che, in casi del genere, è doverosa.
* * *
Dunque il PRI, in Calabria, raccatta tutto. Anche, direi soprattutto, i voti della mafia. 10.000 voti in più, rispetto alle amministrative del '79, a Reggio Calabria, 11.000 voti in più a Cosenza.
Che ne dice Spadolini? O non è il PRI il partito del perbenismo?
* * *
«Franco è stato sempre un uomo corretto. Il suo comportamento mi è parso sempre irreprensibile. È sempre stato amico di tutti e in Consiglio Comunale, prima nelle file del PLI e poi in quelle del PRI, abbiamo fatto insieme grandi battaglie politiche contro il malcostume e gli abusi edilizi».
(Vincenzo Mondo, senatore del PRI, "l'Europeo", 10.XII.83).
* * *
Esattorie: sono sempre state, specie in Sicilia, al centro di dibattiti accesi e di accuse feroci. Non ultima quella di essere centri di mafia, addirittura il santuario.
A tale riguardo ho da raccontare un episodio che è raccolto fra le carte della Commissione antimafia. State a sentire.
* * *
Franco è Franco Chillè, il «kidnap» della piccola Elena Luisi. Lungi da me generalizzare, in ogni famiglia la pecora nera può albergare. Fatto sta che Francesco Carlo Chillè lo troviamo oltre che consigliere comunale di Milazzo, anche candidato alle elezioni politiche del giugno scorso nella lista del PRI di Catania, Messina, Siracusa, Ragusa e Enna. Voti preferenziali: 3.244.
Le liste per le elezioni politiche vengono tutte vagliate e approvate a Roma.
Spadolini ha dato il suo assenso?
* * *
Particolare da non sottovalutare. La lista repubblicana della circoscrizione di Catania, oltre il Francesco Chillé, proveniente dal PLI, raccatta anche Germana Antonino, ex-deputato regionale proveniente dalla DC.
Germana è stato eletto. Ha battuto il deputato uscente, Pasquale Bandiera. A detta di quest'ultimo ("l'Unità", 3.7.83) il Germana, per farsi eleggere, ha speso un miliardo di lire, dicesi un miliardo di lire.
Dove li ha presi quei soldi? Spadolini se lo è chiesto?
* * *
Proseguiamo. Scandalo al Casinò di Sanremo. Si riciclano i soldi provenienti dai sequestri. Fra i latitanti: Augusto Poletti. È lui l'uomo di cui la mafia si serve per tentare di mettere le mani sul Casinò. Aereo personale, yacht favoloso, costruttore di villaggi esotici alle Bahamas e a St. Maarten. È l'uomo emergente di Sanremo. Un suo progetto: costruire un aeroporto a Sanremo, come ha già fatto in Sardegna (ma guarda un po', in Sardegna!) a Baia delle Mimose.
Tessera: repubblicana. Come il fratello Carlo, Presidente dell'Azienda Autonoma di Soggiorno di Sanremo.
Ma allora, è... vizio! Questo PRI si ritrova nel momento del successo, mafiosi, sequestratori di bambine di pochi mesi, deputati al miliardo, massoni amici di Santovito, piduisti «a gogò».
Questo PRI: ma dove sta il suo perbenismo?
* * *
Napoli, Milazzo, Reggio Calabria: non a caso le disavventure del PRI passano per le tre Regioni maggiormente investite dalla malavita organizzata», scrive "la Repubblica" (2.XII.83).
Certo, ma non quelle sole. Costantino Parisi, 28 anni, assessore all'agricoltura nel Comune di Cingoli (Macerata), figura fra i responsabili del sequestro avvenuto il 26 gennaio 1977 dell'industriale calzaturiero Mario Botticelli, 71 anni, uno dei più facoltosi imprenditori delle Marche.
Costantino Parisi, all'atto del sequestro, era iscritto al PRI.
* * *
«E gli uomini politici che un tempo la corteggiavano?».
Sono spariti tutti.
«Sua madre, sfogandosi, ha accennato ad un uomo politico milanese, per il quale, ai bei tempi, avevate organizzato pranzi e cene e che non le ha mandato un rigo, né fatto una telefonata. Chi è?».
Se lo può immaginare... Giovanni Spadolini quando era a Milano veniva tutti i lunedì pomeriggio a trovarmi in ufficio, per chiedere, per fare. Dopo di che, appena io sono uscito dal "Corriere", non si è fatto più vedere».
(Angelo Rizzoli racconta, l'Europeo 10.XII.83)
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Si discuteva della riforma tributaria. La Commissione dei trenta (senatori e deputati) era riunita a Palazzo Montecitorio nella sala della Commissione Finanze e Tesoro. Era esattamente il 12 agosto 1973. Relatore sui provvedimenti delegati i riguardanti i servizi di riscossione (esattorie), il Senatore Luigi Mazzei del PRI.
Ferragosto, caldo, scarsi commessi, in compenso discussione animatissima. Si fece notte inoltrata.
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Un punto accendeva gli animi, quello sostenuto da gran parte dei parlamentari siciliani, per cui l'aggio da assegnare alle Esattorie, se doveva avere un minimo stabilito, non doveva, per quanto riguardava il massimo, avere alcun limite.
Una cosa destava sorpresa. È che quando prendevano la parola i favorevoli alla tesi «isolana», costoro alzavano il volume della propria voce, come se volessero farsi sentire oltre la sala in cui si era riuniti.
Il perchè di questo insolito comportamento canoro si seppe quando un parlamentare, volendo telefonare, ed essendo tutti gli apparecchi della Commissione occupati, si portò nel corridoio antistante la sala, in cerca di un telefono.
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Quale la sua sorpresa nel constatare che, non solo la porta della Commissione era socchiusa, ma dietro c'erano degli «individui» che origliavano.
Fu dato l'... allarme. Qualcuno si prese paura. Ripeto: era notte fonda. Era la vigilia di ferragosto. Il Palazzo quasi deserto.
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La morale? Evidentemente, non fidandosi gli Esattori dei parlamentari... amici, si erano premurati di mandare propri «fidi» perché, di persona, controllassero come si portavano deputati e senatori. «Prendete nota e riferite». Insomma, quella notte, i gorilla della mafia (esattoriale) erano entrati, indisturbati, nel tempio della democrazia e gli «amici», con mandato parlamentare, per non correre rischi di essere fraintesi dai gorilla dietro l'uscio, alzavano la voce.
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Bello, no? L'attuale Ministro dell'Agricoltura Filippo Maria Pandolfi conosce la vicenda. Anche nei pur minimi particolari. Comunque, ripeto, il tutto è recepito, per mia volontà, negli atti ufficiali della Commissione Antimafia.
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1973-1983. Sono passati dieci anni. Le cose sono mutate? Si, in peggio. Perché la mafia, oggi, non ha più bisogno di inviare i suoi gorilla a controllare gli eletti. Infatti li elegge direttamente al Parlamento.