Rosso e Nero
anno 1981

 

4 gennaio

  8 gennaio   24 gennaio  
28 gennaio   30 gennaio   6 febbraio  
8 febbraio   13 febbraio   18 febbraio  
20 febbraio   22 febbraio   26 febbraio  
28 febbraio   3 marzo   5 marzo  
7 marzo   10 marzo   13 marzo  
15 marzo   19 marzo   26 marzo  
31 marzo   2 aprile   9 aprile  
12 aprile   14 aprile   19 aprile  

23 aprile

  25 aprile   30 aprile  
3 maggio   8 maggio   10 maggio  
13 maggio   21 maggio   26 maggio  
30 maggio   4 giugno   10 giugno  
12 giugno   17 giugno   1 luglio  
3 luglio   14 luglio   16 luglio  
22 luglio   29 luglio   5 agosto  
20 agosto   23 agosto   27 agosto  
29 agosto   6 settembre   8 settembre  
11 settembre   13 settembre   17 settembre  
20 settembre   23 settembre   26 settembre  
29 settembre   2 ottobre   4 ottobre  
8 ottobre   11 ottobre   16 ottobre  
21 ottobre   23 ottobre   25 ottobre  
29 ottobre   31 ottobre   5 novembre  
7 novembre   15 novembre   16 novembre  
20 novembre   22 novembre   27 novembre  
29 novembre   2 dicembre   5 dicembre  
10 dicembre   13 dicembre 22 dicembre
24 dicembre   29 dicembre    

 

4 gennaio 1981

"l’Unità", sotto il titolo «In Sicilia c’è chi fa concorrenza ai DC», dedica l’editoriale (10.12.80) ai casi Mangione (PSI), Cardillo (PRI) e Fagone (PSI). Si tratta, dice il PCI, della questione morale che non investe solo la DC, ma anche il PSI, e l’arresto a Parigi di Savino Fagone ne è la prova. Ora si dà il caso che nella Documentazione allegata alla relazione conclusiva dell’Antimafia [volume II, Doc. XXIII, n. 2], e precisamente alle pagine 1090-1091, si dia conto della seduta della Commissione contro la mafia del 19 novembre '75, in cui venne deciso, per volontà del PCI e del PSI, succube la DC, il depennamento, dalla relazione di maggioranza, del caso Fagone. «Fagone è un galantuomo!», fu la parola d’ordine. E chi, particolarmente, si distinse nella sua difesa? Pio La Torre, membro della direzione nazionale del PCI, mafiologo illustre, moralizzatore. All’acqua di rose.

I giornali scrivono che, con ogni probabilità, quando il giudice Domenico Sica interrogherà, sul «caso Pecorelli», l’ammiraglio Casardi e il generale Gianadelio Maletti, già ai vertici del SID, si troverà dinanzi un «marò» e un «soldato», in quanto costoro corrono il rischio di essere degradati dalla Commissione militare, presieduta dal generale Tito Corsini. Mario Casardi fu scelto da Andreotti. Gianadelio Maletti è un protetto di Giacomo Mancini. Il 18 febbraio '77, al Convegno delle Regioni meridionali che si tenne a Catanzaro, Giacomo Mancini, nel suo intervento così, fra l’altro, si espresse: «Il processo che si svolge in questa Città può suggerire riflessioni utili sulla precarietà delle istituzioni democratiche. Basti pensare al modo come il processo è stato istituito, al fatto che vi figurano imputati cittadini certamente innocenti e in più quella parte del SID, non in servizio all’epoca di Piazza Fontana, ed alla quale va il merito di aver scoperto i golpisti di Roma». «Quella parte del SID» di cui parla Giacomo Mancini, è il generale Gianadelio Maletti, generale che rischia la retrocessione a soldato, per la vicenda riguardante lo scandalo dei petroli. Ci sono militari che, per essersi opposti alle congiure dei politici, hanno dovuto, ingiustamente, pagare. Però, il tempo è galantuomo. Ed ora pagano, e giustamente, quei militari che vollero essere dei lacché dei politici.

Dino Gentili, operatore economico del PSI, presidente della COGIS, una società import-export, già al centro di scandali, precisa che l’operazione di importazione di petrolio grezzo dall’Arabia Saudita (dicembre '80), è pulita, non comporta tangenti.

Veniamo ai fatti. Prima «stranezza»: è evidente che l’azienda di Stato, l’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI), per la sputtanatura ricevuta con la vicenda Sophilau, non può ancora operare con l’Arabia Saudita. Ed ecco che sovviene Dino Gentili con la COGIS. Seconda «stranezza»: la COGIS paga ai sauditi 32 dollari a barile e ne pretende 38 dagli imprenditori italiani. Terza «stranezza»: la COGIS passa il grezzo all’API, società petrolifera privata italiana che, a sua volta, ne cede una parte all’AGlP-ENI. La cosa ha del paradossale, appena si rifletta che nella COGIS, con una sua fetta, c’è la Finmeccanica, azienda a partecipazione statale. Cioè si verifica il caso di una società che, con parziale partecipazione statale, «gioca» con il petrolio destinato, almeno in parte, ad altra società dello Stato. Cosa è questo guazzabuglio? C’è puzzo di bruciato. E le giustificazioni di Dino Gentili non bastano, perché...

La COGIS, con il suo personaggio Dino Gentili (caro a Riccardo Lombardi, famoso per aver tentato, con quattrini pubblici e coperture del PSI, di acquistare [1962] per scopi speculativi edilizi, la meravigliosa pineta di Migliarino), sono stati già al centro di mediazioni poco pulite riguardanti le importazioni. Su tutti, lo scandalo dello zucchero dell’aprile '64, per cui la COGIS fu trovata, con le mani nel sacco di una licenza di importazione di zucchero da Cuba, economicamente favolosa, rilasciata dal Ministro del Commercio con l’estero, autorizzante l’importazione nientemeno di 500.000 quintali, su una importazione complessiva di 520.400!!! Il tutto trasportato con navi sovietiche.

La vicenda fece, allora, enorme scalpore, anche perché Dino Gentili figurava amministratore, con la qualifica di vice presidente, del giornale "Avanti!", un organo che si era tenacemente battuto contro la produzione nazionale dello zucchero; produzione che, da autosufficiente non lo era più, tanto da abbisognare di importazioni. E che importazioni, se al solo Gentili (con tessera PSI) si concedeva una licenza che copriva l’intero fabbisogno nazionale. Affari di miliardi, del valore '64. Dallo zucchero '64, al caffè (sempre cubano) del '71 (altro scandalo: 250.000 sacchi fuori contingente, con autorizzazione del ministro del Commercio con l’Estero, il socialista Zagari); al petrolio '80. La COGIS ha questi biglietti da visita. E la moralizzazione?

Particolare da non trascurare: nella riunione del comitato centrale del PSI, precedente la formazione del 1° governo Moro ('63), l’onorevole Riccardo Lombardi propone la candidatura del dottor Dino Gentili a ministro del Commercio con l’Estero e, in linea subordinata, a quella di presidente dell’Istituto del Commercio Estero. È tutto un programma.

Ora (la notizia è di questi giorni) "il Mondo" (26.12.80) pubblica sotto il titolo «Gli Onesti» la graduatoria degli incorruttibili, graduatoria elaborata da un sondaggio tenuto con 81 parlamentari. "il Mondo" scrive: «L’incorruttibile per definizione è lui, Riccardo Lombardi, anziano leader della minoranza di sinistra del PSI. Mai neppure sfiorato da ombre di sospetto, è la vestale dell’onestà che guida l’ideale classifica degli uomini puliti all’interno del Palazzo, sempre più investiti da scandali, bordate di accuse, faide di potere...».

Su questo «incorruttibile», su questa «vestale dell’onestà» (neppure sfiorata da un sospetto), ho parecchi... dubbi e perplessità. Infatti ho qui davanti a me "La Nazione" del 20 febbraio '74. C’è questo titolo: «Riccardo Lombardi spiega al giudice la provenienza degli assegni». Di che si tratta? Ce lo dice la Commissione Inquirente... indagante sui fondi neri dei petrolieri, con destinazione «uomini politici». A pagina sei e sette, testualmente si legge: «in particolare si dovrà procedere all’esame dell’onorevole Riccardo Lombardi in relazione a quanto affermato dal Grassini, e cioè che questi avrebbe ritirato i cinque assegni per l’importo complessivo di 50 milioni dal senatore Talamona su richiesta e per conto di esso onorevole Lombardi. Come mai sui 220 milioni incassati dal PSI, circa la metà (100 milioni) sarebbe andata alla corrente di Lombardi che, per quanto autorevole è pur sempre una delle componenti minoritarie del partito? Come mai l’onorevole Lombardi non ha provveduto a ritirare direttamente l’intera somma, lasciando che la metà, per il cospicuo importo di 50 milioni, venisse ritirata dal Grassini? Non sarebbe stato più ovvio che avesse egli ritirato l’intera somma versandola sul conto della sua corrente? Quali soldi affluiscono sul conto Giannotta-Lombardi? Se dovesse affermare che vi affluiscono i fondi destinati alla corrente, chiedere perché, dei dieci assegni devoluti alla sua corrente, due sono andati a finire sul conto della moglie, uno sul conto personale Giannotta e cinque sul conto personale del Grassini».

L’allora presidente della Camera, Sandro Pertini, dovendo, per dovere del suo ufficio, mettere gli occhi su queste non pulite carte, alla domanda di Nantas Salvalaggio che lo intervistava il 10 marzo '74 sullo scandalo dei petrolieri, così si espresse (testuale): «Prendiamo gli assegni dell’Unione petrolifera. Alcuni giannizzeri, diciamo così, se li sono fatti intestare alla moglie o alla governante. Non è curioso? Se il tuo gesto era pulito, non vedo perché ti debba nascondere dietro le gonne di tua moglie o della .

 

8 gennaio 1981

È morto l’ammiraglio Karl Doenitz. Sotto il titolo: «Führer per 23 giorni», "La Nazione" scrive: «Doenitz fu solo un esecutore, con un’unica pagina luminosa nella sua lunga e affascinante carriera, il salvataggio dei suoi soldati. Fu per questo che a Norimberga non venne giustiziato». Il che è un falso. L’ammiraglio tedesco si salvò dal capestro non perché si giustificò. Fornì, anzi, fierezza. Si salvò grazie alla testimonianza dell’ammiraglio Chester Nimitz, comandante della Flotta americana in Estremo Oriente, che al processo di Norimberga scagionò Doenitz con queste parole: «Se Doenitz, come voi dite, è colpevole di avere condotto una guerra marittima disumana, ebbene sono anch’io colpevole, poiché ho dato gli stessi ordini per la guerra sottomarina; forse, se ci penso, anche più drastici di quelli di Doenitz».

Solo un esecutore di ordini? C’è l’ultimo bollettino di guerra tedesco. È quello della resa. È stilato di pugno dall’ammiraglio Doenitz. Vale la pena di leggerlo «insieme» nella parte finale, quando l’Ammiraglio, dopo aver passato in rassegna, una per una, tutte le unità combattenti sui vari fronti, così prosegue: «Da mezzanotte tacciano le armi su tutti i fronti. Per ordine del grande ammiraglio, la Wehrmacht ha posto termine alla lotta senza speranze. Si è così conclusa una guerra eroica durata quasi sei anni che ci ha dato grandi vittorie, ma anche grandi sconfitte. La Wehrmacht ha ceduto alla fine con onore di fronte ad una superiorità schiacciante. Fedele al suo giuramento, il Soldato tedesco ha compiuto imprese incomparabili per il suo popolo. La Patria lo ha sostenuto fino all’ultimo con tutte le sue forze. Il giudizio imparziale della storia riconoscerà e celebrerà quanto è stato fatto al fronte e in Patria. Lo stesso avversario non potrà disconoscere le imprese dei Soldati tedeschi in terra, in mare, e nel cielo. Ogni Soldato può quindi deporre le armi e prepararsi a lavorare per la vita del nostro popolo con coraggio e fiducia, in queste ore così gravi della nostra storia. La Wehrmacht ricorda, in quest’ora i camerati Caduti di fronte al nemico. I morti ci obbligano a fedeltà assoluta, a obbedienza e disciplina nei riguardi della nostra Patria sanguinante da innumerevoli ferite».

È questa la «grande» Germania. Non certo il nazismo. Antinazisti come il cancelliere Adenauer concepirono prima, attuarono poi, il miracolo della «rinascita» tedesca non dimenticando mai la Germania in divisa se è vero, come è vero, che nel momento in cui gli stessi alleati vincitori presidiavano armati la Germania, meditando fra le punizioni da infliggere l’abolizione coatta dell’inno nazionale, l’allora ultrasettantenne uomo politico cattolico, antinazista da sempre, si alzò in piedi, al momento della inaugurazione del primo parlamento democratico e, per primo, intonò fieramente il «Deutschland, Deutschland über alles!».

Non dimentichiamo, infine, che il cancelliere Adenauer, a mano a mano che i «criminali di guerra», processati e condannati a Norimberga dai vincitori, venivano liberati, li accoglieva con un messaggio di compiacimento e di ringraziamento a nome del governo tedesco. È lo statista che, pur avendo sofferto nelle carceri di Hitler, sa e sente che è suo dovere, per ricostruire e far vivere la Patria, farsi carico su di sé, nel bene e nel male, della responsabilità di tutta la storia tedesca. Questa è stata la fortuna della Germania sconfitta: aver trovato un Uomo che ha saputo guidarla nell’ora della disgrazia; cosa che non è capitata all’Italia che, ahimè, ha trovato, prima che italiani, troppi «antifascisti» sul cammino della ricostruzione. E le conseguenze si vedono e si sentono. Lo Stato tedesco è in piedi, vivo e vitale. Lo Stato italiano, è in coma profondo. La mafia, la camorra, la corruzione, il terrorismo gli sono addosso. L’antifascismo non volle essere «patria», ma parte. Raccoglie macerie. Soprattutto morali.

Dalla «storia» alla «farsa». È ricomparso agli onori della cronaca il dott. Giampaolo Porta Casucci. Chi è costui? Si rese tristemente famoso nell’ottobre '73 quando, tirando fuori un suo memoriale, dette inizio alla vicenda della cosiddetta «Rosa dei venti». "La Nazione" di Firenze (28.12.80), con un titolo a cinque colonne, in cronaca nazionale, scrive: «Il testamento di Doenitz nelle mani di uno spezzino. Un plico dell’ammiraglio tedesco a un medico che si era arruolato giovanissimo nella marina germanica ed era stato decorato dal successore di Hitler. Per aprire la lettera si cerca l’erede del legale destinatario della missiva». L’iniziativa, di cui parla il quotidiano fiorentino, è del dott. Porta Casucci. "La Nazione" è ricca di dettagli minuziosi: il plico contiene quattro buste, molti sono i bolli di ceralacca, così i timbri postali di varie nazionalità. Si fa il verbale. Siamo davanti al notaio. L’articolista dà alla sua prosa aria di circostanza. Si usa il tono della massima serietà e della verità più scrupolosa.

Si tratta di una balla. Una colossale balla. E a dimostrazione di ciò si riporta l’interrogazione parlamentare che il sottoscritto, in tema... Porta Casucci, fece il 28.11.73. Ci si chiederà perché venga rispolverata una vicenda simile che muove al riso. Lo facciamo, soprattutto, per sottolineare come questo paese, così male informato, divenga, spesso, preda di gente senza scrupoli, autentici «magliari» della notizia a sensazione. Se ciò finisse nello scherzo, poco male. È che simili «magliari», nel clima che viviamo, vengono presi sul serio, ed allora sono guai. Perché a prenderli sul serio sono magistrati, questori, giornalisti, politici. Ed allora c’è gente che, grazie a questi imbroglioni, patisce il carcere. È accaduto. Ed ecco l’interrogazione. Inutile dire che è corredata di tutti gli elementi di prova. Essa è stata pubblicata sul Bollettino della Camera dei Deputati n. 190-191 del 28.11.73.

«Ai ministri di grazia e giustizia e dell’interno. Per sapere se sono a conoscenza che il procuratore della Repubblica di Padova, pur ingiustamente e volgarmente colpito nei suoi sentimenti più cari dalla pubblicazione di un libello attribuito ad estremisti di varia estrazione, si è gettato, a parere dell’interrogante con troppa leggerezza, nella vicenda della cosiddetta "trama nera" della "rosa dei venti", anche se sono comprensibili i motivi umani di rivalsa verso chi ritiene, anche indirettamente, gli autori di un attacco così spietato e così ingiusto alla sua persona; per sapere, pur comprendendo della vicenda tutto l’aspetto umano che ha sconvolto la vita del magistrato, come sia possibile, da parte di una procura, dare dignità di prove (facendo spendere allo Stato l’ira di Dio in traduzione di detenuti da un luogo all’altro, in sopralluoghi, in incontri di vertice fra procuratori di più province, ecc.) alle dichiarazioni di un Porta Casucci Giampaolo che si crede essere il Führer, tanto da elargire (nel '73!) attestati di benemerenza e conferimento di medaglie al valore a firma del capo della Germania nazista, del duce del fascismo, del maresciallo Rodolfo Graziani, documenti che, falsificati dal Porta Casucci, circolano nella zona a piene mani; per sapere se sono a conoscenza che uno di questi documenti, fabbricati dal Porta Casucci, è di questo tenore, il tutto stampato in caratteri gotici: 1945. Ordine militare dei Soldati dell’Onore. Il combattente "tal dei tali" ha diritto di fregiarsi della Croce argentea. Registro n.... Roma 29 marzo '72/XXVII del martirio. Per autentica». (Seguono una serie di timbri); per sapere se sono a conoscenza che il Porta Casucci, per avvalorare l’autenticità di questi documenti, elargiti a poveri sprovveduti della zona, li fa partire dalla Svizzera, inventando che provengono dalla Croce rossa internazionale; per sapere se sono a conoscenza che il Porta Casucci, con la più imperturbabile faccia tosta, afferma di avere messo fuori combattimento (tutto solo!), sul fronte di Cassino, 43 carri armati americani; di avere inabissato (tutto solo!) tre navi da guerra inglesi e, per questi atti, di essere stato decorato dal Führer in persona, quando è a tutti noto che il Giampaolo Porta Casucci non ha mai fatto un giorno di soldato, in quanto riformato per debolezza costituzionale; e quindi si chiede come sia stato possibile che su altre fantasiose dichiarazioni di un tale personaggio, mettere sottosopra l’Italia, mobilitare stampa, televisione, polizia, carabinieri, SID; per sapere se sono a conoscenza che il Porta Casucci ha professato l’intero arco delle idee politiche, da quella comunista e anarchica a quella fascista; che ha subito processi vari, dall’omicidio colposo all’assegno a vuoto, al furto aggravato e continuato; che è stato confidente della polizia quando era iscritto alla sezione di Agliana (Pistoia) del PCI; che afferma di essere stato aggredito per motivi politici quando si trattava di vicende riguardanti la nipote del prete; che, amico e ospite del sindaco socialista di Ortonovo (La Spezia), impallina con una carabina ad aria compressa (così, per scherzo, dice lui!) la di lui moglie che in giardino stava togliendo l’erba da un cespuglio di rose; si chiede come sia possibile che l’intera procura di Padova dia ascolto, sconvolgendo l’Italia con notizie così allarmanti e amplificate dalla radio e dalla televisione, ad un simile personaggio; si chiede come sia possibile e ammissibile che fra il procuratore della Repubblica di Padova e il Porta Casucci, presenti i giornalisti, si svolgano dialoghi di questo tipo: il Porta Casucci rivolto al procuratore: "Lei è un autentico gentiluomo di antico stampo, un vero amico"; il procuratore rivolto al Porta Casucci: "Dottore, lei avrà la gratitudine dell’intera nazione"; per sapere se intendano, rispettando, per carità, tutti i diritti che provengono dall’essere la magistratura un corpo autonomo, far presente ai protagonisti togati della vicenda che, sì il Porta Casucci potrà avere la gratitudine dell’intera nazione, ma che esiste anche il pericolo, dato il personaggio, che la credibilità nelle istituzioni, cosa molto importante, ne esca da questa vicenda, incrinata; e che, soprattutto, non è consentito, pur grande sia il caso personale per cui si soffre, rischiare di ridicolizzare l’intero apparato protettivo dello Stato, mobilitato e messo in allarme da un mitomane e da un cacciaballe senza precedenti».

Come è facile constatare, questi mitomani e cacciaballe, sono duri a morire se, perfino quotidiani come "La Nazione", a distanza di anni, danno ancora spazio alle loro malate fantasie.

 

24 gennaio 1981

Alberto Cavallari, sul "Corriere della Sera" (18.1.81), a proposito della vicenda del sequestro D’Urso, solleva, sotto il titolo «I nipotini di Goebbels», la questione morale. E scrive: «È giusta la tesi di Berlinguer sul diciannovismo che incombe. È importante che Fanfani abbia gettato l’allarme sul '20 che rispunta. Ma se facessimo un passo in là, chiedendoci se non ci siamo arresi ad un atroce '43?». E i riferimenti, per Cavallari, sono lì, a portata di mano: gli ostaggi e i partigiani col cartello al collo li abbiamo già visti, scrive; siamo nuovamente davanti ad una morale nazista condivisa ed accettata. Cavallari prosegue chiedendosi perché mai, per ragioni umanitarie, dovrebbe sopravvivere un uomo: forse perché il nazismo diventi elemento di negoziato e perché i figli possano conservare i padri se li proclamano boia? L’umanità, secondo Cavallari, si sarebbe divisa in civiltà e barbarie una buona volta per tutte: quando le democrazie, alleate del comunismo sovietico, dovettero fronteggiare il nazismo. Lo spartiacque storico, civile, morale è lì. Da una parte la ragione, dall’altra la barbarie. Ed è lì che occorre tornare, afferma Cavallari, se si vuole cacciare indietro il nuovo nazismo.

Ora se Berlinguer, per sollevare una questione morale, ha preso come termine di paragone il '19; Fanfani il '20; Cavallari il '43; perché dimenticarsi di tempi ancora più recenti, quando ai figli non era consentito di conservare i propri padri, nemmeno gratificandoli come «boia», ma addirittura se ne dovevano augurare la morte per riscattarsi? Sì, perché anche questo, sullo scenario del mondo è avvenuto, e non per colpa del nazismo.

Vogliamo alludere al novembre '52 quando, davanti al Tribunale del popolo di Praga vennero processati, per poi essere impiccati Slansky e compagni (11 condanne a morte e tre ergastoli). "l’Unità", per la firma del senatore Ottavio Pastore e del deputato Pietro Segre, inviati speciali al processo, titolava: «La banda di spie davanti al Tribunale di Stato di Praga. Il traditore, un tempo dirigente comunista, confessa i suoi crimini». E, sotto, con accenti fieri, il racconto della consorte di Slansky che, eroina popolare, davanti al marito reo confesso, incita i figli a odiare il padre e a ritenere giusta la condanna a morte del proprio genitore.

Ottavio Pastore ["l’Unità" 28 novembre '52] così commenta l’episodio: «La madre che incita i figli ad odiare il padre, hanno esclamato questi gesuiti. Tragica situazione, certo, quella di tante famiglie, il cui capo si rivela indegno anche di essere padre, ma nobile condotta quella della compagna Josefa che dice l’angosciosa verità ai suoi figli e, attraverso la forza del dolore, vuole farne uomini onesti e combattenti per la grande causa tradita dal padre».

Cosa diventa, davanti a questo agghiacciante episodio del '52, la vicenda della figlia del giudice D’Urso che, alla televisione, è costretta a leggere il proclama delle BR, nel quale il padre è definito boia? Qui, con l’entusiastico e... spontaneo commento de "l’Unità" si va molto più in là. Addirittura qui è la moglie a chiedere la morte del marito traditore e a dire ai figli che è solo con la morte del proprio padre che c’è, per loro, possibilità di riscatto. Si sa come stavano le cose in quel lontano '52. Le accuse contro Slansky e compagni erano tutte menzogne. Il patibolo lavoro. Slansky fu impiccato. Fra il plauso della moglie, dei figli e dei comunisti italiani. Da allora sono passati 28 anni. Dalla vittoria sul nazismo ne erano passati appena sette. Le gazzette democratiche non ricordano più. Nemmeno "l’Unità".

Si sta per dare avvio alla operazione «trasferimento» della Biblioteca della Camera dei Deputati. Vengono lasciati i locali del Palazzo di Montecitorio per andare ad abitare quelli di Via Uffici del Vicario. La realizzazione dell’opera è dell’importo di svariati miliardi. Formalmente, se si vanno a vedere le cose, tale decisione pare assunta con i criteri di una informazione corretta e di una decisione altrettanto conforme alle regole. Ma le cose non stanno così. Innanzi tutto il convegno promosso dalla Presidenza della Camera sul trasferimento della Biblioteca, con l’intervento dell’architetto Franco Barsi e di altri relatori, se venne in qualche modo pubblicizzato con un certo numero di inviti, si ebbe cura di tenere il più appartato possibile, se è vero, come è vero, che gli atti di tale Convegno non sono stati mai pubblicati. In secondo luogo la decisione del Comitato di Presidenza, Pietro Ingrao Presidente della Camera, di formalizzare il trasferimento, è presa a Camera dei Deputati sciolta. E non è una decisione da poco se, non solo ci accingiamo a portar fuori dal Palazzo la antica Biblioteca, con ciò favorendo l’esodo dei deputati da questo fondamentale lavoro di consultazione, ma destinando all’operazione «fior di miliardi», con il rischio di vedere, nel volger di pochi anni, i nuovi locali di cui si va a prendere possesso, non più bastevoli a raccogliere le nuove immissioni. Avrebbe dovuto questo argomento, così significativo e così sostanzioso nei suoi riflessi, formare oggetto di responsabile e approfondita discussione in occasione dell’approvazione del Bilancio interno della Camera dei Deputati. Così non è stato. Perché?

Sul "Corriere della Sera" (20.1.81), Giovanni Spadolini, tenendo la prolusione al 178° anno accademico dell’Istituto lombardo di Scienze e Lettere, ha parlato su «Montale e la Società italiana dal Gabinetto Vieusseux al Mondo». Secondo il "Corriere", Spadolini ha messo in luce lo straordinario itinerario montaliano sullo sfondo delle vicende della nostra storia contemporanea, dagli anni bui della «lebbra fascista» al difficile periodo della ricostruzione. Una preghiera: perché Giovanni Spadolini, quando proprio non può fare a meno di parlare di «lebbra fascista», non incarica qualcun altro? Soprattutto, per una ragione di buon gusto. Quando infatti (e il "Secolo" lo ha ricordato più volte) il segretario nazionale del PRI si è lasciato andare, dall’alto della sua cultura storica e umanistica, a dei paragoni, per cui i partigiani, dinanzi ai combattenti della RSI, che lottavano per restituire dignità di nazione, prestigio di popolo e coscienza di Stato all’Italia (così nel testo spadoliniano), altro non erano che «straccioni, pezzenti, servi, lacché e mezzani, cioè la parte più spregevole e degenerata della nostra razza» ["Italia e Civiltà", 22.4.44]; quando si è scritto ciò non è consentito discendere a discettare sulla «lebbra fascista». Il senatore Giovanni Spadolini ha, al suo fianco, Leo Valiani. Lo lasci fare a lui, se se la sente. Valiani può avere i titoli. Spadolini certamente no.

Sono passati cento anni dalla nascita di Giovanni Papini. La stampa ha dato rilievo all’avvenimento. Nel "Diario" di Papini, sotto la data del 5 novembre '49, trovo questa annotazione: «Spadolini, tornato da Roma, mi racconta di avere conosciuto alcuni uomini politici. Nenni, visto da vicino, fa buona impressione. Piccolo borghese, romagnolo, cordiale e chiassoso sullo stampo dei vecchi socialisti. Missiroli tenta di metterlo d’accordo con De Gasperi. Saragat gentile ma freddo e non molto pronto. Parla con l’erre moscia. Guglielmo Giannini, l’inventore del qualunquismo, è tutto ritinto, pare uscito da un vecchio Café Chantant napoletano. Ha consigliato a Spadolini di darsi al giornalismo e di prendersi un’amante focosa». Al giornalismo Spadolini si è dato. In quanto a prendersi un’amante «focosa», le notizie sono meno certe. C’è anche questa, e per giunta focosa, nella vita del Giovannone nazionale? Le sai le risate...

 

28 gennaio 1981

Giovedì 22 mattina, in sala stampa di Palazzo Montecitorio, quando era arrivata la notizia che il ministro socialista Lagorio aveva revocato il provvedimento che vietava ai paracadutisti di Pisa la libera uscita, in ordine agli incidenti di domenica 18, era presente il deputato socialista Falco Accame, già ufficiale superiore di Marina, già presidente della Commissione Difesa della Camera dei Deputati. In presenza dei giornalisti è sbottato in questa espressione: «Al prossimo congresso del PSI di Palermo gliela faremo pagare anche questa a Lagorio. Quello non è un socialista, è uno stronzo...».

L’episodio, lì per lì, mi ha sconcertato. Nessuno meglio di me, infatti, conosce la vicenda del comandante Falco Accame e delle sue dimissioni dalla Marina. Fui, allora, l’unico deputato (e quanto me ne sono rammaricato) a prendere le difese del gesto del comandante dell’«Indomito» in Commissione Difesa, nel silenzio di tutte le altre forze politiche. Non basta. Sono stato altresì il primo parlamentare in carica ad incontrarmi a Viareggio con lui, onde conoscere, dalla sua viva voce, come stavano le cose. Ebbene una delle motivazioni (forse la più risentita), per cui l’ammiraglio in pensione Falco Accame affermava di essersene venuto via dalla Marina, era quella di avere ricevuto, in un colloquio con l’ammiraglio di squadra De Giorgi, capo di Stato maggiore della Marina, offese plateali; del tutto simili a quelle che oggi lo stesso Accame indirizza al proprio compagno di partito Lelio Lagorio, ministro della Difesa. Comunque -mi perdonino i lettori se devo ricorrere a questa espressione pittoresca- Accame viene a dare dello «stronzo» al ministro Lagorio perché correggendo un suo iniziale e troppo precipitoso provvedimento punitivo contro i paracadutisti di Pisa, ridimensiona l’intera vicenda e non si allinea con coloro che, come Accame, hanno definito i soldati «fascisti, squadristi, manganellatori, nazisti».

C’è al riguardo, una intervista di Accame al "Tirreno" di Livorno (21.1.81) che è davvero illuminante. Anche perché capita a poca distanza di tempo da un’altra dichiarazione di questo loquacissimo ex-militare di carriera che non riusciamo proprio a renderci conto come abbia potuto, da giovane, sposare il mestiere delle armi se, da mattina a sera, altro non fa che «sputarci» sopra. E con un astio che non può non avere motivazioni patologiche.

Ora, in occasione del terremoto, il socialista Accame, tanto per trovare un pretesto per dare addosso ai vertici militari, dichiarò che era stato un gravissimo errore non avere impiegato subito i reparti speciali, come i paracadutisti della scuola di Pisa e i marò del San Marco; reparti disse, che per il loro altissimo addestramento, sarebbero stati in grado di essere sul posto del disastro in poche ore. Ora la solfa è diversa. Quei reparti, aggrediti e sputacchiati da una «sinistra» che a Pisa non ha avuto mai remore di dichiarare le proprie vicendevoli simpatie fra settori del PSI e estremismo brigatista (si vedano gli incidenti dell’agosto '73) e che per questo rimprovera ora ai parà di essere, fra l’altro, autori del blitz nel carcere di Trani, vengono dal... comandante Accame definiti psichiatricamente tarati di fascismo e quindi da sottoporre a terapie di disintossicazione ideologica, o addirittura da mandare a casa.

Si dirà: ma ciò rientra nelle idee sempre professate dall’... ammiraglio in pensione con mandato parlamentare (socialista). Errore. Quella di Accame, a voler essere gentili, è una recitazione. Che è iniziata il giorno in cui, salito alle cronache per l’episodio dell’«Indomito», pensò di darsi alla politica, anche per esercitare piccole e basse vendette. Il socialismo era già nel suo cuore? Ma nemmeno per sogno. Fu un caso. Accame ebbe diverse richieste di candidature. Anche dai radicali. Allora, per prendere la decisione, mise i foglietti nel cappello e tirò su. Venne il PSI. E così è diventato il fustigatore delle FF.AA.; l’uomo, con tessera socialista, che dà dello «stronzo» al socialista ministro Lagorio promettendogli di fargli saltare il posto al prossimo congresso nazionale di Palermo del PSI.

Direte: ma come è possibile? C’è fra me e il... Comandante, e in periodo non sospetto, una nutrita corrispondenza. C’è la sua collaborazione alla rivista «Politica e Strategia», diretta da Filippo de Jorio ('74), per anni latitante in quanto accusato di partecipazione al cosiddetto «golpe Borghese», poi assolto. Un socialista libertario, così come ama definirsi Accame, come può giustificare simili collaborazioni se non definendo le sue attuali «posizioni» opportunistiche. Ed ora, eccolo qua, a fare la morale al corpo dei paracadutisti. Lo volete più squinternato di così? Ma la colpa non è sua. È della stampa, che tutte le volte che sentenzia, lo deve riportare ai quattro venti. Si è tanto parlato e polemizzato sul black-out. Estenderlo a Falco Accame è opera sacrosanta. Per ragioni, soprattutto, di serietà e buon gusto.

Conserviamo, risalenti al luglio '71, delle risoluzioni (fra le quali una del brigatista Senzani) che vennero discusse nel Convegno del 24-25 luglio '71 di Bologna di "Lotta Continua". Una si occupa delle carceri, l’altra delle caserme. Si sa come sono andate le cose dal '71 ad oggi. Le cose, che nel '71 "Lotta Continua" elencava per le carceri, sono in pieno svolgimento sotto gli occhi di tutti. Quando quelle risoluzioni cominciarono ad essere propagandate, tutta la sinistra ufficiale fece da megafono. Ed oggi se ne raccolgono cocci e conseguenze. Per le caserme, i tentativi di renderle come le carceri, sono andati più lenti, ma non si sono mai fermati. La Scuola Paracadutisti di Pisa fu nell’agosto del '73 al centro dello stesso episodio di cui è oggi. E se ci si fa caso le motivazioni sono identiche. Infatti, cosa si rimproverava alla Scuola parà di Pisa nel '73? Basta sfogliare "il Manifesto" (4.9.73) e "Lotta Continua" (5.9.73). A titoli di scatola si denunciano i propositi del ministero degli Interni di utilizzare i reparti speciali dell’Esercito contro i detenuti in rivolta. Per questo, sette anni fa, i parà di Pisa vennero aggrediti per le strade. Qualcosa di diverso oggi? No. Infatti le aggressioni «pisane» hanno una motivazione ben precisa: è nella Scuola Paracadutisti di Pisa che sono stati addestrati i reparti che hanno compiuto il blitz nel carcere di Trani. Tutto qui. E giù menzogne e infamie sugli uomini in divisa. Non meravigliatevene: il mondo politico ufficiale si appresta a punire i soldati. È un’infamia, ma è così. Ma come è possibile, in questo stato di cose, che si afferma, in campo internazionale, come lo stesso ministro Lagorio si augura (una task force di pace e di guerra), una qualche credibilità dell’Italia se poi Governo e ministri, davanti al terrorismo, solidarizzano, nella sostanza, con le BR?

 

30 gennaio 1981

Giorni fa, al Quirinale, c’è stata, in anteprima per Sandro Pertini, la proiezione delle prime puntate dello sceneggiato televisivo sulla vita di Antonio Gramsci, che la TV di Stato va trasmettendo. Congedandosi dagli autori, Pertini ha detto: «Aspetto di vedere come mi avete trattato quando, nel carcere di Turi, entro nella vicenda anch’io». Imbarazzo grandissimo. Gli autori dello sceneggiato non avevano pensato minimamente ad introdurre il personaggio Pertini nella vicenda Gramsci. E sono corsi subito ai ripari. Infatti, si stanno girando nuove scene in cui Pertini avrà il volto e la voce di Pier Luigi Giorgio; scene che saranno inserite nella quarta puntata dello sceneggiato, là proprio dove il presidente si aspettava di vederle.

Il fatto si commenta da sé. Aggiungere, anche una parola, sarebbe guastarlo. Il lettore è in grado di gustarlo in tutti i suoi significati, senza essere accompagnato da nostre considerazioni. Se mai cogliamo l’occasione per sottolineare, ancora una volta, come l’antifascismo culturale, che ha sempre rimproverato al fascismo di manipolare rozzamente, a proprio uso e consumo, cronaca e storia, faccia altrettanto. E in un modo così sfacciato da rasentare l’impudenza.

Si veda l’episodio dell’incontro di Gramsci con Pertini nel carcere di Turi. Se ne erano dimenticati e sono corsi ai ripari. Nel gesto non c’è alcun intento di colmare vuoti storici. Infatti -statene certi- nulla diranno dell’episodio, che a quell’incontro si riallaccia, e che potrebbe aver valore di documentazione storica, episodio che lo stesso Sandro Pertini ha confidato a Italo De Feo: i compagni di carcere (comunisti di provata fede) tentarono di pestare Gramsci che fu, a stento, salvato dai guardiani.

Giuseppe Fiori, biografo di Gramsci, riporta al riguardo una dichiarazione dell’ex-detenuto a Turi, Giovanni Lai. È del seguente tenore: «La verità è che effettivamente le discussioni tra i compagni di cella non sempre mantenevano il carattere di discussione politica. Spesso scadevano a un livello di pettegolezzo e persino di calunnia, con apprezzamenti personali su Gramsci che a volte arrivavano sino alla degradazione... Lo Scucchia giungeva ad affermare che le posizioni di Gramsci erano socialdemocratiche, che Gramsci non era più comunista, che era divenuto crociano per opportunismo, che bisognava denunciare al partito la sua azione disgregatrice, e che intanto lo si poteva buttar fuori dal collettivo e dal cortile di passaggio».

Dove stava la ragione del contrasto? È che Gramsci non aveva accettato la nuova linea di Mosca, equiparante i socialisti ai fascisti. A suo avviso, in Italia, era necessaria l’unità di tutte le forze antifasciste per contrastare l’azione di Mussolini. Il PCI di Togliatti aveva invece accettato la linea staliniana.

Nell’episodio, un fatto inaudito, raccontato dallo stesso Gramsci alla cognata Tania. Gramsci, davanti al Tribunale speciale, si era difeso sostenendo che, sì era comunista, ma non faceva, nel modo più assoluto, parte del vertice esecutivo del PCI. Ora, nel carcere di San Vittore di Milano, gli arriva, per posta normale, da Mosca una lettera, a firma di Ruggero Grieco. Data di partenza, da Mosca, della lettera: 10 febbraio '28. Ebbene, in essa, Grieco, dicendo di parlare a nome anche di Palmiro Togliatti, oltre alle notizie dettagliate sulle vicende caratterizzate dalla prepotente personalità di Giuseppe Stalin e sulla necessità che anche i comunisti italiani si schierassero con lui, parla della carica che Gramsci rivestiva nel PCI. Al che il giudice di sorveglianza, consegnando la lettera a Gramsci, ha modo di dirgli: «Onorevole Gramsci, lei ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera». È evidente. Gramsci doveva essere eliminato perché Palmiro Togliatti divenisse il capo del comunismo italiano. E Gramsci era contro Stalin. Quella lettera aveva uno scopo ben preciso. E il primo a capirlo fu lo stesso Gramsci che, scrivendo alla cognata Tania il 5 dicembre '32 ["Lettere dal carcere", edizione Einaudi, pagine 710-711], rievocando quell’episodio, ebbe a definirla «lettera criminale», «un atto scellerato»; esprimendo il dubbio «che chi la scrisse fosse irresponsabilmente stupido e qualche altro, meno stupido, lo abbia indotto a scrivere». Il riferimento di Gramsci è chiaro: Palmiro Togliatti. Così mi eliminarono, scrive Gramsci. Fatto storico inaudito, lo abbiamo definito. Ed è vero. Ma statene certi: nello sceneggiato televisivo difficilmente, e nei suoi esatti termini, lo vedrete.

Come non vedrete, né verrete a sapere che Antonio Gramsci (come il "Secolo" ha già scritto) ha avuto un fratello fascista, Mario, federale del PNF di Varese subito dopo la marcia su Roma; valoroso combattente in Abissinia e in Africa Settentrionale, mussoliniano convinto. Caduto prigioniero, venne portato in Australia dove, essendosi rifiutato di collaborare con gli inglesi, venne confinato fra gli irriducibili. Rientrato in Italia, malatissimo, anzi moribondo, si spegneva a soli 52 anni. Il PCI di lui ha fatto sparire tutto: lettere, scritti, persino il ricordo. Lo sceneggiato televisivo di lui non vi dirà una parola. Gramsci scrisse: la verità è sempre rivoluzionaria. Questa, culturalmente, è la verità antifascista. Giudicate voi.

 

6 febbraio 1981

In questi giorni, davanti al Tribunale penale di Milano, stanno sfilando, nella veste di imputati, i collaboratori più vicini al già presidente del Consiglio dei Ministri Giulio Andreotti, all’attuale ministro degli Esteri (e già presidente del Consiglio) Emilio Colombo, al già più volte ministro Luigi Preti (che due imputati dicono abbia percepito una bustarella di 150 milioni). Di che si tratta? Ce lo dice la requisitoria. «Si tratta di uno dei più gravi scandali della Repubblica; una delle più incredibili truffe ai danni dello Stato e dei contribuenti ideata da falsari senza scrupoli che hanno potuto agire grazie all’appoggio di taluni uomini politici».

