Continua, nella Milano «socialista», la mostra dedicata, nel centenario della
sua morte, ad Umberto Boccioni (e il suo tempo), maestro di futurismo.
Arturo Carlo Quintavalle su "Panorama" (3.1.S3) si chiede: quale tempo? E pone
le seguenti domande: come ha pesato, e quanto, il movimento futurista nella
cultura europea?
Come hanno giocato, e quanto, sul giudizio della critica, le adesioni più tarde
dei futuristi, e di Marinetti in primis, al movimento fascista?
La riposta: alla base del futurismo c'è una presa di coscienza nuova
dell'intellettuale artista nella società industriale. Gli intellettuali come
interpreti di una diversa realtà. Anticipatori dunque. E, nel campo della
pittura, quella di Boccioni, una presenza di statura europea.
* * *
Anni 30, mostra di Umberto Boccioni. La Milano socialista è alla riscoperta di
valori che, nel loro erompere, furono antisocialisti, impietosamente
antisocialisti.
«Alle volte», scriveva Boccioni, «è un pubblico democratico di intellettuali
anarchici e socialisti; di quelli col cravattone nero, dai piedoni scalcagnati,
che si trascinano dietro, alle conferenze, compagne libere con occhiali,
sgangherate e sudice. Si dovrebbe attendere qualcosa da questa estrema sinistra
della vita e della politica. Al contrario, sono i più feroci imbecilli, i più
volgari assertori di banalità tradizionali, di luoghi comuni morali e
reazionari. Noi futuristi li abbiamo sempre trovati violentemente contrari e
insensibili davanti a tutte le ricerche rivoluzionarie dell'arte, le quali,
logicamente avrebbero dovuto trovare delle analogie elementari nei loro cervelli
da Camera del Lavoro... Puah! Che schifo!».
* * *
Chi era Umberto Boccioni? «Vedo Boccioni», scrive Marinetti, «svincolarsi da
quattro poliziotti per venire in mio soccorso in quella primissima dimostrazione
anti-austriaca del settembre 1914 in piena Milano... All'indomani della presa di
Dosso Casina, sui fianchi dell'Altissimo, in vedetta fuori dalle nostre trincee,
a cento metri dalle trincee austriache, Boccioni, volontario, costretto a
soffocare nella mantellina una tremenda tosse pur di combattere, torturato dal
freddo acutissimo, non rimpiangeva della vita cittadina che il tepore goduto in
prigione».
* * *
Umberto Boccioni: interventista intervenuto. Dal fronte, dal quale non doveva
più tornare, queste righe: «Io sono veramente felice e vedrai che l'Italia
salirà ad altezze che nemmeno noi concepivamo ...»; «Il mio ideale futurista, il
mio amore per l'Italia, il mio orgoglio infinito di essere italiano, mi spingono
a fare irresistibilmente il mio dovere. E stai certo che Io farò...»; «Vado al
fuoco felice, felicissimo! Pieno di fede nella vittoria immancabile dell'Italia
e con la coscienza di tutto il valore della mia vita!».
«La guerra è una cosa bella, meravigliosa, terribile! In montagna poi sembra una
lotta con l'infinito. Grandiosità, immensità, vita e morte! Sono felice e
orgoglioso di essere soldato semplice e umile cooperatore all'opera grandiosa.
Viva l'Italia!».
* * *
Umberto Boccioni doveva morire, in divisa, nel 1916 all'età di 34 anni. Ciò che
lascia è di difficile appropriazione da parte di chi, oggi, organizza marce su
Comiso. Anzi. I suoi tratti più significativi lo avvicinano, per dirla con Luigi
Einaudi, «ai giovani ardenti che, fra il 1919 e il 1921, chiamarono gli Italiani
alla riscossa contro il bolscevismo» ("Le Lotte del lavoro", editore Piero
Gobetti, Torino 1924, pagina 15).
Ed allora perché questo riemergere, nella città di Milano governata dalla
sinistra, che vide nascere il futurismo prima (1909) e il fascismo poi, di
«memorie» che hanno inciso nella storia degli italiani in senso drammatico, al
punto che quelle «memorie» sono state, per 37 anni, e per volontà della
sinistra, messe al bando della vita civile?
Che significato ha il riproporre oggi i tempi di Umberto Boccioni che
anticiparono e prepararono il fascismo?
Ameremmo che ci rispondessero. Senza arrabbiarsi. Con serena, meditata
pacatezza.
* * *
Dai giornali: «Ritirato il passaporto al vicepresidente della Regione siciliana
e a 51 sindaci» ("la Repubblica", 5.XII.82).
«A Bari assessore in cella: inventava corsi fantasma. È socialista. In cella
anche un DC». ("la Repubblica" 5. XII.82).
«La questione morale lacera l'alleanza rossa di Firenze» ("la Repubblica",
10.XII.82).
«II ministro Di Giesi prometteva assunzioni. Nasce a Bari un altro scandalo».
("la Repubblica", 16.XII.82).
«L'arresto dell'armatore-petroliere Cameli. Per costruire la raffineria pagarono
DC, PSI e PCI». ("la Repubblica", 19.XII.82).
«Si allarga lo scandalo edilizio di Catanzaro: sette gli arresti, vicesindaco
(PSI), un assessore (DC), funzionari e professionisti». ("Corriere della Sera",
20.XII.82).
«Scandalo a Catanzaro: il vicesindaco ammette di essersi lasciato corrompere».
("Corriere della Sera", 24.XII.82).
«Sotto accusa per peculato assessore del PSI a Torino», ("la Repubblica",
5.1.1983).
«Nuovo scandalo in Sicilia: comunicazione giudiziaria a un assessore regionale
socialdemocratico». ("Secolo", 6.1.83).
Tutto ciò fra dicembre 1982 e gennaio 1983. Si chiude l'anno vecchio, si apre il
nuovo. La saldatura, come si vede, è perfetta. Si continua a rubare. In nome del
popolo.
31 marzo 1983
«La Camera era impegnata con i decreti economici, stava parlando Gianni del
PDUP, quando si è visto Belluscio piombare in aula e mettersi ad urlare, rosso
in volto, che "così non si può andare avanti. Chi ha autorizzato il SISMI ad
acquistare i fascicoli di Gelli provenienti dal SIFAR?". La Presidente Jotti ha
dovuto fare intervenire i questori per riportare l’aula alla calma perché il
deputato del PSDI continuava a gridare: "Saragat non si tocca, è un eroe della
Resistenza!". ("Il Tempo", 14.1.1982)
* * *
Di che si tratta? È presto detto. I nostri servizi segreti (SISMI), inviati in
Sud America alla caccia dell'archivio di Licio Gelli avrebbero acquistato, a
suon di miliardi, anche alcuni fascicoli del SIFAR (il disciolto servizio di
controspionaggio), compilati negli anni '60; fascicoli che invece di andare
distrutti il 9 agosto 1974 nell'inceneritore di Fiumicino, sono finiti, in
Uruguay, fra le carte del gran massone.
Ora tornano a galla. E Indro Montanelli, dalle colonne de "il Giornale", in
difesa di Giovanni Spadolini che quella operazione-recupero avrebbe ordinato,
grida: «Basta! Siamo stufi di vivere in mezzo agli scheletri, di grufolare fra i
nostri rifiuti, di mangiare il nostro vomito. Nettezza urbana, a noi!».
* * *
Sì, si tratta di rifiuti, si tratta di vomito, ma sono rifiuti, grazie ai quali,
si sono fatte e rifatte le maggioranze parlamentari, si sono formati i governi,
si sono eletti Presidenti della Repubblica. C'è di più: dietro quei rifiuti c'è
odore di sangue. E che sangue! Perché dovremmo dire «basta!» su vicende rimaste
misteriose, che pesano tremendamente sulla vita politica e morale degli
Italiani, al punto che si ha l'esatta sensazione che, o si fa luce su queste
«porcherie», o questa Italia finirà, tutta quanta, nel proprio vomito?
Vomito, rifiuti, spazzatura. D'accordo. Ma l'Italia politica non è forse
impastata di rifiuti e di vomito? Se lo stesso Giovanni Spadolini, Presidente
del Consiglio dei Ministri, amicissimo di Montanelli, ordina: «acquistate quella
spazzatura!», cosa pensare se non che siamo tutti rifiuti?
Se il potere di Licio Gelli nasce dal fatto che fin dal 1967 entrava in possesso
dei fascicoli-rifiuti, grazie al generale Giovanni Allavena, capo del SIFAR,
perché archiviare?
Se con quei fascicoli-rifiuti Gelli ha potuto plasmare l'Italia 1983, perché
menare tanto scandalo verso coloro che, mettendo le mani in quella pattumiera,
vogliono scoprire la verità sull'Italia pattumiera?
* * *
L'onorevole Costantino Belluscio insorge nel nome di Beppino Saragat, al grido
fatidico: «è un eroe della Resistenza, Saragat non si tocca!»
Va bene, non tocchiamolo. Sarà anche un eroe, ma perché dimenticare che la sua
elezione a Presidente della Repubblica fu concordata con il PCI, alla condizione
che il pluriomicida, ergastolano Moranino, eroe della resistenza, venisse
graziato?
Come fa Belluscio ad accusare "l'Unità" (vedi n° 11.1.1983) di essere l'artefice
dell'attacco a Saragat quando Saragat deve al PCI la sua elezione a Presidente
della Repubblica?
* * *
Tutti i quotidiani, "il Giornale" e il "Corriere della Sera" in testa, si
trovano concordi nell'attribuire alle perverse arti del generale Giovanni De
Lorenzo la compilazione e la divulgazione dei famosi fascicoli, per l'esattezza
33.092 dei quali, 16.000 intestati a singole persone. Montanelli, in
particolare, si compiace sfruconare sul nome De Lorenzo. Forse perché missino?
Non è così. E non è onesto, soprattutto per Montanelli che conta, fra i suoi
collaboratori a "il Giornale", Renzo Trionfera che, nell'anno 1967, scrisse, per
"L'Europeo", una serie di dettagliati articoli sullo «scandalo dei servizi
segreti, il dossier Saragat», arrivando a pubblicare addirittura le copie
fotostatiche dei documenti riguardanti l'allora Presidente della Repubblica, e
raccontando, in polemica diretta con Giovanni Gronchi, già Presidente della
Repubblica, come nacquero e prolificarono i fascicoli.
* * *
Renzo Trionfera scrisse, non smentito né querelato, che l'Italia dei dossier
segreti cominciò nei sette anni della presidenza di Giovanni Gronchi e che in
quei sette anni i fascicoli, di cui tanto si parla ancora, venivano sottoposti
all'attenzione del Capo dello Stato e da questi siglati, per l'occasione con una
«G».
Belluscio, che è stato Capo di Gabinetto di Giuseppe Saragat al Quirinale,
conosce benissimo questa storia. E sa, altrettanto bene, chi ha fornito, a suo
tempo, a Renzo Trionfera la documentazione per sferrare l'attacco, senza
precedenti, a Gronchi. E lo sa anche Montanelli che, proprio sulle pagine de
"L'Europeo", contro Gronchi in carica, per non incappare nelle maglie
dell'articolo 278 del Codice penale (quello che tutela l'onore e il prestigio
del Presidente della Repubblica), inventò «il Granducato di Curlandia»
* * *
Questa è l'Italia repubblicana. Di sempre. I rifiuti sono sempre stati il suo
forte, il suo elemento costitutivo. Fino ad esserne incarnata. Quei rifiuti non
possono essere digeriti. Sono destinati a tornare, sia pure sotto forma di
vomito.
E, dopo tutto, Belluscio non ha alcuna ragione di lamentarsi. Beppino Saragat,
fascicoli o no, è poi finito nelle riserve di caccia di Licio Gelli. Ospite
abituale, di casa.
Si scrive che Gelli era diventato potentissimo. E come poteva essere
diversamente se era diventato di famiglia del Capo dello Stato?
* * *
Trionfera è la verità? Non sia mai detto. Però la verità è che i Servizi di
Informazione sono sempre stati utilizzati a fini partitocratici. Non solo per
eleggere Presidente della Repubblica il personaggio amico, ma anche per
determinare nuove maggioranze, nuovi governi.
Perfino Pietro Nenni ha il suo fascicolo. Riguarda i fondi del SIFAR concessi a
"l’Avanti!", dopo un incontro a tre: il comandante del SIFAR generale Viggiani,
il ministro del turismo Corona, e Pietro Nenni, allora Vice presidente del
Consiglio dei Ministri. La data: 21 febbraio 1964.
* * *
Perfino Ugo La Malfa ha il suo fascicolo: i soldi (dicembre 1961) del SIFAR
utilizzati per corrompere i delegati al Congresso repubblicano di Ravenna,
congresso decisivo perché il centrosinistra si mettesse su. La vittima: Randolfo
Pacciardi che il centrosinistra non voleva.
Poi, via via, tutti gli altri fascicoli. Gli ultimi riguardano il giovane Pier
Luigi Pagliai, assassinato in Sud America, perché non parlasse.
La tecnica del sasso in bocca non è solo mafiosa. È cominciata con il bandito
Giuliano e giunge fino ai giorni nostri. E se la mente è la classe politica di
vertice, il braccio è dei servizi. Le stragi seguono questo filo rosso. Chi è di
parere diverso o è «coglione», o è complice.
Arrivano i fascicoli. Fanno venire il vomito? Ben venga se serve a sputtanare
definitivamente questa classe politica di corrotti, dalle mani, spesso,
macchiate di sangue.
20 agosto 1983
Il «venerabile» Licio e la famiglia Di Bella
Il canale due della Rai-Tv, nel consueto telegiornale delle 19,45, ci ha
puntualmente e minuziosamente informati sulla fuga di Gelli dal carcere
svizzero.
L'informatore, il giornalista Antonio Di Bella.
* * *
Se non andiamo errati, l'assunzione alla Rai-Tv del giornalista Antonio Di Bella
è avvenuta senza concorso, per chiamata diretta, nel 1979, in piena crisi delle
testate giornalistiche e con numerosissimi disoccupati.
La "Tribuna Stampa" (n° 8/1979), organo dei giornalisti lombardi, polemizzò
vivacemente su questa lottizzazione.
* * *
Perchè Antonio Di Bella veniva assunto per chiamata diretta? Cerchiamo di
indovinare. Ma perché, a quei tempi, Franco Di Bella padre di Antonio, era,
nientemeno che il Direttore del "Corriere della Sera". Sedeva sulla prestigiosa
sedia di Via Solferino, in Milano.
Questo «particolare», nella chiamata di Antonio alla Tv, può avere influito
sulla scelta, o no?
Ritengo di sì Franco Di Bella, a quei tempi, era potente e protetto.
* * *
Infatti la sua nomina al "Corriere" è del 30 ottobre 1977. Bello il suo articolo
di investitura. Rileggiamolo insieme.
«Il Corriere della Sera», scriveva Franco Di Bella, «seguirà attentamente la
crisi di crescita del Paese, sempre pronto a raccogliere tutte quelle voci
autenticamente pluralistiche che costituiscono l'unico patrimonio di una
democrazia in evoluzione» (il 1977 è l'anno in
cui il partito armato passa all'azione diretta, ad assassinare, N.d.R.).
«Un grande giornale come il Corriere della Sera», continuava Di Bella (Franco),
«riscattato dalla Resistenza dopo i giorni bui del '43 e del '44, un giornale
che ha fatto la Repubblica, un giornale che ha dato un contributo così prezioso
alla Carta Costituzionale, che si è battuto contro la rinascita del fascismo,
che ha schiuso la via del divorzio, non può che continuare su questo cammino
...».
* * *
Belle parole. Sono del 30.10.77. Giampaolo Pansa, cinque anni dopo su "la
Repubblica" (15.9.82) scriverà: «Di Bella è il primo Direttore della storia
democratica del "Corriere" che l'editore nomina dopo una consultazione dei
partiti. Con i partiti legali (DC, PCI, PSI) ma anche con il partito illegale e
invisibile, guidato da Gelli. Don Licio ha un ruolo decisivo nella nomina di Di
Bella. Nell'ottobre 1977, Rizzoli porta il suo candidato all'Hotel Excelsior per
l'incontro con il Maestro Venerabile.
Nei giorni successivi a questo esame, l'editore prepara la bozza di contratto.
Di Bella l'esamina e, non soddisfatto di qualche clausola, riprende la strada
dell'Excelsior e va a lamentarsi da Gelli. Il Maestro Venerabile interviene su
Angelo Rizzoli e tutto si appiana.
Due mesi dopo (23.12.77) Di Bella, con una sua lettera, testimonierà a Gelli
«riconoscenza e devozione».