In breve si tratta di questo: zitti, zitti si preparò e si varò (in Commissione) una «leggina» che stabiliva che le aziende le quali avevano fornito materiale bellico ai tedeschi, anche dopo 1’8 settembre '43, sarebbero state indennizzate per i danni subiti. Così, in un sottoscala di Firenze, si è fabbricata una documentazione attestante che le società Caproni, Siai Marchetti, Riva Calzoni fornirono ai tedeschi 3.600 aerei da combattimento e 624 traghetti e, in base a ciò, si chiedevano 60 miliardi di lire di indennizzo. Tutto falso. Ed ora c’è il processo.

L’Inquirente dorme. E di grosso. Addirittura russa. Non si è accorta che fra le carte processuali c’è anche questa lettera che, testualmente, riportiamo: «Caro Presidente, in relazione alla tua del 25 settembre '72, in cui mi solleciti la definizione della pratica dei danni di guerra della Società Aeroplani Caproni, ti assicuro di avere interessato, nel senso da te indicato, l’Intendente di finanza di Milano che sta seguendo dallo scorso luglio con attenzione questa posizione. Tuo Giovanni Malagodi, ministro del Tesoro».

Non ci sono dubbi. Qui non è il solito capo di Gabinetto a sollecitare i pagamenti ai falsari, ma è, in persona, come il ministro del Tesoro del tempo attesta, lo stesso presidente del Consiglio dei Ministri, cioè Giulio Andreotti. Non si ferma qui. Perché lo Stato pagasse ai falsari i 60 miliardi di lire, oltre Andreotti, intervengono Emilio Colombo, Luigi Preti, il sottosegretario all’industria del tempo Lucio Mariano Brandi. Il grido è unico: pagate (ai falsari).

Truffa, truffissima. «Uno dei più gravi scandali della Repubblica», scrive il magistrato. L’Inquirente dorme. Russa. C’è qualcuno in grado di svegliarla? Sì, lo sappiamo: i ministri vengono regolarmente assolti. Ma in questo caso si va più in là: qui si rischia addirittura di mandarli assolti senza aver loro nemmeno contestato le accuse. Caro Franchi, sei un benemerito di tante battaglie. Ti affidiamo anche questa. Credimi: ne vale la pena.

Episodio nell’episodio. Il presidente del Consiglio del tempo, cioè Giulio Andreotti, chiamato in causa nella sporca vicenda, si è difeso scrivendo una lettera (ha lasciato dunque delle tracce ben visibili) in data 6.2.77, affermando che gli era stata carpita la buona fede e che raccomandazioni se ne fanno tante, e può darsi il caso di sbagliare. Così, con naturalezza. E quando scriveva, e la polemica infuriava, Andreotti era presidente del Consiglio dei ministri. «Ho raccomandato una banda di falsari, ho sbagliato, perdonatemi». È incredibile. E resta al suo posto. E i comunisti, che in quel momento lo appoggiano, zitti. Per molto meno (lo abbiamo scritto molte volte) il ministro Rosano, presidente del Consiglio dei Ministri Giolitti, si sparò. Andreotti (figuriamoci) non si spara. Ci fa la morale. Statene certi: ce lo troveremo candidato alla Presidenza della Repubblica.

Una nota di colore (ma cosa è senza colore in Italia?). Conservo un appunto di pugno dell’onorevole Gianuario Carta, già sottosegretario di Stato. Risale al 20 febbraio '76, quando la Camera votò la fiducia all’ultimo Governo (il V) Moro. Parlando sulla fiducia e, in particolare, sulla composizione «umana» del Ministero, venivo rimproverando al Presidente del Consiglio dei Ministri on. Aldo Moro (che mi ascoltava) di avere chiamato come sottosegretario alle Finanze Salvo Lima, le cui vicende... avventurose venivano raccontate, non certo in modo positivo, dalle carte dell’Antimafia; carte, che fra l’altro, contenevano l’accusa di svolgere il Lima attività di contrabbando. Ora, dato che il Lima non era stato chiamato dalle Finanze alla Cassa del Mezzogiorno ma al Bilancio, perché alla Cassa del Mezzogiorno c’era andato Gianuario Carta, questi, per non venire confuso nell’accusa che muovevo, mi scriveva un biglietto (che conservo) in cui mi pregava (cosa che feci) di rettificare, per cui, per errore, avevo attribuito a Lima l’incarico di Carta e che «attualmente in questo Governo il contrabbandiere è sottosegretario al bilancio» (così, di pugno di Carta). La vicenda è significativa. Soprattutto per dimostrare la reciproca stima che corre fra «colleghi» della DC, membri di uno stesso Governo. Presidente: Aldo Moro.

Questa la battuta di Viglianesi a Giacomo Mancini: «Ma perché mi guardi così? Non sai ancora come sono fatti i miliardari?».

 

8 febbraio 1981

«L’8 o il 9 maggio, la brigata Val Strona scende dai monti e a Meina occupa l’hotel Milano, uno dei più belli. Comandante era Anselmo Forneron e vicecomandanti i fratelli Magnaghi. Stanno facendo festa, quando verso mezzanotte arriva una cameriera gridando, correte, correte, stanno ammazzando i miei padroni! Parte il capitano Forneron, parte il Mauri, mio parente e mio segretario, e arrivano in questa villa subito al di là della strada del Sempione. Trovano alcune persone al muro e una formazione comunista di Moranino che stava per fucilarli. Al muro sono Arnoldo Mondadori, Alberto, Giorgio, Mimma e una zia Mondadori. I nostri fanno una questione di principio. Dicono: questo territorio è nostro. E così li salvano. Poi il comandante Forneron sposò la Mimma Mondadori. Devo dire che in seguito il vecchio Arnoldo quando gli abbiamo chiesto di aiutare qualche partigiano l’ha sempre fatto. Ma una cosa che mi ha fatto male è avvenuta nel 1975 quando i giornali della Mondadori si sono rifiutati di fare pubblicità a pagamento alla DC»

Così il miliardario, partigiano, ex ministro Giovanni Marcora su "L’Espresso" [21.12.80, n. 51]. Questa «pennellata» ci ha fatto venire alla memoria una nota de "La Voce repubblicana" (non quella del PRI, ma quella che usciva durante la RSI). È datata 29 giugno '44, ed è dedicata alla benemerita famiglia Mondadori. La nota, dopo aver descritto le ricchezze accumulate durante il fascismo da Mondadori Arnoldo, così conclude: «Arnoldo Mondadori non nascondeva poi le sue aspirazioni a diventare senatore che manifestava scocciando l’anima e leccando a dovere tutte le personalità politiche più autorevoli, nella speranza di riuscire nel suo intento, attraverso qualche forte calcio nel sedere. Questa sua ambizione gli costò milioni, sperleccamenti e chinar di dorso a iosa, ma nonostante tutto non riuscì mai a realizzare il suo sogno. Ora la sua Casa editrice e sotto controllo di una Commissione straordinaria, ma vorremmo che anche le sue proprietà private venissero sottoposte ad una severa inchiesta dalla Commissione sugli illeciti arricchimenti per essere confiscate ed espropriate nell’interesse dello Stato. Proponiamo poi alle autorità di requisire immediatamente la lussuosa villa che egli possiede a Meina sul Lago Maggiore, per ospitarvi i sinistrati dei bombardamenti alleati e i profughi delle terre invase»

L’arte del «leccare». È diffusissima in Italia. Si fa carriera e quattrini. Guardate Mondadori: diventò ricchissimo durante il fascismo. Ha raddoppiato con l’antifascismo. E salva tutto: cariche, quattrini, proprietà, ville, panfili. Gli è andata sempre bene a Mondadori; la sua è una storia davvero affascinante. Non la vedrete pubblicata su "Panorama". Peccato.

«Perché in una lettera dalla prigione Moro si appellò al basista Misasi, uomo molto chiacchierato per faccende di mafia? Ma per l’amor di Dio! Ma quale mafia?! Io Misasi lo conosco bene, nessuna mafia. L’onorevole Frasca una volta lo disse e fu costretto a ritrattare tutto». [Giovanni Marcora, "L’Espresso", 21.12.80, n. 51]. Marcora (miliardario, ma come li ha fatti?) afferma il falso. Non una volta, ma più volte l’allora ministro della Pubblica Istruzione Riccardo Misasi, amico di corrente di Marcora (sinistrissimi tutti e due), venne invitato (in aula, con interrogazioni, sulla stampa) a tutelare la propria dignità dall’ accusa di ricevere dalla mafia calabrese voti di preferenza per essere eletto, ma invano. Anche chi scrive ebbe con il Ministro degli scontri (verbali) violenti, ma il Ministro non fece mai quello che doveva fare e che anche Pertini, presidente della Camera, nella seduta del 2.10.70, gli ricordò: l’appello all’articolo 74 del Regolamento che prevede la costituzione del giurì d’onore. Misasi chiese la parola per fatto personale. Parlò a lungo, ma non chiese il giurì d’onore. Svicolò sulla... sociologia. E si tenne le accuse. Ben coperte. Perché, come al solito, essendo Misasi della sinistra di base, ebbe dal PCI il silenzio. Il PCI non sparla mai dei propri amici. Anche se sono amici dei mafiosi.

A riprova di quanto scritto sopra c’è questo trafiletto de "Il Tempo". Porta la data del 25.10.70. È a firma di Enrico Mattei. Il titolo è: «Uno strumento dimenticato» (l’art. 74 del Regolamento della Camera sul giurì d’onore, N.d.R.) «Il Ministro Misasi è impigliato -vero pulcino nella stoppa- negli insoluti problemi scolastici. Trovi tuttavia il tempo di andare a consultare il regolamento della Camera. Potrà leggervi un articolo, l’articolo 74, che consente al deputato, che sia accusato di fatti che ledono la sua onorabilità, di chiedere al presidente della Camera di nominare una commissione di indagine che esamini la fondatezza delle accuse. Se non vuol querelare i suoi accusatori e tradurli davanti a un tribunale, il Ministro può far uso di questo articolo. Si lamentano, questi nostri uomini politici, di aver perduto la fiducia del paese di essere disistimati e sospettati. Possiamo anche ammettere che sfiducia e disistima siano, nella maggioranza dei casi, ingiuste o almeno eccessive, sproporzionate. Ma che cosa fanno per ristabilire il proprio prestigio, la propria onorabilità questi valentuomini?» Come si vede l’onorabilità di certi ministri era già in discussione dieci anni fa. E le accuse non erano lievi se il ministro della Pubblica Istruzione, cioè nel dicastero che fu di Francesco De Sanctis e di Giovanni Gentile, veniva accusato di connivenza con la mafia.

Sotto il titolo «Quel cinquantenne e una promessa», "Panorama" il 28 luglio '80 (cioè cinque mesi fa), quando dello «scandalo Bisaglia» non si parlava, pubblicava una nota, in cui poneva, all’attenzione della pubblica opinione alcuni uomini politici italiani come «promesse», come «emergenti». Fra i più promettenti, il settimanale di Mondadori metteva anche Emo Danesi. State a sentire come lo descriveva: «Emo Danesi, 45 anni, livornese, nuovo responsabile dell’ufficio elettorale. Ha portato a Palazzo Sturzo quella ventata neo-dorotea di efficienza un po’ brutale che ha fatto bene alla struttura mandata avanti per anni in modo sonnacchioso dal fanfaniano Bernardo D’Arezzo. A Livorno, in gioventù, si fece largo a spese del pluriministro in declino Giuseppe Togni. Oggi è l’uomo di fiducia del leader doroteo e ministro dell’Industria Antonio Bisaglia che l’ha scoperto, se l’è tenuto a fianco come segretario e l’ha lanciato un paio d’anni fa. Pragmatico e spregiudicato, deputato da due legislature, non ha ancora lasciato il segno per qualche intervento politico e qualche riferimento culturale. È invece un grande organizzatore, sempre molto attento a quel che succede nel mondo delle banche, delle finanziarie e delle assicurazioni. Lavora sodo ma non rinuncia alle vacanze a Cortina, che passa spesso in compagnia dell’amico Albino Buticchi, ex-presidente della squadra di calcio del Milan...» e già in galera a La Spezia. Per contrabbando. Di petrolio. Gira e rigira ti incontri sempre con il petrolio. Emo Danesi ha querelato il nostro Altero Matteoli, segretario provinciale del MSI-DN di Livorno. In quella occasione gli chiederemo anche di Buticchi.

 

13 febbraio 1981

Nel mirino delle polemiche Leonetto Amadei, presidente della Corte Costituzionale. I radicali, a proposito della vicenda dei referendum, lo accusano di non essersi dimenticato della tessera del PSI che ha in tasca. Qualche tempo fa scrivemmo di Leonetto Amadei due cose. Con la prima gli attribuimmo la battuta, per cui «tutte le volte che vedo Giacomo Mancini mi viene voglia di costituirmi parte civile»; con la seconda ricordammo che era stato, in gioventù, capo manipolo della MVSN.

Simpaticamente il presidente della Corte Costituzionale mi inviò il seguente biglietto. È in data 10.4.79. «Caro Niccolai, leggo su "L’Eco della Versilia" una tua noterella che mi riguarda. È garbata e simpatica, denota il "pisanaccio", ma consentimi di dirti che sei stato male informato perché i fatti che racconti non sono esatti. A parte la battuta piuttosto malvagia (non l’ho mai pronunciata) che mi attribuisci in riferimento a Giacomo Mancini, ti dichiaro che non sono mai stato Capo manipolo della M.V.S.N. (sottolineato nel biglietto, N.d.R.). «Potrei addebitare una evenienza del genere... ad errore giovanile ma non è così, ed il vero è precisamente quello che ti ho detto. Ricevi le mie cordialità. Leonetto Amadei»

Il Presidente della Corte Costituzionale aveva ragione. Ero incorso in errore. E lo riconobbi ad Amadei stesso. Infatti il presidente della Corte Costituzionale non è stato Capo manipolo della MVSN, ma vice comandante dei Giovani Fascisti di Seravezza (Lucca). A Cesare quel che è di Cesare, a Leonetto quel che è di Leonetto.

«Il radicale onorevole Tessari ha parlato per sei ore. Ha attaccato tutti e tutto con accenti estremamente aspri e parole colorite. Parlando del senatore Valiani, l’ha definito "mascalzone", "vigliacco", "nuovo fascista", aggiungendo anche altri pesanti epiteti» [Ettore Sanzò, "La Nazione", 6.2.81, prima pagina].

Quanto è complicata la vita. Il senatore Leo Valiani, antifascista a 18 carati, etichettato da «nuovo fascista» dall’onorevole Tessari (data di nascita: 1942) che viene alla luce dall’unione di un ufficiale dell’aviazione italiana con una spagnola, conosciuta evidentemente durante la guerra civile, quando il «generale» Tessari combatteva con i fascisti di Franco. Vatti a fidare delle circostanze. Lo zio del Tessari diventa poi sottosegretario dell’Aviazione della RSI. Queste «traversie» familiari non sono senza conseguenze nel giovane Tessari. Infatti, caduto il fascismo, il giovane diventa democristiano, poi comunista, ora è radicale. Tormentata la sua vicenda politica. A quando la prossima mossa?

A proposito di epiteti, ho davanti a me il resoconto stenografico della seduta della Camera del 9.1.81 (n. 269). A pagina 79 c’è questo scambio di battute: Cicciomessere: «C’è un individuo squallido che mi sta insultando» (interruzione del deputato Pugno). Presidente: «Vi prego di non interrompere» Pugno: «L’ho solo onorato dandogli dello stronzo!» (Proteste dei radicali). Presidente: «Onorevoli colleghi! Richiamo all’ordine l’on. Pugno per le frasi che ha pronunciato, assolutamente irrispettose, che in questa aula non si devono sentire» Pajetta: «Pugno è un operaio licenziato dalla Fiat e quell’altro è quello che gli ha detto Pugno» (Si ride all’estrema sinistra).

«Così il presidente della Montedison Schimberni sorrideva; anche lui non aveva nulla da temere, almeno per ora. Fra due o tre giorni gli arriveranno gli otto o dieci milioni che guadagna al mese... Ma noi stiamo con l ‘operaio che verrà licenziato...» [Fortebraccio, "l’Unità", 28.1.81].

D’accordo, ma Fortebraccio dimentica che anche i giornalisti del "Messaggero", alcuni dei quali beccano anche quattro milioni e mezzo al mese, non hanno nulla da temere, pur essendo "Messaggero" di proprietà della Montedison. L’Azienda "Messaggero" è attiva? Nemmeno per sogno. Ha un passivo che sfiora di otto miliardi l’anno. Allora si chiude?
Nemmeno per sogno. I giornalisti sono di sinistra e servono il regime. Non si toccano. A pagare sono solo i lavoratori. Gli sta bene a Fortebraccio? A noi, no.

Sono passati 60 anni dalla fondazione del PCI, avvenuta nel gennaio '21 al Teatro Goldoni di Livorno. Stampa, radio, televisione hanno dell’episodio inondato di notizie gli Italiani. Anche nei minimi particolari. L’editoria ha sfornato libri a ripetizione. Ma, guarda caso, poco o nulla, è stato dedicato al ricordo di Nicolino Bombacci che fu di quel congresso del ’21 a Livorno, a diversità di Togliatti, un protagonista.

Nicolino Bombacci, il vecchio leader del comunismo italiano, l’antico membro influente del Comintern, l’amico fraterno di Vladimiro Ulianoff, detto Lenin; viene fucilato a Menaggio, sul lago di Como, insieme ai gerarchi fascisti. Quando Pavolini, ferito, prima della scarica fatale, diede l’attenti e gridò: «Viva l’Italia!» e gli altri fecero coro, Nicolino Bombacci ebbe il tempo di aggiungere: «Viva il socialismo!».

«È buffo» amava dire, come parlando a sé stesso, Nicolino Bombacci, «la storia poi si chiederà: come mai in quegli ultimi momenti c’era con lui, con Mussolini, Bombacci, quel vecchio socialista? Forse perché era romagnolo anche lui.. erano stati a scuola insieme?»

Già, Nicolino Bombacci, il vecchio tribuno della plebe, finito con Mussolini nella RSI, a vivere quegli splendidi tragici 18 mesi senza speranza. Eppure, a Sampierdarena bombardata, era capace lui, il vecchio fondatore del PCI, di radunare migliaia di lavoratori. Malandato, povero, spesso con una punta di fame, andava di città in città a spezzare, come lui diceva, «il pane rivoluzionario della socializzazione». E gli operai si commuovevano a sentirlo parlare... Povero e caro Nicolino. Ucciso dallo stesso piombo che anni dopo, doveva infierire contro i lavoratori ungheresi, polacchi, cecoslovacchi. In tutto un rammarico profondo, indicibile, doloroso e che va confessato con brutale sincerità: il silenzio, il troppo lungo silenzio che su di lui, sulla sua vicenda terrena, sulla sua morte, è stato tenuto. Perché? Inspiegabile. E fa tanto male.

 

18 febbraio 1981

«"È più superstizioso di me". Me lo confida la sua segretaria personale, la Ruggi, quando le spiego che non voglio entrare in azione né oggi che è il 17, né domani che è martedì. Lei ride: Pertini la pensa allo stesso modo, al punto che, quando faceva i comizi in fila, contava il giorno 15, poi il 16, quindi saltava al 18. "Sarà contento di sapere che anche lei crede nella scaramanzia: gli farà colpo"». [Antonio Ghirelli, "Caro Presidente, due anni con Pertini", edizioni Rizzoli, pagine 27 e 28].

«Nei primi giorni (dall’insediamento, N.d.R.) abbiamo testimoniato il nostro cordoglio alla vedova di Marcello Marchesi, un umorista che è morto annegato, e ai congiunti del pugile Iacopucci, accoppato da un inglese sul quadrato». [idem, pagina 29].

«Lo ha messo di buon umore in questi giorni l’incontro con la madre del Presidente Carter. I due personaggi che sembrano usciti da un film di Frank Capra, si sono piaciuti reciprocamente... "Dopo averla conosciuta", ha detto Pertini, "capisco da quale rigogliosa pianta sia germogliato un frutto come il presidente Carter... Conobbi Nixon, che non rideva mai. Il sorriso di Carter è una speranza per tutti"». [idem, pagina 31].

«Il 3 agosto il Presidente rende visita, in forma strettamente privata, a Papa Montini nella residenza di Castelgandolfo... Purtroppo quattro giorni dopo Paolo VI muore. È la malattia del giorno 6... Pertini è preoccupato, si fa scrupoli: "Non vorrei averlo stroncato io con l’incontro dell’altro ieri"». [idem, pagine 39 e 40].

«A chi gli fa notare che Saviane (giornalista de "L’Espresso" che ha scritto un pezzo su Pertini, pezzo definito un po’ fuori della regola, N.d.R.) ha rasentato l’impertinenza, Pertini ribatte: "Caro Lei, se non vuole essere criticato vada a fare l’eremita", e scrive un biglietto di ringraziamento al giornalista: "Lei mi ha divertito, alleviando un poco la fatica di questa carica che mi opprime"».

«L’oppressione nasce anche dalla piccola folla di morti che comincia ad aleggiare sul Quirinale. Nella clinica di Ginevra, dopo un fuggevole miglioramento, spira Ignazio Silone» [idem, pagina 44].

«Nel pomeriggio del 25 agosto, il cerimoniere del Conclave intima l’extra omnes; circa 24 ore dopo, in capo ad appena tre o quattro scrutini, una fumata di colore ambiguo, annuncia al mondo cattolico l’elezione del Patriarca di Venezia Albino Luciani. Egli sceglie il doppio nome di Giovanni Paolo... «Il Presidente firma da Selva un messaggio di congratulazioni molto caloroso che si conclude con un augurio: "Che la Santità vostra possa guidare la cristianità per una lunga e felice serie di anni"». [idem, pagine 45 e 46].

«L’appuntamento più importante (siamo a Genova, N.d.R.) è al porto, per il pomeriggio. Facciamo appena in tempo a sapere che in Città è successa una disgrazia, un incidente sul lavoro, è crollata un’impalcatura, è morto un edile, altri tre sono rimasti feriti» [idem, pagina 59].

«Dopo poche settimane di pontificato muore, repentinamente, Papa Luciani. Di ritorno dalla visita privata effettuata in Vaticano per rendere omaggio alla salma del Papa Luciani, esposta nella sala Clementina, il Presidente appare assai melanconico, quasi accasciato: tra Papi e vittime del terrorismo i morti cominciano a sopraffarlo. [idem, pagina 69].

Ha ragione Francesco Damato del "Giornale Nuovo" a commentare: «Fortunatamente per il Presidente della Repubblica l’incarico di Ghirelli al Quirinale è durato solo due anni. Se fosse durato di più, chissà cosa sarebbe venuto fuori dai suoi racconti».

 

20 febbraio 1981

«È lecito firmare la pena di morte quando si sa che chi ha approntato i registri e la crociata, sono i nipotini di quel Mussolini che ha fatto uccidere prima in tempo di pace e poi nelle guerre più assurde milioni di italiani?» [Davide Lajolo, "La Gazzetta del Popolo", mercoledì 11 febbraio '81].

«Si sente ancora l’attenti. Ma non ci si può contenere. Bisogna urlare per non annegare sotto l’onda dei sentimenti che travolge. "Duce! Duce!". L’urlo tremendo scuote la sala, ripete gli echi in tutto il palazzo, su Roma. "Duce! Duce!" gridato con la passione di allora, quando ogni salto ci portava su una nuova trincea, ed ogni morto faceva brillare una baionetta in più sulle posizioni nemiche. "Duce! Duce!" e l’urlo fermava il nemico, gridava il nostro valore italiano, la nostra intransigenza fascista. Il nemico doveva arretrare o morire. Quel grido poteva esaurirsi solo nella vittoria, quando il tricolore col gagliardetto nero sventolavano sulle roccaforti rosse. Ora lo urliamo a Lui che ci sorride, la mano alta nel saluto romano. Nel nostro urlo c’è qualcosa di puro, di degno. Sono voci di trinceristi della guerra di Spagna. È ancora là, sotto la gran porta. È Cesare davanti ai capi delle legioni che ha mandato pel mondo nel nome di Roma. "Legionari". Mai come ora il suono di questa parola batte sul cuore l’orgoglio. Raccolti intorno a Lui, siamo un pugno solo. Ci guarda a lungo. Perdiamo gli occhi in Lui. Lo vediamo anche quando si è allontanato, seguito dal nostro urlo. Lo vedremo sempre nella vita. Duce, un tuo cenno, e i Legionari di Spagna, balzeranno ancora coi garretti induriti da due anni di guerra. Essi dormono "la testa sullo zaino" per essere ancora i volontari mistici, i guerrieri d’acciaio, i Legionari di Roma». [Davide Lajolo, "Bocche di Donne e di Fucili", Bologna, 28 maggio '39, XVII].

Sì, si tratta della stessa persona. Questo «signore», oggi, anno di grazia 1981, scrive che «firmare la pena di morte e tradire chi è morto perché vivessimo in un mondo più umano, sia sotto il fascismo, sia nella resistenza» e che al pensiero che un figlio di Matteotti ha firmato la petizione c’è da rabbrividire. Pensate: è lo stesso «signore» che, in un articolo su "Il Popolo d’Italia" [24.11.40, anno XIX], dal titolo «Viva la guerra!», lo terminava con queste parole: «Viva la guerra! E voglio incominciare così anche la lettera a mia madre». Lo abbiamo chiamato «signore». Ora lo definiremo un cialtrone. Invitandolo a restituire alla Biblioteca della Camera dei Deputati, di cui era anche questore oltre che deputato, il libro «Bocche di donne e di fucili», dal quale abbiamo, per il lettore, tratto squarci della sua prosa littoria. Lo deve restituire. Anche i cialtroni «di tono» devono essere ricordati. Con le loro «opere». Che non devono andare né perdute, né trafugate. La vergogna di avere portato un simile «cialtrone», da parte del PCI, a dirigere "l’Unità", non deve essere dimenticata. Deve restare.

Umberto Eco, su "la Repubblica" (14.2.81), sotto il titolo «Ma perché questa voglia di morte?», discettando sulla pena capitale, parla delle difficoltà che si incontrano tutte le volte che si cerca di definire il fascismo, in quanto, ragiona Eco, vizi come dittatura, nazionalismo, bellicismo, sono comuni ad altre ideologie. Ma c’è, insiste il teorico del fumetto, una componente caratteriale dalla quale il fascismo è riconoscibile, ed è il culto della morte.

Sono sciocchezze. Comunque ragioniamoci sopra, cominciando dalla proposta che Eco fa, per vanificare l’iniziativa missina della raccolta delle firme per l’attuazione dell’articolo 27 della Costituzione repubblicana. «Formate», scrive Eco, «lunghe e cupe processioni per la Città, con cappucci neri, e ceri». «Siate sgradevoli» insiste, «fate vomitare le donne incinte, costringete la gente a toccarsi i testicoli, a rientrare in casa». «Date alla gente l’odore della morte; l’impressione tattile del liquame che esce dalle narici e dalle orecchie di un corpo in decomposizione». «Il signore sì che se ne intende», direbbe la nota sigla pubblicitaria (che Eco, per caso, sia uno jettatore?). L’argomento non vi è dubbio, lo possiede alla perfezione.

Veniamo alla prima considerazione, di ordine politico più che storico culturale. Perché Umberto Eco, questo spettacolo macabro-grottesco non lo ha proposto quando, tanto per portare un esempio fra i tanti, nell’inverno '79, i bambini della non più ridente Napoli, venivano uccisi, a grappoli, nella sporcizia e per la sporcizia? Allora Eco l’odore, il sapore della morte, «provocata ad arte», non lo sentiva. Non propose cortei lugubri per far vomitare le donne incinte. Ci sono, evidentemente, certe «morti» che ad Eco piacciono. Quelle che distribuisce, sempre ad arte, Curcio; quelle che «il regime» dissemina un po’ dappertutto, con la mafia, la camorra, l’ignavia, la corruzione, l’incompetenza, il disservizio. Quelle non puzzano, profumano.

Fascismo eguale a culto della morte, scrive Eco. Perché gli Egizi, che vissero tremila e più anni avanti Cristo, il culto della morte non l’ebbero? Sicché il fascismo va datato, come nascita, tremila anni avanti Cristo? Mosé, l’uomo della severità, del dovere, della Legge, il primo dei grandi capi nazionalpopolari che, quando tornò dal monte con le Tavole della Legge e vide che il popolo si era dato al culto del vitello d’oro, passò a fil di spada l’amico, il parente (in un sol giorno ne fece fuori tremila), e il tutto in nome della Legge contro il disordine morale e materiale, era un fascista? Quindi difendersi da chi uccide, con il mitra, l’esplosivo, la droga, per Eco è «fascismo», è farsi portatori di morte. Giudicate voi se non aveva ragione Pisacane a scrivere che «filosofi e teorici sono la peste e la rovina del nostro e altrui paese».

 

22 febbraio 1981

Spadolini, segretario nazionale del PRI, nella conferenza stampa alla TV (10.2.81), annuncia, trionfalmente, che l’ex-governatore della Banca d’Italia, l’ex-presidente della Confindustria, e ora uomo tuttofare degli Agnelli, Guido Carli, sarà capolista a Roma, aspirante sindaco, per il PRI. Passano poche ore e Guido Carli, per la seconda volta, viene ascoltato dalla Commissione di inchiesta sul «caso Sindona». Ci sono confronti. Ci sono contestazioni. Ci sono contraddizioni. L’uomo perde il consueto smalto. È incerto. Si fa pallido. Che sta accadendo?

Vediamo un po’. Il nostro pensiero sul personaggio è noto. Lo definiscono uomo di dottrina, rigoroso nei comportamenti, aperto ai problemi del tempo moderno. Per noi resta un personaggio ambiguo, pericoloso, intrigante, di una ambizione scatenante, alla quale sacrificare tutto. Sono stati i comunisti a proteggerlo. Sono ancora i comunisti che possono tentare di salvarlo davanti alla Commissione di inchiesta sul «caso Sindona», dove, Guido Carli, si trova in evidente difficoltà. Si deve però fare i conti con Rastrelli e Tatarella, i membri missini della «Commissione Sindona». E sono conti duri, perché il MSI-DN ricorda cosa ha rappresentato (e rappresenta), per la vita del paese, il signor Guido Carli. L’anello di congiunzione fra gli ambienti «radical-chic» e il PCI, ambienti che sono stati la peste per il nostro paese. Basterebbe ricordare la predicazione de "L’Espresso" (Caracciolo - Agnelli). La svendita, alle «sinistre», di ogni valore: patria, religione, famiglia. In cambio (dalle sinistre): libertà per ogni affare.

Fino ad oggi Guido Carli si è coperto con il PCI. Ci riuscirà anche questa volta? Intanto, per non dimenticare, sarà bene rifare la storia delle sue pesanti responsabilità. Eccole.

Il 24 marzo '72 la Banca d’Italia invia un rapporto alla Procura di Milano. Oggetto: le banche di Sindona. Ci sono, dice l’organo di vigilanza, vistose irregolarità. Si provveda. Scena muta. Febbraio '73: la Banca d’Italia insiste con un secondo rapporto. Tutti zitti. Si arriva così al 29 luglio '74. Siamo al crollo. Eppure il Governatore della Banca d’Italia Guido Carli, che doveva pur conoscere le denunce presentate e che era perfettamente al corrente che il crollo era imminente, autorizza che le due banche di Sindona (badate bene, sotto inchiesta!) vengano riunite in un nuovo istituto chiamato Banca Privata Italiana. Ha vita brevissima. Appena due mesi. Poi, per disposizione dello stesso Guido Carli, tutto in liquidazione. Guido Carli resta al suo posto.

Non è finita qui. Sindona trasferisce parte delle sue attività in America, convogliandole sulla Franklin National Bank, di cui è il maggior azionista. La Franklin va al fallimento. Per tamponare il disastro della Franklin e delle Banche italiane di Sindona, il Banco di Roma, su diretto interessamento del vertice democristiano e con la supervisione della Banca d’Italia, in piena stretta creditizia e in piena restrizione alla esportazione di valuta, attraverso la filiale di Nassau nelle Bahamas, mette a disposizione di una società di comodo di Sindona, ben cento milioni di dollari. Più di 90 miliardi vanno a finire negli Stati Uniti d’America. Insomma il contribuente italiano viene ad indennizzare gli americani per i bidoni di Sindona. E questa imprudente (e impudente) larghezza nell’erogazione del credito avviene, Guido Carli consenziente, proprio mentre migliaia di aziende stanno languendo sotto una feroce stretta creditizia.

E veniamo allo scontro (che nessuno ha mai raccontato nei suoi esatti termini) fra la finanza vaticana e quella massonica. Il Banco di Roma, su cui l’influenza «vaticana» data da tempo pur essendo una banca dell’IRI, con l’operazione Nassau, narrata sopra, faceva un buon affare. Oltre accontentare coloro (Andreotti e Fanfani) che lo avevano invitato e sollecitato ad intervenire a favore di Sindona, incamera, come garanzia per l’operazione, l’Immobiliare e le banche di Sindona che, non lo si dimentichi, hanno gli sportelli a Milano. È, indubbiamente, una operazione vantaggiosa (anche per le finanze vaticane). E ciò non può star bene alla parte laica, in particolare a quella massonica. Anche perché, così restando le cose, Sindona, sì è sconfitto, ma gli si evita di comparire davanti alla giustizia penale.

E a questo punto si muove Cuccia, amministratore delegato della Mediobanca. E impone a Petrilli, presidente dell’IRI, di «richiamare» il Banco di Roma a non prestarsi al salvataggio di Sindona e, nello stesso tempo, a Guido Carli di dichiarare il crack definitivo dell’impero finanziario dell’uomo di Patti. E così avviene. A rimetterci i contribuenti italiani.

Carli rimane in sella. A levarlo dai guai, inizialmente, ci pensa Andreotti che, al momento del crack, storna l’attenzione degli Italiani dal «caso Sindona» al cosiddetto «golpe Borghese». È il momento in cui Andreotti, con una piroetta di 360 gradi, passa a sinistra e vende, con le Forze Armate, di cui è ministro, il prestigio e l’efficienza dei Servizi di informazione alla sinistra. L’ombrello comunista si apre su Andreotti e su Carli. Carli non dimenticherà. Infatti, divenuto presidente della Confindustria proporrà, per... salvare l’Italia, che i comunisti siano chiamati al governo.

I comunisti ringraziano. E fanno silenzio anche sull’altra vicenda sindoniana, quella cosiddetta dei «500». Cioè di coloro che, politici di vertice, sindacalisti di fama nazionale, uomini d’affari legati alla politica, avendo investito denari nelle Banche di Sindona corrono il rischio, con il crack, di perderli. Che si fa? È il 28 agosto '74. Alla Banca d’Italia è in corso una riunione. La presiede il Governatore: Guido Carli. Oggetto: i denari dei «500», cioè trovare il modo di far rientrare i «500» in possesso dei denari versati nelle banche di Sindona. E cosa si inventa? Presto detto: dato che c’è da tutelare all’estero l’immagine del sistema creditizio italiano, la Banca d’Italia autorizzerà, in Svizzera, ai diretti interessati, il rimborso del denaro. I nomi? Carli li conosce. Ma ha l’acqua in bocca.

 

26 febbraio 1981

«De Martino si è occupato dei collegamenti internazionali del terrorismo: ha ricordato che Giannettini, condannato all’ergastolo per la strage di Piazza Fontana, era legato ai servizi segreti italiani, non prendeva denari e armi dai servizi segreti sovietici» ["La Repubblica", 3.2.81].

In verità le cose stanno in modo diverso da come vorrebbe raccontare l’ex-segretario nazionale del PSI. Non Giannettini, ma Freda e Ventura -secondo gli atti processuali- le armi e l’esplosivo li tenevano custoditi nella sede del PSI di Castelfranco Veneto, consenzienti i dirigenti del PSI locale, segretario nazionale Francesco De Martino. C’è qualcosa di più. Sempre dagli atti processuali si apprende che lo stesso vice segretario provinciale del PSI di Treviso, il dipendente dell’INAlL Renato Mauro, veniva incaricato dal consigliere comunale del PSI di Castelfranco Veneto, ingegner Marchesin Giancarlo (poi condannato con Freda e Ventura), di trovare un alloggio per collocarvi le armi e l’esplosivo della «cellula eversiva veneta».

Le conosce queste cose l’onorevole De Martino? Ci può, è in grado di spiegare perché fra i condannati di Catanzaro, insieme a Freda, Ventura e Giannettini, c’è il fior fiore di personaggi del PSI di Treviso? L’opinione pubblica queste cose non le sa. Non è colpa sua. L’informazione, in Italia, è quella che è. Ma è grave che queste cose le ignori l’onorevole De Martino, già segretario nazionale del PSI.

Il generale Gianadelio Maletti, insieme all’ammiraglio Casardi e al capitano La Bruna, vengono proposti dal ministro della Difesa, il socialista Lelio Lagorio, per la degradazione. La motivazione: il fascicolo riguardante lo scandalo del petrolio e il generale della finanza Giudice finito nella redazione di OP, l’agenzia di Mino Pecorelli. È il clan «antifascista» del SID, arruolato da Andreotti nel '74 che va in crisi, o meglio, in rovina. Definitiva.

30 marzo '76, cinque anni fa: un gruppo di deputati del PSI, prima firma quella di Giacomo Mancini, terza quella di Signorile, presentano alla Camera dei Deputati una interpellanza (n° 2/00806), in cui si protesta energicamente per l’arresto di Maletti e La Bruna (arresto avvenuto nell’ambito delle bombe di Piazza Fontana), in quanto i due ufficiali rappresentano «punti di riferimento e di fedeltà alle istituzioni democratiche repubblicane». Che faranno ora? Interrogheranno il ministro Lagorio? Protesteranno? Ne chiederanno le dimissioni? Come è possibile colpire, e da parte di un ministro socialista, ufficiali ai quali Giacomo Mancini ha dato, da tempo, il patentino democratico e «antifascista»? Staremo a vedere. Intanto, dato che il generale Maletti e il capitano La Bruna si trovano fra i condannati della cosiddetta cellula eversiva veneta per le bombe di Piazza Fontana, perché non approfittare per chieder loro qualche ragguaglio? Che ci facevano in mezzo ai neri-rossi? E per conto di chi operavano? La storia di Piazza Fontana è tutta da scrivere. Perché la verità è tutta da scoprire.

La Commissione Inquirente, per volontà di Franchi, ha dovuto tirare fuori dai cassetti il fascicolo dello «scandalo ANAS». Sorprese. Una serie di reati è prescritta. Chi ha avuto, ha avuto; chi ha dato, ha dato. Ne restano in piedi un paio, interessanti i ministri. Pascalino, il magistrato che, a suo tempo, inviò gli atti alla Commissione, ha scritto: «Dalle risultanze acquisite risulta che ci sono ipotesi di reati ministeriali in concorso con Chiatante (ex-direttore generale dell’ANAS, N.d.R.) e altri».

E allora che si fa? Fino ad oggi nessun atto interruttivo della prescrizione è stato compiuto dalla Commissione Inquirente. La magistratura ordinaria ha detto: guardate che per me alcuni ministri della Repubblica italiana hanno commesso reati. Essendo dei ministri io non posso occuparmene, ma voi sì, indagate. La Commissione non ha indagato. Ha dormito. Scandalosamente. Nemmeno una comunicazione giudiziaria è giunta agli ex-ministri Mancini, Lauricella, Natali. Tutti fermi. E chi si muove? E i giorni passano. E, con i giorni svanisce, a poco a poco, la possibilità di mettere sotto processo i colpevoli. Franchi, in questo stagno, ha gettato il sasso. E ora c’è maretta.

È stato chiesto al presidente dell’Inquirente, Reggiani -una bravissima persona, che però ha il vizio di essere socialdemocratico- di compiere un atto capace di interrompere la prescrizione: o la comunicazione giudiziaria o l’interrogatorio dei ministri. Questo è quello che si deve fare. Reggiani, rosso in volto, ha detto: «Non potete chiedermi di fare un atto affrettato». Per carità, signor presidente della Commissione Inquirente, qua nessuno ha fretta. Sono anni che gli incartamenti ANAS dormono. Perché svegliarli? E poi come si fa, con un atto... affrettato (sette anni di sonno, pensate) colpire la sensibilità di un gentiluomo come Giacomo Mancini? Come si fa ad inviargli una comunicazione giudiziaria? Come si fa ad interrogarlo? Sarebbe una vera scortesia. Per Reggiani. Intanto il magistrato ordinario manda in galera il disoccupato che, affamato, ha rubato alcune arance. La fretta, per lui, è la regola. Infatti non è ministro della Repubblica.

 

28 febbraio 1981

«Scandalo dei petroli: sei libretti di banca donati ad altrettanti uomini politici». Così titolano i giornali. Anche in questa vicenda il MSI-DN è protagonista della denuncia. Infatti il tutto parte da una interrogazione dell’onorevole Staiti. «Quadri d’autore, pellicce e auto blindate regalati da Musselli a uomini politici» Così titola "il Giornale" (12.2.81). Provatevi, con queste indicazioni di massima, a dare un volto agli uomini politici beneficiati. Sono dell’area milanese. Non è poi tanto difficile.

Tribunale di Milano. Sulla pedana degli imputati l’ex-sottosegretario Brandi, socialista manciniano, accusato di aver ricevuto somme di denaro dalla Riva Calzoni nella vicenda dei falsi danni di guerra, vicenda che, oltre Brandi, vede protagonisti Andreotti, Colombo, Preti. Il Presidente del Tribunale contesta al Brandi una deposizione dell’amministratore della Riva Calzoni, Gianfranco Uccelli, ora defunto. L’Uccelli avrebbe incontrato Bruno Viglianesi (parente di Italo?) della segreteria amministrativa del PSI e gli avrebbe detto: «Ma che appetito ha il tuo partito! Ho dovuto dare 150 milioni a Brandi...». E Viglianesi: «Al partito non è arrivato un soldo. Quel birichino di Brandi ha sistemato una sua faccenda immobiliare...». Si danno del birichino. Sono molto simpatici, aperti, gioviali. La vita gli arride. Il PSI è sulla cresta dell’onda. Peccato però che abbia il brutto vizio di mettere la mano in tasca a quanti gli si avvicinano.

L’ex senatore del PSI, Bloise Luigi, è stato nominato da Andreatta (inquisito per peculato aggravato e continuato) vice presidente della Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania. Da notare:

1) il Bloise non faceva parte della terna proposta dalla Banca d’Italia;

2) il Bloise di contabilità bancaria non ne conosce nulla. È un insegnante elementare in pensione.

3) il Bloise, nel '54, fu coinvolto nello scandalo INGIC e, nella richiesta di autorizzazione a procedere, avanzata dal Procuratore della Repubblica di Arezzo il 12 luglio '72, gli si addebitano i reati di peculato e corruzione aggravata. Il Senato della Repubblica, chiamato a concedere, o no, l’autorizzazione, la negò perché -così sentenziò- «l’imputato non si era appropriato di nulla, ma, tutto al più, aveva compiuto una "distrazione" di denaro dell’Ente per scopi politici e assistenziali». E se il Bloise lo stesso concetto te lo applica alla Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania? Che succede se si... distrae un’altra volta? Ma la colpa non è di Bloise. È di Andreatta. Dato che anche lui è sotto giudizio per peculato, avrà nominato il Bloise per solidarietà fra sospetti peculatori? Quello però che Andreatta non deve fare è prendere per i fondelli gli Italiani, sostenendo che le recenti nomine bancarie sono avvenute secondo criteri di professionalità. Avanti: la DC (con Andreatta) si rinnova.

«A battesimo la maxi-corrente socialista. Sono le 11,30 del mattino (19.2.81), al cinema "Etoile" di Roma sta rinascendo la corrente riformista del PSI. Tutti insieme rappresentano il 70 per cento circa del partito. Ma ci sono il 90 per cento dei segretari regionali e provinciali, presidenti di Regione, sindaci di alcune tra le maggiori città italiane. Una corrente simile non si era mai vista nel PSI...» ["la Repubblica", 20.2.81].

Sulla "Agenzia OP" [31.1.78, notizia n° 25] di Mino Pecorelli, il giornalista assassinato a Roma due anni fa, trovo scritto: «La scorsa settimana sono stati visti entrare nei locali che ospitavano il comitato centrale socialista, 21 esponenti del PSI imbronciati e decisi a dar battaglia al segretario Craxi. Dopo alcune ore, gli stessi esponenti socialisti sono usciti dal comitato centrale contenti e rigonfi. Avevano modificato la loro posizione schierandosi a fianco di Craxi. 121 membri del Comitato centrale socialista, usciti dalla riunione, sono andati subito in banca e poi a fare acquisti: chi una vettura nuova, chi una pelliccia per la moglie o l’amica, chi a prenotare un viaggio in Estremo Oriente. Insomma, un affare».

Calunnie? O è così che si mettono su le maxi-correnti? O è così che si vincono i congressi? Viva la democrazia!

 

3 marzo 1981

«Ecco "El Taulà", il regno di Bisaglia e De Michelis, ambiente tanto elegante da apparire pacchiano... sul "roof" dell’Eden si incontrano Giorgio Benvenuto, Gianadelio Maletti. I prezzi non vengono detti dai gestori che usano la parola "privacy". C’è "Falsi", dalle parti di Piazza del Popolo. C’è stato anche Pertini. Ci sono fissi Zeffirelli e il sarto Valentino. Il "Bella blu", piccolo, fuori mano, sempre esaurito, ben frequentato. Moravia per dirne uno, l’onorevole Altissimo, appassionato di whisky e di musica soft. Ma anche Franco Piperno. Una bottiglia di champagne: sulle 800.000 lire...» ["L’Espresso", "Come si diverte la nuova classe", 1.2.81].

«Da Sandra Verusio Alberto Moravia parla con Agnelli e Carli. Da Marta Marzotto, ex modella di "Vogue", si vedono Guttuso e Magri, Ronchey e Trombadori, Andy Warhol e De Michelis; ma anche l’arabo arricchito e l’attrice Elsa Martinelli. Insomma mangiano risotto insieme, e bevono champagne, il libero scambista e l’alfiere del socialismo reale.
«Perché scandalizzarsi se Napoleone Colajanni mangia, fianco a fianco, con Toni Bisaglia?» ["L’Espresso", "Come si diverte la nuova classe", 1.2.81].

«Nel club non si guarda per il sottile. Chi porterà ad una festa o a un ricevimento Reviglio o Lagorio, avrà un premio. Per Lagorio sono stati pagati 20 milioni...». ["L’Espresso", "Come si diverte la nuova classe", 1.2.81].

Politica, mondo delle lettere, intellettuali impegnati, pittori (con tessera del PCI), sindacalisti, uomini d’affari, un pizzico di partito armato. La Roma notturna offre di tutto: dal presidente della Repubblica a Franco Piperno. Basta rispettare due condizioni: avere soldi (e tanti) e far parte dell’«arco costituzionale». La tessera antifascista è rigorosamente pretesa. Senza di quella non si passa. Rispettate queste condizioni, i tavoli sono tutti tuoi. E gli organizzatori offrono brividi di tutti i generi. Anche quello di avere al tuo fianco, amabile commensale, un ministro della Repubblica italiana. Si parte da un minimo: 300.000 lire, per salire. Non sappiamo con quale cifra sia quotato Piperno. Il night di Marina Lante della Rovere, che lo vede assiduo frequentatore, è riservatissimo al riguardo. Le plebi meridionali potrebbero irritarsi.

«Mancini deve andarsene dal Parlamento perché è l’anello di congiunzione tra l’area della sinistra parlamentare e l’area del terrorismo. Intorno a Mancini gravitano persone, riviste, attività, iniziative politiche che si sovrappongono alla frangia estrema del terrorismo. Questa fascia di sovrapposizione tra l’area parlamentare di Mancini e l’area del terrorismo è quella più pericolosa di tutte, è quella che va interrotta perché è quella che introduce il terrorismo nella legittimità politica. I brigatisti rossi siedono fra noi. E con questo si spiega quando Pannella dice compagni assassini». [Massimo De Carolis, "Corriere della Sera", 10 febbraio '81].

«A chi si sente vicino in questo momento, onorevole Mancini?» «Sono un ammiratore di Capuzzo, comandante generale dei Carabinieri. Un uomo democratico che punta alla sconfitta del terrorismo con mezzi diversi dall’annientamento». [Giacomo Mancini, "la Repubblica", 11.2.81].

Come potete constatare, cari lettori, oltre a regalarci corruzione e terrorismo, questi uomini politici vanno ben oltre: infatti ci prendono anche per i fondelli.

"Il Meridiano Sud", periodico di Bari, in data 15 gennaio u.s., sotto il titolo «Dopo il silenzio della Jotti il Ministro sussurra...», pubblica: «Abbiamo informato i nostri lettori, in più riprese, di una operazione finanziaria, l’acquisto della azienda agricola "Torre Pinta", in agro di Galatina, che vedeva impegnati l’avv. Spoti, Scardaccione e l’on. Signorile. L’operazione era stata condotta dal consorzio "Melior" di Roma. Unico giornale in Puglia a denunciare un’operazione che non appariva delle più regolari e per la quale -cosa inaudita- l’on. Jotti, presidente della Camera dei deputati, non aveva voluto ricevere un’interrogazione dell’on. Tatarella, chiedendo che si eliminasse dal contesto il nome del vice segretario del PSI. Invece, in maniera sibillina ed incomprensibile il Ministro della Difesa ha risposto ad un’altra interrogazione circa la vendita di parte del terreno dell’azienda agricola "Torre Pinta" per l’ampliamento del campo di aviazione di Galatina. "Non sono in corso pratiche tendenti all’acquisto di terreno in prossimità dell’aeroporto militare di Galatina di proprietà della Soc. Torre Pinta, né di altre ditte". "Si precisa, peraltro, che è in corso di perfezionamento la procedura espropriativa di 4, 78, 20 ettari di proprietà della ex Soc. Torre Pinta, necessari per l’instaurazione di un sentiero luminoso di avvicinamento a sud della pista di volo". «Due osservazioni molto semplici: chi ha subito l’esproprio del terreno in questione? E quale è il prezzo pagato al nuovo proprietario di cui non si riesce a sapere il nome? Mistero! Ci rivolgeremo ad un mago, visto che le vie legali sono inaccessibili».

Il sindaco di Milano, su invito dell’onorevole Craxi, ha aperto un’inchiesta, per sapere come sia stato possibile che una via centrale di Milano sia rimasta, da oltre 40 anni, intestata al generale Fara, Medaglia d’Oro della guerra 1911-1912, 1915-1918, ma anche «squadrista» della prima ora. Ci si chiede come abbia fatto questa lapide a «resistere» (virgolette, proto) alla furia epuratrice del '45. È incredibile, si grida. E si annunciano severi provvedimenti per i responsabili. Alla classe dirigente del nostro felice paese, non sono sufficienti il terrorismo, la corruzione, lo sfascio istituzionale, la droga, il disordine, la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta, la malavita, i sequestri. Non è sufficiente. Il «caso Fara» è preminente. L’antifascismo mobilita gli scalpellini. Un problema è stato risolto: il generale Fara è stato messo a riposo. Italia della Resistenza e dell’antifascismo, in piedi! Fa che il tuo grido di riscossa raggiunga gli Italiani dovunque essi siano: la targa di Fara, finalmente individuata e catturata, è stata asportata. Oggi e sempre: resistenza!

Tempo fa il consiglio comunale della rossissima Piombino (maggioranza assoluta al PCI) ha voluto, alla unanimità, dedicare due strade della città, ai pittori Plinio Nomellini e Ottone Rosai. Grandi pittori, non vi sono dubbi; ma anche due squadristi di tono nel '21-'24. La tela di Nomellini, «La Rivoluzione Fascista», fu destinata da Benito Mussolini al PNF e collocata nel Palazzo del Littorio a Roma.

Qui non si tratta, dunque di vecchie targhe messe dal fascismo, come quella del generale Fara a Milano. Qui è l’antifascismo rossissimo di Piombino, città decorata in nome della resistenza, a decidere di murare quelle targhe, ai due pittori squadristi del ’21. Perché i cittadini ricordino. Che si fa ora? Lo diciamo a Craxi? Scalpelliamo il tutto? Ma se si mandano a... casa Nomellini e Rosai, possono gli amministratori del comune di Piombino rimanere al loro posto? Il meno che possa loro capitare, è di passare da buffoni. Autentici.

 

5 marzo 1981

Silenzio stampa e radiotelevisivo. Black-out totale. Non un sospiro si riesce a percepire. Di che si tratta? Il presidente della Sipra, il comunista Vito D’Amico, trovato con le mani nel sacco dei fondi neri da distribuire alla stampa di regime ("Corriere della Sera", in testa), è salvo. La bobina, con la quale la Guardia di Finanza aveva registrato una conversazione tra il presidente comunista della Sipra e il responsabile della sezione stampa e propaganda delle Botteghe Oscure, nella quale tutti i termini del peculato e del falso continuato in bilancio erano spiattellati a chiare lettere, è risultata cancellata. Inservibile. Il lavoro dei giudici torinesi, lavoro che ormai si avviava verso una scontatissima condanna, è stato vanificato. Una operazione di vera e propria polizia politica, di cui pochi partiti possono disporre, ha salvato il PCI e quanti, Rizzoli in testa, alle mammelle (comuniste) della Sipra sono attaccati. E tutti zitti. Cosa sarebbe accaduto se le bobine giudiziarie, anziché riguardare personaggi del PCI, avessero interessato altri, e fossero risultate manomesse? Ve lo lascio immaginare.

Scandalo clamoroso alla Camera dei deputati. Con un nuovo colpo di mano (ultimo il «caso Gioia»), la maggioranza si appresta a chiedere l’insabbiamento delle autorizzazioni a procedere contro i «cassieri» dei partiti politici di centrosinistra che ricevettero miliardi di sovvenzioni dall’Italcasse di Arcaini.

La vicenda è nota. Parte da un’indagine campione della Banca d’Italia sulle irregolarità commesse all’Italcasse dal '65 al '76. L’indagine scoprì che, quando l’Enel lanciò nel '65 un prestito obbligazionario, tutte le obbligazioni vennero acquistate dall’Italcasse che, a sua volta, le rivendette alle proprie Casse di Risparmio ad un prezzo superiore a quello di acquisto, ma facendo figurare sui propri registri il prezzo inferiore. L’utile di questa operazione illecita, protrattasi dal '65 al '76, cioè anche dopo l’approvazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti, veniva suddiviso fra la DC, il PRI, il PSI e il PSDI. Si tratta di miliardi. Il Senato ha già assolto il senatore Talamona del PSI (poi defunto). Ora la Camera si appresta ad assolvere Micheli Filippo (DC), Battaglia Adolfo (PRI), Amadei Giuseppe (PSDI) e Pucci Ernesto (DC).

E la Camera si accinge all’operazione salvataggio con una relazione dell’on. Germano De Cinque, notaio, che è uno scandalo a sé. State a sentire. In un momento in cui la polemica contro i partiti ha raggiunto i vertici del mondo istituzionale, scuotendolo vigorosamente fino alla rottura; in un momento in cui il partito politico, così come si è fatto a spese della Costituzione e della legge, è nell’occhio della polemica più accesa, specie da parte della pubblica opinione, l’onorevole De Cinque, autorevole membro della Commissione delle Autorizzazioni a procedere, con toni arroganti e, spesso, involontariamente umoristici, se la prende con la Banca d’Italia, la magistratura e la stampa, tutte e tre accusate di colpire, non tanto i cassieri della banda dei quattro, quanto addirittura le istituzioni democratiche, in quanto -questa è la conclusione- «il cercare e ricevere finanziamenti per il proprio partito (si badi bene, imbrogliando e rapinando denaro pubblico attraverso le banche che si amministrano, N.d.R.) finisce per far parte dell’attività specifica di un uomo politico, per il quale scatta l’immunità». Così, come se nulla fosse, il relatore De Cinque assolve. Non solo. Quasi, quasi è in procinto di proporre una medaglia al merito civile.

Dove è il segretario nazionale del PRI? E sì che, con la mole di ciccia che si porta dietro, è molto difficile che riesca a defilarsi. Perché non parla, lui così loquace, così discorsivo, così fluido nel decantare la propria personalità? Dove ti sei cacciato Giovanni Spadolini? Vieni a spiegare perché nell’elenco delle cifre incassate dai «quattro», cifre che gli ispettori della Banca d’Italia hanno messo in ordine, il PRI figura al 2° posto, dopo la DC. Ha cioè incassato più del PSI, che è tutto dire.

Che abbiano incassato non ci sono dubbi. Lo stesso relatore De Cinque lo scrive a chiare lettere. Ma il notaio di Chieti (è di là che il Cinque proviene), non vergognandosi di portare a favore della sua tesi una sentenza riguardante i casi del petroliere Angelo Rovelli (tanto nòmini!), afferma che i quattro cassieri, incamerando i miliardi, erano in buona fede «essendo essi pienamente convinti della legittima provenienza dei fondi loro versati (sic!, N.d.R.) anche alla luce dei lunghi rapporti di colleganza parlamentare e di amicizia con l’Arcaini».

Ci si chiede in quali condizioni fisiche si trovasse il De Cinque quando ha scritto la relazione. Ha voluto prendere in giro il Parlamento? Lo stesso Filippo Micheli, segretario amministrativo della DC, ha dichiarato che l’ex-direttore generale dell’Italcasse, Giuseppe Arcaini, ora defunto, aveva da sempre (anche quando era sottosegretario al Tesoro) il compito di «reperire fondi per la DC, avvalendosi delle sue conoscenze». E sempre Micheli ha detto ai magistrati di avere ricevuto e incassato, tramite i fondi neri di Arcaini, «a più riprese contributi vari per la DC».

E ancora, morto Arcaini, il suo vice Dionisi, ha confermato l’esistenza di un accordo tra i quattro partiti di centro sinistra per la spartizione dei fondi (un totale di 30 miliardi), scremati dalle emissioni dell’Enel, vicenda di cui si è parlato all’inizio. «Arcaini» ha dichiarato Dionisi al magistrato, «mi chiamava e, alla presenza degli stessi richiedenti (i quattro amministratori dei partiti, N.d.R.) stabiliva le modalità di pagamento in assegni o in versamenti in conto corrente».

De Cinque scrive che i quattro amministratori non sapevano nulla. Su tutto garantivano i lunghi rapporti di colleganza parlamentare e di amicizia con l’Arcaini. E non erano noccioline quelle che incassavano. Erano miliardi. Intascavano e... silenzio. Non si chiedevano da dove venisse tanta manna. Aprivano le borse, stivavano il denaro, ringraziavano e se ne andavano. La loro buona fede, scrive il relatore, è fuori discussione. Ma chi vuole prendere in giro?

Ma il vertice dell’improntitudine, il relatore onorevole De Cinque, lo raggiunge là dove, parlando di giurisprudenza parlamentare, afferma che l’attività di un deputato, non fermandosi nell’aula di Montecitorio, ma essendo legata ad altre multiformi «presenze» nel paese, questa attività «fuori dell’aula» deve essere tutelata dalla immunità. E così, come si è negata l’autorizzazione a procedere per fatti materiali, come l’interruzione di un ufficio o servizio pubblico o di necessità pubblica, il blocco stradale o ferroviario, la violenza, minaccia o resistenza a pubblico ufficiale, eccetera, purché inerenti allo svolgimento di una attività politica, così l’autorizzazione a mettere sotto processo i peculatori deve essere negata anche per coloro che hanno preso i quattrini dall’Italcasse. Insomma «rubare» nello svolgimento dell’attività politica, per un parlamentare, non è reato, è gesto lecito, patriottico. Roba da matti. E queste considerazioni avvengono all’interno del Palazzo. E vengono scritte in stampati della Camera dei Deputati (Doc. IV n. 6-A), pagati dal contribuente italiano. Da quel contribuente che, senza mandato parlamentare, anche se ruba un’arancia va, diritto, in galera.

I quattro che, insieme ad Arcaini... studiavano i marchingegni per fregare le banche, il fisco, la legge, il cittadino, pur incriminati sono rimasti, tranquillamente, ai loro posti di... responsabilità. E, se ci fate caso, i signori dell’assegno truccato ricoprono tutti i posti dai quali si maneggia o si gestisce denaro pubblico. E, mentre Micheli amministra il più... grande partito italiano, Amadei è sottosegretario alle Finanze, Battaglia è presidente della Commissione Finanze e Tesoro, e Pucci amministra, come questore i soldi (e sono tanti) della Camera dei Deputati. Chi ha dato ha dato; chi ha avuto ha avuto. Viva la moralizzazione della vita pubblica.

 

7 marzo 1981

«L’on. Piccoli non ha mai spiegato dove trova, lui che non ha mai lavorato in vita sua, i cinque milioni al mese che, di tasca propria sborsa per mantenere l’IRADES, un istituto che non fa nulla e che a niente altro è adibito che ad essere la sede romana della sua corrente. «Dovrebbe spiegare perché e come mai l’ITALCASSE, proprietaria dell’edificio di via Paisiello di cui l’IRADES occupa lussuosamente almeno due piani, gli chiede da anni un affitto così irrisorio da far gola ad un terremotato». ["Corriere medico", 10 dicembre '80]. Onorevole Piccoli, siamo in tempi di moralizzazione. Vuole dare una risposta ai quesiti su riportati? Sarebbe gradita. Oltre che doverosa.

Nel luglio del '79, la Procura della Repubblica di Genova, ad un anno dal fallimento della società editrice "Il Lavoro SpA", emise venti comunicazioni giudiziarie contro amministratori e sindaci della società. Tra le ipotesi di reato: bancarotta fraudolenta, appropriazione indebita e false comunicazioni giudiziarie. Nell’elenco degli imputati: i senatori del PSI Franco Fossa e Augusto Talamona (oggi defunto); l’onorevole Antonio Canepa, membro della direzione nazionale del PSI; l’ex-sottosegretario Giuseppe Macchiavelli, sempre del PSI; gli ex-deputati del PSI Giovanni Mosca e Luciano De Pascalis; l’attuale segretario regionale del PSI Delio Meoli; l’assessore regionale Francesco Malerba; l’assessore provinciale Stefano Manarola; l’ex-segretario regionale Giancarlo Menti. Questi i politici. Come si può constatare si tratta dello stato maggiore socialista della Liguria.

Cosa è accaduto? Siamo andati al processo. Al banco degli imputati mancavano il senatore Franco Fossa, attuale sottosegretario ai Lavori Pubblici, e l’onorevole Antonio Canepa. Innocenti? No. Solo si sono valsi della immunità parlamentare, loro accordata a Palazzo Madama e Montecitorio. E gli altri? Il Tribunale di Genova, presidente dott. Quaglia, un magistrato molto aperto alle istanze socialiste, contro il parere del pubblico ministero, che ha cercato invano di sottolineare le aggravanti di una gestione così offensiva per gli stessi lavoratori del quotidiano socialista (ora passato a Rizzoli), ha assolto tutti gli imputati. La motivazione? Sì, gli esponenti socialisti di Genova tennero una gestione societaria «disinvolta», ma lo fecero perché sorretti «da un superiore ideale», perché (sic!) «fuorviati dall’amore del partito».

Così sono stati assolti. Se questo dispositivo sarà confermato (il procuratore generale della Repubblica ha ricorso), i politici potranno star tranquilli. Potranno «rubare» in santa pace. Patriotticamente. Saranno assolti. Altrettanto patriotticamente. È una nuova tesi. Da passare subito alla Commissione Inquirente e alla Giunta delle autorizzazioni a procedere. A corto, come sono, di argomenti per assolvere i ladri con mandato parlamentare, la sentenza di Genova fornisce loro nuovo... vigore e nuovo... pensiero.

«Ambrosoli, liquidatore della "banca Sindona", che poi fu assassinato misteriosamente, aveva gli occhi anche sul senatore DC Onorio Cengarle (della corrente di Donat Cattin, che nel '77 era ministro dell’Industria) che ammise di aver percepito una tangente sui depositi Gescal riversati nella banca di Sindona». ["la Repubblica", 12.2.81].

"la Repubblica" racconta le cose a metà. Vero è ciò che scrive sul senatore Cengarle, salvato -more solito- dalla immunità concessa dal Senato. Però "la Repubblica" omette di dire che i soldi della Gescal furono messi nelle banche di Sindona soprattutto per l’interessamento del senatore socialista Lino Iannuzzi; senatore che, insieme ad Eugenio Scalfari (direttore de "la Repubblica"), fu al centro della vicenda «Espresso-De Lorenzo», in relazione al cosiddetto golpe del '64. Scalfari e Iannuzzi, proprio in relazione a quella vicenda giornalistica, vennero eletti parlamentari nelle liste del PSI. Iannuzzi quindi, una vecchia... bandiera; oggi, in verità, lacerata da cambiali non onorate e altre accuse non edificanti. Non è giusto, dunque, che la Repubblica dimentichi un suo vecchio... eroe. Soprattutto quando questo eroe, le porcherie le commette insieme a personaggi della DC.

 

10 marzo 1981

Si sta svolgendo a Locri il più grosso processo di mafia che abbia interessato la Calabria. 133 imputati. 22 Sindaci, quanti sono i Comuni in cui operano i presunti mafiosi, citati come testimoni. Ecco alcune testimonianze. Giovanni Palmisani, sindaco democristiano di Sant’Ilario: «Nella Locride la mafia non esiste. Nicola Varaculli? Un cittadino esemplare». Da notare che Nicola Varaculli è incriminato come uno dei principali boss mafiosi. Cesare Di Leo, sindaco socialista di Monasterace: «Abito a Locri, e quindi non conosco l’ambiente di Monasterace. Non ho mai sentito parlare della cosca Ruga». Da notare che Cosimo Ruga, il capo della cosca già condannato a 30 anni, è latitante. Peppino Brugnano, ex-sindaco socialista di Siderno, ex-vice presidente dell’amministrazione provinciale di Reggio Calabria, presidente del Comitato contro la mafia e la criminalità organizzata: «La parola mafia in questa zona ricorre in modo generico. Io non mi sono mai occupato di questo fenomeno perché non mi interessava, né avevo tempo, sia per il mio lavoro, sia per le condizioni di salute. Ho letto qualcosa sui giornali. Il Comitato antimafia della zona? No, quello è un comitato che si interessa in generale della violenza e della criminalità».

I boss incriminati, scrivono i giornali, ostentano sicurezza. Ne hanno ben donde. Le testimonianze dei sindaci e dei politici sono significative. Non sono testi a carico dei presunti mafiosi. Sono testi a difesa. La vicenda conferma una vecchia tesi del MSI-DN, concretizzata anche in atti parlamentari: in Calabria e in Sicilia, il partito politico è veicolo di mafia e di criminalità. Anche quando inalbera la bandiera rossa. I soli veri testi a carico degli imputati sono rimasti i carabinieri, gli agenti di PS e la Guardia di Finanza. Le forze dell’ordine, scrivono i giornali, hanno confermato, davanti ai magistrati di Locri, con precisione e coraggio, le loro accuse. Perché meravigliarsi quando scriviamo che i mandanti morali dei crimini che insanguinano l’Italia, sono soprattutto i politici? Il processo di Locri è un’altra inequivocabile testimonianza.

"l’Unità", imperterrita, continua ad impaginare i «successi» del PCI che riesce a fare giunte unitarie negli enti locali con la DC, insieme con feroci accuse di malgoverno, malversazione di denaro pubblico, ruberie varie, nei riguardi della stessa DC. "l’Unità" dell’11 febbraio '81 titola in seconda pagina: «Giunta PCI-DC a Carbonia». Poi in terza, titoli a tutta pagina: «Passerella DC (anche Freato) dal giudice. Dal '74 al '78 incassi per un miliardo. Le disposizioni dell’amministratore del partito di governo Micheli. Quanti assegni e amici generosi per la DC sulle vie del petrolio». Ma come è possibile governare con dei ladri?

 

13 marzo 1981

Vicenda dell’Italcasse. I magistrati che indagano, stranamente, si mostrano teneri, anzi tenerissimi, verso alcuni funzionari di vertice dell’istituto bancario. Uno di questi è l’avv. Tommaso Addario. Condirettore generale all’Italcasse ai tempi di Giuseppe Arcaini, è stato prosciolto, sia per la vicenda dei «fondi neri», sia per la vicenda dei «fondi bianchi». E, in tutte e due le occasioni, con un provvedimento che riguardava lui solo. Mentre altri assaporavano la galera. Addario no. Perché? L’ultima decisione che lo assolve è in data 10.2.81. Viene vistata il giorno 11.2.81 dalla Procura della Repubblica di Roma, e il giorno successivo dalla Procura Generale presso la Corte d’Appello. E chi è che afferma che la giustizia italiana è lenta? Nel caso Addario dimostra tutto il contrario. Con lui la... giustizia è addirittura telegrafica. Perché?

Il dott. Tommaso Addario, di anni 48, ha fatto una carriera brillantissima all’Italcasse. Dirigente dell’ufficio legale, diventa condirettore generale dell’Istituto con Arcaini nel '76. Quello che più stupisce nella sua vicenda è la consistenza del suo patrimonio. Infatti Addario risulta miliardario e per quanti sforzi si faccia pur tenuto conto del brillante stipendio di cui godeva e dei «fondi neri» nei quali anche lui metteva le mani (gratifica su tali fondi, fuori busta, di 100 milioni nel '77 senza alcuna trattenuta fiscale), non si riesce a sapere come abbia fatto ad accumulare una così ingente fortuna. Strano destino di certi funzionari bancari. L’Istituto, di cui dirigono le sorti, subisce perdite ingenti e loro, invece, svettano nell’empireo dei miliardari.

Ora l’Addario viene assolto. Con quale motivazione? È davvero, curiosa. Eccola: «Condirettore generale dell’Italcasse, l’Addario -confermano le sentenze- non ebbe mai ad occuparsi di contabilità, non ebbe mai ad occuparsi di fidi, fu estraneo alla gestione del patrimonio, fu estraneo alla gestione del servizio legale, a quella dei titoli, al governo del personale». Quindi, non avendo avuto compiti di responsabilità, va assolto. E così è stato. Ma, di grazia, che faceva l’Addario all’Italcasse? E come ha fatto, senza fare nulla, a raggiungere il grado di condirettore generale?

Il quesito si pone perché, in altra sede, l’Addario, chiamato dall’Italcasse a rifondere i danni provocati all’Istituto da una gestione disastrosa (Caltagirone, Rovelli, Ursini: hanno spolpato l’Istituto), chiede, a sua volta, di essere risarcito per il suo allontanamento. E sapete che cosa pretende? 275 milioni di arretrati, 300 milioni di liquidazione, una pensione come direttore di 5/6 milioni mensili. In più esige che l’Istituto rinunci all’azione per danni. Ma come può l’Addario pretendere tutti questi soldi da un Istituto nel quale, a detta sua (e delle sentenze che lo hanno assolto), non faceva nulla?

Che ne dice il rinnovato consiglio di amministrazione dell’Italcasse? È d’accordo? Facciano attenzione, lor signori. Le ferite inferte all’Istituto sono ancora aperte. Buttare sale sulla piaga è comportamento suicida. Anche perché l’Addario (e altri come lui) deve rendersi conto di una cosa: le sentenze, a lui favorevoli, non chiudono affatto la sua vicenda, che resta aperta, anzi apertissima. Le porcherie combinate, i miliardi accumulati, la corruzione seminata, le ingiustizie elargite, si pagano. O prima, o poi. Basta avere pazienza.

Gustoso e indicativo episodio nell’ambito delle nomine bancarie. E, ancora una volta, il ministro Andreatta colleziona una brutta figura. Si tratta della vicepresidenza della Cassa di Risparmio di Volterra, in provincia di Pisa, una Cassa che è la terza della provincia di Pisa, la seconda in quella di Livorno, con 34 filiali e depositi per 250 miliardi di lire. Afferma Andreatta: le nomine sono state fatte seguendo criteri di professionalità e di onestà. Questo a chiacchiere, perché nei fatti le cose stanno diversamente.

Infatti la vicepresidenza della Cassa di Risparmio di Volterra, secondo la logica partitocratica e lottizzante, «spettava» ai socialdemocratici e il ministro del PSDI, Nicolazzi, passa ad Andreatta il nome: Giuseppe Orsini (nome che, naturalmente, non figura nella terna della Banca d’Italia). A questo punto la Prefettura di Pisa obietta: di Orsini noti a Pisa ce n’è uno solo, non si chiama Giuseppe, ma Gioiello. È socialista. È stato presidente dell’Amministrazione Provinciale. Attualmente è presidente, sempre per il PSI, del Parco San Rossore-Migliarino. Andreatta prende per buone le precisazioni della Prefettura di Pisa e nomina Gioiello Orsini (in nome della professionalità) vicepresidente della Cassa di Risparmio di Volterra. È incredibile, ma in Italia succedono di queste cose! Scrive "la Repubblica" (5.3.81): «Così Giuseppe Orsini viene sostituito alla vicepresidenza della Cassa di Risparmio di Volterra da Gioiello che però, appena apprende la notizia, dichiara, stupito, di non aver fatto assolutamente nulla per ottenerla».

Stupito un corno. Appena ricevuta la nomina, da buon socialista, Gioiello Orsini, si attacca al telefono e, adducendo il fatto che la sua residenza si trova distante da Volterra (sede della Cassa) più di 70 chilometri, chiede immediatamente di avere un’auto tutta per sé e, in tal senso, fa richiesta formale alla banca. Quindi Gioiello Orsini non si stupisce affatto; incassa, tranquillamente, la nomina. E chiede l’auto. Veloce, precisa. Ora si corre ai ripari. Si depenna Gioiello e si nomina Giuseppe. In nome della... professionalità. Ma né Gioiello, né Giuseppe sono colpevoli. Colpevole è Andreatta. È lui che si dovrebbe licenziare. Per sempre. Poi si meravigliano se nelle banche fioriscono gli Arcaini e gli Addario.

 

15 marzo 1981

Si è dato il via, da parte della stampa parlamentare, alle statistiche. Oggetto: le assenze dei deputati dall’aula di Montecitorio. E (udite, udite!), nella disistima generale che investe partiti e parlamentari di maggioranza, costretti, per restare a galla, a fare strazio delle regole parlamentari, viene fuori che è proprio Flaminio Piccoli, fra i segretari di partito, quello che conta più presenze alle votazioni. Ed allora si passa alle interviste. «Trovo incredibile» dice Piccoli «che un leader di partito possa disertare il Parlamento.»

Vediamo di ragionare. L’assenteismo dei parlamentari. Il problema è così semplice come ce lo vorrebbe dare ad intendere, nel corso della intervista, Piccoli? E cioè che tutto si riduce nel costringere i deputati ad essere presenti, magari come si fa nelle fabbriche, multando gli assenti e, se questi insistono, licenziandoli? Tutto qui? Diciamolo con estrema franchezza: un Parlamento in cui si debbono sospingere i deputati in aula «a calci nel sedere», o con la minaccia di punizioni, non può essere redento con ritocchi più severi al regolamento. Ci vuol ben altro. È vero. Oggi la gran maggioranza dei parlamentari, i cosiddetti peones, è pigra, se non scettica, se non cinica. Ma chi li ha fatti diventare così? L’onorevole Piccoli non ci ha mai pensato? Faccia un piccolo sforzo. Fa bene.

L’aula di Montecitorio è deserta perché personaggi come Piccoli, espressione della partitocrazia più esasperata, l’hanno trasformata, con i loro comportamenti, in una zona morta della vita italiana. Alle Camere ci si va ormai per «plaudire» o «congiurare» quello che, in altre sedi, capi-tribù come Piccoli, hanno già deciso. La TV si compiace, spesso, di farci vedere gli incontri dei quattro segretari dei partiti di maggioranza, riuniti per decidere su tutto: prezzi, pensioni, ordine pubblico, trasporti, ospedali e altro. E poi l’ordine ai peones: tutti in riga, si vota così. E nessuno fiati.

È questa la morte del Parlamento. Ecco perché i deputati fuggono dall’aula o, se ci vanno, ci si recano per tramare contro chi li ha svuotati di tutto, prima di ogni altra cosa, della dignità. Questa è la ragione dell’assenteismo. I deputati si sentono fuori gioco. Strumenti di manovre altrui. Si sentono inutili. E non c’è statistica che possa smentire quanto affermiamo.

E per far sì che i parlamentari ritornino in aula non c’è che un modo: cacciare la partitocrazia. Cacciare personaggi come l’onorevole Piccoli. E tutti i satrapi come lui che hanno umiliato il Parlamento nella coscienza del popolo. L’illustre costituzionalista Giuseppe Maranini chiamava la partitocrazia: il tiranno senza volto. Tiranno è, il volto ce l’ha: è quello di Piccoli, di Craxi, di Longo, di Spadolini, di Berlinguer. Se ci fate caso è il volto del CLN, è il volto dell’arco... costituzionale.

Durante le ultime elezioni universitarie c’è stata, in Pisa, nell’ambito di quell’Ateneo, una curiosa polemica. Il gruppo Azione democratica ha diffuso un comunicato di protesta contro l’onorevole socialista Labriola, nonché docente di diritto pubblico nella Facoltà di Economia e Commercio di Pisa. Le accuse? Scarsa presenza in sede del deputato-professore; lezioni ed orari assurdi; appelli di esame rinviati, a volte anche di mesi, esami svolti con metodi sbrigativi, ponendo a ciascun candidato una sola domanda. E poi un invito perentorio: l’onorevole Labriola, presidente del gruppo parlamentare del PSI, sia coerente con il DPR 382; DPR che lo stesso Labriola ha contribuito a varare e che sancisce l’incompatibilità tra l’incarico di docente e quello di parlamentare. L’onorevole Labriola ha subito replicato. Non è vero quello di cui lo si accusa. Le sue lezioni hanno orari comodi, gli esami si svolgono regolarmente e con ritmi intensi, i promossi sono numerosi, i corsi frequentati. Su un solo punto l’onorevole socialista è stato zitto: come si fa a conciliare il mandato parlamentare con l’insegnamento universitario. Muto. Come un pesce. L’articolo 13 del DPR 11.7.180 n° 382 statuisce che il professore universitario è collocato in aspettativa per la durata del mandato parlamentare. Vige questa norma per l’onorevole Labriola? O gioca sulla sottile ma, moralmente inaccettabile distinzione fra docente universitario e professore ordinario? Ce lo faccia sapere. E ci dica se la sua posizione, per cui verrebbe a percepire due stipendi, è stata regolarmente denunciata alla Giunta delle elezioni della Camera dei Deputati.

L’eco della trasmissione televisiva Flash, gioco a premi condotto da Mike Bongiorno, quando sul teleschermo è apparso che ai primissimi posti, fra gli uomini più popolari d’Italia, secondo un’inchiesta Doxa figurava Benito Mussolini, non si è ancora spenta. Se ne discute animatamente. La vicenda ha destato meraviglia. Qualcuno ha detto; si tratta di un gioco. Tutto è possibile.

È così? Dal gioco, alle testimonianze. Ho qui, davanti a me, il libro "Anni di prova", Neri Pozza Editore. L’autore: l’antifascista Carlo Arturo Jemolo, professore di diritto ecclesiastico, giurista, storico. A pagina 136 trovo scritto: «Ma riguardando indietro con occhi smagati, incapace di quell’arte, che vedo tanto praticata, di ricostruire la storia come vorremmo fosse stata, avendo sempre reagito alla storia scritta dai vincitori, resto dell’avviso che Mussolini per larghezza di consensi, per profondità di affetti, sia stato amato come non furono né Garibaldi né Mazzini. E fermamente reagisco alla leggenda di un Mussolini caro solo ai ricchi ed ai borghesi; chi ricorda certi deliri delle masse operaie per lui, certi sdilinquimenti isterici di donne del popolo, chi nella propria cerchia rammenta i molti umili, i molti poveri, che giuravano per il duce, tremavano per lui alla notizia di un attentato, non può aderire a quella leggenda. Anche oggi se parlo con umili che siano vissuti al tempo del fascismo, e non abbiano appartenuto a quelle cerchie qualificate (famiglie di operai che avevano aderito al socialismo prima del '14 e ch’erano rimaste ferme nel loro convincimento, per lo più), sento sempre ricordare quanto allora l’Italia era stimata, cosa contava nel mondo, sento sempre imprecare ai traditori che nella seconda guerra mondiale desiderarono la sconfitta del loro Paese.»

 

19 marzo 1981

18 gennaio '51. «Siate però sicuro generale Eisenhower, che i lavoratori italiani non diserteranno il loro posto di lotta. Si batteranno, siatene certo, come si sono battuti nella guerra di liberazione, suscitando anche la vostra ammirazione e il vostro plauso, ma si batteranno per far trionfare la loro causa e contro i nemici loro di dentro e di fuori. E adesso che sapete questo, generale Eisenhower, tornatevene pure al vostro paese, e buon viaggio». [Dall’editoriale di Sandro Pertini sull’arrivo in Italia del Generale Eisenhower, "Avanti!", 18.1.1.51].

18 febbraio '51. «Stalin ha parlato in nome non solo del suo popolo, ma anche a nome di tutti gli altri popoli, bramosi di pace; e perciò ha rivolto un severo ammonimento ai governi della coalizione "atlantica" onde si arrestino, finché sono in tempo sulla strada da essi intrapresa ed in fondo alla quale sta l’abisso. E se fosse questo abisso solo per i governanti atlantici poco male; ma esso sarebbe per l’umanità intera e questa è la prospettiva tremenda che tiene inquieto l’animo di chi, come Stalin, pensa alla sorte delle masse lavoratrici del mondo intero. Con questa sua ampia comprensione degli interessi riguardanti l’umanità, Stalin rende ancor più evidente ed attuale la funzione di guida assegnata all’URSS dalla Storia nella lotta che i popoli lavoratori sostengono per il loro pieno riscatto. Ma per fortuna dell’umanità, di fronte ai forsennati di Oltre Oceano e di Oltre Manica, sta sereno e vigilante Stalin. Se così non fosse, il terzo conflitto mondiale sarebbe oggi una tragica realtà. Nessun questo dimentichi». [Dall’editoriale di Sandro Pertini, a commento dell’intervista di Stalin alla Pravda, "Avanti!", 18.2.51].

4 marzo '80. «Brigatisti rossi erano quelli della Resistenza, e dunque, compagni anch’io mi ritengo tale. Quelli di oggi invece sono soltanto dei prezzolati...» [Sandro Pertini, Brindisi, 4.3.80].

14 marzo '81. «Come posso essere tranquillo quando Reagan ha tenuto un linguaggio, e anche questo lo devo dire, un po’ provocatorio nei confronti dell’Urss? E se Breznev gli avesse risposto con la stessa durezza? Fortunatamente da questa parte la saggezza ha prevalso, anche se i dirigenti sovietici, altra cosa che devo dire, si sono comportati male nei confronti di Pajetta e dei comunisti italiani... Io ho avvertito chi dovevo avvertire. Ho fatto dire a Reagan che stia attento a non innescare un secondo Vietnam, col Salvador» [Sandro Pertini, "Epoca", 14.3.81].