* * *
La resistenza, l'antifascismo, la Carta Costituzionale, la Repubblica. Sono le
parole con cui Franco Di Bella si presenta; sono parole che, come bandiere,
serviranno anche a piazzare nel 1979 suo figlio Antonio alla Rai/Tv, per
chiamata diretta.
Nei fatti la P2, con Franco Di Bella, si insediava a Via Solferino, diventava
potente, arruolava ministri, generali, ammiragli, capi partito, magistrati,
banchieri. E dal Grande Maestro andavano editori, giornalisti, rappresentanti
delle Istituzioni e dei potentati economici.
* * *
Ecco perché, soprattutto per ragioni di buon gusto, avremmo preferito che a
darci notizie su Gelli in fuga, dal canale 2 della TV di Stato, fosse stato un
personaggio diverso dal figlio di colui che a Gelli doveva «riconoscenza e
devozione».
Un interrogativo: quanto antifascismo è fatto di questa pasta (fasulla)?
* * *
Giovanni Spadolini, rendendo omaggio all'Altare della Patria e alle Fosse
Ardeatine nella sua veste di Ministro della Difesa ha, fra l'altro ricordato «la
tradizione di fedeltà alle Istituzioni dei militari italiani, una qualità, ha
detto, dai cui scaturì la prima resistenza, la quale, anticipando le gloriose
esperienze del movimento popolare e nazionale sorrette da diversi filoni ideali,
disse a tutto il mondo che c'era un'altra Italia» ("Il Giornale", 11.8.83)
* * *
Un'altra Italia. È una frase che mi hi fatto ricordare che Giovanni Spadolini
parlò di «un'altra Italia» anche il 22.4.194 quando, dalle colonne di "Italia e
Civiltà", commemorando Giovanni Gentile assassinato da poche ore, scrisse queste
parole:
«Strano e paradossale davvero, il concetto che tanti hanno del traditore
d'Italia, secondo il quale, alla fine, traditore, diventa colui che al pari del
glorioso scomparso di oggi (Giovanni Gentile, N.d.R.), agisce ed opera
politicamente sul terreno della realtà e della fatalità storica italiana, colui
che rispetta i patti, che riscatta l'onore, che rivendica la tradizione che
difende la civiltà classica cattolica, al d fuori e al di sopra di pregiudiziali
di partito, colui che soffre e combatte e si impegna perchè all'Italia.
spregiata e umiliata, avvilita e smembrata e quasi inerme, siano restituiti
dignità di Nazione, prestigio di popolo, coscienza di stato, unità di spirito,
volontà di potenza, stimolo di grandezza, desiderio ardentissimo di salire, di
allargare il proprio respiro, di nobilitare la propria esistenza; e vero
patriota chi, invece, si adopera, in un modo o nell'altro, a che l'Italia sia
quella terra di straccioni e di pezzenti, di servi e di lacchè, di albergatori e
di mezzani che corrisponde ai desideri del la parte più spregevole e degenerata
della nostra razza».
Queste belle parole di Giovanni Spadolini del 22 aprile 1944 le dedichiamo a Leo
Valiani.
* * *
Molti, con stupore e meraviglia, si chiedono ancora il perché Eugenio Scalfari,
durante la campagna elettorale, dalle colonne de "la Repubblica", abbia fatto un
tifo infernale per Ciriaco De Mita.
La spiegazione sta forse in un pranzo. A ventiquattro ore di distanza dalla sua
elezione a segretario nazionale della DC, Ciriaco De Mita, si trovava in Via
Ignazio Guidi, nell'abitazione di Flavio Carboni, portaborse di Calvi, ora
recluso.
Che ci faceva? Con lui, allo stesso tavolo oltre Carboni, c'erano il
repubblicano Armando Corona, Gran Maestro della massoneria, monsignor Hilary del
Vaticano, il presidente DC della Giunta sarda Angelo Roich e Carlo Caracciolo,
l'editore, insieme a Scalfari, de "la Repubblica".
Il patto "De Mita - Repubblica - Scalfari" nasce in casa Carboni. Un pizzico di
Vaticano e di massoneria non poteva mancare. E nemmeno, con Carboni, i soldi
dell'Ambrosiano.
Bello no?
* * *
Sandro Pertini aveva promesso: non riceverò, non stringerò più la mano a coloro
che sono comparsi sugli elenchi di Licio Gelli.
Quattro agosto 1983, ore 11,30, Quirinale giuramento dei Ministri. Pietro Longo,
neo ministro, giura fedeltà nelle mani di Sandro Pertini. Il Presidente della
Repubblica: «Sono veramente soddisfatto. Ora me ne andrò in Val Gardena».
27 agosto 1983
Spadolineide
Un grande titolo su "la Repubblica" (19.8.83). «Spadolini invita Craxi a dare
segni di volontà sulla questione morale».
Benissimo; Craxi faccia il suo dovere, ma altrettanto deve fare Giovanni
Spadolini. Perché il PRI è tutt'altro che quella specchialissima casa di cui si
parla. Anzi.
* * *
La Commissione Antimafia, di cui ho fatto parte, sottopose a stringente
interrogatorio il repubblicano onorevole Aristide Gunnella (26.3.1971), e
quell'interrogatorio battè, in modo particolare, su un punto: come mai il PRI,
con il candidato Gunnella, prima che quest'ultimo assumesse alla "Sochimisi"
(azienda mineraria regionale), di cui era consigliere delegato, certo Di
Cristina Giuseppe, incontrastato boss mafioso della zona mineraria, prendeva
scarsissimi voti? E come mai, dopo l'assunzione di questi, avvenuta alla vigilia
delle elezioni politiche del 1968 (28.2.68), grazie a Gunnella, per il PRI (e
per Gunnella) vi fu il grande balzo elettorale?
* * *
Aristide Gunnella, dai 4.000 voti di preferenza presi il 28.4.63 (IV
legislatura) passa il 19.5.68 (V legislatura) a più di 18.000 voti preferenziali
e, grazie ad Ugo La Malfa, che per lui opta per il collegio dì Catania, diventa
deputato.
La cittadina di Riesi. patria del Di Cristina, che di solito dava al PRI non più
di trenta voti, dopo l'operazione mafiosa dell'assunzione alla "Sochimisi" del
Di Cristina, da al PRI 323 voti, di cui 262 sono per Gunnella.
Particolare interessante: il Di Cristina Giuseppe, già sotto processo per
omicidio, viene assassinato nel maggio 1978 a Palermo. In tasca gli trovano
assegni per il valore di tre miliardi di lire. Traffico di eroina.
* * *
Giovanni Spadolini, sul caso Gunnella, ha sempre taciuto, per poi, nei fatti,
schierarsi dalla parte di Gunnella, amico del boss mafioso Di Cristina. La
questione morale, per cui nella Sicilia occidentale il PRI odora fortemente di
mafia (e l'accusa è contenuta negli atti della Commissione Antimafia) sembra non
interessare Giovanni Spadolini. Passa oltre. Con una disinvoltura disarmante.
* * *
Ma ora, dopo le elezioni del 26.6.83, il PRI che sa di mafia in Sicilia, puzza
addirittura di 'ndrangheta in Calabria. È un balzo di qualità. Infatti questa
«'ndrangheta», che il PRI in Calabria predilige, non ha nulla a che fare con la
vecchia mafia agricola, ma piuttosto con quella «onorata società» che,
modernamente, facendo ricorso alle categorie di impresa e di imprenditorialità,
svolge nella zona, con il delitto e per il delitto, il ruolo di accumulazione
del capitale. Mafia imprenditrice e PRI: è il tema del giorno. E tutti, a
cominciare da Spadolini, fanno finta di nulla. E la questione morale?
Anche la stampa di informazione, la TV, i sociologi fanno orecchie da mercante.
Uno sguardo ai voti. È vero: il PRI guadagna in voti e in percentuale su tutta
l'area nazionale; ma la Calabria fa storia a sé e, in particolare, la provincia
di Reggio Calabria dove l'edera passa dal 2,3% al 6,2%.
È un salto troppo anomalo per passare inosservato, anche perché nel collegio
"Reggio Calabria - Catanzaro - Cosenza" non sono candidati né Spadolini, né
Susanna Agnelli, né Visentini, né Arisio. Qua i candidati si chiamano Nucara.
E come sono possibili guadagni così clamorosi?
* * *
Replicherete: ma non vi pare di essere un po' troppo spericolati con un'accusa
del genere? Come è possibile: il PRI, il partito del perbenismo, della pulizia
morale, del limpido ragionare, il partito raziocinante per eccellenza, il
partito di Spadolini, Leo Valiani. Bruno Visentìni, come è possibile che
colluda, in Calabria, con la mafia e quella più spietata, più crudele, più
sanguinaria?
* * *
Il prof. Pino Arlacchi, professore universitario nell'Università di Calabria,
studioso ascoltatissimo del fenomeno mafioso, le cui interviste compaiono
periodicamente su "il Corriere della Sera" e su "la Repubblica" (l'ultima il
18.8.83 sull'assassinio a Palermo del giudice Chinnici) ha scritto, edizione il
Mulino, un libro, dal titolo "La mafia imprenditrice". È dell'aprile 1983.
A pagina 204 trovo riportale queste affermazioni che affido, oltre che al
lettore, all'attenzione delle autorità competenti:
«L'ingresso diretto dei familiari dei mafiosi nel personale politico riguarda in
massima parte la provincia di Reggio Calabria. Vediamolo più attentamente. A
subire le maggiori pressioni è il PRI. Un gruppo di intellettuali laici che tre
anni fa stava conducendo uno sforzo di rinnovamento è stato estromesso in
blocco. Il PRI ha espresso un consigliere regionale, cui potrebbe essere
affidato il ruolo di assessore. È Pietro Araniti, di professione consulente
fiscale. I suoi cugini, Santo e Domenico, sono i «boss» della zona di Gallico,
Sambatello, e Cafona. Un altro parente di mafiosi eletto nelle liste
repubblicane alla Provincia è Pietro Ligato, veterinario comunale, figlio di un
vecchio boss in disarmo, genero di Antonio Macrì, il padrino di Siderno. Fino a
poche settimane prima, Pietro Ligato era candidato nelle liste democristiane,
poi è passato al PRI che ha visto crescere in maniera inconsueta i suoi voti
nella zona. Ancora un parente delle cosche: Antonio Libri, figlio di Domenico,
uomo del clan De Stefano, pure lui nel processone dei sessanta, condannato in
appello a cinque anni, inviato al soggiorno obbligato, oggi in libertà
provvisoria per «motivi di salute»: è risultato primo eletto nelle liste del PRI
per i consigli circoscrizionali a Reggio... Tra Pietro Araniti, repubblicano
passato alla Regione e Giorgio De Stefano, democristiano eletto al Comune, si
assiste a un chiaro travaso di voti. È un vero e proprio travaso fra cosche.
Nelle stesse sezioni dove l'elettorato ha premiato Araniti, nei voti per il
Comune il PRI praticamente scompare e le stesse preferenze passano a De Stefano.
Ora, tutto questo ha bisogno di avalli anche politici. Se Nucara è il padrino
dei "nuovi" repubblicani calabresi, i padrini democristiani nella stessa
operazione sono il deputato Vico Ligato e il senatore Nello Vincelli,
quest'ultimo... sottosegretario ai trasporti».
* * *
Senatore, nonché Ministro, nonché segretario nazionale del PRI, Giovanni
Spadolini, moralista di professione, che ne dice di ciò che abbiamo scritto?
Nucara Francesco, da Reggio Calabria, è ora un suo deputato. Come intende
comportarsi? L'accusa è precisa: il PRI, in Calabria, è mafia. Che fa? Fa finta
di nulla? Snobba il tutto?
Faccia pure, ma si ricordi che, in Parlamento, ci siamo anche noi. E non passerà
giorno che non le ricorderemo la questione morale. La sua questione morale,
vistosissima. Come la sua imponente mole. E non sarà facile (per lei) evitarla.
* * *
Dimenticavamo. Giovanni Spadolini aveva preso, nella passata legislatura,
solenne impegno di restituire alla "Italcasse" i 400 milioni che il PRI, tramite
Ugo La Malfa, si era preso per conto dei petrolieri (1974), perché non si
costruissero Centrali nucleari.
Quella «restituzione» non è ancora avvenuta. C'è da riparare una truffa. Si
affretti, senatore Spadolini, si affretti a pagare. La «questione morale» urge.
Dia, in questa materia, un segno di buona volontà. Non perda tempo. Perchè,
altrimenti, ci perde la faccia.
3 settembre 1983
I ribelli conformisti
Gaetano Afeltra ci racconta, dalle colonne de "il Corriere della Sera" (21/8)
come il fascismo tentasse, senza riuscirci pienamente, di asservire ai propri
voleri la (si fa per dire) gloriosa testata di via Solferino, in Milano.
Una serie di storielle, davvero curiose, che non sto a descrivere perché, più
della drammaticità di cui Afeltra vorrebbe rivestirle (data la cattiveria della
Dittatura), vengono fuori episodi esilaranti e cinici al tempo stesso (Piovale
antifascista? E le parole di elogio tributate da costui al volume razzista dì
Interlandi "Contro Judaeos" nel 1939 come le cataloghiamo?), protagonista un
antifascismo salottiero, utilitario, meschino, da quattro soldi; un'offesa per
coloro (e sono pochi) che, per desiderio di antifascismo, soffersero sul serio.
* * *
Se quello descritto da Afeltra era veramente la crema del giornalismo
anti-regime, ha ragione Indro Montanelli che, in un celebre articolo di 28 anni
fa ("Proibito ai minori dì 40 anni", il "Borghese" 4.2.55), scrisse che gli
atteggiamenti ribelli di allora contro il fascismo non differenziavano da quelli
conformisti e bigotti di altri perché, entrambi, perseguivano lo stesso fine:
sistemarsi, guadagnarsi, nel regime, un posto, un posto al sole. Si arrivava,
scrive Montanelli, disobbedendo con la stessa ansia con cui molti altri volevano
arrivare obbedendo.
Antifascisti, ma sulla poltrona. E che poltrona! Pagati, profumatamente.
* * *
Si dà ora il caso che, nel momento in cui il nostro Afeltra scriveva queste
melanconiche note sul foglio di Via Solferino durante il fascismo, dalle
Bahamas, spuntassero documenti dì Calvi, in cui si raccontano le «segrete»
vicende (democratiche, per carità!) circa il mercato delle testate
giornalistiche che, come vacche, vengono comprate dal miglior offerente.
Quelle carte che cosa dicono? Che Eugenio Cefis, membro autorevole della
Resistenza, nonché Presidente della Montedison, stipula con Angelo Rizzoli un
patto di ferro: io do a te Rizzoli i miliardi e tu metti a disposizione della
Montedison e della sua politica la (si fa per dire) gloriosa testata di Via
Solferino, "il Corriere della Sera".
Patto scellerato, scrive "la Repubblica" (23.8). La data scellerata: 24 aprile
1974, anno ventinovesimo dell'era resistenziale e democratica.
* * *
Sicché Eugenio Cefis comprava giornali, editori, giornalisti, tipografi. Come
vacche.
Ma noi siamo in grado di precisare che a quei tempi Eugenio Cefis non si
limitava solo a comprare «penne» e «carta stampata», ma comprava il Parlamento e
la magistratura.
Il "Secolo" ("Rosso e nero", 20.9.79) ha già documentato la grave affermazione
che abbiamo fatto. A grandi linee la riproponiamo. Soprattutto perché, in tempi
di confronti (fascismo-antifascismo), non fa poi tanto male mettere in luce come
l'antifascismo, in certe materie, abbia raggiunto delle «finezze» che il
fascismo non si è mai sognato, non dico di realizzare, ma di pensare. Davvero
irripetibile questo antifascismo!
* * *
È il 27 aprile 1974. Il pretore Viglietta Gianfranco di Livorno condanna Eugenio
Cefis alla pena della reclusione, più il risarcimento danni alle parti civili,
perché ritenuto responsabile, quale Presidente della Montedison, degli scarichi
in mare, fra la Corsica e l'isola di Gorgona, di 3.000 (tremila) tonnellate
giornaliere di biossido di titanio, di cui all'11% di acido solforico,
provenienti dallo Stabilimento Montedison di Scarlino (Grosseto).
Particolare: a presiedere il collegio di difesa dì Eugenio Cefis è chiamato
l'avv. Giuliano Vassalli, oggi senatore del PSI.
* * *
Da quel momento (e noi lo abbiamo documentato con date e cifre mai smentite)
Parlamento e Magistratura, sotto il pretesto della difesa ecologica, procedono
di pari passo. E si ha questo spettacolo: la magistratura rinvia, di mese in
mese, di anno in anno, il processo di appello contro E. Cefis, fino a quando il
Parlamento, con procedure che hanno dello spericolato, riesce a varare la legge,
nel cui articolato c'è la norma che salva Cefis dalla galera.