Scrive "la Repubblica" (15.3.81) che c’è un silenzio di tomba circa le affermazioni di Pertini su Reagan. «Si tratta» scrive Scalfari, «di un giudizio molto pesante nei confronti del nostro maggiore alleato. Il governo italiano non ha nulla da dire in proposito? Condivide o dissente da quanto ha detto Pertini?» Scalfari ha ragione. Coloro che dagli americani ricevettero tutto, compreso il Quirinale, devono pur dire qualcosa. Infatti, senza gli americani, che mai sarebbe (con la resistenza) l’Italia odierna? Senza Eisenhower, è evidente, che Pertini (che queste cose le sa, anche se non le dice) oggi non potrebbe, dal Quirinale, parlare il linguaggio che parla nei riguardi di Reagan. Quindi parlino, facciano sapere qualcosa. Anche perché Scalfari che, abitualmente pranza al Quirinale, è il portavoce del presidente.

Il mio (modestissimo e umilissimo) giudizio, cioè di uno dei tanti Italiani che, nell’ultimo conflitto, non collaborò con gli Americani, è di questo tenore: Pertini, è inguaribilmente, quello di sempre. Fa tenerezza. È rimasto al '21, al '45, al '51. Quando, per amore di Stalin, voleva buttar fuori dall’Italia uno dei vincitori della seconda guerra mondiale: il generale Eisenhower. È rimasto cospiratore. Il termine può apparire duro, ma non ne trovo un altro per farmi intendere. Soprattutto dal presidente Pertini. Io lo capisco il presidente; oh, quanto lo capisco. Non può rinunciare a quella che è stata l’essenza di tutta la sua vita: una continua cospirazione. E non solo contro lo Stato fascista. Contro tutti quelli che aveva (e che ha) intorno. E continua a cospirare.

Stampa, radio, televisione applaudono. Sanno che il presidente fa molto caso a queste cose. Ci tiene. Guai non citarlo quando si produce nelle sue programmate sortite. Specie quelle che vengono classificate come «visite riservate». E nessuno, carichi come sono di piaggeria (ma non faceva schifo allo stesso Pertini?), ha sottolineato quelle parole: «Io ho avvertito Reagan... Faccia attenzione...»

Presidente: questa Italia, ahimè, avvertimenti non ne può più dare. Per volontà resistenziale, è stata cancellata dalla storia. È tornata espressione geografica. Produce vento e parole. E basta. Se mi è permesso: perché il presidente un piccolo, piccolo, piccolissimo avvertimento non lo dà ai ferrovieri che scioperano in continuazione; ai medici e agli infermieri che abbandonano gli ospedali; ai piloti che disertano gli aeroporti; ai ferrotranvieri che lasciano per terra i cittadini; ai netturbini che non portano via le immondizie; ai magistrati che non mandano avanti la giustizia; a tutte le mafie e le camorre che infestano questo non felice paese?

 

26 marzo 1981

Febbraio '75. Sala Alessi di Palazzo Marino, a Milano, è addobbata come non mai. Il Comune di Milano, data la gravità dell’ora, indice un convegno sul tema: «Criminalità comune e politica». C’è il sindaco, il prefetto, il comandante la legione dei Carabinieri, il generale, comandante il III Corpo d’Armata. Non mancano le autorità religiose. E il sindaco, per dare più solennità, ma soprattutto più competenza al dibattito, dispone che i capigruppo del Consiglio comunale di Milano possano farsi accompagnare, e assistere nel dibattito, ciascuno da un esperto di criminalità.

Fa spicco, su tutti, l’esperto del PSDI. È vestito di nero, taglio serio, con lobbia a larghe tese. Severo e compassato, quasi solenne nel comportamento. Ha un’aria altamente professionale. Da vero, autentico «esperto». Ahimè, il suo nome, oggi, è su tutti i giornali. Caratteri di scatola. Il "Corriere della Sera" titola: «Polizia e magistratura hanno ricostruito le allucinanti fasi del duplice delitto. Conferma: è stato Del Vecchio a uccidere i cugini. Li assassinò la sera stessa del finto rapimento.»

Sì, Eugenio De Paolini Del Vecchio. Proprio lui. L’esperto in criminalità che si portava dietro il capogruppo del PSDI al Comune di Milano. Di lui si può proprio dire: «Il signore sì che se ne intende». E ne ha dato se le accuse sono vere- ampie prove. Assassinando il 4.11.74, il patrigno. Si vede che, per poter parlare, come esperto in criminalità, al convegno indetto dal Comune di Milano nel '75, aveva necessità di... esercitarsi nel '74. E lui si esercitava.

Particolare: Eugenio De Paolini Del Vecchio, fra le tante cariche che ricopriva, aveva quella di «proboviro» nel PSDI. Non voglio comportarmi come i razzisti antifascisti si comportano con chi professa idee missine. E cioè scrivere che, essendo il Del Vecchio un socialdemocratico, tutta la socialdemocrazia sia da buttare. Sono queste mascalzonate concettuali, soprattutto morali, che lascio volentieri alla TV, alla stampa cosiddetta democratica e antifascista. Chiedo solo: cosa sarebbe accaduto se, per caso, il Del Vecchio, anziché accompagnare alla famosa conferenza sulla criminalità un socialdemocratico, si fosse presentato sotto braccio ad un missino? Ve lo immaginate voi la grancassa che avrebbero suonato?

Un ritratto del ministro Aniasi. È di un testimone che lo conosce bene. Ed è stilato in occasione di un fatto di sangue. È da sottolineare che il ministro alla Sanità si è ben guardato dal replicare. Da "il Giornale" del 2 marzo '81: «Caro Direttore, a proposito dell’assassinio di Pier Luigi Marangoni il Telegiornale ha annunciato che il ministro Aniasi ha visitato la salma. Come testimone diretto, desidero precisare che la visita è stata forzatamente brevissima in quanto i parenti hanno invitato il ministro ad andarsene, ricordandogli le sue iniziative a favore del permissivismo della droga, del disarmo della polizia, oltre che del disarmo morale della nazione. La sua presenza appariva come provocatoria ed offensiva nei confronti della vittima. Come medico del Policlinico, vecchio compagno di scuola a Pavia ed amico di Pier Luigi Marangoni ritengo ci sia un modo di esprimere solidarietà a lui e alle altre vittime passate e future: quello di togliere ai politici del calibro di Aniasi la possibilità di decidere della nostra vita, votando la petizione popolare a favore della pena di morte ai terroristi. G. B. Colombo Milano».

«Caro Direttore, ritengo che le scelte delle persone per incarichi pubblici siano un argomento che giustamente sta a cuore alla gente poiché la qualità della nostra democrazia si costruisce anche attraverso una selezione severa dei dirigenti». [Nino Andreatta, "la Repubblica", 13.3.81] Vi prego: non ridete. Sì, è lui: Nino Andreatta. Il ministro del Tesoro che, sbagliando un Giuseppe con un Gioiello, nomina alla Cassa di Risparmio di Volterra (una delle più importanti in Toscana) un pinco pallino qualsiasi e questo perché il PSDI, a cui la Cassa spettava per lottizzazione, fornisce a... colui che parla di «severa selezione dei dirigenti», indirizzi sbagliati. Roba da matti! Selezione severa dei dirigenti? Ma quando mai? Se così fosse, il primo a non essere al posto che è, sarebbe proprio Andreatta, fra l’altro, sotto processo per peculato continuato aggravato. Sì, la qualità di una democrazia si misura da come sceglie la sua classe dirigente. Giusto. E Andreatta qualifica questa democrazia.

La «vicenda Veronique». Ci ricorda la battuta di Longanesi: «Scusi, dottore, alla mia età, non ritiene che un po’ di pornografia mi farebbe bene?». Battute a parte, scrive "la Repubblica" (13.3.81): «È bastato un quarto d’ora per constatare un dato di fatto: il consiglio di amministrazione della RAI-TV era spaccato in due. Da una parte sinistra, liberali, con i comunisti in prima fila. Dall’altra DC e destra, a favore perché la trasmissione non avesse luogo». Quale destra? È una inesattezza. Perché "la Repubblica" sa molto bene che nel consiglio di Amministrazione della RAI-TV le «seggiole» appartengono, tutte, ai culi dell’arco costituzionale. Le torte se le dividono. E se le mangiano. Tutte. Fra loro.

Davide Lajolo insiste. Questa volta sul "Corriere della Sera" (9.3.81). Sotto il titolo: «Pena di morte, nella Resistenza eravamo diversi», fra l’altro scrive: «Proprio nei giorni del combattimento dei rastrellamenti e dei nostri contrassalti, cosa ci distingueva dai criminali che avevamo di fronte? Quanto non ci stancavamo di insegnare, noi più responsabili, ai nostri partigiani? Che dalla nostra parte era la libertà e la civiltà, dall’altra il mercenarismo e la barbarie dell’invasore. Ancora: noi non dovevamo fare gli assassini dei prigionieri nemici mentre era scontato che loro ai prigionieri patrioti riservavano la tortura e la corda per impiccarli.»

Dunque da un lato i teneri agnelli (i partigiani), dall’altra i criminali (i fascisti). È la storia scritta da un cialtrone. A proposito del quale, ho fatto pervenire, per raccomandata, a Franco Di Bella, direttore del "Corriere", la seguente lettera: «Signor Direttore, leggo sul "Corriere" (9.3.81) l’articolo di Davide Lajolo dal titolo: "Pena di morte. Nella Resistenza eravamo diversi". Mi perdoni: ne ho provato una nausea profonda. E per sentirla e acuirla "fino al vomito", mi sono andato a rileggere l’articolo che lo stesso "signore" scrisse il 9 ottobre 40 per "Sentinella Adriatica", in occasione della marcia della giovinezza. Lajolo intitolò quell’articolo: "Volontari a 18 anni". E ci mise il seguente sottotitolo: "E così marciano questi volontari, con l’orgoglio di continuare le tradizioni squadriste". Il finale del pezzo è di questo tenore: "Ragazzo di Mussolini! Soldato giovane! L’Italia del Duce è salva. Tu porta le armi". "Diventerai legionario del nuovo Impero di Roma, con l’orgoglio di essere con lui nato e di avere coronato la gloria con il tuo sangue bello come il combattimento". Buona parte di quei ragazzi, così descritti e esaltati da Lajolo, doveva morire a Bir El Gobi. Lajolo è vivo. Ma il "Corriere" non si vergogna di ospitare un personaggio simile? Cestini pure questa lettera. Direttori che possano pubblicarla devono ancora nascere».

 

31 marzo 1981

Dai giornali ["Corriere della Sera", 21.3.81]: «La Sicilia si prepara per il suo sviluppo a spendere in tre anni 12.000 miliardi». L’onorevole Salvatore Lauricella, socialista, già ministro della Repubblica, si dimette da deputato. Questa la lettera inviata alla presidente Nilde Jotti: «Chiamato dal mio partito» scrive Lauricella, «a dare uno speciale contributo alla definizione e realizzazione del progetto ’80 per l’autonomia siciliana e della relativa proposta politico-programmatica per la liberazione della Sicilia dall’emarginazione, dalla disoccupazione, dalla violenza, ritengo di dovervi aderire con l’animo di partecipare ad un grande disegno politico di rinascita civile e sociale».

Dunque, il PSI chiama «l’esperto» a gestire, nei prossimi anni, 12.000 miliardi per la rinascita della Sicilia. Chi è Lauricella? "la Repubblica" del 10.12.80, scrive: «In pochi anni aveva bruciato le tappe: da sindaco di Serradifalco, un piccolo comune della provincia di Caltanissetta a vicepresidente dell’Assemblea regionale siciliana. Erano i primi anni sessanta. Allora brillava, incontrastata, tra i socialisti siciliani, la stella di Lauricella. E proprio a quel carro era legato Calogero Mangione, ex-assessore regionale allo sviluppo economico, ora nel carcere dell’Ucciardone per una storia di tangenti. L’indagine del magistrato ha accertato, interrogando Gilda di Paola, l’amica del Mangione e oggi sua implacabile accusatrice, che parte dei soldi intascati da Calogero Mangione -per ammissione stessa dell’ex assessore- dovevano finire nelle tasche del PSI. Inoltre, sempre secondo le dichiarazioni della donna, in tutta questa vicenda di tangenti, l’allora segretario regionale del PSI e ministro ai Lavori Pubblici, Salvatore Lauricella, aveva il ruolo di "Cassiere"». Così "la Repubblica". Nel PSI siciliano le carriere rapide, strepitose, sono la regola. L’ex-deputato socialista Salvino Fagone, ne è il prototipo. Entrato in politica con le pezze al sedere, nello spazio di sette anni, diventa miliardario. Oggi è in galera. Dall’opera sua la Sicilia non è rinata. È stata solo rapinata. Ma torniamo a Lauricella, Totò per gli amici. E spulciamo cosa hanno scritto di lui quotidiani, rotocalchi, e agenzie quando, seduto sulla poltrona di ministro dei LL.PP., si venne a trovare al culmine di una carriera vertiginosa. In quei giorni felici (per Lauricella), sempre per espresso incarico del PSI, si dedicava, con particolare cura, alle aste dell’ANAS, aste che dovevano portare al PSI lustro, prestigio e... denaro.

L’Agenzia AIPE (rif. 4221) del 9 febbraio '72, a pagina sette, scrive: «I più stretti collaboratori di Totò Lauricella affermano che dopo giornate di così intenso lavoro, l’ex-avvocaticchio di Ravanusa tornava esausto nella sua confortevole abitazione di Via degli Orti della Farnesina, occupata dal Signor Ministro, dalla Sua Signora, (quando non è impegnata in crociere transoceaniche) e da otto persone di servizio, tra camerieri, autisti e guardaspalle. Un’abitazione certamente ben più confortevole della cameretta occupata all’albergo Oriente, all’epoca in cui l’uomo di Ravanusa iniziava la sua "marcia su Roma". E non solo, è così impegnato il Signor Ministro, da non potersi nemmeno concedere una breve vacanza nella sua nuovissima villa, fatta costruire tra le rocce del Monte Saraceno, proprio vicino a Ravanusa, una villa che, nella radicata modestia dei ravanusiani i suoi attuali proprietari chiamano familiarmente "Cosa Nostra". Ben si capisce quindi che tra le opere pubbliche da appaltare, ville da accudire, personale di servizio da dirigere, architetti con titolo baronale da invitare a cena, rappresentanti degli industriali dell’edilizia da blandire, l’infaticabile Totò Lauricella, non può permettersi il lusso di lasciare la poltrona di Porta Pia, soprattutto in tempo di elezione, quando i "picciotti" da accontentare sono un esercito.»

L’AIPE, in data 23.2.'72, riferimento 4418, insiste e scrive: «Il boss dei Lavori Pubblici con accenti da proclama: "Lascio il Ministero dei Lavori Pubblici con un bilancio positivo di realizzazioni avviate o portate a compimento". È assolutamente falso. L’unico bilancio positivo di cui Totò Lauricella possa vantarsi è evidentemente quello suo familiare, visto che ha potuto costruirsi una villa da magnate, nel suo feudo agrigentino e un attico da cineasta sulle pendici di Monte Mario a Roma. La sua gestione dei Lavori Pubblici è stata, dal punto di vista dell’economia nazionale, semplicemente un disastro. Totò Lauricella è stato capace di annullare anche quel poco che era stato fatto dai suoi predecessori.»

Il 14.6.72, riferimento 6114, l’AIPE, alla già ricca vicenda delle auto ministeriali, aggiunge un capitolo, del tutto nuovo e finora sconosciuto alla pubblica opinione italiana. Il ministro Lauricella, quando abbandona l’incarico, le auto ministeriali non le lascia, ma se le porta con sé. State a sentire: «Le due fiammanti macchine che l’ex-ministro s’è portato via e ancora si tiene dopo quattro mesi dalla sua uscita dal "balcone del bersagliere": una 2000 Alfa di spicco ministeriale e una 1750 di più consono e anonimo color femmineo. Entrambe (con la accomodante compiacenza del Direttore Generale preposto all’Autoparco e la titubante tolleranza del nuovo ministro) tuttora alle dipendenze di "casa Lauricella". Con il relativo corredo di autisti ministeriali, ai quali -sia chiaro- non si osi toccare assegni, premi in denaro e straordinari: tutto come prima, al servizio dello Stato, anche se "il ministro sono io" è momentaneamente a riposo nella splendida casa di Roma o sui campi di broccoli, in quel di Ravanusa».

«Dove sono i fondi dei terremotati?» Se lo chiede l’AIPE del 7.2.73 (rif. 10151): «A cinque anni di distanza dal terremoto in Sicilia nulla o quasi nulla è stato fatto per le vittime di quella catastrofe. I villaggi distrutti non sono stati ricostruiti. Esistono ancora i lager in cui sono rinchiusi i terremotati. Dove sono finiti i fondi destinati a quelle sfortunate popolazioni? La domanda va posta direttamente all’ex ministro dei Lavori Pubblici, Salvatore Lauricella, per i seguenti motivi:

1) Perché Lauricella è stato ministro dei Lavori Pubblici e quindi massimo responsabile della mancata ricostruzione in questi lunghi anni;

2) perché Lauricella è siciliano ed ha strappato i voti nel suo collegio, promettendo mari e monti a quelle sfortunate popolazioni, senza poi mantenere una sola di quelle promesse;

3) perché Lauricella si è creato uno "staff personale" di urbanisti, architetti, costruttori che, attraverso i più diversi "istituti" e "centri studi", avrebbero dovuto risolvere i problemi tecnici delle zone terremotate e che, in questo periodo, sembrano essersi limitati a costruire ville lussuose, a Taormina e altrove, per sé e per i propri amici politici.»

"Panorama" non è da meno. E, sotto il titolo: «La via siciliana al socialismo» (19.10.72), dà su Totò Lauricella questa pennellata: «Secondo la sinistra socialista, Lauricella, nominato ministro dei Lavori pubblici nel '70 (porta la sua firma la legge sulla casa), sintetizza perfettamente il nuovo corso del partito e il nuovo modo, clientelare, di fare politica. Si spiega anche così la perdita secca che il PSI ha subito quest’anno in Sicilia, dice Anselmo Guarraci, il maggior esponente lombardiano di Palermo. L’elettorato aveva intuito che il partito non sarebbe rientrato nel governo e ha dirottato verso altri lidi i voti, pur attribuendo a Lauricella il più alto numero di voti preferenziali (72 mila) nel partito. Per riuscire a raggiungere questo primato, Lauricella ha visitato di persona, durante l’ultima campagna elettorale, tutte le 280 sezioni del PSI nella Sicilia occidentale, offrendo cocktail in ogni federazione. "Un tipo di propaganda o politica che nessun socialista prima di lui aveva sperimentato in Sicilia", dicono i suoi nemici di partito, che gli rimproverano anche un sontuoso ricevimento dato l’anno scorso a Palermo nella villa Bosco Grande (1. 500 invitati) per il fidanzamento della figlia Lucia con Carlo Colombo, un giovane palermitano parente alla lontana di Joe Colombo, il capo di una delle cinque famiglie mafiose degli Stati Uniti».

È a questo personaggio, è a questa bandiera che il... rinnovato partito socialista di Bettino Craxi affida il compito di liberare la Sicilia dall’emarginazione, dalla disoccupazione, dalla violenza, gestendo 12.000 miliardi.

 

2 aprile 1981

Il 15 aprile ricorre l’anniversario dell’assassinio di Giovanni Gentile. Sono passati 37 anni. Lo voglio ricordare con le parole di uno studioso antifascista. Così Fortunato Pintor ["Giovanni Gentile, la vita e il pensiero", volume II, Sansoni Editore] chiude la sua memoria sul filosofo: «Si sa come morì: vittima in Firenze il 15 aprile '44 della lotta fratricida che fu l’ultimo atto della tragedia italiana. Cinque giovani contro un vecchio inerme in una solitaria strada campestre. Più degna certo della grande causa la battaglia che nell’agosto veniente uomini della loro stessa fede combatterono contro i tedeschi per la liberazione della città. Uno che non condivise le idee politiche del Gentile e n’ebbe tuttavia, dagli anni dei comuni studi, segni di fraterna predilezione, non crede di tradire la sacra memoria dei caduti per la libertà rendendo tributo di affetto addolorato e d’onore alla memoria lacerata di Giovanni Gentile, che sentì sino all’ultimo sgomento e angoscia per la patria vinta e divisa. Per quale Italia ora vivere, pensare, poetare, insegnare, scrivere?... Quando la Patria sparisce, manca l’aria e il respiro. Manca la voglia di guardarsi attorno, di cercare lo sguardo degli altri, che non hanno più nulla da dirti e nulla più si aspettano da te.»

Quelle parole:... «cinque giovani contro un vecchio inerme in una solitaria strada campestre...» Sono parole da ricordare. L’Italia del terrorismo è nata quel giorno: 15 aprile '44.

Nel vangelo di Giovanni c’è questo episodio. Maria sta ungendo i piedi di Gesù con un unguento molto prezioso. Giuda, rivolgendosi a Maria, dice: «Perché tale unguento non è stato venduto per 300 denari che potevano essere dati ai poveri?» Commenta Giovanni: «Giuda disse questo, non perché gli importasse dei poveri, ma perché era ladro, teneva la borsa e rubava quanto vi metteva dentro.» Le cosiddette riforme di struttura, nell’Italia '81, hanno forse motivazioni diverse? Popolo, poveri, lavoratori. Sono le parole mobilitanti e nobilitanti. Come è bella e pulita la facciata! Ma dietro che c’è? Ci sono i Giuda moderni che, strumentalizzando poveri e lavoratori, chiedono soldi alla collettività per le riforme di struttura. Riforme che altro non sono che le borse private dei vari Giuda partitocratici (e ladri).

Giovanni Ferrara, su "la Repubblica" dell’11.3.81 (pagina 5) scrive: «In realtà ciò di cui l’Italia patisce è: 1) la crisi economica; 2) la crisi energetica; 3) l’inflazione; 4) la disoccupazione; 5) lo squilibrio Nord-Sud; 6) l’amministrazione in sfascio; 7) la disfunzione dei servizi pubblici e sociali; 8) il disordine legislativo; 9) l’inestricabile pasticcio degli Enti locali e parassitari; 10) il permanere tenace di aree di consenso all’eversione e al terrorismo; 11) la paralisi dei Comuni e delle Regioni; 12) il disastro della Scuola, dell’Università, della ricerca scientifica; 13) l’incertezza della giustizia; 14) le camorre, le mafie e i gruppi di pressione.» E, scusate, se è poco.

"Gente" (31.10.80) ci ha fornito le immagini di Carla Gravina e Lucio Magri che, nudi, si beano il sole nella splendida villa al mare dell’attrice, ora deputatessa del PCI. Lucio Magri è un noto esponente della mondanità notturna di Roma. Di solito trascorre le vacanze a Porto Ercole, fra le ville dell’Argentario e sulle barche «oltre il miliardo». Sempre abbronzatissimo. Anche d’inverno. Il che ci fa pensare che vada a trovare il sole (fra una fatica e l’altra parlamentare, si intende) nelle isole, di solito, frequentate dai miliardari. Nessuna meraviglia. Quello che stupisce è che l’onorevole Magri sia il segretario nazionale (il capo) del Partito di unità proletaria. Magri è molto bravo. Le sue conferenze televisive sono condotte con intelligenza professionale. Però abbiamo l’impressione che conosca bene i ricchi (perché li frequenta), poco i lavoratori (dei quali nulla sa, se non quello che legge sui libri al sole, nelle ville dei miliardari).

"Il Settimanale" (3.3.81) ha intervistato il professor Massimo Severo Giannini, già ministro per la Riforma burocratica, socialista e ieri partigiano. Nell’intervista, questo scambio di opinioni: «Lei, professore, ha parlato di atteggiamento di sospetto dello Stato liberale nei confronti della burocrazia. Ed il fascismo come si comportò?» Risposta di Giannini: «Il fascismo inserì nell’amministrazione il criterio dell’ordinamento gerarchico, responsabilizzando molto i capi uffici e lasciando loro una notevole libertà». Quindi la burocrazia fascista funzionava meglio? Risposta di Giannini: «Ah!, non c’è dubbio. Rispetto ad oggi, non c’è dubbio che funzionava meglio.» Ed i sindacati, professor Giannini? Quali sono le responsabilità dei sindacati? Risposta di Giannini: «Il discorso sarebbe troppo lungo. Diciamo che dal ’79 c’è una certa presa di coscienza. Non c’è dubbio che nella storia dell’amministrazione italiana i sindacati hanno delle grosse responsabilità. Perché la Scuola l’hanno sfasciata loro. Le Poste le hanno sfasciate loro. Le Poste... una delle più grosse amministrazioni del mondo è stata distrutta. Pensi che nell’ultimo Congresso dell’Unione Postale Universale ci volevano espellere: c’è stata una proposta di vari Stati di escludere l’Italia perché non ha un servizio postale degno dei paesi civili.»

Alcune cifre: l’Italia mussoliniana, l’Italia dell’Impero aveva nei ministeri fra impiegati civili, insegnanti, militari, magistrati, operai, 714.182 persone.
L’Italia democratica ne conta 2.161.678.

Dal "Diario" di Giovanni Papini [Edizioni Mondadori '66, pagina 691], sotto la data 10 giugno '51: «Elezioni per il consiglio comunale. Vado anch’io a votare, con mio fratello. Giuliotti (scrittore e polemista cattolico, N.d.R.), l’altro giorno, mi ha detto: "Prima vomito più che posso eppoi vo a votare per la Democrazia cristiana".»

 

9 aprile 1981

"l’Unità" (28.3.81) titola: «Le forze della Resistenza reagiscono a chi tenta di falsificare la storia. Anche da Via Rasella nacque la Repubblica». La questione è nata perché a Bolzano la SVP ha inteso commemorare i 33 sud-tirolesi che morirono a Via Rasella a Roma il 23.3.44, in seguito all’attentato che, per rappresaglia, scatenò la strage delle Fosse Ardeatine. I partigiani, riuniti nell’ANPI e in Congresso a Genova, hanno chiesto che quella cerimonia venga vietata per offesa alla resistenza e alla Repubblica, in quanto l’ex senatore altoatesino Friedl Volgger, dopo aver definito «folli fanatici» gli autori dell’eccidio di Via Rasella, afferma che «l’attentato fu fatto senza alcuna necessità strategica perché nulla cambiava della guerra in corso».

Andiamo per ordine. Che l’attentato non aveva altra finalità se non quella di provocare la dura reazione dei tedeschi, non è solo opinione dell’ex senatore della Repubblica Volgger. Infatti nel libro «Roma antifascista» dell’antifascista e partigiano Ripa di Meana, è riportato, a pagina 234, quanto scriveva, in Roma, il 4 aprile '44 il foglio clandestino "Italia nuova": «Per Roma intera la deplorazione dell’attentato di Via Rasella è stata unanime; perché assolutamente irrilevante ai fini della guerra contro i tedeschi nella quale il nostro Paese è impegnato; perché insensato dato che il maggior danno ne sarebbe inevitabilmente derivato alla popolazione italiana; per quell’ampio senso di umanità che distingue noi latini e che non si estingue neppure durante gli orrori di una guerra e per il quale ogni inutile strage non può trovare la sua giustificazione nell’odio, ma solo nella necessità. Per la prima volta dall’8 settembre, i tedeschi avevano segnato un punto, ed avuto dalla loro l’opinione pubblica della Capitale. Ma...»

La bomba di Via Rasella, nel disegno di coloro che la fecero brillare, doveva scatenare la più sanguinosa delle reazioni. E così avvenne. Con le Fosse Ardeatine. Gli attentatori (i mandanti morali: Lussu, Bauer, Amendola e Pertini. Gli esecutori materiali: Rosario Bentivegna, Franco Calamandrei, il palazzinaro miliardario Alfio Marchini) raggiunsero l’obiettivo. Uccisero 33 soldati che marciavano disarmati, onde rispettare il requisito di Roma «Città aperta» (così come è risultato dal processo Kappler), alcuni civili e un bimbo. E, a diversità dell’eroico carabiniere Salvo D’Acquisto (23 settembre '43), non si presentarono, onde evitare la preannunciata rappresaglia. La vollero. La guerra civile, dallo spaventoso massacro delle Fosse Ardeatine, avrebbe vigoreggiato. E così accadde.
Se ci fate caso la tecnica dell’attuale terrorismo ha molto imparato da Via Rasella. Uccidere perché l’odio si espanda a macchia d’olio. Perché l’odio trionfi.

«Anche da Via Rasella nacque la Repubblica» scrive "l’Unità". Non ci sono dubbi. È sufficiente guardare quello che oggi accade, sotto gli occhi di tutti. Non poteva essere diversamente. Infatti il carabiniere Salvo D’Acquisto, caduto perché gli innocenti si salvassero, è a malapena ricordato, quasi controvoglia; mentre gli autori dell’attentato di Via Rasella, che scatenarono il massacro delle Fosse Ardeatine, decorati di medaglia d’oro, sono imposti al ricordo degli italiani. Pena l’applicazione di alcune norme penali. Un’Italia capovolta.

Fra i massacrati delle Fosse Ardeatine: Aldo Finzi, sottosegretario agli Interni nel Governo Mussolini. Al tempo del delitto Matteotti. Perirono ufficiali, soldati, marinai, aviatori, fascisti repubblicani regolarmente tesserati. Aristocratici, intellettuali, borghesi, popolani, sacerdoti: tutti fatti eguali nella redenzione della morte, nella sofferta ingiustizia, nel supplizio crudele. Morirono tutti bene. Con indicibile dignità. Era il marzo '44.

Sono passati trentasette anni: sulla passerella del Congresso dell’ANPI di Genova è salito l’ex-ministro della Repubblica Paolo Emilio Taviani, già apologeta del fascismo e di Benito Mussolini. In questo clima era giusto che i partigiani dell’ANPI confermassero alla presidenza dell’associazione il senatore Amerigo Boldrini, già centurione della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale.

 

12 aprile 1981

"l’Unità" (5.3.81), in vista delle elezioni per il consiglio comunale di Genova, esalta la politica unitaria che PCI e PSI conducono in Liguria. Il titolo è su sei colonne. «Vasta esperienza unitaria nella società civile», «proficua collaborazione nel governo degli Enti locali», sono espressioni che ricorrono spesso nell’articolo de l’Unità. Ora si dà il caso che, in Liguria, quasi tutta la classe politica di vertice del PSI sia stata messa sotto processo dalla Magistratura e abbia riportato, anche di recente, dure condanne. La domanda al PCI è d’obbligo (e gliela ribadiremo durante la campagna elettorale): il PSI, che è «ladro» quando governa con la DC, non lo è più quando si mette accanto il PCI?

Piccoli e i miliardi di Sindona. Un pulcino nella stoppa. Ben diverso lo stile di Andreotti, dobbiamo riconoscerlo. Altra razza. Andreotti, per stornare dal suo capo lo «scandalo Sindona» (luglio-settembre '74), dà in pasto al PCI (onde esserne protetto) le FF.AA. e i servizi di informazione.
Piccoli, da quel... piccolo che è, si rifugia anche lui sotto l’ombrello del PCI, ma con una sorta di divagazioni che sono, oltre tutto, ridicole. Parla, infatti, di una congiura giacobino-massonica volta a scalzare la presenza dei partiti di ispirazione cristiana dall’Italia. È ridicolo. La DC: un partito cristiano? Quando mai? La DC ha reso l’Italia il paese più scristianizzato d’Europa. Fa semplicemente ridere l’affermazione che la presenza della DC è garanzia di difesa dei princìpi di Cristo. Cristo è coraggio, carattere, lealtà, verità. La DC è il suo contrario: non dice mai la verità, ma trama; non ti dice: coraggio, ma cedi; non ti grida: afferma la tua fede, ma nascondila. Se c’è un partito che è l’anti-Cristo per eccellenza, questo è la DC.

Il "Corriere della Sera" (30.3.81) pubblica l’ennesimo articolo su Giovanni Spadolini. Questa volta («Assegnata a Giovanni Spadolini la targa della riconoscenza», è il titolo) si tratta del Premio internazionale Nuova Antologia, assegnato (naturalmente!) al senatore repubblicano a Campione, nella giornata dedicata alla collaborazione italo-elvetica. L’articolo è ridondante di elogi. Leggendo si ha la netta sensazione di sentire, in lontananza, la stessa voce dello Spadolini quando, alla televisione, ci butta addosso manciate di parole caramellose, auliche, gelatinose, puttanesche, che ti restano appiccicate come macchie d’unto. Ci siamo informati: questi articoli del Corriere della Sera li scrive lui stesso. Complimenti senatore.

«Spadolini [il "Corriere", 30.3.81] ha tratto spunto dai secolari legami ideali e culturali, tra l’Italia e la Svizzera, per sottolineare la continuità del ponte che, come già ai tempi dell’esilio nel secolo scorso e durante la lotta antifascista, unisce nella comune difesa dei princìpi democratici la libera Svizzera e la Repubblica italiana.» Solo che Spadolini, durante la lotta antifascista, i princìpi democratici li difendeva con la RSI, definendo i partigiani degli straccioni, la feccia della società italiana. Quello che dice oggi Spadolini non ci meraviglia. Basta guardarlo. Al posto della faccia non c’è una... faccia. C’è qualche cosa d’altro. Quello che meraviglia è che gli scodinzoli d’intorno Leo Valiani. Ma non se ne vergogna?

Ricordate le quattro libertà: Freedom of speech (libertà di parola); freedom of religion (libertà di religione); freedom from want (libertà dal bisogno); freedom from fear (libertà dalla paura)? Fu la bandiera dei vincitori la seconda guerra mondiale. A trentasei anni dal '45 quelle quattro preposizioncelle birichine (from e of, di e da, gran divario poi non v’ha) si sono scambiate di posto, come in un grazioso giochetto di parole incrociate. Affermano infatti che l’intenzione vera era di liberarci da (from) ogni religione (e ci sono riusciti); così come da ogni uso e utilità della parola (e ci sono riusciti); e, viceversa, di elargirci la libertà di (of) essere perfettamente in condizioni di estremo bisogno e di costante paura (e ci sono riusciti).

A pagina 327 del "Diario" di Giovanni Papini [edizioni Arnoldo Mondadori, '66] questo giudizio su Ferruccio Parri. La data: 15.6.45. «Piero Rebora mi dà qualche notizia su Ferruccio Parri, designato come Presidente del Consiglio dei ministri e fin qui ignoto. Fu suo compagno d’Università a Torino dal 1907 al 1911. Studiò lettere e si laureò con Fedele, cioè con una tesi di storia moderna. Benché nato a Genova (nel 1890) è di razza piemontese, militare, "soldataccio", dice Rebora, ma onesto e giusto. Dopo la laurea non si curò di studi ma di giornalismo e di cospirazioni. Di politica vera e propria non ha esperienza ma solo di gruppi clandestini e di bande armate. Dovrà ascoltare molto e fidarsi dei consigli altrui. Rebora (che non lo vede più da vent’anni) lo crede capace di generosità.» Se ci fate caso, con le dovute correzioni, può essere il ritratto anche di Sandro Pertini.

 

14 aprile 1981

Parliamo di Sindona. "l’Unità", da tempo, dà spazio al senatore Emanuele Macaluso perché intrattenga i proletari sul tema: terrorismo, questione morale e, sullo sfondo, la Sicilia. L’ultima «tesi» in materia, sostenuta dal parlamentare comunista (vedi "l’Unità" del 27.3.81) è che «il golpe regionale» ideato da Sindona «per liberare la Sicilia» è pura fantasia, ma è vera invece l’eliminazione fisica degli uomini democristiani che, in Sicilia, intendono, alleandosi con il PCI combattere il gruppo di potere della DC che controlla il mercato della droga, degli appalti, degli affari per centinaia e centinaia di miliardi. Siamo alle solite. Il PCI è la fonte purificatrice di ogni peccato. Chi si abbevera a quella fonte cancella ogni peccato e vive felice, libero e contento. È una tesi che non sta in piedi, soprattutto perché il PCI, in Sicilia, è sempre stato potere e, in quanto tale, associato a tutte le ruberie che il gruppo dirigente della DC può aver compiuto. Non c’è scandalo dove il PCI non sia implicato. Leonardo Sciascia ha scritto che non capiremo nulla della mafia fino a che non scriveremo la storia del passaggio delle vecchie miniere dei baroni alla mano pubblica. È questa una buona occasione perché Emanuele Macaluso, già perito minerario, ci dica chi fu a redigere la perizia, grazie alla quale quelle miniere (che non valevano un soldo) furono dal potere pubblico super-pagate ai baroni. Operazione tipicamente mafiosa. Anche perché intorno all’Ente minerario siciliano, vengono a ruotare, dopo, tutti i fatti di sangue ancora avvolti nel mistero: dalla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro alla morte del petroliere Enrico Mattei.

Non solo, ma se si va ai documenti, le sorprese non mancano. Nemmeno per Emanuele Macaluso. Infatti il senatore comunista, già perito minerario lo troviamo nel '47 (34 anni fa) nella Cooperativa per azioni "La Voce della Sicilia" (costituita per atti del notaio palermitano Tanteri Guglielmo) insieme all’avvocato Calogero Cipolla; avvocato che il 13 dicembre '71 compare nel consiglio di amministrazione della società GEFI (Generale Finanziaria S.p.A.), proprietaria del pacchetto azionario di maggioranza dell’ex-Banca Loria, poi Banco di Milano di Michele Sindona. L’avvocato Calogero Cipolla non è uomo da poco se, in concomitanza con la nomina di consigliere della GEFI, diventa presidente della società editrice del quotidiano (comunista) "l’Ora" di Palermo e se è uomo di fiducia del massimo responsabile del tempo di tutta la stampa del PCI, Amerigo Terenzi, tanto da far parte del Consiglio di amministrazione della società editrice Rinnovamento proprietaria di "Paese Sera".

Noi siamo in grado di precisare che, scoppiato lo «scandalo Sindona», nell’autunno del '74, l’avvocato Calogero Cipolla si dimette improvvisamente dal consiglio di amministrazione del quotidiano (comunista) "l’Ora", ma resta nel consiglio di amministrazione della GEFI. Cosa ci fa, quali interessi tutela Cipolla nella GEFI e quindi nelle banche di Sindona dove, guarda caso, si trova (consiglio di amministrazione del Banco di Milano) il senatore democristiano Graziano Verzotto, latitante? Può dirci qualcosa al riguardo il senatore Macaluso, già perito minerario? L’altro consigliere della GEFI, di cui farebbe bene ad occuparsi, oltre a Macaluso, la Commissione di inchiesta sul «caso Sindona», è Cosimo Viscuso, siciliano, residente a Roma, ma nativo di Bagheria, guarda caso dello stesso paese dove è nato il finanziere Ugo De Luca, uomo di fiducia di Sindona e che, da modesto impiegato del Banco di Sicilia, diviene direttore generale della Banca Loria di Michele Sindona. La presenza di Viscuso nella GEFI che cosa si ripromette?

Coprire Graziano Verzotto? Ha scritto di lui Enzo Biagi ["Corriere", 20.3.75]: «Comincia da partigiano e finisce da ricercato. Non dai tedeschi, ma dai carabinieri.» È l’Italia nata dalla Resistenza. Comunque andiamo avanti. Con un secondo interrogativo: è soltanto un caso che le connessioni Sindona-PCI risultino già evidenti anche dal fatto che la Banca Loria lavorasse quasi esclusivamente con cooperative del Nord facenti capo al PCI? Perché il senatore Macaluso, già perito minerario, in uno dei suoi articoli moralizzatori su "l’Unità" non ci fornisce qualche lume al riguardo? Non è finita. C’è da prendere visione di quanto dichiara (6.4.75, ore 18,30) al giudice istruttore Olivio Urbisci del Tribunale di Milano, il dottor Antonino Renna, direttore amministrativo dell’EMS (Ente Minerario siciliano), arrestato per i fondi neri delle banche di Sindona. Ascoltiamolo: «Già prima del deposito in questione avevo avuto rapporti con la Banca Unione (una banca di Sindona, N.d.R.), precisi contatti, in relazione ad un finanziamento di circa 600 milioni effettuato a favore della Sochimisi nell’anno '71-'72. All’epoca direttore generale della Banca Unione era il dottor De Luca. Il mio contatto con la predetta banca fu determinato dal senatore Graziano Verzotto presidente dell’EMS (Ente Minerario siciliano), il quale aveva richiesto di recarmi presso la banca per sondare la possibilità che la stessa effettuasse un finanziamento a favore dell’Ente minerario e di altre società allo stesso collegate. A tal’uopo m’aveva fatto accompagnare dall’avvocato Calogero Cipolla, all’epoca presidente del giornale l’Ora e amico del senatore Verzotto, oltre che del De Luca. Mi pare che Cipolla abbia avuto un incarico nel Banco di Milano. In occasione dell’operazione della quale ho fatto cenno, su richiesta del dott De Luca, aprii un conto personale. Nel mese di novembre '72, un giorno, il senatore Verzotto ed il dott. Giordano Pietro (direttore generale dell’EMS, socialista, arrestato anche lui, N.d.R.) mi fecero presente di avere deciso di depositare un fondo di sette miliardi e mezzo, di pertinenza dell’Ente minerario, sulla Banca Unione e sulla Banca Loria di Michele Sindona.»

Ci pare che ve ne sia abbastanza perché il senatore Macaluso (il moralizzatore), membro della Commissione di inchiesta Sindona, faccia istanza affinché la Commissione acquisisca dal Tribunale di Milano il fascicolo Sindona-Verzotto-Cipolla-EMS. E interroghi il dottor De Luca, i socialisti Giordano Pietro e Reina Antonino. Come si può constatare «dentro» ci sono tutti: c’è il democristiano Verzotto, c’è il comunista Cipolla, ci sono i socialisti Giordano e Renna. Impasti simili, in Sicilia, se ne trovano ad ogni pie' sospinto. Il PCI, egregio senatore Macaluso, non può moralizzare un bel nulla in Sicilia. Perché, al pari della DC e del PSI, è capofila degli scandali, del malcostume, della corruzione.

 

19 aprile 1981

 

MORO

D: Fin dai primi anni di attività politica, Lei signor Ministro Formica, conobbe Aldo Moro?

R: Sì, lo conobbi nel '44 all’Arcivescovado. E fu proprio in quell’anno, nel '44, che Moro chiese la tessera del PSI.

D: Che cosa?!

R: Sì, conosco l’episodio molto bene. E lo conoscono bene sia il segretario della nostra Federazione, Laricchiuta, il quale vive ancora, che Ignazio Loiacono, figlio di Natale Loiacono che fu segretario della DC barese.

D: Cita questo episodio perché crede in una sorta di cinismo politico di Moro?

R: Moro aveva sicuramente una dose notevole di cinismo politico... [dall’intervista con il ministro dei Trasporti Salvatore Formica, "L’Espresso", 12.4.81].

D: Ci sono molti episodi inediti del caso Moro?

R: Brutti episodi di viltà. Per esempio, ricordo che quando si trattò di avere una rosa di nomi di terroristi graziabili, Vassalli la chiese al sottosegretario alla giustizia moroteo (Dell’Andro Renato, barese, N.d.R.), ricordandosi che Moro era intervenuto presso di lui per aiutarlo a diventare professore. Vassalli non riuscì ad avere neanche un nome. Brutti esempi di viltà! (idem)

MUSSELLI E MORO

D: Eppure, molti di voi socialisti conoscevano bene Musselli, uno dei cervelli della truffa dei petrolieri...

R: Questo personaggio io non so chi lo conoscesse, so soltanto che frequentava la casa di un recordman italiano del Potere a tutti i livelli. So soltanto che frequentava la casa di Moro. (idem)

ANDREOTTI

Noi non l’abbiamo con Andreotti, che è un uomo di grandi qualità... Ma sono convinto che il suo ruolo nella vita politica italiana è stato un ruolo assolutamente negativo... Don Sturzo? È l’antistato. De Gasperi? È lo Stato austriaco. (idem)

Andreotti presidente della Repubblica sarebbe il trionfo della doppiezza. Dopo di lui gli Italiani che ritengono la doppiezza e l’ipocrisia ammorbanti per l’Italia farebbero bene a lasciarlo presidente in Italia e ad andarsene a vivere in un altro paese... (idem)

PERTINI

... Tutti dicono le gaffes. Va bene, ma la schiettezza prevale su tutto. Qualche settimana fa, Pertini in mia presenza, alza il telefono e chiama Colombo. Guarda, gli dice, ho sbagliato a dire quella parola su Reagan nell’intervista che ho fatto. Te lo dico in presenza di un caro amico e non me ne vergogno. Che vuoi fare, mi è scappata, quando uno parla a braccio può capitare... Certo io capisco tutte le complicazioni che gli 85 anni portano... (idem)

MERZAGORA

Di questa vergognosa vicenda non voglio proprio sentire parlare. L’ho querelato, Merzagora, lui rinunci all’immunità e venga in Tribunale. Io non voglio essere velenoso e perciò non voglio parlare di questa persona, un evasore fiscale che sul suo yacht batte bandiera straniera, uno che si è lasciato dire e scrivere che prendeva le tangenti quando vendeva gli immobili delle Generali e non ha neanche dato querela. Io mi sento centomila volte superiore a lui, lo disprezzo perché è una persona poco seria... (idem)

PICCOLI

D: Lei, signor Ministro, conosce l’opinione di Moro su Piccoli?

R: So che una volta disse: ha parlato come un sergente, peccato che non abbia usato la lingua tedesca. Un sergente... (idem)

VISENTINI

...E allora sarebbe interessante capire quanto ha lavorato per la disgregazione di questo sistema il senatore Visentini, negli anni in cui è stato l’ispiratore della Confindustria. Lui è stato molto partecipe di una grave responsabilità. La confusione dei ruoli tra gli industriali che non amavano più fare gli industriali ma preferivano fare i governanti... (idem)

GENTILI (DINO)

D: Se Nenni non fosse morto l’1.1.80 il successivo comitato centrale del PSI sarebbe andato diversamente?

R: Ma figuriamoci! Questa è una mistificazione di quel pataccaro e mestatore di Dino Gentili, quello della Cogis, coinvolto ora in uno scandalo petrolifero... [Dino Gentili, già vice presidente del consiglio di amministrazione del quotidiano "Avanti!", amico di Nenni, affarista, implicato in grossi scandali, come quello dello zucchero cubano, N.d.R.] (idem)

... tutto falso... E quando hanno saputo questa storia (Nenni, sul letto di morte, avrebbe consigliato di allontanare Craxi dalla guida del PSI) sia Giuliana Nenni che il genero mi han detto: "Guarda che questo imbroglione di Gentili insiste con questa storia, noi che sappiamo veramente come stanno le cose, facciamo un comunicato della famiglia". Una squallida vicenda di un personaggio che ha sempre badato a riempire le sue tasche, anche sfruttando il nome del partito. (idem)

ROGNONI (E IL PCI)

D: Lei, nel governo, ha avuto una dura polemica con Rognoni.

R: Sì e soprattutto dopo la sentenza su Piazza Fontana sono sempre più convinto di avere avuto ragione chiedendo che si chiarissero nelle sedi competenti le connivenze di organi dello Stato che riemersero dopo la strage di Bologna. Ma qui non si smette con questa idea che un ministro è buono solo quando ha la copertura del PCI! (idem)

LE TANGENTI ENI

D: Crede ancora che dietro la tangente Eni sul petrolio saudita ci fosse un disegno per decidere le sorti dell’Italia nel prossimo decennio, per spartirsi la stampa e fare del paese una specie di emirato? O erano drammatizzazioni del momento?

R: Nessuna drammatizzazione. Nell’operazione Eni i grandi mezzi di informazione e il Corriere della Sera erano certamente un obiettivo. (idem)

COMUNISTI ARRICCHITI

...del resto in un sistema dove si vota tanto, a tutti i livelli, le esigenze dei singoli purtroppo sono spesso molto forti. Uno degli elementi di inquinamento è rappresentato dalle esigenze elettorali. Ma anche nei partiti come il PCI, dove non occorre procacciarsi il voto di preferenza, non c’è onestà generalizzata e indiscussa. In tutti i comuni d’Italia ci sono comunisti che hanno cambiato tenore di vita: chi può negarlo? (idem)

LA MORALE

Chi trancia questi giudizi non è l’ultimo venuto. È un ministro in carica della Repubblica italiana. E, a quel che lui dice, di casa al Quirinale, tanto che il presidente, in sua presenza, lo fa partecipe di telefonate personali e su questioni delicate. È comunque un personaggio dentro il Palazzo. Le cose le sa. Ex ore tuo te iudico, ti giudico dalle tue parole. In coscienza diteci, cari lettori: può una classe dirigente, che vicendevolmente si disprezza e si disistima, risolvere i grandi problemi che sono dinanzi al paese? In una cosa, certo, dimostrano di essere imbattibili: nell’arricchirsi.

 

23 aprile 1981

Eppure se si va a scovare nel passato di Michele Sindona, un’altra verifica, di delicata importanza, viene al pettine. È che Sindona, come personaggio, prende corpo con lo sbarco alleato in Sicilia. C’è anche lui, sotto la regia dell’ergastolano Lucky Luciano (liberato dal governo degli Stati Uniti d’America alla condizione che si adoperasse per far riuscire lo sbarco) a preparare in Sicilia, l’operazione militare della VII Armata, collegandola all’appoggio della mafia.

Una domanda si impone in tutta questa sconcertante vicenda sindoniana: di quali protezioni godeva Sindona se, fin dal 67, pur essendo sotto controllo della polizia statunitense per traffico di droga, e quindi del Centro di coordinamento delle operazioni di polizia criminale del Ministero dell’Interno (vedi ministeriale prot. 123-516404 del 16.11.67), poteva assurgere alle posizioni di arbitro e di consulente della finanza italiana, tanto da frequentare, pari fra i pari, i vertici dello Stato italiano e della Banca d’Italia? Intoccabile? E perché? Forse perché aveva il lasciapassare di avere cooperato allo sbarco alleato nel luglio '43? Le benemerenze partigiane nel luglio '43 hanno un marchio inconfondibile e irrefutabile: sono di stampo mafioso.

In questi giorni si celebra il 25 aprile, 36° anniversario della liberazione, ossia della nascita della Repubblica Italiana. È un errore storico. L’Italia repubblicana non nasce con la Resistenza. Nasce con lo sbarco alleato del luglio '43 sulle coste della Sicilia. Alla operazione militare, aiutata potentemente dalla mafia italo-americana, segue, via via che le truppe americane risalgono l’Isola, l’occupazione amministrativa dei paesi e delle città siciliane da parte dei diretti esponenti della mafia che vengono posti, dalle armate vincitrici, a capo delle comunità civili. Il sigillo all’Italia repubblicana viene dato in quei giorni, ed è un sigillo che doveva caratterizzare, negli anni a venire, tutta la vita politica dell’Italia.

Quando il comunista Girolamo Li Causi affermava «che oggi la mafia si è incarnata nella stessa vita politica, dal Brennero alla Sicilia» diceva una verità sacrosanta. Solo che dimenticava di aggiungere che proprio la «liberazione», ai suoi albori, aveva gettato le basi di quella costruzione: L’Italia politica, una mafia.

Lo abbiamo più volte scritto. Ci ripetiamo. Anche perché, con l’aprile arrivano le commemorazioni. Non è vero quello che i politologi scrivono, e cioè che le stragi-mistero che hanno insanguinato l’Italia, hanno inizio con il '69 (Piazza Fontana). Non è vero. La prima strage-mistero dell’Italia repubblicana e antifascista è quella di Portella delle Ginestre ('48). Quel processo, che non ha visto fare giustizia; che vide Pisciotta, il luogotenente di Giuliano gridare nell’aula del Tribunale di Viterbo: «Siamo un corpo solo, banditi, polizia e mafia, come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo»; quel processo di ventinove anni fa doveva proporre un «copione» che poi, negli anni, si è terribilmente ripetuto. In tutti i suoi rituali. Del sangue, dell’intrigo, della menzogna.

E non è tanto la parte dei banditi e dei mafiosi che, in quel copione, interessa. È la parte che i vertici dello Stato repubblicano, appena nato, recitano nella vita e nella morte di Salvatore Giuliano, il fuorilegge. I silenzi che non sono mai stati rotti. Le complicità su cui non si è fatta luce. La versione della sua morte: Giuliano è stato ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia. Così, quella mattina, il Ministero dell’Interno. Era il '50. Falso. Giuliano era stato assassinato nel sonno. Perché? Perché potendo averlo vivo, lo si volle morto? Di quali segreti era portatore? Perché la menzogna ricorrente? Perché ingannare, da parte dei vertici dello Stato resistenziale e antifascista, la pubblica opinione italiana?

E, domanda terribile: c’è forse qualcosa di diverso nelle «stragi», nei «delitti», nelle «congiure» che verranno? Fateci caso: la stessa tecnica. Gli stessi fatti. Gli stessi interrogativi. La stessa conclusione: la verità affossata. Ed ecco che quegli avvenimenti, come di rimando, nel momento della macerazione, dello spappolamento di tutto e di tutti, ci restituiscono anche Michele Sindona. Viene da lontano. Da quello sbarco. Luglio '43.

Non ha torto a scrivere "il Manifesto" che, analizzando le vicende del banchiere di Patti, ci si viene a trovare dinanzi ad una associazione sovversiva, di cui (aggiungo io) si conosce il grande Vecchio: Michele Sindona. Se ci fate caso c’è «la direzione strategica», c’è l’apparato ramificato nella società civile (ed ai livelli più alti); ci sono i favoreggiatori anche insospettabili (Andreotti, Micheli, Fanfani); ci sono i pentiti (Bordoni); c’è la talpa (Carli); c’è perfino la «bionda» (Anna Bonomi). Esageriamo?

È venuto fuori che la DC, il partito di governo e che esprime i ministri finanziari, aveva costituito delle società anonime, con sede fuori d’Italia, con lo scopo di... dedicarsi alla transazione di titoli, metalli, cambi. Ciò da parte di partiti e di persone che, quanto meno, conoscevano in anticipo quello che il Governo avrebbe fatto. Gigantesco e continuato aggiotaggio. E questa che cosa è se non pura, autentica eversione? Come possono persone e partiti simili combattere il terrorismo?

 

25 aprile 1981

Denunciava quattro milioni di reddito. In banca era miliardario. Nelle sue mani alcune banconote sporche, ricavo di sequestri. Si chiama Carlo Caramassi, 47 anni, ex-sindaco del PCI di Venaria, un paese della cintura torinese, funzionario di partito. Nei suoi forzieri c’era di tutto: oro, argento, gioielli, titoli, BOT. E da dove viene tutta questa po’ po’ di roba? Carlo Caramassi: nel '75 faceva il sarto, non aveva una lira. Presto detto: si è messo in politica. Ha preso la tessera giusta. In cinque anni è diventato miliardario. Chi è quel cretino che va affermando che la tessera del PCI ce l’hanno solo quelli che portano calli alle mani? Fortebraccio, su "l’Unità" (ed è un peccato), non ha commentato l’episodio. E così, dopo qualche iniziale vampata, la stampa cosiddetta borghese. Ora è silenzio. Assoluto. E poi i comunisti si dolgono di non avere amici.

La "Società Editrice Rinnovamento", proprietaria del quotidiano (comunista) "Paese Sera", ha emesso due fatture che, per usare un termine caro ai politologi, chiamerei emblematiche. La prima porta il n° 30 ed è in data 3.3.71; la seconda il n° 108 ed è in data 21.9.71. Sono entrambe dell’importo di 25 milioni e sono a carico della Società ESSO. Sarà senz’altro un caso, ma queste «fatture» Paese Sera-Esso vedono la registrazione in quel fatidico '71; quando i petrolieri sono impegnati ad ottenere dai politici la proroga dei provvedimenti relativi al pagamento differito e alla defiscalizzazione. Sappiamo quale sarà il giustificativo: pubblicità. Ma ci pare un giustificativo troppo semplice, troppo facile, troppo comodo. Vedremo ora cosa risponderà il ministro Sarti che, sulla vicenda è stato interrogato da Antonio Guarra. C’è puzza di petrolio in giro. E il PCI non ne è esente.

In risposta ad una interrogazione parlamentare presentata da Tremaglia, circa l’assegno di 150 milioni a firma Caltagirone, e sul cui retro figura il nome del deputato comunista Antonello Trombadori, il ministro Reviglio fa sapere che l’interessato (Trombadori) ha dichiarato trattarsi del trasferimento di tre quadri d’autore tra l’alienante, signora Maria Luisa Laureati e l’aspirante Gaetano Caltagirone; trasferimento di cui lui, Trombadori, senza percepire alcun compenso, quale esperto d’arte, ha fatto da garante. E il suo nome sull’assegno? Afferma Trombadori: il mio nome è stato indicato sull’assegno su insistente richiesta dell’alienante Laureati a garanzia della spesa sostenuta dall’acquirente. Dalle nostre parti si usa dire: «ma vallo a raccontare al Kaiser!».

L’onorevole Baldassarre Armato, della sinistra DC, afferma: «In fatto di tangenti la differenza tra DC e PCI è che i primi l’80 per cento lo tengono per sé e il venti per cento lo danno al partito; per i secondi è l’opposto» ["la Repubblica", 4 aprile '81]. La dichiarazione dell’on. Armato non ci meraviglia. Ci meraviglia che l’on. Armato continui a restare nella DC. Cioè in un partito di ladri. Così come lui stesso definisce la DC.

Rosso e Nero ha fornito l’indirizzo, con relativo numero telefonico, delle segreterie particolari che l’on. Emo Danesi, braccio destro di Bisaglia, tiene aperte a Livorno, Pisa, Lucca e Massa Carrara. Ora, in data 15.3.181, "Il Tirreno" pubblica il seguente trafiletto: «L’on. Emo Danesi ha aperto a Viareggio, in via Pinciana 17, telefono 43352, un proprio recapito che resterà aperto al pubblico tutti i giorni feriali dalle ore 9,30 alle 13 e dalle ore 16 alle 19.» L’onorevole Emo Danesi è parlamentare. Non ha, ufficialmente, altro incarico retribuito. Vive esclusivamente della indennità parlamentare. Su "la Repubblica" (26.3.81), sotto il titolo: «Vi spiego come è difficile il mestiere di deputato al guinzaglio dei partiti», l’onorevole democristiano Secondo Sobrero dichiara: «La nostra indennità sarebbe forse giusta se fosse accompagnata da tutti quei sussidi e presidi necessari per svolgere il nostro mandato. Invece è appena sufficiente per vivere a Roma. Se dovessi prendere un segretario o un buco di ufficio, l’indennità andrebbe via solo per quello.»

Fate caso alle parole: «Se dovessi prendere un segretario o un buco d’ufficio, l’indennità andrebbe via solo per quello.» L’on. Emo Danesi, segretari (o segretarie), e buchi di uffici ne ha ben cinque nella sua circoscrizione (più quello romano). Ad essere cauti non bastano, con le spese condominiali, per tenere in piedi questo apparato, cinque milioni al mese. Da 50 a 60 milioni l’anno; solo per le segretarie. Chi paga? Perché l’on. Danesi, così ben introdotto nei quotidiani toscani, non redige un altro comunicato in cui, dettagliatamente, rende conto ai suoi elettori dell’ingente spesa che sostiene per tenere in piedi il suo baraccone? Lo attendiamo alla prova. E che ci va a fare a Viareggio l’on. Danesi? Ve lo diciamo noi. Va a scaldarsi il posto di senatore. L’operazione è questa: Danesi, alle prossime elezioni, lascerà il posto di deputato ad un altro outsider bisagliano, già convenientemente sistemato a capo della DC livornese: Pierino Del Gamba; anche lui caratterizzato da una «storia» del tutto simile a quella di Danesi. Fattorini di Banche (o dipendenti SIP) che finiscono ai vertici dei ministeri, spesso in uffici-fantasma, e di lì (non si sa per quali... carezze) compiono il salto in Parlamento. Racconteremo queste storie, che non hanno solo implicanze politiche, ma anche di altra natura. Rumor e Bisaglia sono i capostipite della crescita di questi porta-borsa di provincia. Storie davvero incredibili. Comunque Emo Danesi lascia a Pierino Del Gamba il suo posto di deputato, e che fa? Se ne va? Si ritira dalla politica? No. Si sposta a Viareggio. A coltivare quel collegio senatoriale che sa, fin da ora, suo. Ma, attualmente, quel collegio «sicuro» da chi è ricoperto? Dal senatore Alessandro Faedo, matematico insigne, già rettore dell’Università di Pisa, già presidente del CNR, attualmente presidente della Commissione Pubblica Istruzione del Senato. Da Faedo a... Danesi. L’operaio della SIP, che oggi si veste dai sarti alla moda e frequenta a Roma l’Harrys Bar, che, con Bisaglia, per anni ha messo il naso nel rinnovo dei consigli di amministrazione delle aziende statali (con gli effetti che si vedono), si appresta a pensionare il matematico Alessandro Faedo.

È giusto: la DC, ha sentenziato Piccoli, si rinnova.

 

30 aprile 1981

Licio Gelli: è nel mirino di tutta la sinistra. Da "l’Unità", a "L’Espresso" a "Panorama". Lo si accusa delle cose più nefande: assassinii come quello Occorsio, stragi come quella dell’Italicus. Secondo "l’Unità", (29.3.81) la loggia P-2, di cui Gelli è gran maestro, sarebbe un arsenale di eversione politica. Gelli sarebbe addirittura il fondatore degli squadroni della morte in Argentina. Non solo: avrebbe organizzato il finto rapimento di Sindona. E sono le carte, trovate nella sua villa di Arezzo, ad aver messo nei guai il vertice del Consiglio superiore della Magistratura, nella persona del prof. Ugo Zilletti.

Vediamo di capirci. C’è nella vicenda Licio Gelli, qualcosa di più e di più sottile. Il 5 ottobre '80 Licio Gelli concede un’intervista. Più che difendersi, attacca. Addirittura fa delle proposte: la presidenza del Consiglio dei ministri deve essere affidata ai socialisti e, in contemporanea, il Quirinale deve tornare ad un personaggio della DC. «Al più presto», dice «se vogliamo evitare che il Paese cada nel baratro». Quello che meraviglia, quando tale intervista vede la luce, non sono le proposte, è la tribuna scelta da Gelli per parlare: nientemeno che il "Corriere della Sera". Oggi quella meraviglia non ha più ragione di essere. Con la cessione del 40 per cento delle azioni Rizzoli alla Centrale Finanziaria Generale SpA, una finanziaria presieduta da Roberto Calvi, la cui vicenda si intreccia con il terremoto Gelli-Zilletti-Gresti, le cose si chiariscono. "Corriere della Sera", già sorpreso nelle speculazioni sindoniane, precisa la sua funzione: quella di essere, nei riguardi della pubblica opinione, il persuasore dell’operazione portata avanti dall’uomo di Gianni Agnelli, Bruno Visentini che, non a caso, viene designato garante dell’accordo "Corriere della Sera"-Calvi-Gelli. E l’operazione di Bruno Visentini non sta tanto nel suo aspetto tecnocratico quanto nel consentire al PCI di diventare forza di governo, grazie ad una formula che vede protagonista, con Agnelli, l’alta finanza. E ad Enrico Berlinguer la proposta non dispiace. Anche se, manovratore occulto, è quel Licio Gelli, nazista, golpista, eversore.

Ora viene fuori un documento. È datato 2 ottobre '44. L’intestazione: Comitato di Liberazione nazionale Provincia di Pistoia La firma è del presidente: il comunista Italo Carobbi. Il documento testualmente recita: «Questo Comitato dichiara che il Gelli Licio di Ettore, pur essendo stato al servizio dei fascisti e dei tedeschi, si è reso utile alla causa dei patrioti pistoiesi. Esso ha:

1) avvisato partigiani che dovevano essere arrestati;

2) messo a disposizione e guidato personalmente il furgone della Federazione fascista per portare sei volte consecutive rifornimenti di viveri e armi alla formazione di Silvano e alle formazioni di Pippo dislocate in Val di Lima;

3) partecipato e reso possibile la liberazione dei prigionieri politici detenuti alla Villa Sbertoli.

In considerazione di quanto sopra, questo Comitato di Liberazione Nazionale autorizza Gelli Licio a circolare senza che possa in alcun modo essere disturbato. Il Presidente: Italo Carobbi»

Non quindi un Gelli nazifascista, eversore, golpista, ma un sincero democratico, un partigiano combattente, valoroso, fino all’eroismo. Lo attesta il comunista Italo Carobbi. Per questi titoli è un amico di Sandro Pertini. Ed è per queste benemerenze che è diventato potente. Tanto da risultare amico di Fanfani, Andreotti, Zilletti, Rizzoli, Calvi, Sindona e, a quanto riferiscono le cronache di mezzo Parlamento della Repubblica italiana. È in virtù di tali attestati resistenziali che Licio Gelli può essere della partita "Corriere della Sera"-Visentini-Berlinguer-Agnelli-Calvi. Il comunismo che si sposa con il vitello d’oro della partitocrazia finanziaria. Il comunismo cooptato dal capitalismo finanziario perché faccia da cane da guardia al corteo (trionfale) del vitello d’oro.

Bestemmia? E che stanno facendo Guido Carli e Susanna Agnelli, assessore e sindaco a Monteargentario? Non governano con il PCI? E il PCI non giudica «interessante» quell’esperimento? Basta aprire "l’Unità". E non la cronaca della Provincia di Grosseto dove il Comune di Monteargentario si adagia. La cronaca nazionale. Elogi a Carli. Elogi a Susanna. Nessuno arrossisce. Dalla vergogna. Nemmeno Fortebraccio.

 

3 maggio 1981

Su "la guida delle Regioni d'Italia" (1980-81, tre volumi, annuario di informazioni politiche amministrative economiche culturali turistiche) si fa una certa fatica ad inquadrare l'attività didattico-politica-culturale del ministro Reviglio.
Infatti il ministro, nella sua qualità di consigliere socialista del Comune di Torino, viene indicato nella Guida come Franco Reviglio, quasi come si vergognasse di presentarsi con il suo nome tutto spiegato, così come accade quando è segnalato sotto i suoi molteplici incarichi universitari e ministeriali; allora non è più Franco Reviglio, ma Reviglio della Veneria Francesco.
* * *
Non credo che ciò accada come capitava ad un altro illustre docente universitario che, prima di diventare anche lui ministro, i suoi molteplici incarichi (retribuiti) soleva ricoprirli con un nome sempre diverso. Infatti il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta soleva divertirsi a farsi chiamare Mino, Nino, Beniamino, a seconda ricoprisse l'incarico di professore universitario, di consigliere di amministrazione dell'IMI, di membro del comitato esecutivo dello stesso, di membro del consiglio di amministrazione della Fonditalia Management Company.
Comunque il ministro Reviglio, in politica, è solo Franco Reviglio; fuori della politica diventa Reviglio della Veneria Francesco.
* * *
Il ministro Reviglio è di schiatta nobiliare. Purissima. E sua moglie, signora Paola lo è di più. Un suo antenato, Ottavio Thaon de Revel, fu ministro delle finanze di Carlo Alberto, un firmatario dello Statuto. Un altro ancora: il Duca del Mare, ammiraglio Paolo Thaon de Revel, eroe della prima guerra mondiale, fu ministro della Marina nel 1922, nel primo governo Mussolini uscito dalla marcia su Roma.
* * *
Reviglio (quando non era anche ministro, ma solo professore universitario) per il 1978 ha dichiarato per sé un reddito di 16.929.000 e per la moglie, la principessa Paola Thaon de Revel, 2.793.000. Questo il dettaglio:
1) lire 290 mila perché proprietario di terreni;
2) lire 64 mila per redditi agrari;
3) lire 11 milioni 810 mila quale professore universitario;
4) lire 4 milioni e 765 mila per consulenze a enti Pubblici.
Sui redditi dichiarati, paga una imposta pari a lire 3 milioni 706 mila lire.
* * *
La principessa Paola Thaon de Revel, sposata Reviglio, dichiara un reddito complessivo di 2 milioni e 793 mila lire. Questo il dettaglio:
1) lire ottomila perché proprietaria di terreni;
2) lire quattromila perché proprietaria di terreni coltivabili;
3) lire un milione e 503 mila perché proprietaria di appartamenti;
4) lire 600 mila per reddito di partecipazione in società di persone;
5) lire 678 mila per reddito di capitale (azioni).
La principessa Paola Thaon de Revel, sposata Reviglio, sui redditi dichiarati, sottratti gli oneri deducibili, paga un'imposta lorda di lire 58 mila, (cinquantottomila).
Nel complesso, tenuto conto di tutte le ritenute di imposta, i coniugi Reviglio hanno pagato complessivamente, nel corso del 1978, tre milioni 320 mila a titolo di IRPEF (imposta sui redditi delle persone fisiche).
* * *
La Toscana è stata tappezzata di manifesti con questo titolo: «Un ministro socialista scova e denuncia gli evasori».
Abbiamo l'impressione che il ministro Reviglio della Veneria, bravissimo nello scovare gli evasori, dimostri meno efficienza nello... scovare se stesso.
* * *
In testa alla lista dei 200.000 evasori fiscali, rivelata dal Ministro Reviglio, figurano tre fratelli: Alfio, Alvaro e Alessandro Marchini. Evasione indicata: quattro miliardi e 100 milioni.
Alfio Marchini, oltre essere stato presente in Via Rasella il 23/3/1944 quando esplose la bomba che uccise 33 soldati germanici (disarmati); attentato che dette il via alla strage delle Fosse Ardeatine, è il costruttore del palazzo delle Botteghe Oscure sede del PCI, comunista da sempre; a lui e ai suoi fratelli si devono scempi urbanistici «esemplari» come il quartiere-ghetto della Magliana. L'alba del 5/3/80, quando fu eseguita la retata dei personaggi implicati nello scandalo dell'Italcasse, sorprese anche lui.
Ebbene, né "la Repubblica" (16/4/81), né il "Corriere della Sera" (17/4/81), che si sono premurati di sottolineare come fra gli evasori di Reviglio vi fossero tutti i protagonisti degli scandali degli ultimi anni, fanno il nome dei fratelli Marchini.
Sono comunisti. Per loro c'è sempre un occhio di riguardo.
* * *
"l'Unità" (16/4/81) titola a caratteri di scatola: «Scandalose evasioni: ecco l'Italia a cui bisogna chiedere sacrifici».
«I miliardari del debito fiscale che compaiono nei libri rossi -scrive "l'Unità"- sono una trentina. Gli imprenditori edili sono in prima fila -prosegue il foglio proletario- perché le plusvalenze degli immobili sono altamente contestabili: ci sono i romani Cesare Andreuzzi (1,7 miliardi), Francesco Caltagirone (1,2 miliardi), Sandro Parnasi (1,2 miliardi)».
Dei fratelli Marchini comunisti, amici di Togliatti, Amendola, Berlinguer, evasori fiscali per quattro miliardi e cento milioni, su "l'Unità" non c'è traccia. Perchè?
Sarà il caso dì chiederlo a Fortebraccio?

 

8 maggio 1981

Venticinque aprile 1981, una rassegna educativa. I giornali danno i resoconti delle cerimonie svoltesi in occasione del 36° anniversario del 25 aprile.
A San Giovanni Valdarno (Firenze) ha parlato il presidente del gruppo parlamentare del PCI alla Camera, Fernando Di Giulio.
In data 26 dicembre 1942, anno XXI, il Di Giulio chiedeva al PNF (gruppo universitario fascista "Curtatone e Montanara") certificazione della sua iscrizione. Si attestava così che il Di Giulio era in possesso della tessera anno XX n° 126767, rinnovata per l'anno XXI.
* * *
A Bologna il 25 aprile è stato commemoralo dal sindaco Renato Zangheri. A quanto ci risulta ha fatto di tutto per declinare l'incarico, ma non ci è riuscito. Comunque nel 1944 l'attuale sindaco di Bologna si trovava arruolato nelle Forze Armate della RSI, e precisamente presso la Caserma "Mameli" di Forlì, dove giurava fedeltà alla Repubblica di Benito Mussolini.
* * *
In Liguria, presso un sacrario di caduti partigiani, ha parlato l'ex ministro Paolo Emilio Taviani.
Nel numero del giugno 1936, anno XIV, fascicolo 6° di "Vita e Pensiero", così Paolo Emilio Taviani inizia l'articolo dal titolo "La nuova pace e il nuovo Impero":
«Addis Abeba è Italiana! La pace è ristabilita! Vittorio Emanuele, Imperatore di Etiopia! Il popolo italiano è ancora nell'entusiasmo di queste notizie. Riecheggia ancora il grido commosso del Duce: Viva l'Italia! A questa Italia dalla volontà possente il mondo guarda attonito, perplesso, ammirato. All'Esercito vittorioso, alla Maestà del Re, al suo Duce, il popolo italiano ha elevato l'espressione della sua riconoscenza».
* * *
A Genova per il 25 Aprile ha parlato il presidente della Corte costituzionale Leonetto Amadei, già comandante dei Giovani Fascisti di Seravezza (Lucca), luogo dove l'illustre costituzionalista, nel 1911, vide la luce.
* * *
A Tolentino cerimonia grande. È presente il presidente dell'ANPI, medaglia d'oro della Resistenza, il senatore Amerigo Boldrini. Ai tempi di Mussolini, il Boldrini rivestiva il grado di centurione della M.V.S.N. (Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale).
* * *
Per il presidente della Camera, Nilde lotti, che ha commemorato il 25 aprile in Piazza Duomo a Milano, la crisi ha raggiunto ormai d livello di guardia e, quindi, ha detto, occorre l'impegno responsabile di tutti. Tra i mali della società d'oggi Nilde lotti ha indicato la corruzione che "ormai non possiamo più considerare un fatto episodico, ma dobbiamo valutare per quello che realmente è con tutta la sua carica di pericolosità come elemento di degenerazione della vita pubblica che arriva perfino a colpire i gangli fondamentali dello Stato"». ("Corriere della Sera", 26.4.81).
* * *
Leo Valiani, senatore per meriti antifascisti, nel suo consueto dotto articolo di fondo sul "Corriere della Sera", commemorando il 25 aprile, scrive che è stato l'insuccesso della epurazione a portare, nella vita democratica, perniciose conseguenze. Infatti, per Valiani, il non avere fatto piazza pulita dei fascisti che aiutarono Mussolini a prendere e a conservare il potere, è la causa prima dei nostri mali.
Valiani non ha tutti i torti. Infatti, lui, antemarcia dell'antifascismo, squadrista della resistenza, senatore a vita per meriti democratici, iscritto al PRI, si ritrova ad avere, nell'anno di grazia 1981, come «capo», Giovanni Spadolini, fascistissimo, repubblicano (nella RSI). fustigatore dei partigiani («la feccia della nostra razza», ha scritto).
Deve essere veramente triste. Dopo avere «resistito» tanti anni, eccoti che Valiani, a 36 anni dal 1945, si ritrova ad essere messo in fila da un ex esaltatore del fascismo.
Ah, quella epurazione maledetta. Non ha funzionato. E sottintende che le teste, nel 1945, dovevano essere tagliate, così non si sarebbe trovato fra i piedi lo Spadolini.
Non è nei nostri poteri... liberarlo da Giovannone. Intanto però Valiani una cosa potrebbe farla: liberarci dai suoi articoli.
* * *
«Il fascismo esaltava il mito dello Stato forte e autoritario, ma proprio l'identificazione che ne faceva col sistema del partito unico, la cui tessera era obbligatoria e le cui gerarchie decidevano della rapidità delle carriere...»
("Corriere della Sera", Leo Valiani, 25.4.1981)
* * *
Senatore Valiani: oggi partiti ce ne sono tanti. Troppi. Forse la tessera per vivere, per lavorare, per far carriera, per arricchirsi, per rubare, per ammazzare, non è più necessaria?
Ma dove vive, senatore Valiani?
Al mercato non ci va mai? Fa male. Su un mezzo pubblico non monta mai? Fa male. Su un treno non ha mai occasione di montare? Peccato. Ad uno sportello di un ufficio pubblico non ha occasione di accostarsi, mettendosi in fila? Beato lei. In una Unità sanitaria locale a chiedere il bollo su una ricetta, o una analisi, non ci va mai? Ma lo sa che è un fortunato?
Ma dove è che ascolta gli Italiani, senatore Valiani? Non mi dica che gli Italiani Lei li ascolta a Palazzo Madama. Se è cosi (e deve, purtroppo, essere cosi) tutto è chiaro.
* * *
"la Repubblica", nella edizione del 25 aprile 1981, è uscita con un inserto di quattro pagine dal titolo "Repubblica dossier, protagonista il fascismo". Il sottotitolo è questo: «Il ventennio mussoliniano, mostre, dibattiti, rassegne e libri, soprattutto libri. Il fascismo viene frugato e riproposto in tutti i suoi aspetti con nuova obiettività: come mai? E perché proprio adesso?».
* * *
Già, come mai? Senatore Valiani: come mai? Come mai l'antifascistissima "la Repubblica", a proposito della cultura, che coabitò con il fascismo, scrive che è ora di chiamarla arte?
Che succede?
25 aprile in piazza: discorsi stanchi, alla Valiani. Si muore di noia.
25 aprile nelle coscienze degli antifascisti: rimeditazione.
Ieri, oggi. Si va al confronto.
* * *
il dossier de "la Repubblica" si chiude con un ricordo, che vuol essere demolitore ma non ci riesce, di Achille Starace. Infatti si tenta di descrivere il personaggio come una «macchietta». Sì, ma c'è un ma. Ed il «ma» consiste nel fatto che questa «macchietta», quando si trattò di morire, lo fece con lo stesso stile con cui inaugurava le Case del Fascio.
Quanti sono oggi disposti a morire, con lo stile con cui lo fece Starace, per Andreotti, Rumor, Bisaglia, Colombo, Berlinguer, Craxi, Longo, Zanone?

 

10 maggio 1981

La RAI ha nel cassetto un film dal titolo "Un complotto nucleare", ma non lo manda in onda. Come mai? Perché il filmato direbbe... male di Giuseppe Saragat che, nell'agosto 1963, secondo la versione del PCI, per interessi inconfessabili, volte, colpendo la figura di Felice Ippolito, screditare il CNEN (Centro Nazionale Energia Nucleare), di cui l'Ippolito era segretario generale.
* * *
Fu un complotto, dichiara il comunista Orazio Barrese ("la Repubblica" 16.4.81) che del film è stato il consulente (retribuito) storico-politico; «dopo tutto Saragat, per colpire ricorse ad argomenti tecnici ridicoli».
Barrese, che è un illustre «copiatore» di ricerche e studi altrui, rincara la dose: «Dallo scandalo sollevato da Saragat i petrolieri americani trassero vantaggi. Non so se corsero dollari, precisa Barrese, ma lire certamente ...».
Così, come se nulla fosse. E Giuseppe Saragat, ex presidente della Repubblica, tace. Si fa dare del cretino e del corrotto. Acqua in bocca. E così il PSDI. E tutto ciò grazie al signor Barrese che sventola la... bandiera Ippolito, il nuovo beatificato dal PCI, già condannato a 11 anni per peculato.
* * *
Non voglio minimamente affermare che quella condanna di anni fa contro Ippolito sia stata giusta; dico solo che le... beatificazioni, dopo il... martirio, avvengano, in Italia, solo per le persone che decidono di mettersi sotto l'alta protezione del PCI.
Ippolito di beatificazioni non ne avrebbe avute di certo se, invece di candidarsi per il PCI e divenire deputato europeo, avesse scelto a destra. Sarebbe rimasto peculatore. Ha scelto PCI ed eccolo santo, martire, deputato europeo (del PCI). E la TV, con i soldi del contribuente, lo innalza al livello degli eroi nazionali, dando a Saragat del cretino e del corrotto.
Questo il PCI può in Italia. E poi si sta a sottilizzare se il PCI deve, o no, essere ammesso al banchetto governativo.
Il PCI mangia, da tempo, alla tavola del governo. E le conseguenze si vedono. E si toccano.
* * *
Sotto il titolo "Una corporazione contro il paese", "la Repubblica" (14.4.81) ospita, come fondo, un articolo del prof. Gino Giugni, il padre dello statuto dei lavoratori. È una dura filippica contro i piloti dell'Alitalia. L'accusa: eversione contro lo Stato.
Quello che lascia di stucco è constatare come l'antifascista, il socialista, il resistente, il democratico professor Gino Giugni, nel sostenere la tesi, che è un plauso alla precettazione dei piloti sancita dal ministro Formica, si lasci andare ad una apologia aperta dell'articolo 20 della legge comunale e provinciale del 1934.
* * *
«Non si facciano illusioni», grida il prof. Giugni ai piloti, «il potere di precettazione dei prefetti, sancito dall'articolo 20 della legge del 1934, non concerne solo il settore pubblico. La norma attribuisce ai prefetti un potere di ordinanza amplissimo che investe anche il caso di scioperi che ledano interessi pubblici generali, per cui ne deriva il potere di imporre, in determinati casi, prestazioni obbligatorie. Quindi i piloti devono lavorare ...».
Glielo diamo il fez al prof. Giugni?
Aveva ragione Ennio Flaiano: gli antifascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti. Il prof. Giugni appartiene a quella dei fascisti antifascisti. Che poi non sono né fascisti né antifascisti. Ma solo dei prepotenti presuntuosi e spocchiosi.
* * *
Nino Tripodi ha presentato una interrogazione, tragica e gustosa allo stesso tempo. Eccone in breve il contenuto: quando si trattò di assegnare le cattedre di Fisica prima e di Fisica seconda presso L'Università di Cosenza, furono formate due Commissioni. In una il presidente fu Franco Piperno, l'altra venne affidata al prof. Renzo Alletta.
Particolare interessante: sia il Piperno che t'Alletta (rivoluzionari entrambi) risultavano, a loro volta, candidati negli stessi concorsi.
Come andò a finire?
La Commissione, presieduta da Franco Piperno, proclamò vincitore Renzo Alletta; la Commissione presieduta da Renzo Alletta assegnò la cattedra a Franco Piperno.
Ho scritto: episodio tragico e gustoso allo stesso tempo.
Si, perché questi, in fondo, sono i... rivoluzionari del 1968 (roba da ridere!), ma allo stesso tempo, questi sono i maestri a cui è affidata l'Università italiana! E qui sta la tragedia.
* * *
"il Giornale" (29 aprile 1981): «Sequestro Sindo na: ascoltato De Carolis».
«Da allora -ha detto ieri De Carolis- non ho cambiato idea: esiste una guerra fra bande». Ma chi sono queste bande, chi ne fa parte?
«É molto difficile dirlo, anche perché ci sono personaggi che non si sa mai da che parte stiano, guardate Visentini, ad esempio».
Fateci caso: le bande, secondo De Carolis, sono politiche. È una tesi che portiamo avanti noi da anni. E sono «bande» che ammazzano.
* * *
La domanda è d'obbligo: Fanfani, Andreotti, Stammati, Cuccia, Carli (e compagnia varia) sapevano quando trattavano con Sindona, all'apice della sua potenza, con chi avevano a che fare?
Non è possibile che non sapessero. Di Sindona, delle sue caratteristiche, si conosceva tutto. Ufficialmente.
Ed allora perché lo frequentavano, fino a definirlo «salvatore della lira»?
* * *
In un paese (democratico) come l'Inghilterra è bastato che un membro del governo e un leader di un partito venissero accusati di avere rapporti omosessuali perché fossero seppelliti in immagine dinanzi alla pubblica opinione. Da noi, per carità, se si è omosessuali (la non discriminazione del diverso è titolo d'onore, scrive qualcuno) si può anche diventare presidente del Consiglio dei Ministri. È successo più volte. Ma, nel caso Sindona, le cose sono davvero... diverse. Non si tratta di avere intrattenuto rapporti con il proprio autista, ma con un truffatore d'alto bordo, un bancarottiere, un trafficante di droga.
(...)