* * *
E il 30 aprile 1976. Sono passati due anni dalla condanna, rimasta in sospeso,
di E. Cefis. In un solo giorno, anzi in poche ore, in Commissione Lavori
Pubblici della Camera, approva in sede legislativa, la norma salvatrice. Il
tribunale dì Livorno dichiara il non luogo a procedere. È il 7 luglio 1976.
* * *
Otto luglio 1976. Al collegio difensore di Eugenio Cefis arriva la seguente
lettera: «Ho appreso con viva soddisfazione la notizia della favorevole sentenza
di Scarlino e desidero esprimervi i miei più fervidi ringraziamenti e
rallegramenti per questo esito positivo. So con quanta volontà e passione avete
portato avanti il processo e quanto vi siate impegnati al fine di far sì che la
sua conclusione fosse posticipata rispetto all'entrata in vigore della nuova
legge Merli, che ha costituito il motivo della nostra assoluzione. Nel rinnovare
tutta la mia gratitudine, desidero farvi giungere i sentimenti della più viva
cordialità». Firmato, Eugenio Cefis.
* * *
1972: Massimiliano Gritti, braccio destro di Cefis e Presidente della
Montefibre, è un ex agente del SID. È cosi che, grazie al Grilli, ogni mattina,
sul tavolo di Cefis, per anni, compare un mattinale. È stilato dal SID come
rapporto informativo riservato. Spazia su tutto: dalla politica all'industria.
Cefis, dunque, ha potuto disporre del SID, cioè del più importante servizio di
sicurezza, come di una polizia personale a tempo pieno.
* * *
Ecco ora alcune informative giunte a Cefis il 22.9.1972 da parte del SID:
«On. Francesco De Martino, ing. Nino Rovelli, finanziamento Funzionario
amministrativo del gruppo SIR segnala che l'ing. Nino Rovelli ha versato nei
giorni scorsi un aiuto finanziario per la propaganda pre-congressuale dell'on.
Francesco De Martino in Campania».
«On. Ugo La Malfa, on. Francesco Compagna, Jean Louis Lehmann (Mobil Oil),
richiesta di sovvenzionamento. Fonte della segreteria del PRI segnala che l'on.
La Malfa ha dato incarico all'on. Francesco Compagna di chiedere a Jean Louis
Lehmann l'aiuto finanziario della Mobil Oil italiana per la campagna elettorale
del PRI in vista delle prossime elezioni».
«On. Marzio Zagari (PSI). costituzione agenzia stampa. Finanziamento ESSO. Fonte
diretta segnala che l'on. Mario Zagari ha dato vita ad una nuova agenzia stampa
intitolata "Agenzia socialista". Ha sede in Roma, Via Colonna Antonina 35. La
dirige, per conio di Zagari, un suo fiduciario, Giorgio Nardi. Zagari ha
ricevuto per questa Agenzia un aiuto finanziario della ESSO italiana».
* * *
Petrolio, quattrini, partiti, correnti. Cose note, cose inquinanti, cose
sporche, cose che sfoceranno, nel 1974, in episodi da codice penale, ma nessuno
ha pagato. Le abbiamo ricordate per un particolare che direttamente, come
famiglia politica, ci riguarda.
Quando Eugenio Cefis imperava, comprava giornali, assoldava i servizi,
distribuiva soldi a partiti, correnti, politici, il MSI subiva (sono gli anni
'70), dai vari centri di potere, o meglio bande, la più vendicativa fra le
rappresaglie politiche. Si veniva messi al bando. Linciati come assassini.
Ghettizzati come lebbrosi. Bruciati vivi.
In testa, in questa operazione-linciaggio: "il Corriere della Sera", il
quotidiano che oggi sappiamo essere stato al servizio, prima di Eugenio Cefis,
poi della P2 di Lido Gelli. E i Servizi a piazzare bombe davanti alle sedi
missine, perché l'inevitabile scontro desse sangue e morti. Sì concimava cosi la
terra. L'Italia (democratica) cresceva così.
Ricordiamocelo, cari amici, cari camerati. Non dimentichiamolo.
Questi possono ricominciare.
10 settembre 1983
Il Presidente e il suo Maccanico
Un finire di estate (politica) turbolento. Da Selva di Val Gardena il Presidente
della Repubblica, circa le polemiche sorte sulla sua mancata presenza al meeting
cattolico di Comunione e Liberazione di Rimini, per cui la sua defezione dalla
manifestazione sarebbe stata, per gli ambienti cattolici, opera della
massoneria, esce, con una intervista al «Corriere della Sera» (2.9), con questa
frase: «Chi vuole prendersela con me, troverà pane per ì suoi denti... Potrei
fare anche un taglio netto».
* * *
Il giorno dopo (3.9) "la Repubblica", per la penna del Direttore, così commenta
quella intervista: «Se dovessimo prendere per oro colato quanto riferito da
Sandro Pertini al "Corriere della Sera", dovremmo alquanto preoccuparci».
Risulterebbe, scrive Scalfari, che il nostro capo dello Stato non conosce la
natura di due importanti movimenti politici italiani e lì scambia per
associazioni ricreative di boy scouts; che la famosa storta alla caviglia, con
la quale giustificò la disdetta dell'appuntamento di Rimini, è stata una
malattia diplomatica: che dove va il Papa ci deve andare anche lui; che
Pannella, il quale nei giorni scorsi aveva scritto che occorreva garantire a
Pertini il suo mandato «per quanto credeva e fin quando la sua coscienza e i
suoi medici gli diranno che è nella pienezza delle sue capacità fisiche e
mentali» (sic! - N.d.R.), è, e resta, un suo amico.
Ce ne sarebbe, scrive Scalfari, quanto basta per preoccuparsi, ma c'è una
speranza: che il giornalista (Nicola D'Amico) abbia capito male, ma abbia preso
fischi per fiaschi. Pertini, conclude Scalfari, «è stato finora uno dei punti di
riferimento di tutti gli Italiani. Non si vorrebbe che proprio mentre il Paese
attraversa frangenti tanto delicati, quel punto di riferimento si appannasse».
* * *
Questo il 3 settembre. Si aspettano smentite, precisazioni. Nulla. Tutto tace,
anzi l'estensore dell'intervista Nicola D'Amico, rincara la dose e sul "Corriere
della Sera" (4 settembre), replica, sia a Comunione e Liberazione, sia a
Scalfari.
«Il Movimento Comunione e Liberazione non contento di aver provocato le recenti
polemiche che hanno sfiorato (sic! n.d.r.) il Capo dello Stato, giunge ora a
definire "ignobile" una parte della mia intervista al Presidente Pertini. Il
Presidente Pertini non ha smentito una sola parola del nostro colloquio ed è il
miglior testimone della mia correttezza professionale, anche di fronte a chi
dice di sperare nei miei lapsus».
* * *
Che si deve pensare di tutto ciò? Che sono iniziate le grandi manovre per
l'elezione del futuro Presidente della Repubblica, prevista per l'agosto 1985 e
che, tanto Pertini (che punterebbe al reincarico), tanto i concorrenti, già
si... allenano per tagliare per primi il traguardo?
Mancano due anni e se queste sono te avvisaglie, potete benissimo immaginare
cosa accadrà nei prossimi mesi...
Siamo già alla bagarre.
* * *
C'è chi dice che questo «pasticcio estivo» sia opera del Segretario, generale
del Quirinale, il dott. Antonio Maccanico, messo nuovamente sotto accusa di
collusioni massoniche (il passaporto a Calvi, via Zilletti-Oresti, così vogliono
sul Colle, ricordate?). Altri invece propendono nell'affermare il contrario,
cioè che l'assenza del dott. Maccanico, in ferie a Capri, per cui Pertini si è
trovato solo a decidere, sia stata la causa del pasticciaccio.
Propendiamo per la seconda ipotesi. Non è da oggi che riteniamo che «l'immagine»
che gli Italiani hanno di Sandro Pertini, sia opera anche di Antonio Maccanico,
il vero, autentico regista della politica del Quirinale.
* * *
Il Quirinale è limpido. Se c'è un collaboratore onesto e leale, questi è
Maccanico. Io accetto i suoi consigli, ma li non muove un dito senza il mio
consenso. Se no stato io a suo tempo a volerlo Segretario generale della Camera.
Maccanico è un irpino intelligente, è un uomo colto, un umanista. E fu
antifascista fin da ragazzo... Io mi fido e lui al cento per cento». (Sandro
Pertini, "Corriere della Sera", 2.9).
* * *
Questa storia dell'antifascismo (giovanile) di Antonio Maccanico non convince.
Del resto a smentire, in questo caso, il Presidente della Repubblica, è lo
stesso Maccanico. Infatti, su "l'Espresso" (17.1.83) alla domanda perché lui,
avellinese, avesse scelto quando si trattò di iscriversi all'Università, la
città di Pisa, Maccanico, con un discorso alquanto contorto (e sofferto)
risponde che, desiderando di essere ammesso alla prestigiosa Scuola Normale di
Pisa per la facoltà di giurisprudenza, «concorse, in verità, per l'ammissione al
Collegio giuridico annesso alla Normale che si chiamava Mussolini ...».
L'intelligente irpino, antifascista fin da ragazzo, qui non la racconta tutta.
L'articolo 1 della Convenzione, che istituisce il Collegio Mussolini annesso
alla Scuola Normale Superiore di Scienze Corporative di Pisa, recita: «Il
Collegio Mussolini di Scienze Corporative, istituito in Pisa con la Convenzione
12.XII.1931, registrato il 26.XII.31, anno IX dell'Era Fascista, ha lo scopo di
accogliere i giovani che intendano dedicarsi agli studi delle dottrine
politiche, economiche e giuridiche, secondo l'indirizzo corporativo».
* * *
Ora come si fa ad essere «antifascisti fin da ragazzi», quando si concorre
all'ammissione al Collegio Mussolini, il centro culturale per eccellenza del
fascismo, voluto e creato da Giovanni Gentile?
Per di più, il Regolamento interno delle Scuola Normale Superiore di Pisa
(Bollettino Ufficiale del Ministero Educazione Nazionale 8/5 1934, anno XII EF)
recita: «Non possono essere ammessi al concorso coloro che non attestino la loro
iscrizione alla Avanguardia Giovanile Fascista, ai Fasci Giovanili di
Combattimento o al PNF».
Quale di questi documenti ha esibito il giovane dott. Maccanico per essere
ammesso, a spese dello Stato Fascista, al Collegio Mussolini?
* * *
L'attacco freddamente e crudelmente condotto contro l'aereo di linea sud-coreano
da parte di caccia sovietici, che ha causato la morte di 269 civili inermi, è
non solo un aberrante atto di aggressione ma un crimine contro l'umanità intera,
che desta orrore in tutti gli uomini amanti della pace».
(Sandro Pertini, Presidente della Repubblica ad Andropov, 4.9.83).
* * *
«Questo patto è rivolto contro l'URSS. Ma se per dannata ipotesi, l'URSS dovesse
crollare, crollerebbe il sostegno principale di tutte le forze progressive
dell'umanità e della pace».
(Sandro Pertini, 4.4.1949, all'atto della sottoscrizione a Washington del "Patto
Atlantico" da parte del Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Gran Bretagna,
Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Portogallo, USA, per la
sicurezza, la difesa collettiva e la preservazione della pace).
24 settembre 1983
L'Artista-Maestro del neo-assenteismo e
l'ex-repubblichino che fa il repubblicano
Renato Guttuso: 144 milioni «sofferti» in 4 anni di laticlavio, 2 interventi e
tante belle parole spese a «requiem» della «seconda fine» di Pompei
Quando Spadolini non aveva ancora la pancia da cardinale laico e ardiva
biasimare, sulle colonne di una rivista fascista, l'italico malvezzo di
«tagliarsi gli attributi della propria virilità (nazionale)»
* * *
Ho, davanti a me, il resoconto dell'attività parlamentare del senatore, il
celeberrimo pittore Guttuso Aldo Renato. Riguarda gli anni 1979-1980-1981-1982.
Ricordo che alla decisione di lasciare il Senato, Enrico Berlinguer gli inviò un
telegramma caldissimo, ringraziandolo della «prestigiosa» opera prestata, in
qualità di senatore della Repubblica italiana, a favore del popolo. Vediamo
questa «opera».
* * *
Nel 1979 parla una sola volta. Il 24 ottobre, in Commissione Istruzione, sul
rendiconto generale dell'amministrazione dello Stato per l'esercizio 1978. In
contemporanea, fra indennità e altri «ninnoli», incassa per il 1979 trentasei
milioni.
Nel 1980 non c'è traccia di attività se non presso la Tesoreria del Senato dove
il celebre pittore Guttuso Aldo Renato si reca per percepire, in nome del Popolo
(che non serve), altri trentasei milioni.
Nel 1981 interviene il 3 febbraio in aula sulla discussione del provvedimento
per la conservazione, il restauro e la valorizzazione dell'antica Pompei e del
suo territorio. Il 31 marzo, sempre in aula, in sede di interrogazione, per
cinque minuti, si interessa della salvaguardia dei beni culturali nelle zone
terremotate. Il tutto per altri trentasei milioni.
Nel 1982 si limita a firmare due proposte di legge (28.1 - 9.2, data di
presentazione) sulla conservazione e valorizzazione dei beni culturali e
ambientali. E passa dalla Cassa per ritirare altri 36 milioni.
1979-1980-1981-1982: 144 milioni. Mica male per essersi recato in Senato» sì e
no, tre volte l'anno!
D'altra parte è lo stesso Guttuso Aldo Renato a riconoscere la bontà di quanto
scriviamo. Il 6 dicembre 1981, intervistato da "l'Espresso" dichiarava: «In
Senato ci vado poco; ogni tanto mi ordinano (sic!, N.d.R.) di fare un
intervento, allora lo faccio».
Un giudizio? Grande artista, pessimo parlamentare, formidabile... incassatore!
* * *
Gaetano Afetra continua a raccontarci le vicende del "Corriere della Sera" nei
45 giorni badogliani. Nell'articolo dell'8.9, ricordando le vicende dell'otto
settembre 1943, si legge: «Milano era in mano ai nazisti. Gli operai fremevano.
Le armi erano arrivate ben oliate. Via Solferino divenne per qualche giorno
l'Alcazar del giornalismo. Certo con i "Tigre" di Hitler non si poteva resistere
a lungo. Ma l'animus c'era. Tacchini, Fraschini, Zacchertti e altri operai,
notte e giorno, a turno, erano sui tetti, pronti a dare l'allarme per difendere
il loro giornale, il "Corriere" era un osso duro anche per i Tedeschi...».
* * *
A leggere la prosa di Gaetano si trattiene il fiato. Ora chi sa che cosa accade:
sparatorie, morti, feriti, una carneficina!
Niente di tutto questo. Il nostro Gaetano prosegue e scrive: «I tedeschi
capirono e fecero agire i fascisti. Dopo sei giorni, per ordine delle autorità
civili, il Giornale riprese ad uscire».
E le armi ben oliate? E la guardia sui tetti? E l'animus di resistere? E
l'Alcazar del giornalismo?
Abbiamo pensato: Afetra,ce lo racconterà nella prossima puntata, ma poi ci siamo
accorti che, con questo racconto, si chiudeva la rievocazione di Gaetano.
Un Alcazar, dunque, in tono ridotto. Molto ridotto. Come, del resto, salvo
rarissime eccezioni, tutta la lunga vita del "Corriere della Sera". Infatti là
dove nemmeno i "Tigre" di Adolfo Hitler poterono, Gelli, Ortolani, Rizzoli e
Tassan Din (senza Tigre)... sfondarono il tutto. Con i miliardi della P2.
* * *
Il "Corriere della Sera" ci informava che Giovanni Spadolini aveva celebrato, in
Germania, il 25 aprile. Ora (8.9.83) ce lo dà presente a Milano, nella sua
qualità di Ministro della Difesa, a celebrare l'anniversario dell'8 settembre e
sottolinea questa sua frase: «La Repubblica dura e pura che sognammo durante la
Resistenza». Andiamo avanti, Spadolini è infaticabile. Infatti il 13 settembre
c.m. è a Roma, con Pertini, a ricordare il 40° anniversario della battaglia di
Porta San Paolo contro i nazisti. Non si ferma. Il 19.9 vola a Cefalonia e,
commemorando l'eccidio, parla degli Italiani che in terra straniera, nel
disfacimento dello Stato dopo P8 settembre, «scelsero la via dell'onore e della
dignità».
* * *
Tutti conoscete quale via scelse Giovanni Spadolini dopo l'8 settembre 1943. Si
dirà: non era in grado di capire, era giovane, non connetteva, certo è che a 19
anni scriveva bene e, a proposito della guerra, nel marzo 1944, su "Italia è
Civiltà", vergava queste parole: «L'Italia di Mussolini, grande potenza, non
poteva appartarsi da un conflitto in cui si poneva in gioco il destino
dell'intero mondo... poiché un popolo non acquisterà mai pace e riposo e
rispetto e sicurezza col tagliarsi gli attributi della propria virilità
nazionale».
* * *
Non solo, ma tutta la famiglia di Giovanni Spadolini, a cominciare dal padre,
Gino Spadolini, pittore, capitano, era schierata sulla «via dell'onore e della
dignità» (quella di Benito Mussolini). Tanto è vero che quando suo padre cadde
vittima del bombardamento alleato su Firenze dell'11 marzo 1944, le autorità
della Repubblica Sociale Italiana gli riservarono onori di primo grado. Il
Sindacato Nazionale Fascista Belle Arti, di cui il prof. Gino Spadolini era
Segretario regionale, annunziò la morte del «pittore», «caduto sotto
l'incursione nemica nell'adempimento del proprio dovere che lo portava a
soccorrere i feriti, lui che aveva saputo abbandonare la tavolozza e i pennelli
per indossare una divisa» (Mirko Giobbe, "La Nazione", 15.3.44, anno XXII
dell'Era Fascista).
* * *
Ebbene, la sapete l'ultima? Giovanni Spadolini, tanto ha brigato e fatto che è
riuscito, nel 1979, a far conferire alla memoria di suo padre, dal CLN, la
medaglia d'oro per meriti partigiani!
* * *
Il trasformismo (se cosi si vuol chiamare) di Giovanni Spadolini ha assunto toni
e forme insolenti. Anche la memoria del padre, se serve a buttarlo sul proscenio
e a far carriera, può essere strumentalizzata e manomessa!
Basta poi guardare come ha ridotto il PRI, il suo palcoscenico. Da partito di
autentico popolo, è divenuto al Nord il partito di Gianni Agnelli, e al sud di
Nucara Francesco e di Aristide Gunnella, tutti e due accusati di essere
«espressione» della mafia.
E lui, Giovannone, ad occupare la scena: da mattina a sera, vestendo tutti gli
abiti (politici) possibili, purché riescano a lanciarlo sul proscenio!
E Mazzini? E chi è mai costui?
* * *
Un terremoto che non accenna a finire. Tutto il PSI del Savonese, la terra di
Sandro Pertini, è finito in galera. Con il Presidente della Giunta della Regione
Liguria Teardo, sono finiti «dentro» i sindaci di Albenga e Finale Ligure,
l'ex-deputato Paolo Caviglia, Presidenti e amministratori di Casse di Risparmio,
delle Camere di Commercio, dell'Ente autonomo Case popolari, della
Confesercenti, della Società gestione Aeroporto, del Comitato tecnico
urbanistico della Regione, personaggi sindacali, della Finanziaria Ligure, di
Società sportive. L'accusa: appartenenza ad associazione a delinquere di stampo
mafioso. Con uso di esplosivo per i riottosi.
Particolare curioso: fra gli arrestati Leo Capello, consigliere di
amministrazione della Cassa di Risparmio, albergatore, candidato al Senato per
il PSI, Presidente del Savona Calcio.
Quando, insieme a Teardo, si recava a Roma, dormiva al Quirinale. È il primo
Cavaliere al merito della Repubblica insignito da Sandro Pertini. il 29 luglio
1978.
1 ottobre 1983
I comunisti e la mafia
Oscar Luigi Scalfaro è stato ascoltato (15.9) dalla Commissione parlamentare
antimafia. In qualità di ministro dell'Interno. Il suo è un ritorno. Infatti il
14.2.1963, più di venti anni fa, con la legge che istituiva la Commissione
parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia, Oscar Luigi Scalfaro veniva
designato dalla DC quale membro della stessa, e il 6 luglio 1963 veniva eletto
vice presidente della Commissione, insieme al senatore Girolamo Licausi del PCI.
* * *
Ahimè, dopo appena pochi mesi, Oscar Luigi Scalfaro se ne andava, (24.4.64) con
una lettera generica, senza significato.
Sulla natura di quelle dimissioni, Oscar Luigi Scalfaro ha mantenuto il più
impenetrabile dei silenzi. Un silenzio che è parso tutto «democristiano»,
lontano dal carattere che si vuole attribuire al ministro.
Perché ora non svela quel segreto?
Non è una questione «pettegola», è una vicenda, ne sono convinto, che aiuterebbe
a capire come stavamo (e come stanno) le cose.
* * *
Al posto di Oscar Luigi Scalfaro, il 24.5.1964, viene eletto vice presidente
della Commissione Antimafia, l'onorevole Antonino Gullotti da Messina, più volte
e anche ora ministro della Repubblica, un leader (da sempre) della DC.
* * *
Particolare da non trascurare. La sua elezione a vice presidente della
Commissione parlamentare antimafia dette vita a proteste molto vivaci: infatti
l'attuale ministro democristiano venne accusato di essersi fatto fotografare
accanto a Genco Russo, un capo mafia, un mammasantissima dì tutto rispetto.
* * *
Ho davanti a me un foglio. È ingiallito dal tempo. È di 40 anni fa, esattamente
24 giugno 1944. Si tratta di un settimanale, "La voce comunista", della
Federazione provinciale dì Palermo del PCI. Sotto il titolo «La mafia» esprime
concetti e intendimenti un po'... diversi da quelli che -comunemente- esprime
oggi il PCI. Ascoltate:
«I componenti della vecchia mafia nella lotta per la conquista della terra non
avranno più bisogno di mettersi fuori legge: solo adattandosi ai nuovi tempi ed
ai nuovi bisogni di unione con tutti i lavoratori essi potranno realizzare le
loro aspirazioni ed emanciparsi economicamente come tutti i contadini. Il
separatismo e la mafia hanno interessi diametralmente opposti: se oggi questa è
allettata dai latifondisti con lauti stipendi e larghi utili per il concorso al
contrabbando, è perché essa è utile; ma se per caso domani i latifondi si
dovessero di nuovo consolidare, troverebbero un altro Mori per reprimere
nuovamente i loro alleati. Separati dall'Italia i latifondisti potrebbero essere
ancora forti per difendere i loro privilegi e il loro dominio, ecco perché sono
separatisti. Il trionfo del separatismo significherebbe dunque il consolidamento
dei latifondisti, l'accentramento della proprietà, l'esclusione dalla terra
degli stessi mafiosi che continuerebbero se mai in sott'ordine a ricoprire il
ruolo di sicari prezzolati».
* * *
Giancarlo Pajetta (quanto mutato da quello!), da un pezzo a questa parte,
compare, quasi giornalmente, alla TV di Stato. È diventato un ninnolo. O è
perché deve ritirare un premio letterario per le sue memorie di «ragazzo rosso»
o è perché la TV deve chiedere a lui un autorevole parere sull'Afghanistan,
sulla Polonia, sull'aereo abbattuto, o su qualche altra birbonata commessa
dall'URSS.
Fa tenerezza, tanto tenerezza. Soprattutto perché, malgrado ce la metta tutta,
l'antico scatto -lo si vede lontano un miglio- è del tutto appannato, è perduto.
Specie quando, per difendersi, ricorre al contropiede e se la prende con il
fascismo e con Mussolini.
D'accordo: è stato un comunista coerente, coraggioso, degno di stima. L'unico
neo è che oggi, dopo tutto quello che è accaduto nel mondo, lui, personaggio
dalla sincerità istintiva, stenti ancora a riconoscere che se oggi è «in prima
fila», fra belle donne, fra l'intellettualità più vistosa, piena di lustrini,
accanto a magnati del denaro, nel luccichio del mondo borghese, tutto ciò lo
deve, ahimè, a Benito Mussolini.
Non se ne offenda l'onorevole Pajetta, ma se Mussolini non avesse capito (lui
solo!), sessantaquattro anni fa, «che l'URSS non era un regime socialista, ma
una autocrazia rossa con i suoi zar, i suoi arciduchi, i suoi funzionari, i suoi
poliziotti, le sue forche» (parole di Mussolini del 1919), dove sarebbe oggi
Giancarlo Pajetta, con un comunismo vincente nel 1919?
La previsione non è difficile: con il suo carattere Beppino Stalin l'avrebbe
mandato al creatore.
Ed invece quel Mussolini! Come è ingrato il mondo, onorevole Pajetta!
* * *
Pertini è andato a Plevlja, in Jugoslavia, ad inaugurare un monumento in memoria
dei soldati italiani che, da partigiani dopo l'8 settembre, morirono
combattendo, a fianco di Tito, contro i tedeschi.
È stato fatto notare che a Plevlja i partigiani della divisione Garibaldi non
avevano mai combattuto, ma se mai lo avevano fatto i reparti della divisione
alpina Pusteria che, in una dura ed epica battaglia contro le forze titine,
avevano avuto morti, feriti, prigionieri trucidati sul posto.
A Pertini è stato chiesto: porta un fiore, dì una parola, se non sulle tombe che
non esistono più perché le ruspe jugoslave le hanno distrutte, almeno al ricordo
di quanti, italiani, caddero in quei giorni. Sappi essere Presidente di tutti
gli italiani! Ricorda gli uni e gli altri, ormai accomunati nella morte!
* * *
Il "Corriere della Sera" (22.9.83) ci informa che Sandro Pertini, a quella
umana, civile richiesta di portare un fiore alla memoria di quei «desaparecidos»
italiani, cancellati dalla... civiltà titina, ha risposto di no, dicendo: •
«Non ho mai inteso, né intèndo oggi spogliarmi dell'altra veste che non cesserò
mai di indossare: quella di antifascista, di resistente, di partigiano».
* * *
Il Cancelliere tedesco Konrad Adenauer, antinazista, quando si recò in Russia a
conferire con Giuseppe Stalin, avendo saputo che il cerimoniale prevedeva che,
prima di incontrarsi con il dittatore, avrebbe dovuto passare per un lungo
corridoio dove ai lati erano appese le bandiere dei reggimenti tedeschi,
strappate in battaglia dai russi nella 2ª guerra mondiale, richiese e ottenne
che fossero tolte.
«Si, sono e resto antinazista, ma oggi sono Capo della Nazione tedesca, di tutta
la Nazione tedesca e ho il dovere di tutelare la memoria storica della mia
Patria, nelle sue luci e nelle sue ombre», disse Konrad Adenauer.
* * *
Che differenza c'è fra Konrad Adenauer e Sandro Pertini? Che il primo è uno
statista e tale resta, il secondo un Presidente-partigiano e tale resta. Il
primo ha scritto storia, il secondo scrive cronaca.
* * *
D'altra parte il Presidente della Repubblica non è nuovo a queste cose. Nel
giugno del 1979 Pertini, in visita alla città di Firenze, venne avvicinato nel
foyer del Teatro Comunale, dal giornalista Alfonso Ughi, presidente nazionale
dell'Italia Irredenta, che gli rivolse la calda preghiera, come Presidente di
tutti gli italiani, di visitare, sul Carso, le fosse di 20.000 italiani
infoibati dai titini, anche partigiani, colpevoli solo di essere italiani e di
volere rimanere tali.
Il Presidente rispose: «Le assicuro che io sono Presidente di tutti gli
italiani, non dubiti, vedrò se potrò farlo».
* * *
L'incontro fra Sandro Pertini e Alfonso Ughi venne raccontato in una lettera
dello stesso Ughi che, inviata al "Secolo" e al "Corriere della Sera", venne
pubblicata dal primo il 24.6.79. Quella indirizzata al "Corriere" subì traversie
che vale la pena di raccontare.
* * *
Infatti, l'allora direttore del "Corriere", il dott. Franco di Bella, appena
ricevette la lettera che pregava il Capo dello Stato, come da sua promessa, ad
andare sul Carso a rendere omaggio alle tombe degli infoibati, ritenne suo...
dovere spedirla a Pertini, perché desse il suo consenso alla pubblicazione.
E a Di Bella, il 30.7.1979, protocollo 3164, pervenne, da parte del capo del
servizio stampa del Presidente della Repubblica, allora Antonio Ghirelli, la
seguente lettera:
«Caro Di Bella, in merito alla lettera del presidente della Associazione
Nazionale Italia Irredenta, ti faccio sapere che il Presidente Pertini lo
ringrazia moltissimo ma preferisce non rispondere e non entrare nel merito del
problema adombrato da questa lettera. Egli, infatti, si trova -e te lo comunico
in via strettamente riservata- alla vigilia di un viaggio in Jugoslavia.
Pertanto, preferirebbe che la lettera non venisse, pubblicata. In ogni caso non
può dare alcuna risposta. Affido alla tua sensibilità e comprensione il tutto
mentre ti saluto caramente. Antonio Ghirelli».
* * *
Ora il dott. Ghirelli dirige l'Ufficio Stampa del Presidente del Consiglio,
Bettino Craxi. C'è da augurarsi che abbia perduto la consuetudine di inviare ai
giornali la classica velina: questa si pubblica, questo no. Se il Quirinale è
stato per lui, una pessima scuola, Palazzo Chigi sia il suo riscatto!
7 ottobre 1983
Nella vicenda «petrolio» ancora mandati di cattura. A raffiche! Un altro
generale della Finanza, Domenico Pelloso, è finito sorto inchiesta. Reato
contestato: corruzione, contrabbando. Particolare curioso: tempo fa ministro
delle Finanze Francesco Forte (PSI), c'era da affidare nell'ambito del
ministero, un incarico delicatissimo; ebbene il ministro Forte aveva affidato
l'incarico a Domenico Pelloso, appunto per la sua... delicatezza.
* * *
Cose da... poco in questa Italia che frana, soprattutto moralmente. Nella
vicenda Pelloso però c'è qualcosa di peggio. Tornano, direi prepotentemente,
alla ribalta i finanziamenti che, attraverso la Società Deposito costieri alto
Adriatico di Bruno Musselli (arrestato in Spagna), di Mario Milani (latitante),
di Sereno Freato (in galera in Italia) e la collaborazione del generale Lo Prete
(arrestato in Spagna), finivano nelle casse della Segreteria particolare
dell'onorevole Aldo Moro. Si cita anche la cifra: cento milioni al mese.
* * *
«Moro, fu vera gloria?». È il titolo di un libro uscito in questi giorni.
L'autore: il giornalista Italo Pietra, già direttore de "il Giorno".
«Quanto alla gloria proprio no, non fu vera gloria», sentenzia Pietra.
«E quanto alla moralità?» «Moro e la sua famiglia», afferma Pietra, «non si sono
arricchiti, ma una cosa è l'onestà personale, un'altra cosa è il clima che si
crea intorno a un uomo politico. Non c'è dubbio che Moro aveva al suo fianco
uomini di indubbia probità. Aveva però un uomo come Sereno Freato che viveva in
simbiosi con lui, era un suo complemento».
* * *
Freato faceva affari non puliti per miliardi nel nome di Aldo Moro. Il giudice
di Torino Elvio Fassone, condannando il Generale Giudice, comandante della
Guardia di Finanza, a sette anni di reclusione, scrive nella sua sentenza
(30.3.83), che la sua nomina ai vertici delle Fiamme Gialle, «era dolosamente
preordinata alla collusione», il che significa che Raffaele Giudice veniva
innalzato (dai politici) a Capo della Finanza perché si rendesse
«contrabbandiere», in modo che parte dei proventi criminosi finissero alla
Segreteria particolare di Aldo Moro.
Fatemi il favore: giriamo tutti pagina. Moro è stato barbaramente assassinato.
Pace all'anima sua. Ma non si venga a dire che lui non sapeva la provenienza di
quei soldi. Aldo Moro aveva scelto un mestiere, quello del politico, dove
«sapere» diventa un «dovere».
* * *
Alcuni deputati democristiani, in testa il sottosegretario Bartolo Ciccardini,
intendono promuovere una inchiesta parlamentare sui brogli elettorali, in
particolare per quanto riguarda le preferenze.
Ciccardini ha detto che l'indagine si rende necessaria di fronte a fatti
gravissimi, riscontrati anche da magistrati incaricati di proclamare i
risultati. La credibilità delle Istituzioni è in gioco, ha sentenziato il
sottosegretario democristiano. i!
Bene, ma già che ci siamo estendiamo l'inchiesta ai voti che la mafia in
Sicilia, la 'ndrangheta in Calabria, la camorra in Campania, concentrano sui
candidati amici.
Faccio un esempio: in Calabria, quella «mafia» predilige, da tempo, il PRI.
Giovannone (Spadolini) tace e incassa. Intanto fa il moralizzatore.
Ma credete voi che il Parlamento voglia prendere una iniziativa del genere?
Quando mai! Il Parlamento si tiene i suoi parlamentari mafiosi e gira pagina.
Non ha tempo da perdere con queste quisquiglie.