 

13 maggio 1981

Il comunista onorevole Fracchia, alla Camera dei Deputati, opponendosi alla assoluzione dei parlamentari che, segretari amministrativi dei partiti dì centrosinistra, avevano preso soldi dall'Italcasse gestita da Arcaini, ha detto, fra l'altro, che non è legittima la legge, non scritta ma molto rispettata, per cui, prima del 1974 (legge sul finanziamento dei partiti), «rubare per il partito non è rubare». Il quotidiano "la Repubblica", su questo episodio, scrive il suo articolo di fondo (8.5.81).
* * *
L'onorevole Fracchia ha detto che la legge sul finanziamento pubblico dei partiti non venne fatta «per coprire, con una sorta di amnistia, gli illeciti compiuti sino ad allora. Al contrario. Essa rappresentò un atto di accusa nei confronti delle attività precedenti e insieme un ammonimento per il futuro. Responsabili degli illeciti erano, ha concluso Fracchia, persona/mente i responsabili amministrativi dei partiti. E gli stessi partiti ne sono talmente consapevoli che hanno continuato a garantire ai loro uomini, tramite la loro ripetuta elezione in Parlamento, la copertura politica e l'immunità».
* * *
Fin qui l'on Fracchia (PCI). C'è da chiedersi se questo è sempre stato il comportamento del PCI. E la risposta è no.
Infatti, nella seduta dell'11 maggio 1973, quando in Senato venne discussa l'autorizzazione a procedere per peculato nei confronti dei senatori Giuseppe Bellotti, Giuseppe Spataro e Giovanni Ventura, democristiani; Franco Del Pace, comunista; Luigi Bloise. socialista; Dante Rossi, della sinistra indipendente, il gruppo senatoriale del PCI votò contro l'autorizzazione a procedere, sposando in pieno la tesi sostenuta dal democristiano Bettiol, presidente della Commissione delle autorizzazioni a procedere, ordinario di diritto penale nell'Università di Padova, «per cui rubare per il partito non è reato». L'unico gruppo che, in quella occasione, votò contro fu quello del MSI.
* * *
Di che si trattava nella fattispecie? Dello scandalo INGIC (Istituto per la gestione delle Imposte di consumo), senza ombra di dubbio lo scandalo che resta, fra tutti, il più clamoroso anche se, dati i tempi in cui accadde (ottobre 1954), è il più dimenticato.
* * *
1954. È bene ricordare certe vicende. Siamo in piena guerra fredda. DC e PCI si fronteggiano. Ma dietro le quinte {come al solito) fanno affari. Insieme.
Infatti i democristiani, che gestiscono l'INGIC, sono soliti, per ottenere l'appalto della riscossione delle imposte di consumo, corrompere Sindaci, amministratori, funzionari di partito. E questi, a loro volta, felicissimi di farsi corrompere. DC e PCI, addirittura, si mettono d'accordo a livello di Federazioni provinciali, trattando tutti i Comuni della Provincia.
* * *
Tanto a te, tanto a me. Corsero fiumi di denaro. Se si prende il valore della lira del 1954 e lo si rapporta a quello di oggi, vengono fuori cifre da capogiro, cifre che, nella storia degli scandali, restano in vetta a tutte quelle che poi, con l'andar del tempo hanno caratterizzato che le «mangianze» di partiti e politici.
la Lockheed, nei confronti dell'INGIC, resta un episodio da nulla, addirittura marginale.
* * *
Sarà bene, visto che i comunisti (e soci) sono portati alla dimenticanza, ricordare l'entità di quell'episodio del 1954 che gettò le fondamenta criminose su cui doveva, per forza di cose, spuntare l'Italia che ci troviamo davanti, l'Italia 1981.
Per portare i fascicoli processuali da Firenze ad Arezzo, dove il processo INGIC venne trasferito per competenza, furono necessari alcuni autotreni della Gondrand. Si trattò di trasportare 72 quintali di carta.
Vi furono 1.882 incriminati, ridottisi, a 19 anni dai fatti (il processo ebbe inizio nel 1973), per amnistie, condoni, prescrizioni, a 671. ^
Tredici parlamentari salvati nel modo che si è detto, PCI pienamente consenziente. Al punto che Guido Mazzoni, segretario provinciale del PCI di Firenze, arrestato il 23.1.55 per estrometterlo dal processo, venne dal PCI fatto eleggere deputato per due legislature. Identico trattamento per Franco Del Pace, segretario delta Federazione comunista di Arezzo, arrestato il 21.X.54, ed eletto senatore.
* * *
Per chi lo avesse dimenticato, e mi fermo solo alla Toscana, gli arrestati di spicco nel 1954-55 furono tali e tanti che intere Città toscane rimasero senza amministratori. Fu il caso di Arezzo. Vennero messi in galera: Sante-Galimberti, Sindaco di Arezzo; Aureliano Santini, Presidente dell'Amministrazione Provinciale; Franco Del Pace Segretario della Federazione del PCI di Arezzo; Giocondo Balò segretario provinciale della DC di Arezzo; Dante Rossi segretario provinciale del PSI di Arezzo; Luigi Crocioni e Pietro Goggi, sindaco e prosindaco di Città di Castello; Leonetto Meloni, segretario del PCI di San Giovanni Valdarno.
* * *
Se si tiene di conto che gli arresti avvenivano, in contemporanea, su tutta l'area della penisola, vedendo (1954) in testa, come persone arrestate, i comunisti, ci si renderà ragione perché, complice il PCI, venne varata, in fretta e furia, la legge 18.6.1955, n° 517.
Infatti, grazie a quelle norme, tutti gli arrestati per lo scandalo INGIC furono rimessi in libertà.
Il PCI, allora, non gridò allo scandalo. Cooperò allo scandalo. Perché, nelle patrie galere, c'era il fior fiore dei comunisti di vertice. È vero: gli facevano contorno anche democristiani, socialisti e altri.
Si scrisse, allora, che i giudici avevano ricostituito, in galera, il vecchio CLN.
La corruzione di oggi, che alimenta il terrorismo, nasce anche da quell'Ottobre 1954.

 

21 maggio 1981

È di destra? Sicuramente. Ma lui si dichiara di sinistra. Non sia mai detto. Non è possibile. La stampa e la televisione hanno avuto un solo obiettivo: dimostrare che «il turco» è «nazista», «fascista», «reazionario».
Ed è cosi che si sono messa l'anima in pace. La divisione, che insanguina l'Italia da 36 anni e che consente ai mandarini del potere (politici e stampa) di mantenere le retribuite poltrone, è ristabilita e si può andare a letto tranquilli. Il proprio dovere è stato fatto. Ad attentare alla vita del Papa è stato un nazi-fasci-reazionario. Tutto è chiaro.
* * *
Poi cominciano a fioccare le domande. Ma se è «di destra» perchè ha sparato al Pontefice?
Cosa si riprometteva?
La destabilizzazione mondiale, planetaria?
Si. d'accordo, ma a prò di chi? Il turco ha rilasciato proclami in cui protesta contro l'imperialismo.
Se il turco è «fascista», a servizio di quale Impero-fascista lavorava?
Dove sta un Impero-fascista? Dove è che si può configurare, territorialmente e ideologicamente, un Impero fascista?
L'America di Reagan? È cosi? E i gazzettieri liberal-democratici-progressisti sono propensi ad accettare questa tesi?
Sicché il turco è al servizio di Reagan?
* * *
Già, ma le diagnosi non tornano. Si ingarbugliano. Il fascismo che ormai sarebbe divenuto un fenomeno planetario, soggiornerebbe, per la stampa nostrana, dovunque. A Palma di Majorca ci andrebbe a svernare, nella Germania di Schmidt a rifocillarsi e addestrarsi. In basi sicure, in denaro, in appoggi vari. In Bulgaria a rifornirsi di armi. Il tutto per scaricare in Italia, colabrodo di tutto il rifiuto mondiale, le proprie represse frustrazioni.
In Piazza S, Pietro, contro il Pontefice. Andando e venendo nel nostro Paese. Tranquillamente. Terrorista e assassino in Turchia, turista e studente in Italia. Così, come se nulla fosse. E non sappia mai la polizia di frontiera quello che la DIGOS sa. E il turco entra e esce. A suo piacimento. Ma i miliardi (e sono tanti) che il contribuente italiano paga per una polizia efficiente, dove vanno a finire?
Domandiamolo a Rognoni, ministro degli Interni.
* * *
Intanto nella redazione del "Corriere della Sera" è accaduto il finimondo.
Infatti nella edizione del 14 maggio, subito dopo il dramma di Piazza San Pietro, il quotidiano milanese, amico di Sindona e di Calvi, nel sottotitolo, vistosamente, trova modo di dire: «Catturato e sottratto al linciaggio il criminale: è Mehmet Alì Agca, 23 anni, turco, fuggito dal suo paese dopo avere ucciso un giornalista. Secondo il governo di Ankara è nazifascista, masi è dichiarato comunista».
Ciò fa esplodere di indignazione la sinistra che nella redazione del "Corriere" abbonda ed è padrona (con Calvi). Si protesta. Il turco è fascista, non comunista. Non ci possono essere dubbi. Si pretendono scuse e correzioni. È una vera e propria azione intimidatrice. L'investito, in particolare, è il vice direttore Barbiellini Amidei. Se non ti dai da fare, butteremo in piazza i tuoi trascorsi, gli gridano.
* * *
Il "Corriere" ubbidisce. Venerdì 15 esce con questo vistosissimo titolo: «Giudici e servizi segreti concordi: il killer nazifascista si è mosso fornito di armi e protezione».
È chiaro: non interessa sapere tanto come «il turco» si è mosso, da chi è stato protetto. Quello che conta è scrivere che è un fascista. Il resto viene dopo.
* * *
Il ridicolo, nel dramma, monta. A dichiarare «il turco» un militante della destra nazista sono i militari di Ankara, anche se non si esprimono così. Quei militari che, per porre fine agli assassini, hanno mandato a casa i politici.
C'è stata, in Italia, una sollevazione contro i militari di Ankara quando costoro hanno licenziato la... democrazia.
Le gazzette nostrane, la radio-televisione, hanno condannato il gesto dei militari.
Ora quelle accuse sono dimenticate. Perchè i militari di Ankara, i generali turchi, servono allo scopo. Servono a stabilire, davanti alla pubblica opinione italiana (che, fra l'altro, si accinge a votare) che «il turco» è fascista.
Tutto, dunque, è chiaro. La colpa è di... Mussolini.
* * *
Già, ma se il turco «nazi-fascista» attenta al Papa della Cristianità, come si spiega che la stampa liberal-democratica-progressista del nostro paese, abbia, fino a poche ore fa, scritto che il rifugio dei «fascisti italiani», responsabili di gravi delitti, è il Libano e, in particolare, la comunità dei cristiani maroniti che si battono, in nome di Cristo, contro gli estremisti dell'OLP rossi fin nel midollo?
Come può l'«estremista nazista» Alibrandi (supposto in Libano) trovarsi in sintonia ideologica con l'«estremista nazista» turco Alì Agca che attenta al Papa, capo della Cristianità?
Dove è la logica di questa stampa, di questa informazione, di questa genìa che, con la penna in mano, imbrogliando il prossimo, non è meno colpevole di chi spara e uccide?
* * *
Pietro Sormani (il "Corriere", 15.5.81), più onesto dei suoi colleghi,l si interroga: «Ma anche accettando che Mehmet Alì Agca provenisse dall'area neofascista, non si riesce ancora a capire perchè egli abbia attentato alla vita del Papa».
E più sotto: «Anche a Roma il turco lasciò detto che se il tentativo di mercoledì fosse fallito, l'avrebbe ritentato subito. Perchè tanto accanimento nel perseguire uno scopo che, secondo la logica italiana, non s'intona con le sue presunte simpatie ideologiche?».
* * *
Già: perché? Perché, non solo è da mascalzoni applicare a drammi che travalicano la vita interna del nostro paese, misure di giudizio «nostrane» e che, essendo nostrane, difficilmente possono aiutare a capire; ma è altrettanto delittuoso continuare ad alimentare, con cariche di odio, solo perché ciò serve a conservare i privilegi agguantati, la piaga della guerra civile fra gli Italiani.
* * *
Fascismo. Antifascismo. A 36 anni dal 1945. Quando, davanti a noi, c'è «il mondo» che la seconda guerra mondiale ci ha scodellato. I dittatori sono morti. Uno lo hanno impiccato a Piazzale Loreto. L'altro si è dato fuoco.
Doveva nascere, 36 anni fa, un mondo senza paura. Ecco che cosa si raccatta: sul sagrato di San Pietro il Padre della Cristianità è crivellato di colpi.
* * *
Da dove viene tanta ferocia? E tanta ferocia è spiegabile con gli abituali clichè del fascismo, del nazismo, della democrazia, della libertà di 36 anni fa?
La campana suona per tutti. Suona per dirci che se si vuole, sul serio, venir fuori dalla barbarie, è necessario innanzitutto capire, rendersi conto di come stanno le cose, rifiutarsi di farsi prendere per mano dalle penne vendute e da una televisione che, per prima, è responsabile di riversare, in continuazione, sul paese, odio e discriminazione.
* * *
Capire significa rendersi conto che «il fascismo 1919», che l'Italia 1945, nulla hanno a che fare con l'Italia 1981. Siamo mutati. In tutto. L'Italia di 36 anni fa, fascista e antifascista, era enormemente migliore dell'Italia di oggi. Il mondo anche.
«Sulla doppia strada maestra del terrorismo e della droga, i due centri di smistamento sono la Bulgaria per l'Oriente e l'Italia per l'Occidente», scrive "la Repubblica, (15.5.81). D'accordo: odio, droga, terrorismo, criminalità. Ma non è tutto qui. C'è qualcosa di peggio. È stato colpito l'uomo. Lo si è annientato nell'anima.
* * *
Scrive Barbiellini Amidei che occorre elevare un inno alla compostezza con cui gli Italiani hanno vissuto il dramma di Piazza San Pietro. Composti, sereni, civili, consapevoli dell'ora grave che li sovrastava.
Non sono di questo parere. La maggior parte degli Italiani ha vissuto il dramma molto superficialmente, se non con distacco. Una notizia, fra le altre. Cosa può più meravigliare in questo paese? Non è questa la conseguenza della filosofia morotea della rassegnazione?
Questa è la notte che ci sovrasta e ci uccide. Vive il cinismo, non la fede.
Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

Giuseppe Niccolai

Mi rendo conto di scrivere parole gravi ma prima di essere bruciato come eretico, gradirei, essere confutato. Il dibattito è aperto. Più aspro è, meglio è. (g.n.)

 

26 maggio 1981

Nell'articolo di fondo dedicato al dramma di Piazza San Pietro. Barbiellini Amidei, sul "Corriere della Sera" (15.5.81). scrive: «Eppure questa gente brava che ha sotto gli occhi i lunghi elenchi di evasori fiscali, rapaci e impuniti, e fra quindici giorni tornerà a dire la verità sui suoi poveri fogli di esose tasse; eppure questa gente brava che ha sotto gli occhi la lunga parata dì corrotti, di corruttori, di intriganti, di farisei, di Ponzi Pilati; eppure questa gente brava crede nella regola della comune convivenza e mantiene fiducia nei suoi spesso poco credibili reggitori ...».
* * *
A Barbiellini Amidei facciamo rispondere da Enzo Biagi che, sempre sul "Corriere della Sera" (17.5.81) a proposito dei parlamentari peculatori, assolti di recente dalla Camera, scrive:
«I nostri politici di vertice sono convinti di avere a che fare con 56 milioni di imbecilli che, qualunque cosa accada, voteranno sempre gli stessi. Non offendetevi: ma forse ci prendono».
* * *
Mi permetto di terminare la frase che Enzo Biagi lascia a metà. «Forse ci prendono». Niente forse. Ci prendono tutti per i fondelli. E, come si può constatare, non solo i politici, ma gli stessi giornalisti del "Corriere della Sera" hanno degli Italiani il medesimo concetto: sono degli imbecilli. Infatti -secondo loro- qualunque cosa facciano i propri reggitori, li eleggeranno lo stesso.
* * *
Torna a puntino il controcorrente che "il Giornale" (12.5.81) ha pubblicato, subito dopo le elezioni presidenziali francesi. Conviene ascoltarlo e mandarlo a memoria:
«Eppoi hanno il coraggio di dire che il cosiddetto "genio dei popoli"è una balla. I francesi, quando seppero che il loro Presidente aveva intascato i "presenti" da Bokassa, lo protessero dallo scandalo erìgendogli intorno un muro di silenzio, e poi lo hanno castigato alle urne. Gli Italiani, in analoghi casi, scatenano baccani di inferno contro i bustarellari, e poi regolarmente li rieleggono».
* * *
La diagnosi, è esatta. Da noi i ladri, purtroppo, vengono puntualmente rieletti e promossi ministri. Anche perché godono dell'appoggio dei vari Barbiellini Amidei.
* * *
Avete avuto modo di ascoltare il 4.5.81 il telegiornale delle 13.30?
Si dava notizia della ripresa, in Corte di appello, del processo di Parma dove amministratori e dirigenti di partito del PCI, del PSI e della DC sono stati duramente condannati per peculati e altri reati.
Ebbene, la televisione riportando la notizia, si è ben guardata dal citare nomi né tantomeno, etichette di partito. Gli imputati? Dei... marziani.
Quando a rubare sono comunisti, socialisti e democristiani (ed é una regola generale) il silenzio è d'obbligo.
"l'Unità" non protesta. Nemmeno Fortebraccio.
* * *
Fra i prescelti del Premio internazionale «Città di Anghieri» anche Antonio Ghirelli, con il libro "Caro Presidente".
Già Nino Tripodi, con una azzeccatissima recensione ("il Secolo", 27.3.81), ha documentato come l'... opera dell'ex capo Ufficio stampa del Quirinale, sollevato dall'incarico in Spagna per una nota attribuita a Pertini in merito alla vicenda Cossiga-figlio di Donai Cattin, sia tutt'altro che apologetica di Sandro Pertini. Anzi. Ne é una feroce, spesso impietosa, stroncatura. Di proporzioni inaudite. Ed ecco che quel libro viene addirittura premiato.
* * *
A dimostrazione di quanto sopra, le prime pagine del libro dedicate al caso della sollevazione dall'incarico dell'autore da parte di Pertini.
28-30 maggio 1980: Pertini è in Spagna. A Milano assassinano Walter Tobagi. A Roma scoppia il caso Cossiga-Donat Cattin figlio. Il presidente del Consiglio dei ministri rischia di saltare.
Ebbene: come vive quelle ore drammatiche il Presidente in terra di Spagna? È angosciato? È turbato? È rattristato?
Non sia mai detto. Ce ne rende testimonianza Antonio Ghirelli. Infatti, a pagina 15 di "Caro Presidente", l'ex giornalista sportivo ci fa sapere che Pertini a Barcellona in quei giorni, con una delle sue tipiche decisioni improvvise, declina l'invito a colazione a Palazzetto e punta (sic! - N.d.R.) invece diritto su una trattoria del lungomare, molto affollata e popolare. Ghirelli scrive: «Il Presidente è entusiasta». «Facciamo», prosegue Ghirelli, «una scorpacciata di pesce fritto e di un eccellente vino bianco, muy seco salvo naturalmente il Capo che beve solo birra. È l'ultimo momento felice del mio lavoro per il Quirinale ...».
Scorpacciata a Barcellona; ancora caldo il corpo di Walter Tobagi a Milano. E Antonio Ghirelli, per queste testimonianze, viene premiato.
* * *
«Lei sa, senatore Bisaglia, che per molti anni si è detto che lei è omosessuale?»
«Si lo so. Anche il primo attacco che mi fece Pecorelli era su questo, mi paragonò a Oscar Wilde. Dicevano che ero l'amico di... Lei sa di chi...».
«Di Rumor?»
«Sì, dicevano che io facevo carriera per questo. Ma io sono stato vicino a Rumor per molti anni e non ho mai notato una mossa, un atteggiamento, niente che rivelasse una cosa del genere ...». (Antonio Bisaglia, "l'Espresso", 1.5.81).
* * *
Io non so se, dopo queste dichiarazioni, la carriera politica dell'ex pupillo di Rumor resti ancora aperta e lusinghiera.
Se così fosse ci dovremmo accingere a dare ragione all'affermazione di Enzo Biagi: gli uomini politici di vertice ritengono di avere a che fare con degli imbecilli, per cui possono permettersi di fare quello che vogliono, tanto vengono eletti lo stesso.

 

30 maggio 1981

Mi è stato chiesto, con tono ironico, anche per iscritto, che cosa penso dell'ipotesi che missini possano far parte della massoneria.
Ho risposto, e rispondo, che il MSI-DN si è dato uno Statuto, il cui articolo 5 recita testualmente: «È incompatibile l'iscrizione al Movimento Sociale Italiano con la contemporanea adesione od iscrizione ad associazioni segrete e particolarmente a quelle massoniche».
* * *
La vicenda della P2 mi ha ricordato un appunto che porto sempre con me. Esso dice: «Io sarei pronto a cercare la mutazione degli Stati che non mi piacessero, se potessi sperare mutargli da me solo; ma quando mi ricordo che bisogna fare compagnia con altri, il più delle volte con pazzi e con maligni, e quali non sanno né tacere, né sanno fare, non è cosa che io aborrisca più che il pensare a questo».
Sono parole di Francesco Guicciardini. Dai "Ricordi", scritti nell'anno 1530.
* * *
Il partito è una organizzazione di soldati, di guerrieri, non di filosofi e di ideologi, e quindi come guerrieri non si può marciare in un esercito e contemporaneamente in un altro di cui siamo avversari».
(Benito Mussolini. XIV Congresso del PSI. 26.4.1914. Teatro Vittorio Emanuele di Ancona).
Con Queste parole Mussolini chiese, ed ottenne, l'espulsione dei massoni dal PSI.
* * *
Perché cosi potente Lucio Gelli? "l'Unità" del 22 maggio 1981, scrive: «Ad Arezzo Gelli è arrivato dopo un lungo cammino iniziato a Pistoia, proseguito a Frosinone da dove è iniziata la sua ascesa. Nella Città pistoiese lo ricordano bene i partigiani, i patrioti del CLN. Era comandante della Guardia Nazionale Repubblicana. Alla Repubblica Sociale Gelli non vi approdò per caso. La sua milizia fascista iniziò in Spagna contro i «rossi» a soli 17 anni. Espulso da scuola partì volontario per combattere al fianco dei fascisti spagnoli. Rientrato in Italia nel 1939 militò nei GUF e ricopri qualche carica. Poi nel 1943 l'adesione alla RSI». «A guerra ultimata -prosegue "l'Unità"- dopo la liberazione Gelli lo ritroviamo nuovamente a Pistoia».
* * *
Vero. Licio Gelli nel 1945 è a Pistoia. Con un documento del CLN in tasca. A firma del comunista Italo Carobbi, che oltre classificare Lido Gelli eroe della resistenza, lo autorizza a circolare «senza che possa in alcun modo essere disturbato». Ed è con quel lasciapassare che Licio Gelli, come ha detto Tatarella alla Camera, comincia la sua carriera di resistente, antifascista, democratico, tanto da frequentare i vertici dell'Italia repubblicana.
* * *
Invano siamo andati a cercare, su la stampa antifascista, del passato resistenziale di Licio Gelli. Sparito, Cancellato. Infatti non serve.
Gelli ha operato con la formazione partigiana "Bruno Buozzi" dove, agli ordini del dott. Vincenzo Nardi, si distinse per meriti speciali. Forte del suo «fascistissimo» passato, di giorno fingeva di collaborare con le SS, di notte raggiungeva i campi partigiani che riforniva di viveri, munizioni e di informazioni sui movimenti del nemico.
* * *
E, sempre dalle testimonianze comuniste oggi dimenticate, si cita un episodio da medaglia.
«Nel luglio 1944 Licio Getti si presenta in divisa di ufficiale tedesco presso la casa di cura per malattie nervose "Villa Sbertoli" (in località Collegirate, Pistoia) che le SS avevano adibito a prigione. Forte dell'ascendente personale (e della perfetta conoscenza del tedesco) con sangue freddo eccezionale Gelli si fece consegnare i partigiani che, grazie a lui, poterono raggiungere di nuovo le rispettive formazioni.
* * *
Dunque, prima puntualizzazione. È grazie a queste benemerenze resistenziali che Licio Gelli diventa il Grande Maestro che può avvicinare e plagiare Presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari, generali, banchieri, giornalisti, dirigenti d'azienda, cioè tutto il vertice dell'Italia uscita dal 25 aprile 1945.
"l'Unita", come suo costume, si comporta da mascalzone. Dice le cose che le fanno comodo. Tace sul resto. Non accorgendosi che anche il comunista di base è in possesso di un cervello funzionante. Un cervello perfettamente in grado di chiedere: «Ma se Licio Gelli apparteneva alle SS, come ha fatto a circolare indisturbato fin dall'ottobre 1944 in Pistoia, senza fare un giorno di carcere?».
Perchè lo hanno protetto i comunisti. Quindi seconda puntualizzazione: a rimettere in circolazione Licio Gelli dopo il 1945, è lo stesso PCI.
* * *
Terza puntualizzazione. Nella guerra fra bande che travaglia (e insanguina) l'Italia, la magistratura ha la sua vistosissima parte.
Scalfari (e la sua banda), all'attacco di Gelli e del "Corriere della Sera", è evidente, non ha alcun intento moralizzatore. È della stessa pasta dei suoi dirimpettai. Morde per motivi di bottega, o meglio di banda. E i morsi e le azzannate che può dare derivano dalle «informazioni» che certi magistrati, al servizio del PCI, gli forniscono puntualmente.
Già Ugo Intini ("l'Avanti!", 17 aprile '80) ha descritto lucidamente il «partito» di Eugenio Scalfari. State a sentire:
«Non si può, in modo apparentemente inspiegabile, ora tentare di soffocare gli scandali reali, e ora attizzare quelli inventati. Son si può ora manovrare nelle cucine del sottogoverno e del potere economico, ora pretendere di rappresentare la coscienza critica della sinistra. Son si può essere parte del potere politico e nello stesso tempo rivendicare l'autorevolezza che spetta agli organi super partes, specialmente quando nel gioco politico si entra come espressione di un complesso intrico di interessi finanziari. Sottolineiamo la posizione equivoca di chi pretende di essere, a seconda della convenienza, ora protagonista politico e ora commentatore indipendente, di chi vuole ora distribuire colpi bassi in nome di gruppi di potere, ora nascondersi dietro lo scudo della dignità culturale e dei diritti dell'informazione».
* * *
Esatto. Se c'è la banda «"Corriere della Sera" - Calvi - Gelli», c'è pure la banda «Caracciolo - "la Repubblica" - Scalfari» che non disdegnò, in tempi lontani, difendere Michele Sindona.
Sono due bande. Accampate sul suolo d'Italia. La lotta vede, via via, la supremazia dell'una o dell'altra. Il PCI è parte ed è banda al tempo stesso. Come del resto la DC che. nel marasma soprattutto morale in cui si trova, è interessata ad alzare polveroni. Più sono fitti, meglio è.
È un comportamento suicida. Perché, alla fine, è la banda più organizzata che rischia di prevalere: il PCI.
Aveva ragione Aldo Moro. «Mi volete morto. Ebbene sarà la vostra fine».
Le bande avevano il loro saggio moderatore. Con lui vivo l'equilibrio veniva mantenuto. Tutto si imputridiva, ma i giochi non precipitavano. Ora è diverso. La macchina, senza più control/o. macina e stritola. L'Italia, prima di tutto.

 

4 giugno 1981

Alberto Sensini, già direttore de il quotidiano "la Nazione" colonna del "Corriere della Sera", nella domanda di ammissione alla Loggia P2, là dove si chiede quale orientamento politico abbia, scrive di suo pugno:
«Democratico progressista nel rispetto della Costituzione».
Lasciatemelo dire in toscano: ma si può essere più bischeri di cosi?
* * *
«Tra quei nomi ci può essere, oltre al gaglioffo, la vittima; una prima impressione è che abbondino i cretini».
(Enzo Biagi, "Corriere della Sera", 28.5.81)
* * *
Fra gli appunti di Gelli, in data 2.XII.80, questo: «Per quel bullone / che di tanto in tanto / gli si svita di colpo / e sparge il panico / sufficiente non è tenergli accanto / la vigile attenzione di un Maccanico».
Antonio Maccanico è il segretario generale della Presidenza della Repubblica.
* * *
Pertini: «Scoprissi un massone gli toglierei subito il saluto».
("La Nazione", 31 maggio 1981).
* * *
Sono i giorni torbidi dell'autunno 1979, i giorni dell'affare ENI-Petromin. I giornali non sanno ancora nulla, però Gelli sembra conoscere tutto. Convoca (proprio così: convoca) all'Excelsior il Capo dell'ENI Mazzanti, gli mostra la copertina di un dossier e più o meno dice: qualcuno ha messo qui dentro quanto basta per bruciare lei e i suoi amici politici. Ma non abbia paura. Io posso impedire che queste carte arrivino ai giornali».
("la Repubblica", Giampaolo Pansa, 29.5.81)
* * *
«È la tecnica -continua Pansa- del racket mafioso. C'è chi vuole distruggere il tuo negozio con una bomba. Tu pagami e io lo fermerò. Anche Mazzanti versa la sua tangente. Ma perché un uomo cosi potente si sente obbligato ad entrare in quel giro?».
* * *
C'è qualcosa di peggio. Non è Gelli che convoca Mazzanti, come scrive Pansa. Gelli si rivolge a Danesi Emo, portaborse dell'allora ministro dell'Industria Bisaglia. «Gelli mi disse», è il racconto di Danesi, «tu sei amico di Mazzanti. Ho qui fra le mie carte qualcosa che può interessargli. Eravamo, precisa Danesi, nel periodo delle trattative ENI-Arabia Saudita, nell'autunno 1979 e ancora non se ne parlava sui giornali. Avvertii Mazzanti. Gli dissi che potevo presentarlo a Gelli e infatti il 9 ottobre alle 15,30 ci andammo ...».
("il Tirreno", 24.5.81).
* * *
Non ci ha fatto caso nessuno. Nemmeno uno straccio di magistrato d'assalto. Qui, con la carica di deputato, circola indisturbato il portaborse di Bisaglia che, pari pari, confessa di essere uno degli anelli di quello che Giampaolo Pansa chiama «il racket mafioso». O paghi, o ti distruggo.
Per molto meno cittadini sono finiti in galera.
* * *
Fabrizio Cicchitto, deputato. Me lo ricordo nel 74-75 frequentatore assiduo dei raduni dei militari in divisa, o meglio dei proletari in divisa. Ora, confesso, ce lo ritroviamo nella P2. Dichiara: «La politica in Italia è una guerra di servizi, di dossier, di scandali ...».
Si, d'accordo, ma perché ha aderito alla P2? Per paura?
Ma di che cosa?
È sfato ricattato da Gelli? È così? Ma perchè si è fatto ricattare? Perchè non parla?
Possibile che questo extraparlamentare di sinistra si senta talmente nelle mani della «mafia» da essere paralizzato dal silenzio?
Non è sufficiente essere ricattati. Il ricattato copre il ricattatore.
Si è toccato il fondo.
* * *
«Caro Licio ti mando finalmente il piccolo ricordo che ho preso per te in Oriente. Spero ti piacerà. Grazie ancora, per tutto quello che hai fatto e stai facendo per noi. Con animo grato e con amicizia. Il tuo Angelo Rizzoli».
("la Repubblica", 31 maggio 1981).
* * *
«C'era il nome di Silvano Labriola su quella lista di appuntamenti e anche di Francesco Cossiga».
(Vanni Nisticò, ex capo ufficio stampa del PSI, "la Repubblica", 31 maggio 1981)
* * *
«Certo, nella P2 possono esserci anche dei comunisti. Del resto Gelli, il capo di una organizzazione che la stampa sovietica definisce in questi giorni pericolosissima, faceva grandi affari con i Paesi dell'Est europeo e in particolare con la Romania. A Mosca non ne sapevano niente? Scoprono soltanto adesso questo Cagliostro doppiogiochista che si è arricchito commerciando con loro?».
(Rino Formica, ministro dei Trasporti, "la Repubblica", 31.5.81).
* * *
Dicono che la vicenda della P2 porta acqua al PCI e che, per non farne il gioco, sarebbe meglio mollare.
È una tesi suicida.
La priorità dell'anticomunismo è comprensibile, direi indispensabile, nei momenti di emergenza. Ma non deve diventare un ricatto permanente e oltre tutto strumentalizzato da parte di «coloro» che, anticomunisti a parole, poi con il comunismo fanno affari in separata sede.
Non è possibile avere la meglio con il comunismo mettendoci dalla parte degli imbroglioni, dei ladri, dei peculatori.
Se si facesse un elenco delle cose a cui certi anticomunisti hanno spesso rinunciato «per non fare il gioco del comunismo», si ricostruirebbe la metà dei motivi per cui il PCI, in Italia, è riuscito a divenire il più forte partito comunista d'Occidente.
Quindi coraggio. Attribuire poi al PCI il ruolo di castigamatti delle altrui mascalzonate, è cattivo affare. Il PCI negli scandali c'è, eccome se c'è.
Il comunismo si combatte da posizioni limpide, chiare, soprattutto pulite.

 

10 giugno 1981

«La vicenda della P2 non nasce all'improvviso, non è un corpo estraneo alloggiato casualmente in un organismo sano. La vicenda della P2 rappresenta, in dimensioni patologiche, niente altro che il madido conforme di un sistema che opera alla luce del sole da decenni. Un sistema di omertà, d'impunità, di privilegio, di discriminazione, d'utilizzazione di gruppi e di operazioni illegali, di clientele, di mafie e di mafia».
("la Repubblica", 29.5.81)
* * *
Intini Ugo, direttore de "l'Avanti!", ribadisce la tesi de "la Repubblica". State a sentire: «C'è pericolo che gli scandali siano usati come uno strumento addirittura prevalente di lotta politica in un gioco al massacro senza esclusione di colpi che veda impegnati, insieme alle correnti politiche e ai gruppi di pressione, tutti gli organi e i poteri dello Stato, compresa la magistratura, nella quale le torbide manovre non sono mancate».
(30. 5.81)
* * *
La diagnosi su riportata è esatta. Solo che trovo davvero curioso il fatto che ambienti della sinistra italiana (Scalfari è stato deputato del PSI) scrivano queste cose con stupefatta meraviglia.
Chi, infatti, se non i socialisti, con l'appoggio del PCI, introducono nella vita politica italiana la guerra dei servizi, dei dossier, degli scandali?
Come sempre, se si vuole capire qualcosa di quello che ci accade, occorre risalire al 1960; all'anno della «grande svolta», quando la sinistra italiana, tutta insieme, diede il colpo di spalla a ciò che l'Italia aveva fatto fino a quella data. È da allora che tutto crolla, tutto precipita. Soprattutto le idee. Si chiamino cristianità, socialismo, liberalismo, comunismo. Poltiglia. Spuntano le P2.
* * *
Nel 1960-1964, la P2 non era nata, ma operava, efficientissimo, l'Ufficio SIFAR-REI, l'ufficio del colonnello Renzo Rocca, al VII piano di via Barberini.
I suoi compiti? Presto detto. Facilitare, in tutti i modi, l'operazione «cattura del PSI» al centro sinistra: operazione che, portata avanti, politicamente, da Moro e da Nenni, doveva avere il suo culmine nel 1960 quando, prendendo a pretesto il Congresso del MSI indetto a Genova, la sinistra nel suo insieme, in testa il PCI, d'accordo la DC, dettero l'avvio, contro l'allora governo Tambroni, a sanguinosi moti di piazza, onde rovesciare il fronte. È da allora, che l'Italia è andata «a sinistra», con tutte le conseguenze che oggi, ahimé, si possono toccare con mano.
* * *
Ma non é rifare la storia di quei giorni che oggi ci interessa. Oggi ci preme sottolineare come da allora lo strumento P2, sia pure sotto diverse spoglie, fosse operante.
Infatti quale organismo fu prescelto dai vertici politici (Moro - Nenni) per far sì che la situazione politica italiana venisse capovolta a sinistra?
Nientemeno che il Servizio Informazioni delle Forze Armate.
* * *
È così che il SIFAR viene sorpreso nel Dicembre del 1961 in quel di Ravenna, nel tentativo di corrompere i delegati al Congresso repubblicano perché votino a favore della corrente di Ugo La Malfa contro quella di Pacciardi, contraria al centro sinistra.
Corrono fiumi di denaro. E si fa il nome del grande architetto: Amintore Fanfani.
* * *
È così che lo stesso SIFAR finanzia viaggi di piacere negli USA dell'allora ministro dei LL.PP. Pieraccini e della sua consorte.
È cosi che tra le carte del colonnello Rocca, responsabile dell'Ufficio SIFAR-REI, trovato morto, in circostanze misteriose, alle 17,30 del 27 giugno 1968 net suo ufficio di via Barberini, si scopre un appunto in cui è testualmente detto:
«Lunedì 24 febbraio (1964). alle ore 13,30 il Ministro Corona attenderà il Capo del SIFAR generale Viggiani nel suo ufficio del Ministero del Turismo in via Ferratella 51. Egli -è detto nell'appunto- è incaricato da Nenni (allora vicepresidente del Consiglio dei Ministri - N.d.R) di ritirare quanto convenuto (cinque milioni); successivamente presenterà il Capo del SIFAR a Nenni. Gli accordi su indicati -continua l'appunto- sono stati presi da Taviani ieri mattina. f.to Renzo Rocca».
* * *
La vicenda, clamorosamente, sbocca in Parlamento.
Ed è Aldo Moro, presidente del Consiglio dei Ministri, che nella seduta del 31.1.68 si alza e difende Nenni dalla pesante accusa di avere preso soldi dal SIFAR.
Le prove contabili dell'operazione, dice Moro, sono state distrutte. Nenni è al di sopra di ogni sospetto. È persona incontaminata. È puro... E lo assolve.
* * *
Non valgono le argomentazioni in contrario. Il professore di procedura penale, nonché presidente del Consiglio Aldo Moro è messo a dura prova. «Il diffamato è Nenni, ma non è lui che deve produrre la prova. La prova dell'accusa sta ai suoi presunti diffamatori. Nenni dia querela, tuteli la sua dignità, mettendo alla prova i suoi accusatori. Se Moro afferma: non ci sono prove. Ebbene, se è così, i diffamatori saranno condannati!».
Perfino Giorgio Amendola si alza a parlare. E invita Nenni se non vuole querelare, ad avvalersi almeno dell'art. 74 del Regolamento parlamentare che gli consente di chiedere una Commissione di inchiesta, onde tutelare la propria dignità.
Niente. Nemmeno questo.
31 gennaio 1968. Sono passati 13 anni da allora. Possibile che i milioni di Italiani che vissero quella vicenda, e che oggi vivono quella della P2, abbiano tutto dimenticato? Eppure quei fatti di 13 anni fa erano di gran lunga peggiori di quelli odierni.
Pensate: il PSI sorpreso, con la bocca e le mani, nei fondi segreti del Servizio Informazioni delle Forze Armate.
Ma perché meravigliarsi di tutto quello che è poi avvenuto?
il terrorismo, la droga, la criminalità, i servizi sfasciati, nulla che funziona, assassinii a ripetizione, P2 e altro, non è la diretta conseguenza della sinistra al potere? Fateci un pensierino.
* * *
Mi direte. Tutto è restato nel vago. Nessuno ha provato la verità di quei fatti di 13 anni fa.
No, la prova c'è. Eccome. Ed è una sentenza del Tribunale di Roma. Porta la data del 12 Luglio 1971.
Che dice?
Quella sentenza dice che le erogazioni del SIFAR al PSI ci furono, sono state provate. Comunque la Presidenza del Consiglio dei Ministri, interpellata dal Tribunale perchè desse il suo benestare di legge, onde continuare l'azione penale, ha eccepito il segreto militare. Le somme ai socialisti sono state distribuite per scopi di istituto, quindi non si ha luogo a procedere contro ministri, politici e militari.
* * *
Questo è avvenuto nell'Italia 1971. 12 luglio 1971. Presidente del Consiglio dei Ministri: Emilio Colombo.
Cosa è dunque questa meraviglia per le vicende della P2? Il fango era già schizzato sulla faccia della classe politica di vertice. Tredici anni fa.