* * *
Ha avuto inizio a Milano (28.9.83) il processo contro Michele Sindona per il
crack colossale delle sue banche (fasulle). Lui sarà assente, l'estradizione
dall'America, dove si trova in carcere, non è stata ancora concessa.
"la Repubblica" del 28.9 butta giù un articolo di fuoco. Nessuno si salva:
Nixon. Vaticano, personaggi politici, P2, Calvi, Gelli, Cosa Nostra, la mafia,
tutti amici perversi del bancarottiere.
* * *
Strano. Noi ricordavamo altri «amici» di Michele Sindona. Per esempio Eugenio
Scalfari, il direttore di "la Repubblica", che in una campagna giornalistica,
tutta d'assalto, condotta su "l'Espresso" (settembre-ottobre 1971) e in una non
dimenticata interrogazione parlamentare (21.9.71), quando il «nostro» era
deputato, chiedeva di dare «via libera» al bancarottiere di Patti che stava
dando, in contrapposizione ad Eugenio Cefis presidente della Montedison, la
scalata alla Bastogi, la maggiore finanziaria italiana, e chiedeva,
perentoriamente, al Governo di smettere di interferire in questioni che
esulavano, totalmente (sic! N.d.R.), dalle sue competenze.
* * *
Ma come, nella redazione de "la Repubblica", si sono dimenticati che Eugenio
Scalfari, su "l'Espresso" n° 21 del 1973, sotto il titolo «Fermi tutti: torna
Sindona», definì il piduista, il mafioso, il criminale Sindona, «il più abile
banchiere italiano»?
Che Renzo di Rienzo, collaboratore de "l'Espresso", di cui Scalfari era
Direttore, scrisse che Sindona era un «genio», che Ugo De Luca e Carlo Bordoni,
finiti nelle patrie galere, erano dei banchieri abili?
Che, dulcis in fundo, l'operazione Finambro che, secondo "la Repubblica" di oggi
(28.9) fu l'inizio della fine di Sindona e dei suoi imbrogli, venne da Scalfari
in persona, dieci anni fa ("l'Espresso", 26.8.73, n° 34), definita vantaggiosa,
non solo per i risparmiatori italiani, ma anche per la bilancia valutaria, in
quanto capitali sarebbero arrivati anche dall'estero?
* * *
Questo è Eugenio Scalfari. Pensate, dopo avere preso quelle posizioni che
abbiamo sommariamente descritto a favore di Michele Sindona; dopo aver messo al
servizio del «bancarottiere» la sua penna e i suoi giornali; eccolo scrivere
("L'Italia della P2", Mondadori, settembre 1981) che la loggia P2 mai avrebbe
potuto espandersi così come è stato, se non vi fosse stato l'incontro
Sindona-Gelli; Sindona -scrive Scalfari- che significa senatore Connally, David
Kennedy, Dallas e il suo sottobosco finanziario, Cosa Nostra, e la mafia
siculo-americana.
«E non a caso -scrive Scalfari- quando Sindona scatenò l'assalto alla Borsa per
il controllo della Bastogi, sarà il Banco Ambrosiano di Calvi, la banca
incaricata di gestire l'OPA».
* * *
Sì, ma quando Sindona scatenava l'assalto alla Bastogi, dove era e con chi stava
Eugenio Scalfari?
Con Michele Sindona, l'uomo di Cosa Nostra, il mafioso, il criminale... Aveva il
successo e i soldi, allora. E sono questi i personaggi che piacciono a Scalfari,
salvo poi azzannarli quando cadono nella polvere.
* * *
Scrive Scalfari che l'Italia della P2 è un'altra Italia. Senz'altro, ma l'altra
Italia, quella di Scalfari, è un'altra P2.
Infatti anche lui (eccome!) è nelle carte del Gran Maestro. 5 luglio 1979:
Eugenio Scalfari e il suo partner, il principe Carlo Caracciolo, stipulano con i
piduisti Angelo Rizzoli, e Bruno Tassan Din, un cartello editoriale per
dividersi il mercato dell'editoria e dell'informazione. L'accordo viene trovato
ad Arezzo, in calce, come garante, c'è una firma: è quella di Licio Gelli.
* * *
C'è di più. II Presidente dell'Editoriale "l'Espresso", il principe Carlo
Caracciolo, è dentro -fino al collo- nell'episodio di gran lunga più importante,
decisivo direi, di tutta la melmosa vicenda della P2, quella di Flavio Carboni,
il faccendiere, il porta borsa di Calvi, oggi recluso. E tanto Caracciolo, tanto
Scalfari devono ringraziare l'Anselmi se, fino ad oggi, la loro «loggia» o
«lobby» non è stata scoperchiata del tutto.
C'è di mezzo Ciriaco De Mita. C'è di mezzo Armando Corona. Avendoli messi tutti
insieme (anche a cena), con Caracciolo dentro, ha fatto scattare le necessarie
difese e tutto si è chiuso manovratrice l'Anselmi.. Defilando Flavio Carboni,
per salvare De Mita, il Vaticano, Scalfari, e la massoneria cara a Spadolini, la
vicenda P2 è diventata indecifrabile. Un polverone, dal quale non si riesce a
venir fuori.
È vero: scrivere la storia de "l'Espresso" e de "la Repubblica" è scrivere la
storia di questa Repubblica. Non quella di Sandro Pertini (che è solo colore),
ma quella di Licio Gelli (che è sostanza).
* * *
E poi... E poi c'è il discorso "PCI - Michele Sindona", ma sarà per un'altra
volta.
18 ottobre 1983
Il venerabile Licio e il «divo» Giulio
Ricordiamoci: tutto ha inizio con Michele Sindona, e tutto ci riconduce alla
mafia. Da Sindona si risale alla P2; da Sindona si risale a Calvi e a ciò che
gli ruotava intorno. Nulla si sarebbe saputo se Sindona fosse rimasto in piedi.
Ed è il caso Sindona a determinare le premesse della svolta politica che ci
portò, con Giulio Andreotti, ai governi di solidarietà nazionale con il PCI.
Si è fatto un gran parlare, in questi giorni, di ciò che Moro costruì,
politicamente, in questo Paese. Nulla da eccepire; con una variante: il vero,
autentico manipolatore del magma politico italiano è, e resta, Giulio Andreotti.
* * *
Andreotti, alle ultime rozze accuse che sono piovute sulla sua persona, fra le
tante quella di essere il capo occulto della P2, ha reagito duramente. È nel suo
pieno diritto, specie quando lo si vuole «sotto» per faccende di infimo ordine e
per opera di personaggi che, sul piano della moralità pubblica, lasciano molto a
desiderare.
Però il ministro Andreotti, ne siamo certi, non vorrà contestarci l'altrettanto
diritto di ragionare sulla sua persona, soprattutto sui suoi comportamenti di
uomo pubblico e di trarne la dovuta morale, anche perché sarebbe impossibile
ragionare delle vicende italiane, facendo astrazione dalla sua persona.
La sua persona domina, prepotentemente, il paesaggio. E il paesaggio
risulterebbe vuoto, senza senso, senza significato togliendo di mezzo Giulio
Andreotti.
* * *
E veniamo a Sindona. Giulio Andreotti, su "l'Europeo" (15.X), rispondendo ai
commissari «faziosi e bugiardi» della Commissione P2 che lo vogliono il
Super-Gelli, scrive che, per arrivare alla verità, occorre percorrere due piste:
sapere dove si trova il personaggio-accusatore (Carlo Bordoni, braccio destro di
Sindona, N.d.R.) e se è sotto tutela di qualche organismo estero di sicurezza;
secondo sapere quale connessione c'è tra l'ultimo polverone e il processo
iniziato a Milano e al quale, purtroppo, non è presente Michele Sindona.
* * *
Fermiamoci qui. Credo che nella prosa del Ministro degli Esteri ci sia un
«purtroppo» di... troppo. Ho scritto che la vicenda Sindona, in modo bizzarro,
determina, nel nostro Paese, svolte politiche di rilievo; svolte che sono
coincise anche con repentini mutamenti di rotta da parte di uomini politici che,
come Giulio Andreotti, sono passati, indenni, da un fronte all'altro, grazie ad
operazioni che, alla fine, non Andreotti, ma tutto il Paese ha pagato. E
duramente.
* * *
E valga il caso dell'estate 1974, quando Giulio Andreotti, ministro della
Difesa, sentendo avvicinare l'uragano Sindona, il crack delle sue banche, e
volendo stornare da sé le conseguenze della sua «calda amicizia» con il
banchiere siculo, non seppe trovare di meglio, per coprirsi dai prevedibilissimi
attacchi della sinistra, che offrire in olocausto, alla sinistra stessa,
l'immagine delle Forze Armate. Infatti (siamo nel 1974) il Ministro della
Difesa, per la prima volta, consente che il quattro novembre, insieme ai reparti
militari sfilino anche gli extraparlamentari di sinistra che inaugurano, con
quella cerimonia patriottica, gli anni di piombo del terrorismo. Una vera e
propria «legittimazione».
* * *
Non si fermava qui, Giulio Andreotti. In contemporanea, sempre per compiacere la
sinistra, apriva il fronte dei Servizi di informazione con il «caso Giannettini»
(Giannettini che, ad assoluzione avvenuta, avrà cura poi dì sistemare al
lavoro); servizi che, già debilitati e ampiamente corrotti dalla partitocrazìa,
finivano, con quella operazione, per essere del tutto disattivati. Con le
conseguenze del caso, non ultima quella di farsi trovare del tutto impreparati
quando, con il rapimento e l'assassinio Moro, l'Italia si trovò in balìa del
terrorismo, interno e internazionale.
* * *
Non si dica che con quella «operazione», Giulio Andreotti, così come tutt'ora
scrivono le sinistre, aveva fatto pulizia e riportato ordine nei Servizi di
informazione. Non è vero.
È con Giulio Andreotti, e con i governi di unità nazionale con il PCI, che Lido
Gelli riesce a piazzare ai vertici dei Servizi e delle FF. AA. uomini di propria
fiducia. Qualche esempio?
* * *
A capo dei Servizi... rinnovati, vedi il SISMI (controspionaggio militare), va
il Generale di Corpo d'Armata Giuseppe Santovito, nominato il 31.1.1978, con il
parere favorevole dei senatori del PCI Amerigo Boldrini e Ugo Pecchioli che, per
concorde loro ammissione ("Panorama", 14.9.81), si incontravano, per discutere
le nomine ai vertici delle FF. AA., con il pieno riconoscimento di Enrico
Berlinguer, con il Generale Gianadelio Maletti, del Servizio «D» del SISMI.
Tanto Santovito, tanto Maletti fanno bella mostra di sé negli elenchi della
Loggia di Lido Gelli.
* * *
Non basta. Il Generale dei Carabinieri Giulio Grassini, capo del SISDE (servizio
sicurezza interno), segue la stessa sorte. Andreotti-Boldrini-Pecchioli. La sua
nomina è del novembre 1977. Ma anche Grassini compare nella lista Gelli, il Gran
Maestro.
* * *
Il CESIS (organo di coordinamento Servizi Segreti), la cui costituzione è del
30.1.1978 (governo di unità nazionale con il PCI), vede alla sua testa il
prefetto Walter Pelosi, la cui nomina (5.5.78) non si discosta dalle altre:
Andreotti-Boldrini-Pecchioli. Ma anche Walter Pelosi è arruolato da Licio Gelli.
È piduista.
E se si guardano le date delle iscrizioni alla Loggia del Gran Maestro, tutte
coincidono negli anni in cui DC e PCI governavano insieme. Infatti Giulio
Grassini (tessera 1620) si iscrive l'1.1.1977, Giuseppe Santovito (tessera 1630)
l'1.1.77, Walter Pelosi (tessera 754) il 27.3.79. Anzi c'è di più: le date ci
inducono a credere che, per avere le nomine, gli interessati dovevano esibire
l'iscrizione alla Loggia di Gelli, altrimenti... niente! .
Lo stesso dicasi per Giovanni Torrisi, nominato Capo di Stato Maggiore della
Difesa nel 1979. La sua iscrizione alla Loggia è del 26.1.1978. Senza quel
«lasciapassare» non si fa carriera e, pensate un po', ai collaboratori esterni:
Amerigo Boldrini, Ugo Pecchioli. Come è buffo il mondo.
Sicché il Gelli tramava per fare un «golpe fascista» e, intanto, ai vertici
dello Stato, i comunisti piazzavano uomini suoi.
Lasciatemelo dire (alla toscana): ma quanto sono bischeri!
* * *
Stupisce poi la caparbietà con cui Giulio Andreotti, fino all'ultimo, anche
quando Sindona era boccheggiante, abbia voluto tentare di salvarlo. Infatti, fra
la fine del 1978 e i primi del 1979, da Presidente del Consiglio di un Governo
appoggiato dal PCI, fu proprio lui a raccomandare al governatore della Banca
d'Italia, Carlo Ciampi (sett. 1978), un piano per chiudere il fallimento Sindona
e restituire a quest'ultimo libertà di lavoro e dì movimento. La proposta
consisteva nel far sborsare alla Banca d'Italia 150 miliardi che, passando
attraverso la Comit, il Credito Italiano e il Banco di Roma, sarebbero serviti a
colmare, assieme ad altri artifici finanziari, il buco lasciato da Sindona.
Non se ne fece niente, soprattutto perché l'avv. Ambrosoli, dotato di un
coraggio civile insolito per questi tempi, disse no alla truffa proposta. Fu un
«no» che doveva poi pagare con la vita.
Povero Ambrosoli, eroe dimenticato da un'Italia cinica e crudele.
* * *
«Con Andreotti sono rimasto in rapporti di amicizia anche dopo le mie tristi
vicende. L'ho incontrato a New York in un mattino, mi pare, del 1976, all'Hotel
Essex House».
Così Sindona, nel dicembre 1980, ai giudici Guido Viola e Bruno Apicella. Si
faccia caso alla perfidia di quelle parole: «Un mattino, mi pare, del 1976». Per
caso Giulio Andreotti era già Presidente del Consiglio? E se è vero (non ha mai
smentito), che dire di un incontro fra il Capo del governo e un latitante, con
mandato di cattura per bancarotta fraudolenta, e oggi accusato di assassinio?
Lascio all'on. Andreotti la risposta.
* * *
È da Sindona che i giudici Giuliano Turone e Gherardo Colombo arrivano a Lido
Gelli; è da Sindona che i giudici di Milano arrivano a Roberto Calvi e a chi gli
sta intorno; è il caso Sindona che scoperchia il tutto, compresa la più grande
frode fiscale (2.000 miliardi) mai scoperta in Italia, quella che vede il Capo
della Guardia di Finanza essere, in contemporanea, il capo dei contrabbandieri
e, nello stesso tempo, il finanziatore, attraverso il duo Loprete-Musselli, via
Freato, della segreteria particolare dell'on. Aldo Moro.
Non si salva nessuno, nemmeno la memoria dei padri spirituali della Repubblica.
* * *
Tredici anni fa ("Corriere della Sera", 19.7.70) Indro Montanelli, soffermandosi
sul «protagonista» Giulio Andreotti, scrisse che «questo romano pontificio in
cui convivono in perfetta armonia un Monsignore e un Pasquino», aveva l'arte di
«andare a metano», cioè senza far fumo né residuati. «È una specialità di
Andreotti -scrisse Montanelli- quella di non lasciare mai impronte digitali». Da
un pezzo a questa parte (sarà l'età?) le impronte fanno la loro apparizione. E,
malgrado ciò, Andreotti resta in piedi.
È questo il suo capolavoro.
22 ottobre 1983
Vito Guarrasi, i comunisti e la mafia
Nel diario del consigliere istruttore Rocco Chinnici, barbaramente assassinato
dalla mafia a Palermo, si trova questo appunto:
«Ore 18. Viene a trovarmi il marchese De Seta: dopo avermi raccontato delle sue
vicende con l'avv. Vito Guarrasi, mi fa presente che costui è intimo amico del
senatore Emanuele Macaluso. Mi riferisce che alla Galleria d'arte la Tavolozza
(il cui proprietario effettivo è Renato Guttuso) si recava spesso il dott. Boris
Giuliano (Vice questore di Palermo, assassinato dalla mafia - N.d.R.), il quale
in quella sede, parlando con Leonardo Sciascia e qualche altro, si riteneva
certo che responsabile del sequestro De Mauro era proprio il Guarrasi» (Foglio
del 19.XI. Appunto relativo al 14,7.81).
* * *
Mauro De Mauro è il giornalista de "l'Ora" di Palermo che la sera del 16
settembre 1970, rincasando, venne sequestrato. Da allora, e sono passati tredici
anni, non se ne è saputo più nulla. Con tutta probabilità il suo cadavere riposa
in un pilone di cemento armato di qualche lussuoso palazzo di Palermo.
Le ragioni del suo assassinio?
Si sono fatte varie ipotesi, fra queste che De Mauro stesse indagando sui
trafficanti di droga e fosse venuto a conoscenza di santuari proibiti. Oppure
che De Mauro, indagando sulla morte di Enrico Mattei, il Presidente dell'ENI,
precipitato con il suo aereo, di ritorno dalla Sicilia, vicino Milano, avesse
scoperto qualcosa che doveva rimanere segreto. Fatto sta che di lui non si è
saputo più nulla. Sparito, volatilizzato.
Ora c'è, nel diario di Chinnici, quell'accenno a Vito Guarrasi come responsabile
del sequestro De Mauro.
Chi è questo Vito Guarrasi?
* * *
Invano quel nome lo cercherete nella relazione conclusiva sul fenomeno mafioso
presentata dal PCI. Non c'è. Non c'è traccia, mentre su tutte le altre relazioni
sì, anche se la più esauriente è quella missina.
Pio La Torre, commissario del PCI, ha sempre difeso Vito Guarrasi. Con
caparbietà, quasi con rabbia.
Dal suo punto di vista non aveva torto perché Vito Guarrasi, chiamato in causa
dai diari di Chinnici, è sempre stato il personaggio-chiave, seppure coperto,
del PCI, in Sicilia.
Infatti, tutti gli affari consistenti e tali per cui, sia la DC, sia il PCI, da
quegli affari, venivano «premiati», passano attraverso le sue mani.
Preziosissime, come la sua mente, se riusciva ad essere vicino anche alla
sinistra DC, all'ENI di Enrico Mattei, di cui era il rappresentante in Sicilia,
al latitante senatore Verzotto, Presidente dell'EMS e consigliere di
amministrazione delle banche di Michele Sindona. Insomma, Vito Guarrasi lo si
trova sempre vicino agli episodi che contano, soprattutto se questi hanno la
possibilità di far circolare denaro.
* * *
Importante Vito Guarrasi per il PCI. AI punto che il 30.5.1974 (sommario della
Camera dei Deputati n° 250) l'allora deputato, e oggi senatore, Emanuele
Macaluso, direttore de "l'Unità", inviò al ministro dell'Interno una
interrogazione, chiedendo, in modo perentorio, l'allontanamento dal servizio del
Questore Angelo Mangano perché costui, in dichiarazioni rese davanti alla Corte
di Assise di Palermo, aveva osato dire, sul conto di Guarrasi, quello che oggi
si trova scritto sui diari di Rocco Chinnici: Vito Guarrasi, la testa pensante
della mafia, in Sicilia.
Notammo allora, e lo scrivemmo, che quella interrogazione dell'on. Macaluso era
strana. Infatti si faceva richiesta di risposta orale, il che significava che
non si voleva una risposta. E cosi fu.
* * *
Siamo perfettamente d'accordo con Leonardo Sciascia quando scrive che nulla
sapremo della mafia in Sicilia, fin quando non indagheremo, a fondo, sul
passaggio delle miniere di zolfo, dalla mano baronale a quella pubblica della
Regione siciliana. È un gigantesco affare di miliardi. La «testa» che pensò
l'operazione fu Vito Guarrasi. Il suo gioiello (di sperpero del denaro pubblico)
la legge regionale 13.3.1959 n° 4 che istituisce il fondo di rotazione per le
Industrie minerarie.
* * *
Ora questa rete di affari che Vito Guarrasi metteva su, a chi recava vantaggi,
oltre, naturalmente, che ai baroni? L'uomo, apparentemente amico di tutti, con
entrature in tutti gli ambienti, specie repubblicani, a chi apparteneva,
politicamente parlando?
Al PCI. Fin dal 1946. Vito Guarrasi è la dimostrazione visiva che, in Sicilia,
il PCI è sempre stato partito di potere, né più né meno, della DC. E se anche il
PCI è entrato nel mirino della mafia, come la DC, non c'è entrato perché nemico
della mafia, ma perché dentro gli affari si è trovato esposto a vicende che
hanno determinato miscele esplosive e che, ahimé, si sono tinte di sangue. Cioè
si muore di «appalti».
* * *
C'è un particolare nella vita di Vito Guarrasi, su cui tutti sorvolano e che,
invece, dovrebbe essere chiarito. Fino in fondo, per capire.
È che l'8 settembre 1943 Vito Guarrasi è ad Algeri, con la commissione italiana,
a trattare la resa dell'Italia agli Alleati.
Con quali compiti, e in quale veste, se Guarrasi è un ufficiale di complemento
del servizio automobilistico?
Che ci fa ad Algeri, in quei giorni? Chi ce lo ha portato? Chi rappresenta?
* * *
La risposta può venire da un documento del Dipartimento di Stato di Washington.
È del Console generale americano di Palermo, Alfredo T. Nester, ed è indirizzato
(27.XI.1944) al Segretario di Stato e porta il seguente titolo:
"Formazione di un gruppo favorevole all'autonomia della Sicilia sotto la guida
della mafia".
Nell'allegato n° 1, il Nester racconta al suo superiore come il problema del
separatismo della Sicilia dall'Italia fosse stato discusso a tavolino tra alti
ufficiali americani e personalità dell'Isola. E le personalità italiane indicate
dal Nester sono: Calogero Vizzini, Virgilio Nasi, Calogero Volpe, Vito Fodera e
Vito Guarrasi.
Ecco, ritorna la domanda: in quale veste il Guarrasi si trovava l'8 settembre
1943 ad Algeri? E di che natura la sua relazione con Don Calogero Vizzini,
allora Capo indiscusso della mafia, in Sicilia e oltre, delegato dal Servizio
segreto alleato di organizzare, alle spalle delle truppe italo-tedesche, lo
sbarco?
* * *
Ora, dopo tanto silenzio, il nome di Vito Guarrasi rispunta fuori e, guarda il
caso, proprio dai diari del giudice Chinnici, assassinato dalla mafia. E,
guarda, il destino, il suo nome è messo accanto ad Emanuele Macaluso, direttore
de "l'Unità".
* * *
Come la mettiamo? L'interrogativo è tutt'altro che retorico. Ed è Io stesso
Macaluso ad autorizzarci a chiedere di più! Perché, pubblicato il diario di
Chinnici, il Direttore de "l'Unità" (29.9.83) ha fatto emanare la seguente
precisazione:
«L'avv. Guarrasi, noto professionista di Palermo, è stato amico del senatore
Macaluso, in conseguenza dei rapporti politici che lo stesso Guarrasi
intratteneva con tutto il gruppo dirigente comunista siciliano. Infatti Guarrasi
fu candidato nel 1948 nella lista del Fronte Popolare capeggiata da Licausi e
successivamente fu amministratore del giornale democratico di Palermo "l'Ora",
consigliere economico del governo Milazzo e consigliere giuridico di Enrico
Mattei e dell'ENI. Dopo l'esperienza del Governo Milazzo, Guarrasi non ha avuto
più rapporti politici con il PCI e con i suoi esponenti. C'è da dire -continua
Macaluso- che l'accusa lanciata dal marchese De Seta, ex-cliente del Guarrasi,
si è rivelata infondata come risulta dalle cause per calunnia intercorse fra i
due».
* * *
Sembrerebbe una dichiarazione perentoria, che tronca la testa al toro, ma non è
così. È invece pervasa da messaggi cifrati che vanno tutti tradotti.
È che Emanuele Macaluso, chiamato direttamente in causa dai diari di Rocco
Chinnici e su materie scottanti, mette, vistosamente, le mani avanti, dicendo:
Vito Guarrasi mio amico? Senz'altro, ma anche amico di tutto il PCI, tanto che
il partito lo metteva in lista, nel '48, insieme al «prestigioso» Licausi. Fate
attenzione perciò, cari compagni, se intendete rifarvela con me, per quella
amicizia «chiacchierata», non vi conviene, perché compromesso, nella vicenda
Guarrasi, è tutto il partito.
* * *
È un brutto pasticcio. Anche perché Macaluso, manda un altro avvertimento in
codice quando precisa: Vito Guarrasi, dopo l'esperienza Milazzo, non ha avuto
più rapporti politici con il PCI e con i suoi esponenti.
Che cosa vuol dire il senatore? Che ciò che è raccolto in quei diari potrebbe
anche essere vero? E se è così, io Macaluso preciso che la morte di Enrico
Mattei risale al 27.X.1962, il sequestro De Mauro è del 16.9.70, cioè in periodi
posteriori all'esperimento Milazzo (1959), quindi il PCI (e i suoi esponenti)
non c'entrano. Quello che il Guarrasi può aver fatto, dopo Milazzo, non ci
riguarda.
Il pasticcio resta.
* * *
Intanto, in Sicilia, è stato eletto, dopo diverse traversie, il nuovo Presidente
della Regione. È il DC Santi Nicita, seguace del duo Andreotti-Lima.
"l'Unità" (12.X.83) scrive che «la sua elezione rappresenta un recupero
silenzioso di interessi e gruppi affaristici parassitari». E il quotidiano,
diretto dal senatore Macaluso, fa un minuzioso elenco delle vicende, poco
pulite, in cui sarebbe incorso il Nicita. Strano, non è citato l'episodio dei
milioni presi dal Nicita dai petrolieri genovesi, per agevolare le pratiche
della costruzione della grande Raffineria di Melilli, vicino Siracusa.
Perché? Come mai, questa dimenticanza?
Forse perché, in quella circostanza, ì quattrini dei petrolieri li ha presi
anche il PCI?
29 ottobre 1983
Scotti e Macaluso nel balletto delle tangenti
Nell''ultimo numero dì "Rosso e Nero" (22.X); parlando dell'elezione a
Presidente della Giunta regionale siciliana del discusso Santi Nicita, terminavo
con un interrogativo. Chiedevo infatti i motivi per i quali "l'Unità",
nell'elencare le... malefatte del Santi Nicita, ometteva, vistosamente, di
ricordare che il Presidente della Regione siciliana è tuttora sotto processo per
aver percepito tangenti, dai petrolieri genovesi, onde favorire le pratiche per
la costruzione della Raffineria di Melilli, vicino Siracusa, una delle tante che
hanno distrutto quei magnifico angolo di terra. E chiedevo: forse perché il PCI
ha preso soldi anche lui?
* * *
Non mi sbagliavo. Sono andato a rivedere meglio le cose e ho trovato che «anche»
il PCI ha preso le sue bravi tangenti.
I fatti risalgono a tredici anni fa. L'ammontare delle tangenti distribuite ai
vari partiti (DC - PCI - PSI - PSIUP), a singoli personaggi, e a strane
associazioni come la Pro-Alcamo, ammonta a più di due miliardi di lire, valore
1970.
Il 16.XII.82, per ordine del magistrato Roberto Campisi di Siracusa, venne
arrestato l'armatore Sebastiano Cameli, poi rimesso in libertà (2.1.83), dietro
il versamento di una cauzione di 600 milioni e il ritiro del passaporto.
* * *
Fra i provvedimenti presi dal magistrato siracusano (ecco, qui sta la novità),
l'autorizzazione a procedere contro I'allora deputato Emanuele Macaluso del PCI,
oggi direttore de "l'Unità", perché accusato di avere percepito i soldi
spettanti al PCI, nella sua veste di Segretario regionale del PCI.
* * *
Fatto curioso. Un magistrato del Tribunale di Siracusa sentenziò: «Scommetto
qualunque cosa. Questo processo non si farà mai, ci sono dentro i politici, si
può già tutto archiviare».
In contemporanea a questa dichiarazione, Emanuele Macaluso tuonò: «Chiederò che
l'autorizzazione a procedere contro il sottoscritto venga immediatamente
concessa. Sfido gli altri a fare altrettanto. Se l'autorizzazione a procedere
non dovesse essere data, mi dimetterò da deputato».
* * *
Emanuele Macaluso non è più deputato. È diventato senatore, per di più è stato
chiamato a dirigere "l'Unità".
Non ho avuto il tempo di controllare che cosa sia accaduto nella Commissione
delle autorizzazioni a procedere della Camera, relativamente alla «pratica»
Macaluso. Riferirò appena possibile. Fatto sta che quel processo non si è fatto.
Vuoi vedere che hanno archiviato tutto! Due miliardi (valore del 1970) di
tangenti, non sono mica uno scherzo!
* * *
"l'Unità", sotto l'imperversare dello scandalo dei petrolieri del 1974, titolò
il suo fondo: «Uno, di certo, no. Voleva dire che tutti avevano preso i soldi
dei petrolieri, il PCI no».
Come potete constatare era una bugia. E che bugia se a riscuotere ci andava il
Direttore de "l'Unità"!
Poi sono venuti i casi di Torino, ora di Napoli. Tangentocrazia comunista. Addio
orgogliosa diversità del PCI! Tu sei eguale a tutti gli altri! E forse un
tantino peggio: perché hai la presunzione di dirti pulito e sei sporco come gli
altri!
* * *
I giornali titolano: la DC, a Napoli, contro Almirante schiera Scotti.
Si, è il ministro della protezione civile, è il politico che, in polemica con De
Mita perché non gli ha dato un ministero più autorevole, rivendica il volto
popolare della DC. Per dirla in gergo doroteo, Scotti è un democratico, un
antifascista, un popolare.
Però è anche... inquinato di camorra. Infatti, fra le carte del boss camorrista
Ciro Iavorone, detenuto, è spuntata fuori una lettera di Tommaso Morlino, allora
Vice Presidente del Senato. È indirizzata a Scotti e lo si assicura che tutto
sarà fatto per... alleggerire la posizione processuale del boss Ciro Iavorone.
Perché quella lettera si trovava nelle mani del mafioso? Presto detto: Scotti,
per testimoniare che di lui si era di persona interessato, gli ha passato la
missiva di Morlino, missiva che è poi finita nelle mani dei carabinieri.
La DC, a Napoli e altrove, è come la cartasuga. Assorbe tutto.
* * *
L'episodio su riferito inguaia, ancor di più, il personaggio Scotti per un'altra
vicenda, altrettanto emblematica.
Si tratta delle trattative che hanno portato alla liberazione del democristiano
Cirillo, sequestrato dalle BR, trattative svolte con il concorso della camorra.
È stato pagato un riscatto dell'ordine di miliardi, riscatto che è servito poi
ad ammazzare altra gente.
Scotti è stato un intermediario? Prima che quella lettera fosse trovata fra le
carte di lavorone, gli era facile replicare, a quanti lo accusavano, che si
trattava di calunnie. Ma ora, con quella lettera, come la mettiamo?
È augurabile che il ministro Vincenzo Scotti, capolista DC a Napoli, Io spieghi
ai suoi elettori. In un comizio, sul tema: «La moralizzazione della vita
pubblica».
* * *
Pigliamoci un attimo di riposo. Questa dichiarazione di Tina Anselmi presidente
della Commissione d'inchiesta sulla P2: «Dopo 18 mesi di Commissione P2, dopo
avere ascoltato decine di massoni, ho scoperto che gli odi e i rancori che ci
sono all'interno della massoneria, sono secondi solo a quelli che albergano
nella DC».
* * *
Ci si chiede il perché siamo finiti nelle presenti condizioni. State ad
ascoltare questa storia.
Nove anni fa (febbraio 1974) comparve la notizia che Ciriaco De Mita figurava
nel meccanografico dell'ENI come funzionario stipendiato. La vicenda venne fuori
quando Ciriaco De Mita era ministro dell'Industria, cioè capo di un dicastero
fra i cui compiti c'era (e c'è) quello di controllare l'ENI, allora diretto da
Eugenio Cefis.
La notizie fece un rumore relativo. Che è una prebenda dinanzi ai miliardi che
volano? Eppure quella rivelazione veniva data in contemporanea ad una
celeberrima intervista del nostro Ciriaco, in cui al giornalista Cesare
Zappulli, candidamente, confessava che «fra gli obblighi sub-istituzionali
dell'ENI c'era quello di finanziare i partiti».
* * *
Allora l'economia tirava, e la dichiarazione del ministro che confessava che le
Aziende a partecipazione statale, di cui lui era al tempo stesso dipendente e
controllore, dovevano, istituzionalmente, dare soldi ai partiti-mafia, lasciò
quasi indifferenti.
Sono passati dieci anni. Siamo a terra. Non c'è città, grande o piccola, che non
abbia ferite economiche aperte. Il disastro finanziario è paragonabile a quello
di una guerra perduta.
Perché? Che è accaduto? Quali le ragioni? Si torni alle dichiarazioni del
ministro De Mita di dieci anni fa. Alle sue teorizzazioni di grande elemosiniere
dei partiti. Le ragioni del disastro sono lì.
De Mita è stato rimosso? Ha pagato? È stato interdetto dal guidare dicasteri,
enti pubblici, partiti? È stato chiamato a dirigere il partito della maggioranza
relativa: la DC.