 

12 giugno 1981

Giovanni Spadolini, che ieri ha ricevuto l'incarico di formare il nuovo governo, è grande parte dell'azienda editoriale "Felice Le Monnier" di Firenze. Direttore de "La Nuova Antologia", della Collana storica, Spadolini è stato, fino ad oggi, della editrice Le Monnier. oltre lo storico più pubblicato e più coccolato, anche colui che ne ha curato, insieme ad Armando Paoletti, le cosiddette pubbliche relazioni. Si può senz'altro dire che il consigliere delegato della editrice Le Monnier, Armando Paoletti, presidente dell'Unione Industriali di Firenze, è l'uomo di Giovanni Spadolini, colui che ha curato, fino ad oggi, la notorietà, o meglio l'immagine.
Ora si dà il caso che Armando Paoletti figuri negli elenchi della P2.
Non ci risulta che Giovanni Spadolini, al riguardo, abbia rilasciato dichiarazioni.
Tutto bene, senatore? Attendiamo una sua presa di posizione in proposito.
* * *
«A meno d'un improvviso e veramente auspicabile ritorno comunista alla politica di solidarietà nazionale, quale si ebbe con Andreotti, ossia con la presenza del PCI fra i partiti sui quali il governo si reggeva ... ».
(Leo Valiani, "Corriere della Sera", 8 6.81).
* * *
Gli articoli del senatore Leo Valiani sul "Corriere della Sera" non finiscono di stupire. Ora il senatore, per cattivare a se stesso (e al "Corriere") un po' di benevolenza da parte del PCI, torna a tessere l'elogio di quel governo dell'«unità nazionale» Giulio Andreotti-PCI che, se fosse rimasto in piedi grazie alle tangenti ENI-Petromin, utilissime per vincere il congresso DC contro i preambolisti, per prima cosa, e con lo stesso aiuto del PCI, avrebbe bloccato l'inchiesta su Sindona. E con ciò la loggia P2 avrebbe continuato a vivere e a prosperare.
Giorgio Bocca, tempo fa, consigliava a Leo Valiani un periodo di riposo. Smetta di scrivere, gli diceva. Noi non arriviamo a tanto. Anche perché gli scritti del senatore, alla fin fine, ci deliziano.
Da quanto sono ipocriti e, in sostanza, vili.
* * *
«Non è pensabile che Leo Valiani non sapesse nulla di Calvi e di Sindona».
(Pannella, "la Repubblica", 6.6.81)
* * *
Il geometra Roberto Misuri, presidente dell'Amministrazione provinciale di Pisa, dopo avere prima negata la sua iscrizione alla P2, affermando che a compilare la domanda erano stati due suoi colleghi, come lui socialisti -colleghi che sono stati arrestati, poi, nel confronto disposto dal magistrato- ha ammesso tutto.
Il geometra Misuri non è nuovo a queste imprese. Dal febbraio 1973 pende, presso il tribunale di Pisa, un procedimento giudiziario provocato da una querela dell'intera Giunta comunale di Pisa, accusata dal sottoscritto di avere predisposto un prefabbricato procedimento onde dichiarare la decadenza da consigliere comunale di chi scrive.
Quel procedimento giudiziario ha provato che il geometra Roberto Misuri, allora assessore al Comune di Pisa, e oggi presidente socialista dell'Amministrazione provinciale, aveva la penna... facile nello stilare documenti falsi.
Solo che allora i comunisti, in nome dell'antifascismo, solidarizzarono con il Misuri, oggi ne hanno chiesto l'allontanamento.
Ci sono voluti otto anni per capire come stavano le cose.
L'antifascismo fa di questi scherzi.
* * *
«Non mi sembra quindi accettabile che Alberto Sensini (che risulta tra gli iscritti alla Loggia P2 - N.d.R) nell'articolo di fondo del "Corriere della Sera" del 23.11.80 indichi il contratto AGIP-Petromin come uno scandalo. Tutti gli aspetti connessi al contratto sono stati oggetto di numerose ed autorevoli indagini, come pubblicato con particolare rilievo il 7 agosto dallo stesso "Corriere della Sera". Secondo la magistratura l'operazione fu del tutto regolare».
Così l'ex presidente dell'ENI, Giorgio Mazzanti, in una lettera al "Corriere della Sera" del 7 dicembre 1980.
* * *
Ora, scoppiata la bomba P2 è Emo Danesi, portaborse di Bisaglia, che ci racconta dell'incontro Gelli-Mazzanti, ed è lo stesso Mazzanti che, messo alle strette, dice ai magistrati: «Andate a vedere tra le carte di Stammati».
Stammati. Già. Andreotti. Già, le tangenti ENI. Che avrebbero dovuto servire a vincere il Congresso DC, e a fare l'accordo con il PCI. Se fosse tutto andato in porto, a quest'ora la P2 opererebbe indisturbata. Protetta dal duo Andreotti-PCI.
* * *
Una notizia di 52 anni fa. Ascoltate.
«Il Podestà di Terranova Pollino, responsabile di atti compiuti a fine di personale interesse ed in danno delle finanze del Comune è stato mandato al confino, come sono stati mandati al confino, per la durata di tre anni ciascuno, il Marchese Reggio d'Aci Stefano, avvocato di Firenze; il cavaliere Olinto Fanfani, possidente di Poppi; il commendatore Don Giovanni Mazzoni, arciprete di Loro Ciuffenna; il cavaliere ufficiale di San Sepolcro e il cavaliere Don Giuseppe Duranti, arciprete di Popolano, responsabili tutti del dissesto della Banca di Credito e Risparmio di Arezzo».
("L'Idea Fascista", 6 gennaio 1929)
* * *
Come sono lontani quei tempi.

 

17 giugno 1981

Nella lista del PCI per le elezioni politiche del 1972. nella circoscrizione Bari-Foggia, figurava certo Di Gioia Mario Vincenzo, funzionario del PCI.
Quale era la condizione del Di Gioia quando il PCI lo inseriva nella lista dei candidati alla Camera dei Deputati?
Era stato condannato dal Tribunale di Foggia a otto mesi di reclusione per estorsione; condanna confermata dalla Corte di Appello di Bari.
La sentenza, 15 giorni prima delle elezioni, divenne esecutiva perché la Cassazione rigettò il ricorso del Di Gioia.
Ebbene il PCI, nonostante che il Di Gioia avesse perduto l'elettorato attivo e non potesse essere eletto deputato, lo fece eleggere lo stesso e lo ha fatto restare in Parlamento per l'intera legislatura, nonostante non avesse più i titoli per farne parte. E ciò perché il Di Gioia, ricattando un cittadino, aveva portato soldi al PCI, e quindi era un benemerito.
Questo é il PCI che chiede più voti «per una Sicilia moderna e pulita, contro la corruzione, il ricatto, il delitto, la mafia». Ma ditemi un po', cari lettori, se così stanno le cose, che differenza c'è fra il PCI e laP2?
* * *
Ed ora ascoltate questa. «A domanda dell'avvocato Mariani, legale dei piccoli azionisti. Michele Sindona (interrogatorio di New York - N.d.R.) risponde: «Posso precisare che quando Fanfani parla con La Malfa al telefono, nell'occasione da me riferita nel precedente interrogatorio e concernente l'aumento di capitale della Finambro, io ascoltai, ovviamente su autorizzazione ricevuta da Fanfani, la conversazione telefonica a mezzo di un altro apparecchio». Sicché il Presidente del Senato, la 2ª autorità della Repubblica dopo il Presidente Pertini, è cosi... confidenziale con i suoi amici (e che amici!), e cosi... sbarazzino con i Ministri della Repubblica che, per assicurare i propri protettori che non li mette di mezzo, come i mafiosi, ordina: «Senti, senti quello che dico al Ministro e quello che lui dice a me. Prendi il telefono ed ascolta!».
Il livello (mafioso) della Repubblica italiana è a questi punti.
* * *
«Tra i miei clienti c'erano anche nomi di primo ordine di cui non faccio il nome. Desidero fare il nome di uno solo di essi: quello dell'ingegnere Andrea Carli, figlio del Governatore, perchè la sua esperienza è molto significativa. Un giorno venne a trovarmi disperato perché il Credito Italiano gli aveva fatto perdere quasi tutti i suoi risparmi con operazioni di borsa. Mi spiegò che lui non intendeva speculare, ma solo difendere i suoi risparmi dalla svalutazione e mi chiese di essere aiutato. Cosa che feci con sua soddisfazione. Questo episodio è molto significativo perchè dimostra che certe banche italiane riescono a fare perdere in Borsa persino il figlio del Governatore della Banca d'Italia. Dimostra anche la fiducia che ormai il mio nome godeva in materia di investimenti azionari».
(Ugo De Luca, direttore generale del Banco di Milano di Michele Sindona, contro il quale il 23 gennaio 1975 venne spiccalo mandato di cattura per appropriazione indebita continuata e aggravata. La dichiarazione su riportata è ripresa da il "Corriere della Sera" del 23 maggio 1975).
* * *
«Se in particolare, il Governo ha ulteriormente provveduto ad accertare o intende disporre nuovi accertamenti, con ogni possibile strumento di indagine sulla sussistenza e sulla natura dei rapporti eventualmente intercorsi od intercorrenti tra Licio Gelli (o altri dirigenti della Loggia P2), l'ex dirigente della NIOC iraniana Parviz Mina il governatore della Petromin Taher, il finanziere Ortolani, la Banca Pictet e C. di Ginevra; nonché tra i predetti e i dirigenti dell'ENI, dell'AGIP e della Tradinvest dell'epoca»
E l'interrogazione parlamentare n. 2-01097. È stata presentata il 19 maggio 1981. Porta la firma del deputato Cicchitto. Per sua stessa ammissione fa parte della Loggia P 2.
* * *
«C'è una lettera recente del 18.XII.81 del nostro venerabile a Giulio Andreotti. Nella missiva Gelli fa gli auguri per Natale al leader democristiano e accompagna un suo regalo artistico appena inviatogli. Si tratta di copie di macchine leonardesche riprodotte in scala dal vero».
("la Repubblica", 22.5.81)
* * *
«Parlò molto di Reagan e si disse sicurissimo della sua elezione. Parlò anche di Ceausescu: era stato anche in Romania, aveva avuto una serie di incontri importanti, dava un giudizio notevolmente positivo del leader rumeno. In compenso Gelli mi sembrò un personaggio molto informato, con ottimi contatti un po' dovunque ...».
(Luigi Longo. segretario nazionale del PSDI, "la Repubblica", 22.5.81)
* * *
«Dato il modo con cui si è costituita l'Italia in unità, data la debolezza iniziale della borghesia capitalistica italiana, la massoneria, bisogna ammetterlo, è stata l'unico partito reale ed efficiente che la classe borghese ha avuto per lungo tempo».
(Antonio Gramsci, maggio 1925, Camera dei Deputati)
* * *
«La massoneria ha esercitato una funzione di primo ordine, non solo nella lotta per l'unificazione dello Stato italiano, ma anche nel processo di unificazione dei diversi gruppi della borghesia italiana».
(Palmiro Togliatti, "Lezioni sul fascismo", 1935)

 

1 luglio 1981

Torna alla Camera dei deputati, in sostituzione dell'on. Galloni che si è candidato per il Campidoglio, l'on. Carlo Felici.
La vicenda ci ricorda un curioso (e grave) episodio che legato, guarda caso, anche a Francesco Cosentino, allora Segretario generale della Camera, era rimasto senza risposta, in quanto, essendosi i due protagonisti (Felici e Cosentino) allontanati dalla vita politica attiva, non c'era modo di avere... chiarimenti.
* * *
Si tratta di questo. Il 12 dicembre 1969 il deputato Felici presenta una proposta di legge (la numero 2118) sull'istituzione di una tassa fissa per l'agibilità degli apparecchi automatici di divertimento.
Lo dico subito: non è mia intenzione risollevare il caso, che già fece tanto scalpore, per cui l'on. Felici, per questa proposta di legge sui flippers mangiasoldi, doveva poi essere indiziato di corruzione.
Si tratta di altro. È che la legge presentata il 12.XII.69 e annunciata alla Camera lo stesso giorno (anche questo fatto strano), viene assegnata il 19.XII.69, dal Presidente della Camera on. Sandro Pertini, alle Commissioni riunite 2ª (Interni) e 6ª (Finanze e Tesoro) per l'esame e la eventuale approvazione.
Poi, colpo di scena: giovedì 23 aprile 1970 il Presidente della Camera dà questo annuncio:
«Il deputato Felici ha dichiarato di ritirare la seguente proposta di legge che sarà pertanto cancellata dall'ordine del giorno: istituzione di un diritto erariale su apparecchi e congegni da divertimento» (2118)
* * *
Non passano quindici giorni. È il 5 maggio 1970. Il Presidente delta Camera, on. Sandro Pertini, annuncia all'assemblea che è stata presentata, sempre da parte dell'on. Felici, la seguente proposta di legge: "Istituzione di una tassa fissa per l'agibilità degli apparecchi automatici da divertimento".
Se è non zuppa è pan bagnato. Si tratta sempre della stessa cosa. Flippers mangiasoldi prima, flippers mangiasoldi ora.
Il numero che viene assegnato alta proposta di legge è il 2473, e l'11.5.70, sempre il Presidente della Camera annuncia all'assemblea che tale proposta di legge è stata assegnata per l'esame, alla 2ª, 4ª e 5ª Commissione parlamentare.
Si chiede: perché, nella prima presentazione della Legge, questa viene assegnata alle Commissioni riunite Interni e Finanze e Tesoro: mentre, dopo il ritiro e la ripresentazione, la stessa legge è affidata alle... cure delle Commissioni Interni (2ª), Giustizia (4ª) e Bilancio (5ª)?
Perché nella prima versione era competente la Commissione Finanze e Tesoro, poi, nella seconda questa sparisce e, al suo posto, subentra la Commissione Bilancio?
È un mistero che l'on. Felici può risolvere. E non sarebbe male che la Segreteria generale della Camera dei Deputati dicesse la sua sulla vicenda. A nostro modesto parere che un episodio del genere possa essere avvenuto all'interno della Camera dei Deputati è grave, molto grave. Anzi gravissimo.
* * *
«Noi adesso, come partito, siamo in un casino». (Franco Evangelisti, "la Repubblica", 17.6.81)
* * *
«Uranio canadese. L'ENI chiede un prestito di 40 miliardi al banchiere Roberto Calvi (P2) per acquistare uranio in Canada. C'è un intermediario in questa operazione e, come pare che avvenga quasi sempre, riceve una tangente. Fra le carte di Gelli sono stati trovati documenti secondo i quali il direttore finanziario dell'ENI, Florio Fiorini, avrebbe ricevuto in Svizzera 7 milioni di dollari, da mettere in parte a disposizione di Bettino Craxi e Claudio Martelli. Quest'ultimo ha già ricevuto una comunicazione giudiziaria. Voci che circolano negli ambienti giudiziari da alcuni giorni vogliono che altrettanto avverrà per Craxi, ma solo dopo le elezioni del 21 giugno. L'indagine viene condotta a Milano dai giudici Guido Viola e Luigi Fenizia».
("il Tirreno", domenica 14 giugno 1981)
* * *
Chi è che ha detto, e scritto, che il PSI ha ricevuto un premio dall'elettorato nelle ultime elezioni amministrative per avere, visibilmente, dimostrato di essere animato da volontà di rinnovamento e pulizia morale?
* * *
E Enrico Mattei ci ha donato su "Gente" una storia del fascismo condita di pettegolezzi, miserie, volgarità e falsi storici.
Ora, sempre su "Gente" (n° 23 del 5.6.81), rispondendo ad un lettore che gli domandava cosa pensava dell'intervista ("Gente", n° 22) del figlio dei Duce, Romano Mussolini (risultata poi inesatta) critica nei riguardi del padre, cosi scrive;
«Anche a me aveva fatto una certa impressione la frase attribuita a Romano Mussolini, il figlio minore dell'uomo che fu il più potente d'Italia e non lasciò in alcuna banca svizzera lingotti d'oro e brillanti con cui far vivere da signori all'estero, per tutta la vita, i suoi familiari ...».
Sono poche righe ma sufficienti a cancellare quello che, in una serie interminabile di articoli, lo stesso Mattei ha scritto su Mussolini. Capita. Nei momenti rari in cui il sentimento (e la ribellione per ciò che oggi si vede) illumina la ragione e riesce a schiacciare la faziosità e il rancore.

 

3 luglio 1981

I lettori del "Secolo" sanno tutto il mio pensiero su coloro che, militanti nella nostra famiglia umana e politica, si sarebbero prestati a pronunciare un ulteriore giuramento alla P2, giuramento che, fra l'altro, recita:
«Giuro di soccorrere i Fratelli ed i figli della Vedova anche a pericolo della mia vita; Giuro di non rivelare a nessuno i segreti che potranno essermi confidati; Giuro dì istruirmi e di sollevare il mio spirito e di fortificare la mia ragione affinchè d'ora innanzi tutte le mie facoltà siano dedicate alla gloria e alla potenza dell'Ordine».
Ed è davvero difficile capire come si potesse convivere nella P2 con personaggi che, fra l'altro, risultano, in modo inoppugnabile, di avere creato e montato, nei riguardi del MSI-DN, il più ignobile e vergognoso tentativo di incriminazione: quello della strage di Peteano. È sufficiente ciò, a mio parere, per considerare chiusa la partita.
* * *
Fatta questa doverosa precisazione, non posso non farne un'altra, sempre di ordine propedeutico. Riguarda i comunisti.
Costoro, che santi non sono, hanno dato con la P2 la dimostrazione palmare come si possa fare una grande purga senza processo, discriminando i buoni (PCI) dai cattivi (tutti gli altri). C'è da chiedersi che cosa sarebbe accaduto se i comunisti fossero stati al governo. È una lezione che va vagliata. Attentamente. Senza cadere nell'altro tranello, anche esso non pulito e non pagante, per cui «si dovrebbe tacere solo perché parlando del caso si farebbe il gioco dei comunisti».
È più che un errore, un delitto. Ed è l'errore e il delitto che ha fatto si che finora si registri, fra noi, il più forte partito d'Occidente.
* * *
«Costanzo, quell'intervista fatta a Gelli ("Corriere della Sera", 5 ottobre 1980, N.d.R.), è sembrata fatta in ginocchio...».
«In ginocchio? No, assolutamente, non stavo in ginocchio. Soltanto qualche giorno dopo, nei corridoi di Via Solferino (gli uffici de "il Corriere della Sera", N.d.R.) qualcuno, tirandomi per la giacca, mi ha detto: ha intervistato uno dei padroni del Corriere ...».
(Maurizio Costanzo confessa: sono un cretino e ora mi vergogno. È vero, stavo con Gelli nella P2, "la Repubblica", 5.6.81)
* * *
«Lo conoscevo molto bene. Non potevo pensare che fosse un farabutto solo perché era il capo della Loggia P2. Mazzini, Garibaldi, Cavour non erano massoni? Io ho sempre visto Gelli nel suo appartamento dell'Excelsior. Ero uno delle migliaia di persone che frequentava Gelli: c'erano primi ministri, ministri, segretari di partito, grandi industriali, famosi finanzieri. Tutti lo riverivano.
Era un farabutto? Ma se era amico di Adolfo Sarti! Almeno il ministro della Giustizia avrebbe dovuto intendersene di criminali!».
(Angelo Rizzoli, "la Repubblica", 8.6.81)
* * *
Giovanni Spadolini. C'è un episodio di tanti anni fa, completamente dimenticato, ma che vale la pena di ricordare. È in sé molto gustoso.
È il 4 dicembre 1962. Su "il Resto del Carlino", di cui direttore è Giovanni Spadolini, esce un fondo dal titolo: «E la lira? Motivi di allarme».
È una denuncia inquietante della situazione economica nazionale in conseguenza del recente avvento del centro-sinistra (1962): perdita di potere di acquisto della moneta con conseguente vanificazione degli aumenti salariali; fuga di capitali: aumento delle tariffe dei servizi pubblici: rialzo dei prezzi di largo consumo popolare; minacce al diritto di proprietà; fiscalismo, demagogia, insomma compromesso il miracolo economico.
Spadolini, terminava il suo fondo, con queste parole: «Ricordate il grande Pareto?». La facilità di far quattrini con l'imposta progressiva sugli agiati ed altri simili, coi debiti, colla carta moneta, facilità tanto grande che ormai l'arte di governare pare compendiata in tali espedienti, non sarà forse estranea alla rovina che minaccia lo stato borghese». Sono parole del '20-'21. Leggete «stato democratico» al posto di «stato borghese», ed avrete il quadro di una situazione che potrebbe, se non si riparerà in tempo, ritornare attuale».
Cosi Giovanni Spadolini.
* * *
Chi si incaricò, dalle sponde del centro-sinistra, di rispondere alle allarmate analisi di Giovanni Spadolini?
Ugo La Malfa in persona. E in due riprese. Su "la Voce Repubblicana" del 5.XII.62 e del 12.XII.62.
Ugo La Malfa definisce la prosa spadoliniana «un pasticciato di banalità e di incompetenza», «una fumettistica descrizione dell'attuale situazione politica»; «l'ignoranza di Spadolini è tale per cui tutto fa brodo». Per terminare poi, con queste lapidarie parole:
«Evidentemente Giovanni Spadolini ha da tempo rinunziato al benché minimo sforzo di pensiero e si limita a trascrivere, nei commenti politici, le opinioni che la sua fantesca ricava nei colloqui di mercato. Ma in fin dei conti è un segno della provvidenza della storia che all'opposizione del centro-sinistra presiede una così abissale stupidità».
Firmato: Ugo La Malfa.
* * *
Oggi «questa abissale stupidità» è Presidente del Consiglio dei Ministri dell'Italia repubblicana. Lo esprime il PRI, il partito di Ugo La Malfa.

 

14 luglio 1981

È il 24 ottobre 1942, anno XX dell'era fascista. La Commissione giudicatrice del concorso a professore straordinario alla cattedra di diritto penale alla Regia Università di Sassari, composta dai professori Giulio Battaglini presidente, Alfredo De Morsico. Francesco Antolisei, Giovanni Leone (si è proprio lui! - N.d.R.) relatore, e Giuseppe Bettiol segretario, redigono, dopo regolare votazione, la terna vincente dei candidati vincitori. Eccola:
1) Vassalli Giuliano
2) Cicala Salvatore
3) Musotto Giovanni.
Fra i partecipanti un nome che doveva diventare illustre e drammatico, che doveva segnare i caratteri di una generazione: Aldo Moro.
* * *
La Commissione, e precisamente Giovanni Leone, redige sul candidato Aldo Moro il seguente giudizio: «Laureato nel 1938 presso la R. Università di Bari, assistente presso quella Università, ove ottiene l'incarico della filosofia del diritto, e presso l'Università di Roma, ha conseguito nel 1942 la libera docenza in diritto penale. È in servizio militare. Nei due lavori che presenta, "la capacità giuridico-penale" e "la subbiettivazione della norma penale", spiccano notevole acutezza d'intelletto, capacità d'astrazione, estesa cultura nel campo filosofico, penetrante conoscenza della letteratura nazionale e straniera. Pur dovendosi formulare delle riserve circa taluni eccessi formalistici del suo metodo di indagine, nocivi talvolta alta semplicità dell'esposizione ed alla accettabilità delle conclusioni, la Commissione si augura che in avvenire il candidato riesca a tradurre le sue sicure attitudini di studioso in lavori di maggiore aderenza alla realtà giuridico-positiva. Anche per lui riserva alla votazione il giudizio sulla maturità».
* * *
Se riflettete bene quel giudizio su Moro, di 39 anni fa, non andava poi tanto lontano dal giudizio che le cronache politiche dei nostri tempi dovevano poi dare sul Moro più volte Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana, tragicamente assassinato nel maggio 1978 dalle B.R. e dalla stessa «filosofia» morotea della mediazione e della rassegnazione.
* * *
Questa stupenda meditazione di un Uomo che non fu mai un rassegnato: il cardinale Stefan Wyszynski: «La coscienza nazionale si crea con fede eroica, disponibilità al sacrificio, capacità di servizio e di amore per la comunità. Senza coscienza nazionale neppure lo Stato più ricco può garantire la sicurezza del proprio paese».
Ed ancora:
«Ci sono situazioni in cui sarebbe meglio andare in prigione con Cristo che vivere in una libertà comprata e garantita vergognosamente».
* * *
«Sono andato a vedere anch'io il film "Cronache di poveri amanti", tratto dall'omonimo romanzo di Vasco Pratolini, dove finalmente ho imparato un tratto di storia patria che ignoravo: e cioè che i comunisti, nella Toscana del '19 e del '20 non erano altro che una setta filantropica, continuamente perseguitata, tartassata e crocefissa da Giovanni Berta e compagni. Sicché alla fine, ripensandoci, viene fatto di credere che i marinai di Empoli furono i fascisti a sbudellarli, accecarli e tagliargli la lingua e gli organi genitali.
È un film che all'estero piacerà molto. E ne siamo lieti per Vasco Pratolini, nostro buon amico da quando lo conoscemmo in un sanatorio dove, a maggior gloria delle lettere e del cinematografo italiani, i terribili fascisti della stampa e propaganda lo mantenevano con bustarelle e sovvenzioni».
(Indro Montanelli, "il Borghese, 14 maggio 1954. pag. 393)
* * *
Peccato: di una tesi simile non c'è più traccia nei libri di Indro Montanelli.
* * *
«Io sono, caro Longanesi, un ex volontario di tutte le guerre che l'Italia ha fatto, dal '35 in poi. Non ho mai discriminato, per arruolarmici, fra quelle di Mussolini e quelle del Popolo. E non me ne pento. Nell'Europa del '35 era logico e sacrosanto che l'Italia volesse l'Abissinia, E ci andai. Nell'Europa del '36 era logico e sacrosanto che l'Italia impedisse il comunismo in Spagna, e anche li ci andai. Nell'Europa del '40 non ebbi da pormi, grazie a Dio, il problema, perché fui regolarmente richiamato, e credo di avere fatto il mio dovere ...».
(Indro Montanelli, "il Borghese", 11 giugno 1954, pag. 548)
Peccato: considerazioni simili, invano, si cercherebbero nei libri di Indro Montanelli.

 

16 luglio 1981

Questa volta si parla di ambienti giornalistici e dintorni. Sentite questa:
Aiello: parliamo fuori di metafora. Che cosa faceva Giulia Maria Crespi al "Corriere della Sera" dopo l'arrivo di Ottone nella primavera del '72?
Montanelli: tutto.
Aiello: Che cosa Giulia Maria voleva che il giornale facesse?
Montanelli: Ah, questo credo che non lo sapesse nemmeno lei. Parliamoci franco, era una povera donna con la zucca vuota, nella quale ognuno infilava delle cose. Aveva dei suggeritori fra i quali Capanna, anche se non è vero che andasse a letto con Capanna: quelle sono bischerate. Insomma c'era una corte di persone che la montavano (sic! N.d.R.). Era tutto il radical-chic di Milano. E lei veniva al "Corriere" e pretendeva di dire come si dovevano fare gli articoli, come si doveva impostare la prima pagina.
(«Quel povero Corriere, dialogo fra Nello Aiello e Indro Montanelli», "l'Espresso", 21.6.81)
* * *
Aiello: tu con Ottone eri in rapporti tali da potergli dare anche qualche consiglio? Montanelli: certo. Lo misi in guardia. Dissi: adesso ricordati che devi scegliere se sei l'uomo di questa «padrona» matta che ci è capitata fra i piedi o sei l'uomo della redazione che ti ha acclamato. La cosa andò come andò: Ottone diventò il killer della «zarina».
* * *
Da non dimenticare: quella «zarina», quella «padrona matta», dalle colonne del "Corriere delta Sera", fu la promotrice prima, insieme ai killer, di una campagna di rancore e di odio contro il MSI che ancora continua. E che ha fatto tanto male. Tanto male.
* * *
Il senatore Giuseppe Branca, eletto nelle liste del PCI, è stato chiamato, dopo le vicende Gelli (che avevano visto il "Corriere della Sera" diventare l'organo della P2), a fare da garante del foglio di Via Solferino, divenuto più comunista de "l'Unità".
Sarà bene per i lettori di "Rosso e Nero", delineare alami tratti salienti della vita del senatore Giuseppe Branca, il garante.
* * *
Giuseppe Branca è stato iscritto al PNF (partito nazionale fascista). Giuseppe Branca, come professore universitario di ruolo, ha giurato fedeltà al fascismo e al suo Capo. Giuseppe Branca, durante il ventennio, ha fatto parte delle Commissioni giudicatrici dei concorsi a professore universitario, catalogando minuziosamente, spesso come segretario della Commissione, i meriti fascisti dei candidati. Giuseppe Branca, come Presidente della Corte Costituzionale, ha fatto assumere sua moglie nella propria segreteria.
I lettori del "Corriere della Sera" possono dormire sonni tranquilli.
Ad maiorem Dei gloriami
* * *
Dicono che protagonista della nomina di Branca a garante del "Corriere della Sera", sia stato il senatore comunista. già magistrato di Milano, Libero Riccardelli.
Ora sentite questa: Libero Riccardelli, collega di Branca al Senato nello stesso gruppo parlamentare, è collaboratore stipendiato del «Corriere» da tempo. Certamente da quando il foglio milanese è entrato nell'orbita Gelli-Calvi-P 2.
C'è qualche cosina di più. Il Riccardelli, come ex magistrato e amico intimo dei sostituti procuratori di Milano che indagano sulla P2. Sa tutto (e lo scrive) su ciò che fanno e decidono i magistrati indaganti sul caso Gelli. E non manca di dare consigli. Sempre tuonanti. Sempre moraleggianti.
Ma Libero Riccardelli è, come collaboratore del "Corriere", regolarmente stipendiato. Cioè, vogliamo dire che gli amministratori del foglio di Via Solferino, e precisamente i signori Rizzoli e Tassan Din, esponenti di primo piano della loggia massonica P2 gli hanno passato (ieri) e continuano a passargli (oggi) lo stipendio.
Il senatore (comunista), come si è detto, è prodigo di consigli nei riguardi dei suoi colleghi magistrati che si occupano della P2.
Come è che non si trova qualcuno che consigli al senatore Riccardelli soprattutto una cosa: il silenzio? Per una ragione di buon gusto, di decenza e di moralità pubblica.

 

22 luglio 1981

"l'Unità" (18.6.81) sotto il titolo, «a 10 anni dalla scomparsa del compagno Moranino», scrive: «ricorre oggi il decimo anniversario della morte del compagno Francesco Moranino, il valoroso comandante partigiano "Gemisto". La sua vita fu interamente dedicata alla causa del socialismo... Negli anni torbidi dello scelbismo fu processato e condannato per una azione di guerra partigiana... Colpito da una ingiusta sentenza fu costretto all'esilio: dodici anni lontano dalla famiglia, dagli amici, dai compagni e soprattutto dalla attività di partito. Potè rientrare in patria grazie alla concessione della grazia del Presidente Saragat, il che gli consentì di riprendere in pieno l'attività politica fino al giorno della prematura scomparsa».
* * *
«I militi fascisti, in parte feriti e in parte agonizzanti per colpi ricevuti durante il tragitto, furono scaricati, introdotti in due diversi cameroni e perquisiti sotto un infuriare di mazzate che tinse di sangue sino ad altezza d'uomo le pareti delle sale.
Alleggeriti di quanto avevano indosso i prigionieri vennero divisi in due gruppi. Un gruppo fu fucilato. Un altro fu schiacciato sotto le ruote di due autocarri che si muovevano nel piazzale dell'Ospedale a guisa di rulli compressori ...».
(Dalla relazione per l'autorizzazione a procedere presentata alla Camera dei Deputati contro gli onorevoli Francesco Moranino e Silvio Ortona).
* * *
Ma non è di ciò che Francesco Moranino, il partigiano "Gemisto", viene chiamato a rispondere. Come si sa i fascisti potevano essere assassinati. Ed infatti la Camera dei Deputati, per questi delitti, non concesse mai l'autorizzazione a procedere contro Gemisto.
Francesco Moranino viene condannato all'ergastolo da un Tribunale della Repubblica italiana per ben altro. Per sette omicidi pluriaggravati: di cinque partigiani non comunisti e delle mogli di due dei trucidati, eliminate per impedire che venissero a sapere la verità sulla sorte dei loro mariti.
* * *
Ad un assassinato, Emanuele Strassera, l'Amministrazione Comunale di Genova, presieduta da un comunista, il senatore Adamoli, nella seduta del 14.2.49, decideva di intitolare una strada di Genova. E ciò perché lo stesso Moranino, non ancora scoperto, aveva provveduto ad esaltare la figura dello Strassera, da lui stesso ferocemente eliminato, come «eroe della libertà».
* * *
Francesco Moranino, il valoroso partigiano Gemisto come scrive "l'Unità", non fa un giorno di carcere. Quando parte l'inchiesta, quando vengono ritrovati i corpi dei trucidati, quando le testimonianze raccolte dalla Magistratura si fanno schiaccianti, il PCI salva dal carcere Moranino, candidandolo e facendolo eleggere alla Camera dei Deputati il 18 aprile 1948.
Ed è solo il 14.XII.51 che la Camera dei Deputati accorda l'autorizzazione a procedere, e il 14.1.52 viene spiccato il mandato di cattura. Ma Moranino non rimane ad attendere i carabinieri. È già a Praga, dove trova lavoro e carica. Il lavoro: presso Radio Praga, a sputare sul suo Paese. La carica: Presidente della Federazione mondiale della gioventù comunista.
* * *
1953: la Corte di Assise di Firenze ha in corso l'istruttoria contro il contumace Moranino. Sono in corso le elezioni politiche. Il PCI, ancora una volta, fa eleggere nelle sue liste il Moranino che torna... trionfalmente, in Italia, protetto dalla immunità.
Per incriminarlo si deve ricominciare tutto da capo. È il 14.XII.1955 quando la Camera, ancora una volta, dà il via, al processo. Ed ecco il rabbioso telegramma di Palmiro Togliatti allo stesso Moranino: «il voto che autorizza il tuo processo e il tuo arresto è un marchio di infamia... Invio a te l'espressione e la solidarietà affettuosa della direzione del partito, di tutti i compagni, di tutti gli Italiani che vivono e combattono nello spirito della lotta che distrusse il fascismo e iniziò il rinnovamento d'Italia».
* * *
E "Gemisto" è di nuovo in Cecoslovacchia. 22.4.1956; la Corte di Assise di Firenze lo condanna all'ergastolo. Il 18.4.1957: la Corte di Assise di Appello conferma, in modo definitivo, la condanna: ergastolo.
«Perfino la scelta degli esecutori dell'eccidio», si legge nella sentenza, «venne fatta tra i più delinquenti e sanguinari della formazione partigiana. Avvenuta la fucilazione. essi si buttarono sulle vittime depredandole dì quanto avevano indosso. Nel percorso di ritorno si fermarono a banchettare in un'osteria, e per l'impresa compiuta ricevettero un premio in denaro».
* * *
È noto il resto. L'elezione di Saragat a Presidente della Repubblica venne contrattata dal PCI. Per i suoi voti il PCI volle la grazia a Moranino. E così fu.
* * *
Ora a dieci anni dalla scomparsa di Moranino, detto Gemisto, "l'Unità" ci ricorda, nei termini su riportati, l'episodio.
La ringraziamo. Fa bene sapere che il PCI, il democratico PCI, non cambia parere su Moranino. Fulgido eroe. Nessuna meraviglia da parte nostra. Questo è il comunismo.
Ma gli altri?
Gli altri (ed è tutto il mondo politico italiano), per cui non passa giorno in cui non riconoscano la legittimazione democratica del PCI, che dicono dinanzi a queste «memorie» rinfrescate dallo stesso PCI? Memorie che hanno la franchezza di dire: attenzione democratici. A stare vicino a noi c'è la fine che fece il partigiano Strassera. Moranino. infatti, assassinava coloro che comunisti non erano. E, dopo averli assassinati, li commemorava.
Agli immemori, ai pavidi, ai vili affidiamo questo spaccato di sanguigna storia patria. Ne tengano conto. Se sono ancora in tempo.

 

29 luglio 1981

Il più volte pupillo sottosegretario di stato Aristide Gunnella, pupillo di Ugo La Malfa, amico di mafiosi, è stato invitato dall'ESPI (Ente Siciliano di Promozione Industriale) di cui era dirigente, a restituire 250 milioni di lire che, illegittimamente, lo stesso Gunnella, durante il mandato parlamentare, ha intascato come stipendio non dovuto. Meraviglia nella notizia, una cosa: come mai l'on. Gunnella non è stato incriminalo per peculato?
Di Gunnella. comunque, i lettori di "Rosso e Nero" conoscono tutto sulle sue non certo pulite avventure. Ciò che gli sta accadendo oggi non è una novità.
* * *
C'è però, sullo stesso fronte, la notizia che l'ESPl, oltre ad intimare a Gunnella la restituzione dei soldi illegittimamente percepiti, lo fa anche nei riguardi di Mario Barcellona del PCI, ex-deputato presso l'Assemblea Regionale Siciliana. Anche Barcellona, come Gunnella, percepiva doppio stipendio, uno dei quali illegittimamente.
L'episodio conferma ciò che era venuto alla luce, perfino nell'ultimo Comitato Centrale del PCI, e cioè che anche in Sicilia, la classe politica di vertice comunista, come metodo di... lavoro, poco diversifica da quella della DC e del PRI. Mafiosamente simili.
* * *
Dopo il voto del 21 giugno è stato scritto che in Italia la questione morale non determina nessun sentimenti di ripulsa nell'elettore; al punto che costui viene a premiare ladri, corruttori, peculatori.
A tate proposito un controcorrente de "il Giornale" (12.5.81), scritto a commento delle elezioni francesi, scrive:
«Eppoi hanno il coraggio di dire che il cosiddetto "genio dei popoli" è una balla. I francesi, quando seppero che il loro Presidente aveva intascato i "presenti" di Bokassa. lo protessero dallo scandalo erigendogli intorno un muro di silenzio, e poi lo hanno castigato alle urne. Gli Italiani, in analoghi casi, scatenano baccani d'inferno contro i bustarellari, e poi regolarmente li rieleggono».
Perfetto! Con una annotazione, e cioè che "il Giornale" contribuisce non poco a premiare questi bustarellari.
* * *
«L'avv. Nicola Foschini, che difende la Massa, ha espresso ieri giudizi molto critici sul lavoro della Procura: lo scheletro di Anna Parlato Grimaldi, ha detto, cominciava ad essere ingombrante negli armadi del Palazzo di Giustizia, perché il suo nome finiva con l'essere legato a quello dei ministri Scotti e Gava, gente che conosceva. Da qui la scelta di trovare un colpevole ...».
("Corriere della Sera")
* * *
Che è questa storia, buttata lì senza parere, dal quotidiano milanese? Si tratta del delitto della miliardaria napoletana Anna Parlato Grimaldi, il cui presunto killer sarebbe la giornalista Elena Massa che avrebbe ucciso per gelosia.
Ma che c'entrano nella vicenda i ministri Scotti e Gava? Se ne potrebbe sapere di più?
* * *
Una sera a Palazzo Chigi. È sabato, sono le 21. Esce Spadolini, ancora Presidente incaricato. Trova, ad aspettarlo, un solo giornalista.
- Che ci sei te solo?
- Sì. Presidente, sa è sabato, sono le 21...
- Vai a chiamare gli altri. Ho da fare delle dichiarazioni molto importanti...
Tornano in tre, due giornalisti di agenzia, più D'Amico del "Corriere della Sera".
Contrariato. Spadolini chiede: «ma almeno il registratore ce lo avete?».
No. è la risposta.
Andate a prenderlo.
Tornano, registratore alla mano, e Spadolini si accinge a parlare. Poi. ad un dato momento dice: - Per le Agenzie basta. Ora dirò cose che vanno bene solo per il "Corriere della Sera". Per ciò smettete di registrare.
Ma. Presidente, replicano, siamo tutti giornalisti...
No, sapete, le cose che dirò non sono da Agenzia, non possono essere messe in bocca ad un Presidente... Sono illazioni, sulle quali solo il "Corriere" può creare l'articolo. Anzi, D'Amico, mi senta bene, io il titolo lo farei così.
(Una sera di giugno 1981, da Palazzo Chigi)
* * *
La commissione di inchiesta parlamentare sul Belice ha chiuso i suoi lavori. Le tre relazioni, una di maggioranza e due di minoranza, cioè del PCI e del MSI (On. Guido Lo Porto) sono state consegnate ai due presidenti del Parlamento.
Dopo una discussione protrattasi per molte ore, riluttanti in particolare i socialisti, la Commissione ha deciso: una copia delle relazioni sarà trasmessa al Procuratore Generate della Corte d'Appello di Palermo.
Fatto curioso: uno dei Ministri del tempo (siamo ad undici anni dalla mancata ricostruzione dopo il terremoto del gennaio del '68) sotto accusa è il socialista Lauricella.
Lauricella si appresta ad essere designato a Presidente della Giunta Regionale Siciliana.
Evviva: la moralizzazione pubblica è in atto.