Gli italiani non se ne sono ancora resi conto, cioè di vivere in un paese
occupato, alla mercè di autentiche bande: i partiti politici, peggio della
mafia.
* * *
La battaglia per la conquista del Quirinale è in pieno svolgimento, anche se i
pretendenti ora preferiscono esprimersi con linguaggi cifrati, come i mafiosi.
Quello che, invece, parte lancia in resta, all'attacco, al grido «il Quirinale è
mio e guai a chi lo tocca!», è Giovanni Spadolini. Approfitta di tutto. Anche
delle interviste, le più banali, per vantare il suo diritto a sedersi sui
seggiolone.
Gli hanno chiesto: ma lei come si sente dall'essere passato da Presidente del
Consiglio dei Ministri a ministro?
State a sentire la risposta: «Il mio rientro ha un solo precedente storico.
Risale a 30 anni fa, quando Antonio Segni, dopo essere stato Presidente del
Consiglio, tornò in un governo costituito da un suo successore come titolare
della Difesa e poi, qualche anno più tardi, fu eletto Capo dello Stato».
* * *
Che vuol dire Spadolini? Semplice: il mio caso è simile a quello di Antonio
Segni che, da ministro della Difesa, venne eletto Presidente della Repubblica. E
perché non dovrebbe capitare anche a me, che sono nella stessa identica
«posizione» del vecchio Antonio Segni?
Quest'uomo ha una ambizione fuori del comune. Da diventare insultante.
* * *
Manifestano per la pace. Se avviciniamo costoro non è difficile accorgersi che,
più che la vita, amano le cose della vita: le cosiddette nuove infelicità
predicate da Pannella: sono fuggiti dalla madre e dal padre e sono sempre più
soli; si intruppano, si strusciano l'uno con l'altro, oscillano fra lo spinello
e l'eroina, e diventano disperati; cavalcano, spesso, con i soldi di papà,
motociclette da fantascienza, auto da trenta milioni e si sentono stanchi; in
genere non lavorano, stanno stravaccati, l'occhio spento.
Perché questi disperati pacifisti abbiano tutte le cose piacevoli della vita e
altre ancora, occorre il petrolio. Senza petrolio le cose non si producono. E
perché quelle cose non cessino di giungere a simile genia, i soldati sono in
Libano. E vengono massacrati.
Sputano sulla divisa, sulle stellette. Poveri disgraziati! Non sanno costoro che
i «pacifisti» hanno sempre reso le guerre più dure, più cruente. Disarmano.
L'anima prima che il braccio. Ed è la catastrofe. Vogliono la permanente vacanza
dalla storia. E non sanno, poverini, che fuori dalla storia c'è il massacro. Di
coloro che si arrendono alla vita, a favore di coloro che della propria vita
vogliono fare Storia.
26 novembre 1983
Maestri e Padrini di un regime mafioso
Valerio Zanone, Segretario del PLI, in una lettera a "Panorama" (31.X.83), ci fa
sapere che, fra il '73 e il '75, ha frequentato una loggia massonica non
coperta: che non se ne vergogna, e che dal febbraio 1976, cioè da quando è stato
eletto segretario del PLI, non ha più frequentato, né avuto rapporti con logge
di sorta.
L'onorevole Valerio Zanone dice le bugie. Infatti la Guardia di Finanza ha
trovato una fitta corrispondenza fra il «nostro» e il Gran Maestro Venerabile
Gianni Ghinazzi.
Di che si tratta?
Il Gran Venerabile scongiura Zanone di intervenire perché due prodotti
farmaceutici (Broncolit e Micofugal) vengano prontamente registrati e inclusi
nel prontuario farmaceutico, con relativa pubblicazione sulla "Gazzetta
Ufficiale".
Il che viene prontamente eseguito. Grazie alla collaborazione del ministro
(liberale) Renato Altissimo.
Non esistono denunce al riguardo. È stabilito: i liberali hanno le mani pulite.
E guai a chi ne dubita!
* * *
Scandalo dei Casinò. È li che si ripulivano i denari sporchi della mafia.
Una comunicazione giudiziaria è giunta anche all'ex-Presidente
dell'Amministrazione Provinciale di Palermo, già deputato nazionale, il
democristiano Ernesto Di Fresco, già in carcere con l'accusa di avere truccato
un'asta alla Provincia.
Particolare interessante: quando, alla vigilia delle ultime elezioni politiche,
il Di Fresco viene dimissionato dalla lista DC, è aiutato dai fratelli massoni.
Infatti Manlio Cecovini, sindaco di Trieste, leader del Melone, gli mette a
disposizione il simbolo della propria formazione politica e gli fornisce dieci
nomi da inserire in lista.
Manlio Cecovini non è un magliaro come Gelli. È gran commendatore del Supremo
Consiglio dei 33, è un personaggio al quale la stessa Commissione P2, quando lo
ha ascoltato, è stata carica di riconoscimenti.
Come la mettiamo? Soprattutto nei riguardi di coloro (e sono molti) che
ritengono che fra P2, mafia e massoneria ufficiale non ci sia alcuna differenza.
Infatti, mafia e massoneria, sono due «regali» che gli alleati fecero all'Italia
quando sbarcarono in Sicilia.
Il 10 luglio 1943.
* * *
Fra il disinteresse generale, si sta celebrando a Milano il processo contro
Michele Sindona.
Giampaolo Pansa ("Epoca", novembre 1983) scrive; «Gli italiani farebbero bene a
seguire con attenzione il processo. Il crack Sindona è uno spaccato della storia
d'Italia. Ce ne è abbastanza in quel processo per avere un'idea di quale immenso
cumulo di sporcizia si intraveda da quello spacco. La stessa sporcizia che
rischia di sommergere la Repubblica e farne, senza rimedio, un regime mafioso.
* * *
L'Italia è già un regime mafioso. Fin nel profondo. Non si salva nulla. Per
fermarci a Sindona basta questa considerazione: dalle carte processuali è venuto
fuori che il... banchiere di Patti, già creatura di Luky Luciano (boss mafioso,
condannato all'ergastolo in America e poi «liberato» alla condizione che
aiutasse lo sbarco alleato in Sicilia), era uomo della mafia, le sue banche
servivano a ripulire il denaro sporco ricavato dal traffico dell'eroina,
mandante dell'omicidio di Giorgio Ambrosoli, il liquidatore delle banche
sindoniane.
Ebbene, intorno a questo personaggio, troviamo Presidenti del Consiglio dei
ministri, ministri, governatori della Banca d'Italia, banchieri, uomini
politici, sindacalisti di vertice. E tutti protesi ad ascoltare i suoi consigli,
a ricevere i suoi miliardi!
L'Italia non rischia, come scrive Pansa, di diventare un regime mafioso. Lo è.
* * *
A proposito di Sindona, la sapete l'ultima? II crack Sindona è dell'estate del
1974. Nel 1979, cioè cinque anni dopo, troviamo ancora la Presidenza del
Consiglio dei ministri mobilitata per salvare, a tutti i costi, il bancarottiere
siciliano. Fra l'avvocato Rodolfo Guzzi e il Presidente del Consiglio vi sono
scambi di note, di memorandum che, a sua volta, via Palazzo Chigi, vengono
trasmessi alla Banca d'Italia e al Banco di Roma, con l'invocazione: salviamo
Michele Sindona!
Si compiono, per quel salvamento, gravissimi reati, indebite interferenze. Alla
fine non se ne farà di nulla. Non certo per il Palazzo. Per merito di Giorgio
Ambrosoli, il liquidatore delle banche di Sindona, il cittadino integerrimo. No,
dirà, no!
Gli costerà caro. L'ultimo memorandum consegnato al Palazzo è dell'aprile 1979.
Due mesi dopo, il 12 luglio, quattro colpi di pistola assassinano Giorgio
Ambrosoli. Aveva detto ancora: no!
* * *
Ebbene, dal I974 al 1979, passano cinque lunghi anni. Sono andato a controllare
che cosa mai abbia fatto il Parlamento in questi lunghi cinque anni in relazione
a ciò che accadeva intorno a Michele Sindona.
Non ci credereste: eccetto missini e radicali, per il resto è silenzio. Acqua in
bocca.
* * *
E il PCI? Silenzio. Michele Sindona? E chi è mai costui? E perché il PCI fa
silenzio? Semplice: il PCI (1976-1979) fa parte della maggioranza e c'è da
difendere «quel» Presidente del Consiglio che, con Sindona deve fare i conti. E
il PCI, disciplinato, tace. Anche davanti al delitto. I suoi 321 parlamentari
hanno un solo ordine: ignorare Sindona. E per cinque anni, i comunisti, i
moralizzatori, i puri, i diversi, tacciono. Il mafioso Sindona non esiste.
Questo è il PCI. Il comportamento, non ci sono dubbi al riguardo, è mafioso.
* * *
Ho davanti a me un vecchio settimanale. È "l'Idea Fascista". Porta la data del 6
gennaio 1929, 54 anni fa. Leggo questa notizia: «il Podestà di Terranova
Pollino, responsabile di atti compiuti a fine di personale interesse, ed in
danno del Comune, è stato mandato al confino; come sono stati mandati al confino
per la durata di tre anni ciascuno il marchese Reggio d'Aci Stefano, avvocato di
Firenze; il cavalìer Olinto Fanfani, possidente di Poppi; il comm. Don Giovanni
Mazzoni, arciprete di Loro Ciuffenna; il cav. uff. Don Giuseppe Duranti,
arciprete di Rapolano, responsabili del dissesto della Banca di Credito e
Risparmio di Arezzo».
* * *
"L'Unità" ha dato grande risalto alla scomparsa del prof. Giuseppe Samonà,
«insigne figura di urbanista», «grande maestro», «organizzatore infaticabile di
cultura». «Uomo di sicuri orientamenti democratici e socialisti» -scrive
"l'Unità" (1.XI.83)- «Giuseppe Samonà entrò in Parlamento della Repubblica: il
PCI, nel 1972, gli offri infatti a Venezia la candidatura, e fu senatore fino
allo scioglimento della legislatura».
* * *
È un vero peccato che "l'Unità", cosi precisa, diremmo meticolosa, nel
raccontarci la vita di Giuseppe Samonà, dimentichi (ah, la sbadata!) che lo
stesso venne nominato Rettore dell'Istituto Universitario di Architettura di
Venezia. Il 4 maggio 1944. Con decreto del Duce, Capo della Repubblica Sociale
Italiana.
Il «fratellismo» di casa-Berlinguer
Con un titolo su sette colonne, "il Corriere della Sera" (3.XI.83), dando la
notizia che il fratello di Enrico Berlinguer è stato eletto Segretario della
Federazione Regionale del Lazio, uno dei Comitati comunisti più importanti
d'Italia, titola: «Giovanni Berlinguer e i suoi incarichi: nel PCI non c'è
fratellismo».
Si tratta di una intervista, «I cognomi», dice Giovanni Berlinguer, «nel PCI non
hanno mai creato fenomeni di nepotismo, o se vuole di fratellismo».
* * *
È vera questa affermazione? Controlliamola. Se non nel PCI, all'esterno, il
cognome «Berlinguer» conta, pesa assai. Infatti, attraverso quali «procedure» il
prof. Giovanni Berlinguer, insegnante a Sassari presso quella Università, eletto
deputato nel 1972 nella circoscrizione di Roma, ottiene, nel 1976, la cattedra a
Roma?
Il "Gruppo Universitario Alleanza Laica", in una lettera al quotidiano "la
Nazione" del 24 luglio 1976, spiegava che la sistemazione a Roma dell'onorevole
prof. Giovanni Berlinguer, parassitologo e professore di medicina sociale, era
dovuta al ministro democristiano Malfatti che aveva assegnato al senatore del
PCI Carlo Bernardini, Preside della Facoltà di Scienze di Roma, ben dieci
cattedre, «prelevate» dal paniere segreto del ministro, una delle quali
espressamente concessa per sistemare a Roma (dove già faceva politica) il
fratello dell'onorevole Enrico Berlinguer, segretario del PCI.
È certo che se Giovanni, anziché Berlinguer, si fosse chiamato Rossi, si
troverebbe ancora «esiliato» presso l'Università di Sassari. Il fratellismo
conta, eccome se conta!
* * *
Non solo fratellismo, ma anche... cuginismo. Infatti il cugino (di Enrico) Luigi
Berlinguer conta carriere non indifferenti. Già deputato, già Preside della
Facoltà di Giurisprudenza a Sassari, poi ordinario di diritto a Siena,
funzionario del Monte dei Paschi, consigliere regionale a Firenze. I sardi,
ahimè, soffrono di emigrazione e di disoccupazione.
Non certo chi si chiama Berlinguer!
* * *
L'ANPI (Associazione Nazionale Partigiani Italiani), «rilevato il torbido
tentativo di legittimazione democratica e morale del MSI-DN e di valorizzazione
del periodo storico della dittatura fascista, rivolge un appello chiaro e severo
affinchè si mediti su ciò che sta accadendo». ("l'Unità", 13.XI.83).
Il presidente dell' ANPI: il senatore del PCI Amerigo Boldrini. Già Centurione
della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale (MVSN).
30 novembre 1983
Quel pasticciaccio brutto del «caso Gelli»
Nei giorni scorsi la Commissione parlamentare P2 ha decretato la propria «fine»
morale. Era da stabilire se interrogare o no i politici che avevano avuto
rapporti con Gelli e le sue vicende. Non se ne farà di nulla. Addio verità!
* * *
Chiuso quindi il caso Zilletti Ugo, vice presidente del Consiglio superiore
della magistratura, il vice Pertini.
I fatti sono noti. Corre il giorno 16.4.1981. La Guardia di Finanza, per ordine
della magistratura di Brescia, perquisisce a Roma, nel Palazzo dei Marescialli,
sede del Consiglio superiore della magistratura, l'ufficio del vice presidente
Ugo Zilletti e, in contemporanea, a Milano, presso quel Tribunale, l'ufficio del
procuratore Mauro Gresti.
Stupore, sgomento. Fino a quel giorno, l'organo di autogoverno dei giudici, una
delle Istituzioni più delicate in quanto garanzia del corretto funzionamento
della giustizia, aveva conservato integra la sua immagine. Ora non più. Anche il
Consiglio superiore della magistratura viene travolto nel fango dello scandalo.
"l'Unità" (16.4.81), commentando l'accaduto, pone questo interrogativo: «Ma con
quale autorità una classe dirigente così screditata può rivolgersi al Paese
degli onesti per chiedere sacrifici, blocchi di scala mobile, strette
economiche?».
* * *
Quegli avvenimenti sembrano cosi lontani! Sepolti nell'oblio. È tale, in Italia,
la sequenza degli accadimenti che fanno sensazione che «chiodo scaccia chiodo»;
avvenimento mangia avvenimento, eppure quelle due perquisizioni dell'aprile 1981
rappresentavano il fondo, oltre il quale, la putrescente vicenda della politica
italiana non poteva più andare.
Ma perché si è dimenticato? Vale la pena di raccontare come stanno le cose, a
testimonianza almeno che qualcuno, nel silenzio di tutti, a cominciare dalla
Commissione parlamentare P2, non si è tirato indietro, davanti ad episodi che
venivano ad investire ambienti ritenuti intoccabili.
* * *
Era accaduto che, nella ormai famosa incursione nell'abitazione e negli uffici
del Gran Maestro Lido Gelli, in quel di Castiglion Fibocchi (17.3.81), per cui
poi tutta l'Italia repubblicana doveva tremare, erano state trovate fra l'altro,
due buste con l'intestazione: «Calvi Roberto: vertenza con la Banca d'Italia» e
«Calvi, copia comunicazione Procura di Milano».
* * *
Dentro quelle buste la documentazione di avvenimenti accaduti fra il luglio 1980
e il marzo 1981 «in luoghi diversi del territorio italiano», perché a Roberto
Calvi fosse ridato il passaporto, ritiratogli nel luglio '80 dal questore di
Milano, in quanto imputato di truffa pluriaggravata. E di ciò si occupava
alacremente il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura (il
vice Pertini) che, dall'alto della sua autorità di Capo dell'organo di
autogoverno dei giudici italiani, esercitava pressioni perché il procuratore
della Repubblica di Milano, Mauro Gresti, provvedesse a risolvere la pratica
Calvi. Zilletti aggiungeva di essere stato interessato alla cosa da «alte
personalità» dello Stato repubblicano.
Nel contempo, in quelle buste, viene trovata la documentazione di un imponente
giro di denaro fra Marco Ceruti, fiorentino latitante amicissimo di Zilletti, e
Licio Gelli; un giro di denaro che le successive indagini, espletate presso le
banche svizzere, quantificheranno in 5.400.000 dollari, vari miliardi di lire.
* * *
Ebbene, in una delle reversali di questi pagamenti figuravano i nomi di Ceruti e
Zilletti per la somma di 800.000 dollari. La data: 6.X.1980, cioè proprio nei
giorni in cui gli incontri Zilletti-Gresti, in Roma, sul caso Calvi, diventano
sempre più frequenti, e tali che, alcune trasferte del giudice Gresti, da Milano
a Roma, se le accolla direttamente il Consiglio superiore della magistratura.
* * *
Questo, grosso modo, l'antefatto. Le indagini hanno inizio e, poiché nella
vicenda è protagonista un magistrato del Distretto di Milano, la pratica passa,
per competenza, ai giudici di Brescia. E i giudici di Brescia si mettono al
lavoro, indagando, perquisendo, interrogando e, soprattutto, resistendo alle
pressioni della magistratura romana che chiedeva, per sé, tutti gli
incartamenti. Si ripeteva una vecchia scena: i magistrati lombardi (accusatori)
contro i magistrati romani (insabbiatori).
Sorto il conflitto, la Corte Suprema, con sua decisione del 29 settembre 1981,
ordina: tutto a Roma!
* * *
E come era facilmente prevedibile, tutto è finito a tarallucci e vino. Infatti
le accuse di corruzione, di interesse privato in atti di ufficio, di rivelazioni
di segreti di ufficio, nei riguardi dello Zilletti, vengono fatte cadere, al
punto da trasformarsi in «inni» alla sua dirittura morale nelle sentenze romane
del 29.5.82 (procuratore Achille Gallucci) e dell'Ufficio Istruzione del 17.3.83
(giudice istruttore Ernesto Cudillo).
* * *
Particolare da non dimenticare. Quando la sentenza del giudice istruttore
Ernesto Cudillo, interamente assolutoria nei riguardi di tutti i protagonisti
della vicenda P2 è conosciuta, scoppiano le polemiche, tanto che la Procura
generale della Corte di Appello di Roma, per arginare l'impopolarità di quel
provvedimento, è costretta a presentare appello (11.4.83). Ma in quell'appello,
collezionato con banalità da quattro soldi, ci si guarda bene di chiedere la
riapertura del caso Zilletti. Quel caso va chiuso. A tutti i costi. Perché,
negli atti raccolti dai giudici del Tribunale di Brescia, finché li hanno
lasciati lavorare, vengono alla luce «episodi» riguardanti proprio quelle alte
personalità, di cui lo stesso Zilletti parlava, e che lo avrebbero indotto ad
occuparsi del caso Calvi.
* * *
Altro particolare. Le sentenze assolutorie della Procura e dell'Ufficio
Istruzione del Tribunale di Roma, affermano che il dott. Zilletti deve essere
prosciolto da ogni accusa perché la Banca d'Italia, la stessa che aveva
provocato, con la sua indagine, l'incriminazione nei riguardi di Calvi e il
susseguente ritiro del passaporto al banchiere, intervenne presso di lui, in
quanto l'impedimento a Calvi a partecipare a Congressi internazionali, a causa
di pendenze penali, creava, su tutto il sistema bancario italiano, un immagine
sfavorevole.
È una giustificazione contorta, quasi risibile ma, pur prendendola per buona,
«chi» della Banca d'Italia intervenne presso lo Zilletti perché a Calvi fosse
ridato il passaporto?
Dato che lo Zilletti parla di interessamento di «alte personalità», non può
essere stato che il governatore in persona, il dott. Ciampi. E se è così perchè
il procuratore della Repubblica di Milano, dottor Mauro Gresti, nei suoi
interrogatori, attesta che a convocare il dott. Ciampi, negli uffici del
Consiglio superiore della magistratura, fu proprio il dott. Zilletti; il che
dimostrerebbe che il caso Calvi non interessava affatto alla Banca d'Italia, ma
allo Zilletti in persona?
Si sono svolte indagini al riguardo?
Non ci risulta. Le sentenze romane tacciono al riguardo. Il procuratore dott.
Achille Gallucci prende per buone le dichiarazioni, non accerta nulla, non
ordina interrogatori. Prende atto e chiude, al grido: si assolva!
* * *
E questo (udite! udite!), anche quando il dott. Carlo Marini, nientemeno
procuratore generale della Corte di Appello di Milano, testimonia che il dott.
Ugo Zilletti, vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, anche
dopo il rilascio del passaporto a Calvi, non cessò di interessarsi al banchiere,
tanto che lo Zilletti chiese al Marini di non affidare l'istruttoria contro
Calvi né al sostituto Ovilio Urbisci, né al sostituto Luigi D'Ambrosio e di
adottare al riguardo tutte le cautele possibili «perché il procedimento
interessava al Colle».
* * *
Il procuratore della Repubblica di Roma Achille Gallucci, il giudice istruttore
Ernesto Cudillo, le hanno lette queste carte? E se le hanno lette che dicono?
Assolvono? E la Commissione P2, che queste cose le sa, perché tace?
Di che cosa ha paura? Si rende conto che, impedendo di sapere la verità su
vicende di questo genere, affossa tutto, e che perfino Lido Gelli viene
autorizzato a dire: voi non siete in condizioni di giudicarmi, voi siete
peggiori di me.
* * *
Le vicende che ho riportato, i cui riscontri sono in atti ufficiali dello Stato
repubblicano, inducono a pensare che siano accaduti, dietro le quinte, fatti
inquietanti.
Per dovere di correttezza li enumero:
a) che l'inchiesta Calvi sia stata tolta, nel settembre del 1981, dalle mani dei
giudici, di Milano e di Brescia e affidata a quelli romani, soprattutto perché
preoccupati di «gestire» il caso Zilletti che, portato alle estreme conseguenze,
avrebbe potuto rappresentare il colpo decisivo alla credibilità della prima
Repubblica italiana. Il che comporta che, per ottenere il pronunciamento della
Suprema Corte di Cassazione, si sia potuti «arrivare» fino a tale altissimo
consesso;
b) che le sentenze 29.5.82 del procuratore della Repubblica di Roma Achille
Gallucci, e del 17.3.83 del giudice istruttore Ernesto Cudillo, abbiano dovuto
dare un colpo di spugna all'intera vicenda P2, perché, altrimenti, avrebbero
dovuto chiamare in causa, non solo il Consiglio superiore della magistratura
(infatti, oltre allo Zilletti, altri membri del Consesso risultano coinvolti),
ma qualcosa di più alto.
* * *
È stato scritto che le inchieste sulla loggia P2 attraversano ben tre diversi
organismi inquirenti: gli Uffici giudiziari di Roma (Procura e Ufficio
Istruzione), dichiaratamente innocentisti; dall'altra la Commissione di
inchiesta P2 e il Consiglio superiore della magistratura, decisamente
colpevolisti.
Divisioni illusorie, fumo negli occhi.
La P2 è talmente penetrata dentro il sistema «partitocratico» che tutti, dico
tutti, ne sono prigionieri.
14 dicembre 1983
Quando la malavita prende il posto della politica
Quale «caratteristica» si portano dietro gli arresti che, a valanga, colpiscono
gli uomini politici? Perché, come a Torino, finiscono in galera comunisti e
socialisti, che sono maggioranza, e al tempo stesso e per gli stessi fatti, i
democristiani che sono minoranza?
La stessa scena in Liguria. Vanno in galera socialisti, ma anche democristiani,
per lo stesso episodio criminoso. Perché?
* * *
La vita politica è divenuta una finzione, una recita. Maggioranza e opposizione
di regime non esistono più. Fanno finta di confrontarsi. Recitano. Fanno finta
di confrontarsi sull'affare proposto. Poi, dietro le quinte, magari nei piano
bar come accadeva a Torino, si dividono il malloppo. Tanto a te, tanto a me.
In tal modo la politica è uccisa, assassinata. Al suo posto, la frode, la
malavita.
* * *
"il Giornale" (1.XII.83), sotto il titolo «Quando la 'ndrangheta sposa la
politica», dedica una intera pagina (cosi come se nulla fosse) al voto criminale
in Calabria e racconta di una grande cena mafiosa che si è svolta in casa del
pregiudicato Libri, a Cannavò (Reggio Calabria), per festeggiare i risultati
elettorali. «La mafia», scrive "il Giornale", «ha riversato alcune decine di
migliaia di voti dalla DC al PSI e dal PSDI al PRI. Anche quella sera, come nel
lontano 1969, la festa è stata guastata dai carabinieri: ma stavolta i picciotti
sparano per coprire la fuga dei politici e dei mammasantissima; quattro
carabinieri rimangono a terra feriti, i nomi eccellenti si sottraggono
all'arresto».
* * *
«Tra i nomi che corrono -continua "il Giornale"- c'è quello del deputato
repubblicano Francesco Nucara. Il PRI è accusato di aver ricevuto tanti voti
dalla mafia. L'on. Vico Ligato, DC, ha ripreso tali notizie in una
interrogazione al Ministero dell'Interno e a quello della Giustizia. La polemica
si trascina dal luglio. Nucara e Ligato battibeccano duramente, ma tutti gli
"alti personaggi" interrogati continuano a tacere. Si dice che sia stato
telefonato a Roma, la notte stessa della cena delle beffe, per ottenere
copertura».
* * *
Sono affermazioni gravi, che diventano addirittura inquietanti per il silenzio
che, su questa vicenda, lo stesso Scalfaro, ministro dell'Interno, mantiene.
Qualcuno, secondo "il Giornale", ha imposto il silenzio sulla materia. Che ne
dice il Ministro? C'è, al riguardo, una interrogazione missina. A diversità di
quella del DC Ligato, che chiede risposta scritta, quella del MSI-DN vuole che
il Governo venga a rispondere in aula. Davanti a tutti. Lo faccia, onorevole
Scalfaro, Io faccia.
La sua onorabilità è fuori discussione. Si discute della tempestività.
Tempestività che, in casi del genere, è doverosa.
* * *
Dunque il PRI, in Calabria, raccatta tutto. Anche, direi soprattutto, i voti
della mafia. 10.000 voti in più, rispetto alle amministrative del '79, a Reggio
Calabria, 11.000 voti in più a Cosenza.
Che ne dice Spadolini? O non è il PRI il partito del perbenismo?
* * *
«Franco è stato sempre un uomo corretto. Il suo comportamento mi è parso sempre
irreprensibile. È sempre stato amico di tutti e in Consiglio Comunale, prima
nelle file del PLI e poi in quelle del PRI, abbiamo fatto insieme grandi
battaglie politiche contro il malcostume e gli abusi edilizi».
(Vincenzo Mondo, senatore del PRI, "l'Europeo", 10.XII.83).
* * *
Esattorie: sono sempre state, specie in Sicilia, al centro di dibattiti accesi e
di accuse feroci. Non ultima quella di essere centri di mafia, addirittura il
santuario.
A tale riguardo ho da raccontare un episodio che è raccolto fra le carte della
Commissione antimafia. State a sentire.
* * *
Franco è Franco Chillè, il «kidnap» della piccola Elena Luisi. Lungi da me
generalizzare, in ogni famiglia la pecora nera può albergare. Fatto sta che
Francesco Carlo Chillè lo troviamo oltre che consigliere comunale di Milazzo,
anche candidato alle elezioni politiche del giugno scorso nella lista del PRI di
Catania, Messina, Siracusa, Ragusa e Enna. Voti preferenziali: 3.244.
Le liste per le elezioni politiche vengono tutte vagliate e approvate a Roma.
Spadolini ha dato il suo assenso?
* * *
Particolare da non sottovalutare. La lista repubblicana della circoscrizione di
Catania, oltre il Francesco Chillé, proveniente dal PLI, raccatta anche Germana
Antonino, ex-deputato regionale proveniente dalla DC.
Germana è stato eletto. Ha battuto il deputato uscente, Pasquale Bandiera. A
detta di quest'ultimo ("l'Unità", 3.7.83) il Germana, per farsi eleggere, ha
speso un miliardo di lire, dicesi un miliardo di lire.
Dove li ha presi quei soldi? Spadolini se lo è chiesto?
* * *
Proseguiamo. Scandalo al Casinò di Sanremo. Si riciclano i soldi provenienti dai
sequestri. Fra i latitanti: Augusto Poletti. È lui l'uomo di cui la mafia si
serve per tentare di mettere le mani sul Casinò. Aereo personale, yacht
favoloso, costruttore di villaggi esotici alle Bahamas e a St. Maarten. È l'uomo
emergente di Sanremo. Un suo progetto: costruire un aeroporto a Sanremo, come ha
già fatto in Sardegna (ma guarda un po', in Sardegna!) a Baia delle Mimose.
Tessera: repubblicana. Come il fratello Carlo, Presidente dell'Azienda Autonoma
di Soggiorno di Sanremo.
Ma allora, è... vizio! Questo PRI si ritrova nel momento del successo, mafiosi,
sequestratori di bambine di pochi mesi, deputati al miliardo, massoni amici di
Santovito, piduisti «a gogò».
Questo PRI: ma dove sta il suo perbenismo?
* * *
Napoli, Milazzo, Reggio Calabria: non a caso le disavventure del PRI passano per
le tre Regioni maggiormente investite dalla malavita organizzata», scrive "la
Repubblica" (2.XII.83).
Certo, ma non quelle sole. Costantino Parisi, 28 anni, assessore all'agricoltura
nel Comune di Cingoli (Macerata), figura fra i responsabili del sequestro
avvenuto il 26 gennaio 1977 dell'industriale calzaturiero Mario Botticelli, 71
anni, uno dei più facoltosi imprenditori delle Marche.
Costantino Parisi, all'atto del sequestro, era iscritto al PRI.
* * *
«E gli uomini politici che un tempo la corteggiavano?».
Sono spariti tutti.
«Sua madre, sfogandosi, ha accennato ad un uomo politico milanese, per il quale,
ai bei tempi, avevate organizzato pranzi e cene e che non le ha mandato un rigo,
né fatto una telefonata. Chi è?».
Se lo può immaginare... Giovanni Spadolini quando era a Milano veniva tutti i
lunedì pomeriggio a trovarmi in ufficio, per chiedere, per fare. Dopo di che,
appena io sono uscito dal "Corriere", non si è fatto più vedere».
(Angelo Rizzoli racconta, l'Europeo 10.XII.83)
* * *
Si discuteva della riforma tributaria. La Commissione dei trenta (senatori e
deputati) era riunita a Palazzo Montecitorio nella sala della Commissione
Finanze e Tesoro. Era esattamente il 12 agosto 1973. Relatore sui provvedimenti
delegati i riguardanti i servizi di riscossione (esattorie), il Senatore Luigi
Mazzei del PRI.
Ferragosto, caldo, scarsi commessi, in compenso discussione animatissima. Si
fece notte inoltrata.
* * *
Un punto accendeva gli animi, quello sostenuto da gran parte dei parlamentari
siciliani, per cui l'aggio da assegnare alle Esattorie, se doveva avere un
minimo stabilito, non doveva, per quanto riguardava il massimo, avere alcun
limite.
Una cosa destava sorpresa. È che quando prendevano la parola i favorevoli alla
tesi «isolana», costoro alzavano il volume della propria voce, come se volessero
farsi sentire oltre la sala in cui si era riuniti.
Il perchè di questo insolito comportamento canoro si seppe quando un
parlamentare, volendo telefonare, ed essendo tutti gli apparecchi della
Commissione occupati, si portò nel corridoio antistante la sala, in cerca di un
telefono.
* * *
Quale la sua sorpresa nel constatare che, non solo la porta della Commissione
era socchiusa, ma dietro c'erano degli «individui» che origliavano.
Fu dato l'... allarme. Qualcuno si prese paura. Ripeto: era notte fonda. Era la
vigilia di ferragosto. Il Palazzo quasi deserto.
* * *
La morale? Evidentemente, non fidandosi gli Esattori dei parlamentari... amici,
si erano premurati di mandare propri «fidi» perché, di persona, controllassero
come si portavano deputati e senatori. «Prendete nota e riferite». Insomma,
quella notte, i gorilla della mafia (esattoriale) erano entrati, indisturbati,
nel tempio della democrazia e gli «amici», con mandato parlamentare, per non
correre rischi di essere fraintesi dai gorilla dietro l'uscio, alzavano la voce.
* * *
Bello, no? L'attuale Ministro dell'Agricoltura Filippo Maria Pandolfi conosce la
vicenda. Anche nei pur minimi particolari. Comunque, ripeto, il tutto è
recepito, per mia volontà, negli atti ufficiali della Commissione Antimafia.
* * *
1973-1983. Sono passati dieci anni. Le cose sono mutate? Si, in peggio. Perché
la mafia, oggi, non ha più bisogno di inviare i suoi gorilla a controllare gli
eletti. Infatti li elegge direttamente al Parlamento.