 

5 agosto 1981

Per un affare da un miliardo e mezzo sulla refezione scolastica sono stati condannati il Sindaco e cinque assessori del Comune di Catania. Le pene variano dai tre ai sei mesi di reclusione, più l'interdizione dai pubblici uffici.
Il Sindaco, Salvatore Coco, è l'uomo di fiducia dell'on. Nino Drago leader della DC catanese, premiato con il sottosegretariato alla Pubblica Istruzione con il governo Spadolini. Salvatore Coco, e i cinque assessori gestiscono il Comune di Catania come un'azienda propria. Così scrivono i giornali.
* * *
Come si può constatare non si tratta del Comune di Petralia Sottana ma di Catania, la seconda città siciliana dopo Palermo, mezzo milione di abitanti.
Chi sono gli assessori condannati?
Giuseppe Labisi e Luigi D'Avola del PRI (evviva la moralizzazione pubblica predicata da Spadolini!); Alfio Zappalà del PSI; Giuseppe Inserra e Gaetano D'Emilio della DC. Sono, in breve, i rappresentanti di quelle forze politiche che l'elettorato, appena pochi giorni fa, ha premiato dando loro più voti e più seggi. Che dire?
È triste vedere premiare i ladri. Ma è ancora più triste assistere allo spettacolo di una stampa venduta che scrive che con il voto «centrista» del 21 giugno l'Italia antifascista e repubblicana si è avviata sulla strada della rinascita... morale e politica...
* * *
Infatti sono stati rinchiusi nel carcere di Foggia Antonio lannantuoni e Luigi Genna, entrambi democristiani. Il reato: concussione.
L'arresto, da parte dei Carabinieri, è avvenuto il 24 giugno, tre giorni dopo le elezioni.
Inutile la precisazione: entrambi gli arrestati erano stati premiati il 21 giugno. Con la confermata elezione a consiglieri provinciali di Foggia.
La moralizzazione della vita pubblica è in atto. Peccato però che la facciano i Carabinieri!
* * *
Flaminio Piccoli alla TV: «non abbiamo preso da Sindona undici miliardi; ne abbiamo presi solo due».
* * *
Flaminio Piccoli è il Segretario nazionale della DC.
* * *
«Secondo l'elenco dei contribuenti pubblicato dai giornali, l'on. Aldo Aniasi, ministro della Sanità ed ex sindaco di Milano, avrebbe denunziato un reddito annuo di quattro milioni e mezzo. Ma deve trattarsi di un lapsus. Probabilmente l'on. Aniasi ha fatto confusione tra quello che costa e quello che vale».
("Giornale nuovo")
* * *
«Un lettore, rilevando da un "controcorrente" che l'on. Aldo Aniasi ha denunziato un reddito di 4 milioni e mezzo di lire, ci ha proposto, per integrare le entrate dell'esponente socialista, di indire una sottoscrizione pubblica in ragione di 100 lire a testa. A seguito della pubblicazione della lettera del proponente (che aveva anche inviato cento lire per ogni familiare), siamo alluvionati dalle monetine. E se si tratta di carità, va bene. Ma se si tratta di disprezzo, cari amici lettori, andateci piano: anche di questo ci sono tanti bisognosi».
("Giornale nuovo")
* * *
«Su questo nuovo governo si sono appuntate molte critiche, specie per la scelta degli uomini (ministri e sottosegretari) che lo compongono e che ancora una volta è stata dettata dai partiti unicamente in base ai loro interni giochi di potere e intrallazzi di clan. Tuttavia una finezza a Spadolini è riuscita. Poiché il PSI glielo imponeva, ha confermato Aniasi. Ma affidandogli un ministero quello dei rapporti con le Regioni senza portafoglio». ("Giornale nuovo")
* * *
Fino a questo momento non è dato registrare alcuna reazione da parte del ministro Aldo Aniasi. Che incassatore!
* * *
Con i bronzi di Riace si parla tanto di facce di bronzo. Credete voi che quella di Aldo Aniasi, se esposta, potrebbe sfigurare?
* * *
L'on. Staiti ha presentato una interrogazione parlamentare in relazione all'episodio, davvero curioso (e altamente immorale), per cui Aldo Aniasi, in carica come Ministro della Sanità, si è prestato sul "Corriere della Sera" a fare pubblicità a favore di una lozione per i capelli, arrivando a fare scrivere, sotto la sua immagine, che quella Ditta fabbricante la lozione «lavora all'interno del mare della salute pubblica».
Il Presidente delta Camera, on. Nilde lotti, ha bocciato l'interrogazione con la frase di rito: il Presidente non ammette questa interrogazione.
Poi si è saputo perché. L'interrogazione, fra l'altro, domandava «se la lozione reclamizzata da Aniasi era per la crescita o per la tintura dei capelli». Ora Aldo Aniasi si tinge i capelli. E la Iotti lo sapeva. Di qui il veto.

 

20 agosto 1981

Missili "Cruise", bomba N. Polemiche. Il PCI però non può, al riguardo, impartire lezioni, né di amor patrio, né di amore per la pace.
Mi sono andato a rileggere una vecchia polemica risalente all'aprile del 1959 quando, sempre a proposito di rampe di missili, furono pubblicati dalla stampa, e particolarmente dal "Secolo" (19.4.1959), alcuni documenti che il vertice del PCI, e precisamente la segreteria politica, indirizzava alla propria organizzazione, con carattere di riservatezza e specificando, nell'oggetto, che si trattava della raccolta di dati statistici.
* * *
State a sentire. Il primo documento, in data 17.3.1959, indirizzato a tutti i segretari provinciali, a firma Giuliano Paietta, così recita:
«Si richiama l'attenzione dei responsabili federali su quanto ad essi richiesto con il foglio 159-E dell'8.4.58, avente lo stesso oggetto».
* * *
Documento n. 2. «A tutti i segretari di sezione. A mano. Da non diramare. Necessita precisa, urgente risposta ai quesiti formulati con il Pro - memoria allegato. La richiesta sia inoltre tenuta in evidenza, per i successivi aggiornamenti, altrettanto interessanti e urgenti».
* * *
Terzo documento: «Pro - memoria 8.4.58. Urge conoscere:
1°) L'esatta individuazione delle basi NATO in Italia (aeree, marittime, terrestri), indicando se presidiate da militari USA, di altri Paesi o Italiani (sic! N.d.R.);
2°) La consistenza dei relativi "presidi militari", distinti per nazionalità, armamento, organici, con i nomi dei comandanti;
3°) Le armi (pesanti e leggere) rispettivamente in dotazione e le disponibilità del munizionamento. Per gli aerei e i carri armati precisare anche il tipo e l'impiego;
4°) Le installazioni di rampe fisse per il lancio di missili, le loro caratteristiche, il tipo dei missili da impiegarsi e le disponibilità giacenti. Per i missili interessano anche le attrezzature mobili di lancio, il sistema di trasporto, i reparti ai quali assegnato (cosi nel testo ufficiale! N.d.R.) e il prevedibile impiego».
* * *
Questo nell'anno di grazia 1958-1959. Quando Lagorio afferma, per i "Cruise" a Comiso, che non ne ha potuto parlare prima con le autorità locali perchè glielo impediva il segreto militare, si può dargli torto?
Solo, alle dichiarazioni del ministro della Difesa, c'è da apportare una rettifica. Più che con il segreto militare si tratta di avere a che fare con degli autentici «spioni». Con tessera PCI. E che, ahimè, per volere della DC e soci, si trovano oggi in posti delicati dell'apparato dello Stato.
Che Dio ce la mandi buona!
* * *
Sempre in tema di spie. Il PCI, dopo l'assassinio di Roberto Peci da parte delle BR, ha fatto affiggere, in tutta Italia, un manifesto dal titolo: «Come i nazisti».
Peccato. Per rendere meglio il proprio concetto, il PCI aveva a sua disposizione esperienze più calzanti, addirittura vissute in proprio.
Infatti Francesco Moranino, alias comandante partigiano Gemisto, oltre che assassinare i fascisti, massacrava i partigiani non comunisti. E le loro mogli. Ogni assassinio lo pagava trecento lire. Poi aveva cura di far sapere che gli «assassinati» erano spie. Esattamente come le BR nei riguardi di Roberto Peci.
Solo che il PCI il pluriomicida Francesco Moranino lo ha designato sottosegretario di Stato alla Difesa nel 3° governo De Gasperi, lo ha fatto eleggere più volte deputato e se ne è servito, come merce di scambio, per fare eleggere presidente della Repubblica Beppino Saragat.
A tutto Questo le BR non ci sono (ancora) arrivate.

 

23 agosto 1981

Assistiamo ad un'orgia di memoriali. Stampa, televisione, editoria, giornali ne sono pieni. I brigatisti, pentiti o no, sono oggetto, con i loro scritti, delle analisi più minute, più sofisticate. Le loro introspezioni sono passate al microscopio del sociologo, del politologo, del saggista. Anche la medicina ha la sua parte.
Dentro queste introspezioni si trovano di tutto, fuorchè un briciolo di umanità. Parole, parole e ancora parole. Aggrovigliate. Contorte. Tetre.
Sono di una «generazione» che è cresciuta, si è educata, si è formata durante l'antifascismo. E di un antifascismo trionfale perchè non ha avuto rivali, non ha avuto interlocutori. Ha occupato tutto: scuola, università, editoria, giornali, cinema, teatro, televisione. Ha dettato, prepotentemente, la sua legge, con una possanza e una protervia che nessun dittatore italico ha mai posseduto.
Ed ecco i frutti: l'ultimo, il memoriale di Roberto Peci, quello del fratello Fabrizio e i comunicati (a commento) delle BR. E poi la saggistica degli intenditori: Bocca, Eco, Alberoni, Biagi, Scalfari.
Conclusione: il cadavere (ambulante) di Roberto Peci, straziato di colpi. In un campo. Vicino alla Capitale del cattolicesimo. In mezzo ai rifiuti.
Civiltà 1981, made in Italy. Il marchio di fabbrica non è solo BR. E della «scuola», di quella scuola, gestita per oltre trenta anni da dei... cattolici, che hanno... plasmalo l'Italia 1981.
* * *
Torniamo trentasette anni addietro. È il 1944. Infuria la guerra mondiale e la guerra civile. Il dott. Corrado Rocchi, direttore di "Brescia repubblicana", invia al Comando unico partigiani, a mezzo del signor Italo Lanzi, podestà di Longhirano. la seguente lettera. A viso aperto. E con tanto di firma. Ascoltate:
«La sera del I° corrente, il mio unico figlio Ottaviano, ventiduenne, è stato assassinato da elementi, mi si dice, incontrollati della 47ª brigata Garibaldi, a Scurano, dopo sedici giorni dalla sua cattura come ostaggio. Era colpevole di possedere la tessera e la fede di fascista repubblicana e di essere figlio di fascista, la cui onestà e dirittura privata e politica è nota nei campi avversari.
«Mi si assicura che in riconoscimento del delitto voi avreste deciso l'arresto e il giudizio del mandante e degli esecutori: ed io ho creduto a questa versione perché da fonte autorizzata mi risulta che il mio Ottaviano era compreso nell'elenco degli ostaggi che avrebbero dovuto essere scambiati e l'assassinio avvenne a vostra insaputa.
«Stando così le cose, come chiederò al Duce che la sacra memoria di mio figlio sia onorata dalla vita da concedersi a un partigiano condannato a morte, chiedo a voi che al mandante e agli esecutori dell'assassinio sia concesso lo stesso perdono che, in nome di Cristo, ha loro concesso il mio cuore battuto.
«Quando la nostra Patria si ritroverà nell'unione e nella concordia, il martirio di Ottaviano Rocchi e il dolore cristiano della sua famiglia, saranno una piccola ma luminosa pietra spirituale portata all'edificio della ricostruzione».
Firmato: Dott. Corrado Rocchi, direttore di "Brescia Repubblicana"».

In data «Parma. 15.1.1945», il commissario politico Mauri del Corpo Volontari della libertà, altrettanto a viso aperto, così risponde:
«Sig. Dott. Corrado Rocchi
Rispondo alla sua del 14 dicembre scorso.
«Inutile confermarle che, se non fosse pervenuta la nobile espressione del suo perdono, da noi altamente apprezzato, gli esecutori sarebbero stati esemplarmente puniti.
«Ora che la salma del suo Ottaviano è stata restituita alla pace eterna ed all'affetto dei suoi familiari, non ci resta che auspicare la fine prossima della tragedia che strazia la nostra povera grande Italia.
«Siamo uomini di parte. Viviamo intensamente la nostra passione, in buona fede e con sprezzo della vita. Nella tormenta rossa del nostro sangue migliore, nelle tenebre che oscurano i secoli di Dante, del Rinascimento, del nostro Risorgimento, una voce chiama inascoltata, una luce preme invano. Fino a quando?
«Ho riferito gli estremi del nostro colloquio che neppure lei dimenticherà ed ho concluso: fra il comportamento del dott. Rocchi il quale, subito dopo aver appreso la morte del figlio, si è recato a ricevere da buon cristiano la comunione, ed ha scritto due lettere: una al C.U. invocando il perdono, e un'altra al Duce chiedendo la grazia di uno dei nostri condannati a morte, ed il comportamento del C.U. che, dopo la tragedia di Bosco di Corniglio. in occasione della quale due dei suoi migliori sono stati arsi vivi, ha resistito a qualsiasi conato di vendetta ed ha rinnovato disposizioni per il trattamento umano dei prigionieri, c'è un filo conduttore comune.
«Quando la tragedia storica che viviamo e di cui siamo strumenti sarà superata nel tempo e la guerra di liberazione vinta per sempre bisognerà pure che il filo tenue della solidarietà nazionale venga ripreso da mani delicate e pure per tessere la nuova nostra vita fra tutti gli italiani di buona volontà.
Firmato: "Il Comm. Politico Mauri"».
* * *
Caro lettore, confronta i tempi, confronta gli uomini, confronta il comportamento e traine l'insegnamento giusto.
Dicembre 1944: gli uni, i fascisti: gli altri, i partigiani, si fronteggiano. Come la guerra vuole. Duramente. Si è scelto, e si deve andare fino in fondo. Costi quel che costi. Eppure tanto gli uni, quanto gli altri, sono capaci di gesti di alta civiltà e umanità.
Facci caso: quei fascisti e quei partigiani erano cresciuti ed erano stati educati nel regime mussoliniano.
Agosto 1981: nessuna guerra insanguina l'Europa. C'è la pace. Benessere e consumismo: è la nuova «religione». Il dio progresso è sugli altari.
Eppure si uccide con una ferocia inaudita. A visiera abbassata, con odio irriducibile
"l'Unità" ha scritto: sono nati i mostri.
Da quale «ventre» se Mussolini non c'è più?

 

27 agosto 1981

In questo periodo estivo la TV nazionale e quelle private ci hanno inondato di telefilms rievocativi dell'ultima guerra, in cui animosi soldati americani e partigiani, dalle varie nazionalità, riescono a mettere nel sacco intere divisioni germaniche.
Cose veramente portentose. I soldati tedeschi catturati, uccisi, sberleffati.
Resta un mistero: ma come fecero i tedeschi a tenere testa, per sei anni, a tutto il mondo e contro eserciti dieci volte superiori?
Qualcosa non torna in queste sequenze cinematografiche.
Chi è che bara?
* * *
La corte di Assise di Palmi, chiamata a giudicare la strage mafiosa di Razzà avvenuta il primo aprile 1977, nel corso della quale furono assassinate quattro persone, fra cui due carabinieri, ha condannato, fra gli altri, a 22 anni di reclusione Domenico D'Agostino e a otto anni Enzo Cafari.
"l'Unità" ha ignorato la notizia. Il "Corriere della Sera" che de "l'Unità" è la brutta copia non ha dedicato un rigo di commento al fatto che Domenico D'Agostino, condannato a 22 anni, era sindaco di Canolo. Per conto del partito dalle «mani pulite»: il PCI.
Tacendo su D'Agostino, il foglio milanese già organo della P2, redatto da dei comunisti, ha dovuto altrettanto tacere sulle... caratteristiche dell'altro condannato: Enzo Cafari.
Chi è costui?
È il segretario particolare del senatore democristiano Vincelli Sebastiano, già sottosegretario di Stato, dirigente nazionale della DC.
La moralizzazione delta vita pubblica continua.
* * *
Negli elenchi della P2 figurano Giovanni Guidi e Alessandro Alessandrini, rispettivamente presidente e amministratore delegato del Banco di Roma,
Vi siete chiesti i motivi perché il direttore di "Repubblica", Eugenio Scalfari, mentre ha fatto l'ira di Dio su altri nominativi, si è ben guardato dal portare sul proscenio dello scandalo sia il Guidi, sia l'Alessandrini?
Presto detto: perché i due eminentissimi personaggi del Banco di Roma si sono prestati, alla vigilia dello scandalo della P2, perché a "Repubblica" fossero concessi, su due piedi, dieci miliardi di lire di finanziamento. Risparmiati dalle polemiche con i soldi dei,.. risparmiatori.
Scalfari, ciò è noto a tutti, si batte per la moralizzazione della vita pubblica.
* * *
Sarebbe interessante sapere quali criteri, alla luce delle recenti e drastiche posizioni del ministro Andreatta, ha seguito il Banco di Roma, banca irizzata, nel portare il fido di "Repubblica" a 10 miliardi, e quale sia stato, al riguardo, il parere della Banca d'Italia e dell'IRI.
* * *
Un particolare: è vero, o no, che proprio all'inizio delle polemiche sulla P2, il gruppo editoriale Scalfari-Caracciolo, si è presentato al Banco Ambrosiano, ha domandato di Roberto Calvi e, ricevuto, ha chiesto una manciata di miliardi, e si è sentito dire di no?
Ed è per questo che le pagine di "Repubblica" sono diventate roventi per Roberto Calvi, al punto che, con la solerte collaborazione di «settori» del Tribunale di Milano, si è provocato il «casino» che tutti sanno?
* * *
Oppure nell'episodio, c'è qualcosa di più? E cioè che, oltre far pagare a Calvi il mancato sborso, Eugenio Scalfari, amico prediletto del PCI, puntava a colpire Bettino Craxi per le sue ricorrenti polemiche con Berlinguer?
Infatti, sotto ferragosto, "Panorama" (17.8) ha pubblicato la notizia, non certo trascurabile anche se buttata in un pastone indefinito, per cui il sostituto procuratore della Repubblica di Milano Guido Viola, venuto a conoscenza, per ragioni del suo ufficio, delle carte trovate nella perquisizione in casa Gelli, si è recato a trovare il sindaco di Milano Carlo Tognoli, avvertendolo che bisognava mettere da parte Craxi, altrimenti quelle carte avrebbero colpito soprattutto il PSI.
La notizia ha sollevato qualche polemica, poi tutto è rientrato. Il caldo ha fatto il resto. Silenzio.
Episodio dimenticato? Ci pare enorme. Il Consiglio superiore della Magistratura continua ad essere in ferie?
* * *
"l'Unità" scrive: «Di nuovo oscure manovre. I radicali tornano nelle carceri per trattare con le BR. Boato ha parlato con i brigatisti detenuti a Fossombrone e si fa portavoce delle loro richieste».
Perché tanta meraviglia? Boato è sempre stato il portavoce delle BR.
Con mandato parlamentare.

 

29 agosto 1981

Pietro Sette, presidente dell'IRI. ha visto la sua indennità salire da 100 milioni l'anno a 120. Lo stesso per Alberto Grandi, presidente dell'ENI. Decorrenza: 1 gennaio 1981.
Pietro Armani, professore universitario (ma quando trova il tempo di fare lezioni ed esami?), repubblicano, vice presidente dell'IRI, sarà compensato con 60 milioni l'anno. Anche i revisori dei conti dell'ENEL (si riuniscono una volta l'anno per firmare una relazione elaborata da altri) hanno visto la propria indennità aumentare considerevolmente. Da 22 milioni l'anno a 44.
Fra i premiati (ed è tutto un programma) un certo Raffaele Delfino.
Chi è il padrino: Andreotti o Bisaglia?
* * *
Calogero Mannino, nuovo ministro della Marina Mercantile nel governo Spadolini, è stato indicato, con riferimenti circostanziali, in un articolo de "l'Espresso" (19.7.81). come l'uomo dei Salvo, i sovrani indiscussi delle esattorie in Sicilia, e non solo in Sicilia.
Un particolare. Il 7 luglio 1975 Corteo Luigi, suocero di Salvo, viene rapito. Da allora non se ne è saputo più nulla. Ma intorno alla sua scomparsa non si è smesso di raccattare morti. Assassinati. Sono decine e decine.
Spadolini ha chiesto nei riguardi della vicenda P2 pulizia. E ha fatto bene.
Ma nei riguardi di Mannino, che fa il presidente del Consiglio dei Ministri?
Se, come scrive "l'Espresso", Mannino altro non è, nel Governo, che la lunga mano dei «cugini Salvo», ciò significa che la mafia è dentro Palazzo Chigi.
Se ne è reso conto il presidente dei Consiglio?
* * *
Capita proprio a proposito. Al presidente dei Consiglio dei Ministri dedichiamo questo brano del «Comitato» che la Commissione di inchiesta sul fenomeno delta mafia in Sicilia, mise su per accertare se le esattorie comunali nell'Isola rappresentavano, o no, manifestazione di attività mafiosa.
State a sentire:
«Il gioco al rialzo degli aggi, dei rimborsi delle spese e del monte delle tolleranze germina fa collusione tra l'uomo politico e l'appaltatore, producendo un danno alla collettività che va ben oltre la semplice perdita economica provocata dalla malversazione, perché crea un trauma nel rapporto fiduciario tra cittadino e Stato.
Inevitabilmente l'equilibrio su cui poggia la malversazione necessita del legame "appaltatore - amministratore - politica".
Sussistono ovviamente addentellati tra te due attività illecite, abuso di potere e violenza: secondo la voce corrente il collegamento avverrebbe ad opera di Antonino Salvo, genero di Luigi Corteo e appartenente a famiglia nota per la prepotenza mafiosa.
Il padre: sarebbe stato il capo della mafia di Salemi prima che tale posizione fosse acquisita da Salvatore Zizza, sicché il prestigio di Antonio Salvo sarebbe notevolmente aumentato durante rinvio a soggiorno obbligato dello Zizzo. Antonino è inoltre il cugino di Ignazio Salvo, ritenuto implicato nel traffico di stupefacenti unitamente ai noti Angelo La Barbera, Rosario Mancino. Calcedonio Di Pisa e Giuseppe Mangiapane.
Sotto questo aspetto dunque, il potere economico raggiunto dal Cambria, dal Salvo e dal Corteo non sarebbe che una manifestazione di attività mafiosa nel campo economico.
È un settore che deve essere costantemente tenuto sotto osservazione e con molto impegno perché dispone di ingenti quantitativi di denaro liquido di cui la mafia ha bisogno di disporre per te attività più illecite.
Inoltre il gioco dei grandi interessi che il settore rappresenta potrebbe provocare una rottura dell'equilibrio attuale e scatenare la lotta cruenta.
È quindi urgente una energica azione preventiva mettendo mano a provvedimenti di risanamento e di riforma del settore».
* * *
L'appunto della Commissione antimafia, su riportato, è del 1964. È stato profetico. Infatti, con il rapimento del Corteo, gli equilibri sono stati rotti. E non si fa altro che raccattare morti.
"l'Espresso" scrive, a chiare lettere, che dentro il Governo della Repubblica italiana c'è il rappresentante d'affari della famiglia Salvo. Ufficialmente: la mafia a Palazzo Chigi.
Onorevole presidente del Consiglio: la vicenda della P2, dinanzi all'episodio ora descritto, diventa uno scherzo.
Che fa, senatore Spadolini? Fa finta di nulla?
Staremo a vedere.

 

6 settembre 1981

I«È nato il 25 novembre 1902 a San Giorgio di Piano (Bologna) e risiede a Milano, via Palermo 1. Dottore in legge e giornalista. È stato direttore del quotidiano democristiano "il Popolo", edizione di Milano e di Roma. Durante la lotta clandestina è direttore dello stesso giornale. Membro supplente del CLNAI e membro del comitato esecutivo della DC per I'Alta Italia. È rieletto deputato nel 1948 per la circoscrizione di Como-Sondrio-Varese con 29.825 voli preferenziali. È rieletto deputato nel 1953 per la stessa circoscrizione con 32.879 voti. Fa parte della XI commissione: Lavoro».

Così Mario Melloni, meglio conosciuto come Fortebraccio de "l'Unità", descriveva, di suo pugno, trentasette anni fa, la propria vita su "la Navicella", l'annuario parlamentare, anno 1954.
Se ci fate caso la vita, per Mario Melloni, comincia nel 1944, a quarantadue anni con la lotta clandestina.
È un po' poco, anche se Fortebraccio non perde mai l'occasione di ricordarci che, durante il ventennio, mai prese la tessera del PNF, nemmeno quella del Dopolavoro,
Non abbiamo alcuna ragione per non credergli. L'uomo, oltre ad essere un giornalista di vaglia, ci pare esprimere un carattere, cosa davvero insolita per chi si è formato alla scuola della Democrazia Cristiana, madre, come è risaputo, se mai di mediatori, non certo di forti fibre.
Comunque Fortebraccio aveva 22 anni quando il fascismo prese il potere, ne aveva 33 alla guerra di Etiopia e di Spagna, quaranta allo scoppio della 2ª guerra mondiale.
Che ha fatto durante questo periodo?
Fortebraccio, al riguardo, è muto. Si limita a dire: non presi la tessera.
Ma come campò, se la tessera, come affermano gli antifascisti integerrimi, era necessaria per vivere?
Eppure come ha vissuto «in quel periodo» lo deve aver pur scritto se è vero, come è vero, che il questionario che il PCI fa riempire a chi chiede l'iscrizione al partito, è estremamente pignolo al riguardo, arrivando a chiedere se si è stati, per caso, anche Figli della Lupa.
Perché, domanderà il lettore, tutto questo preambolo? Che senso ha? È perfino di cattivo gusto scendere a simili particolari.
* * *
Comprendiamo, ma ne siamo stati costretti. Perché da Ortona c'è giunta la lettera che più sotto riportiamo. È un tantino pungente. Comunque un punto fermo ce I'ha: Mario Melloni, alias Fortebraccio, secondo quella lettera, durante il ventennio mussoliniano, sarebbe stato alle dipendenze di una delle multinazionali più prestigiose del petrolio, la Esso Company e, della Esso Company, sarebbe stato il capo ufficio stampa, tanto da iniziare da lì la professione che lo doveva portare ad essere prima direttore de "il Popolo" democristiano e, attualmente, il «columnist» di spicco del quotidiano comunista. Spesso -non abbiamo nessuna difficoltà a scriverlo- un suo pezzo vale tutta "l'Unità".
Ecco qua questa lettera... Ci sono due modi per Mario Melloni, alias Fortebraccio, di cavarsela. Rispondere, dando i particolari del caso. La vicenda non può non interessare. Tacere, facendo intendere che «ai fascisti» non si replica; modo, spesso elegante, per svignarsela quando non si hanno frecce al proprio arco. Brutto modo però, perché il comportamento saprebbe di «razzismo» e Fortebraccio razzista, certamente, non lo è. E crediamo che non lo voglia diventare nemmeno in questa occasione.
* * *
Ed ecco la lettera:
«Egregio giornalista del "Secolo", notizia autentica che le può servire. Nella borghesissima Via Assarotti di Genova sorge un palazzotto ottocentesco che fu sede della "Standard Oil", diventata poi la Esso Company.
Questa grande società aveva aggiunto un pudico ''Italia" alla sua ragione sociale, ed era la prima ad esporre il tricolore ai balconi e alle finestre. I capi erano «culo e camicia» con le littorie autorità.
C'era anche un ufficio stampa che pubblicava una ricca e, naturalmente, allineata rivista. Sa chi era l'estensore?
Era un dandy dell'epoca, sogno proibito di tante tardone della haute, disputatissimo in tutte le feste di beneficenza e no, e recitava poesie. Aveva labbra tumide, occhioni cerchiati di un nero sfumato (un linguacciuto avvocato di Gavi spergiurava che si faceva lui stesso l'alone, servendosi di un turacciolo che prima bruciava e poi, con un batuffolo di cotone, da vero maestro, sfumava).
Sì, questo campione di coerenza, come lui oggi scrive su "l'Unità", non era poi tanto martoriato dai cattivissimi masnadieri littori se aveva compensi di tutto rispetto e, soprattutto, se era così riverito, tanto da essere amico degli esponenti più noti del fascio di Genova. Cito i nomi che mi vengono alla memoria. Logico che i più vicini al nostro erano i giovani della borghesia: i Parodi, i Piaggio, i Tassari; i comandanti di squadre come Masini, Gabbella, Marchini e poi Mosso, Piuma, Lavarello, Ciurlo, ma quanti altri!
Io ero giovane e avevo cominciato sotto Gabalsar, poi andai alla Somensi, comandata da Pavolini con Defeo.
Ci teneva, il nostro, a farsi vedere con gli esponenti! Dunque il caso mi sembra semplice: Mario Melloni, il Fortebraccio de "l'Unità", perchè di lui si tratta, era antifascista e senza tessera così come ha sempre scritto, ma ciò non gli impediva di passarsela bene, con uno stipendio di tutto rispetto, e ciò significa che la tirannide era ben larga di maniche.
Mario Melloni mi conosceva bene, ma dato che non ero né ricco e fattorino mi mostrava il mento e si... distraeva.
Poi, dopo la guerra, eccolo campione democristiano. Ora è comunista.
lo abito vicino ad Ortona. Sono invalido e missino fervente. La mia pensione non arriva a 127.000 lire al mese. A tanti cretini io canticchio: «Mille lire al mese, che sogno d'or!».
Quanto prende il Mario Melloni al mese dai grandi proletari de "l'Unità"? Se lo dovessi incontrare (malmesso come sono non mi degnerebbe di uno sguardo) vorrei dirgli: «Senti, ex tutti, vogliamo mettere sul tavolo le nostre due paghe: il tuo stipendio e la mia pensione e fare "spartingaia", in genovese dividere? Mi gioco il vestito delle feste che accetta, da ottimo comunista!
Egregio Niccolai, perdoni il mal scritto»
Firmato: Sciattero Adriano fu Michele nativo di Ponte-Decimo, Genova. Domiciliato presso Varatti Serafino, Ortona.

 

8 settembre 1981

Un lettore mi scrive, e cortesemente, mi invita a ricordare il 38° anniversario dell'8 Settembre 1943. Lo faccio, riportando la lettera (sconosciuta ai più) che il Comandante Carlo Fecia dì Cossato, Medaglia d'Oro, leggendario comandante del sommergibile Tazzoli, scrisse alla madre prima di uccidersi.
Carlo Fecia di Cossato aveva obbedito l'8 Settembre 1943 all'ordine di consegnare la nave che comandava agli inglesi. A Malta. Ed ecco la lettera:
«Mamma carissima, quando riceverai questa mia lettera, saranno successi dei fatti gravissimi che ti addoloreranno molto e di cui sarò il diretto responsabile. Non pensare che io abbia commesso quello che ho commesso in un momento di pazzia, senza pensare al dolore che ti procuravo. Da nove mesi ho molto pensato alla tristissima posizione morale in cui mi trovo, in seguito alla resa ignominiosa della marina, a cui mi sono rassegnato solo perché ci è stata presentata come un ordine del re, che ci chiedeva di fare l'enorme sacrificio del nostro onore militare per poter rimanere il baluardo della monarchia al momento della pace. Tu conosci che cosa succede ora in Italia e capisci come siamo stati indegnamente traditi e ci troviamo ad avere commesso un gesto ignobile senza alcun risultato. Da questa triste constatazione me ne è venuta una profonda amarezza, un disgusto per chi ci circonda e, quello che più conta, un profondo disprezzo per me stesso. Da mesi, mamma, rimugino su questi fatti e non riesco a trovare una via d'uscita. uno scopo alla mia vita.
«Da mesi penso ai miei marinai del "Tazzoli" che sono onorevolmente in fondo al mare e penso che il mio posto è con loro.
«Spero, mamma, che mi capirai e che anche nell'immenso dolore che ti darà la notizia della mia fine ingloriosa, saprai capire la nobiltà dei motivi che mi hanno guidato. Tu credi in Dio, ma se c'è un Dio, non è possibile che non apprezzi i miei sentimenti che sono sempre stati puri e la mia rivolta contro la bassezza dell'ora. Per questo, mamma, credo che ci rivedremo un giorno.
«Abbraccia papà e le sorelle e a te, Mamma, tutto il mio affetto profondo e immutato. In questo momento mi sento molto vicino a tutti voi e sono sicuro che non mi condannerete.
Carlo».
* * *
Agosto 1981, 100° anniversario della fondazione dell'Accademia Navale di Livorno. Davanti agli allievi schierati sfila il sommergibile più moderno della Marina della Repubblica italiana. Si chiama: Carlo Fecia di Cossato.
Il confronto, prepotentemente, si pone. Come possono convivere, in un insegnamento perenne di vita, Carlo Fecia di Cossato e «questa» Repubblica?
L'uno esclude l'altra. Ed è l'eroico marinaio ad essere bandiera. Al vento. Di un'Italia che non c'è ancora, ma che ci sarà. Seria, giusta, pulita. Come la sognava Carlo Fecia di Cossato.

 

11 settembre 1981

Questa volta sono di scena i boschi e gli incendi. È stato questo il grande argomento di agosto. Si è cominciato così. "l'Unità" del 13.8.81, con un titolo su cinque colonne, quasi trionfalmente, scrive: «In Toscana l'ombrello aereo salva i boschi dal fuoco. Hercules C130 hanno già compiuto decine di interventi. Il piano antincendi sta dando buoni frutti. Quest'anno meno boschi in fiamme».
Parentesi: che "l'Unità" porti iella?
* * *
È arrivato il disastro. 26.8.81: "l'Unità" titola: «L'Argentario è un deserto di cenere. Danni spaventosi, turisti in fuga».
Il "Corriere della Sera", sempre del 26, fa da spalla. Titola, vistosamente: «L'incendio all'Argentario: la Agnelli ha denunciato un piano terroristico»
* * *
Il 27.8.81, su tutta pagina. "l'Unità": «L'Argentario ferito a morte. La lama di fuoco ha tagliato in due il monte. Tutti accusano: c'è chi ha provocato il disastro. Oltre duemila ettari andati perduti. Lo scandalo dell'unico Hercules a disposizione (vedi cosa scriveva "l'Unità" il 13.8.81 - N.d.R.). Altri gravissimi roghi all'isola d'Elba».
* * *
Il 28.8.81, il "Corriere della Sera", che de "l'Unità" è portavoce, titola: «Divampano le polemiche. Gli interrogativi sulle origini del grande rogo si accostano ai contrasti tra la maggioranza (PRI, PCI, PSI. PSDI) del Sindaco Susanna Agnelli e l'opposizione» (DC e MSI).
* * *
Si arriva al 30.8.81 in un susseguirsi di notizie allarmate sul disastro, di accuse roventi. I giornali ne sono pieni. La televisione segue di pari passo le vicende. «È la speculazione più ignobile che. grazie al fuoco, vuole rendere quei terreni, ormai liberi da boschi, edificatoli».
E "l'Unità" (30.8.81) sotto il titolo: «Sono volontari, hanno avvistato il fuoco ma non piacciono a missini e democristiani». scrive: «Il segretario del Kronos (associazione, cosiddetta ecologica che all'Argentario, spesata dall'Amministrazione comunale, dovrebbe svolgere opera di sorveglianza e avvistamento antincendio - N.d.R.) e con lui i giovani volontari che lo circondano, lamentano le calunnie che gli sono state mosse, e salta fuori una curiosa coincidenza: nel consiglio comunale in cui Susanna Agnelli, sindaco di Monte Argentario, a capo di una Giunta PRI, PCI, PSI, PSDI, presentò le dimissioni per la sfiducia nei suoi confronti mostrata dal suo partito (PRI), che in alcune frange preferirebbe un ritorno alle coperture delle speculazioni edilizie e all'intesa con la DC piuttosto che proseguire sulla strada della collaborazione con i comunisti, un consigliere del MSI, attaccò l'operato della Giunta perché manteneva in ferie gli "inutili" giovani del Kronos ed anzi volò una frase pesante che imputava i volontari antincendio di bruciare loro... Una frase che costerà una denuncia a chi l'ha pronunciata».
Questo "l'Unità" il giorno 30.8.81. Per tutto il giorno anche la televisione mantiene... caldo il... fuoco dei boschi. Poi...
* * *
Poi arriva il 31.8.81. "la Nazione" titola: «Albergatore di Patresi (Marciana, Isola d'Elba) è stato arrestato col figlio e altri due complici. Cavaliere al merito della Repubblica dal fiammifero facile bruciava l'Elba per fare quattrini. È Bruno Anselmi, 52 anni, titolare di una attività turistica e dipendente della comunità montana. Ha confessato di avere agito cosi per fare straordinari con le squadre antincendio e per avere lavoro assicurato nel rimboschimento, durante l'inverno».
* * *
Andate a sfogliare i giornali dal primo settembre in poi. I boschi? Dimenticati. Spariti. In Italia non ce ne sono. E gli incendi? E chi li ha mai notati? Fantasie, visioni, allucinazioni. E Susanna Agnelli, le sue roventi accuse? Mai ascoltate.
Ma che è accaduto?
* * *
E accaduto che il cavaliere al merito della Repubblica Bruno Anselmi, dipendente della Comunità Montana pur essendo albergatore, arrestato per avere «ordinato» gli incendi, onde guadagnare di estate (squadre antincendio) e di inverno (squadre per il rimboschimento), è iscritto al PCI, di cui è stato candidato. Gli altri tre della squadra «incendia e spegni», anche essi comunisti.
La notizia ha... spento tutto. Soprattutto gli ardori moralizzatori de "l'Unità", del "Corriere della Sera" e di tutta la stampa borghese e proletaria.
La velina è arrivata ed è perentoria: da oggi... fuochi, nulla! E nell'eseguire il silenzio l'ultima cialtronata. È opera de «il Tirreno» (Scalfari-Caracciolo). Poveretti, ha scritto, nello spegnere gli incendi prendevano un milione e mezzo al mese, poi dovevano pensare al duro inverno. E come facevano a vivere se non creavano il pretesto del rimboschimento? - No, la colpa non è loro, è del malessere sociale. È lui il vero colpevole.
Spunta la sociologia. Si fratta di comunisti.
Ma vi immaginate voi che sarebbe accaduto se quei quattro fossero stati missini?
Sì, sono dei cialtroni. Autentici cialtroni.

 

13 settembre 1981

Ascoltata alla radio (GR 1, ore 12.45):
«Ma come. leggi il "Corriere della Sera"?! È il giornale delle trame di potere, di Rizzoli, di Calvi, addirittura l'organo delta P2!»
«Vedi, in verità, io il "Corriere della Sera" non lo leggo ...».
«Ma, allora, perché fa bella mostra di sé nelle tue mani?».
«È che lo prendo perché cosi vuole mia moglie!».
«Ma, allora, marito da due soldi, non sei capace di spiegare alla tua consorte da quale giornale tenta di informarsi!».
«Ma mia moglie non lo legge il "Corriere" ...».
«E che se ne fa, allora, del "Corriere della Sera"?».
«Dice che quando pulisce la casa, specie la toilette, è un giornale fantastico perché trattiene lo sporco, meglio di ogni detersivo!».
* * *
In ordine alla legge 27.4.81 n° 190, dal titolo «Contributo a carico dello Stato per il sostegno delle locali attività di promozione sociale», sono stati distribuiti, fra gli altri, anche i seguenti contributi:
400.000.000 all'ANPI (Associazione nazionale partigiani italiani, associazione del PCI, presidente il senatore Amerigo Boldrini. già centurione della MVSN);
300.000.000 alla FIVL (Federazione Italiana volontari della libertà, della DC, presidente il senatore Paolo Emilio Taviani, già apologeta di Mussolini e del fascismo);
100.000.000 alla FIAP (Federazione italiana associazione partigiani, fondatore il senatore Ferruccio Parri, più volte salvato da Benito Mussolini da morte sicura).
Particolare da non trascurare: alla Associazione nazionale combattenti Forze Armate della guerra di liberazione non è andata nemmeno una lira.
Ma l'Esercito italiano, impegnato nelle operazioni dopo l'8 settembre al fianco degli alleati, non ha avuto più di 70.000 morti?
Già, questi morti non contano. Erano soldati, non antifascisti. La Repubblica è obbligata a depennarli.
* * *
Le indennità dei 4.000 (quattromila) consiglieri delle Unità sanitarie locali in Lombardia, che variano dalle 300.000 alle 800.000 mensili, comportano una spesa complessiva di 80 miliardi al mese.
Non diverso il discorso nelle altre regioni. Come siano assegnati i posti di consigliere; chi siano gli eletti; quali i loro compiti, è presto detto: una generale lottizzazione fra i partiti; gente spesso incompetente; chiacchierano senza fare nulla, quando riescono a realizzare qualcosa sono danni irreparabili; come comportamento: il partito avanti tutto.
Le indennità per questi consiglieri si trovano. Ma gli ospedali mancano delle attrezzature necessarie come il TAC, le camere per dialisi, reparti per la rianimazione, laboratori di analisi che siano tali.
Le riforme la classe politica le concepisce alla rovescia. Privilegia il partitico, mette nei guai il malato.
Succede per la sanità e per tutto il resto.
Andreatta: taglieremo le spese pubbliche improduttive. Perché non comincia a recuperare questi miliardi elargiti dai partiti ai loro faccendieri?
* * *
A Forte dei Marmi c'è buriana. La giuria per rassegnazione dell'IX Premio Forte dei Marmi per la satira politica, avrebbe assegnato la vittoria ad Indro Montanelli.
I comunisti (Forte dei Marmi è amministrata da una giunta PCI-PSI) non accettano. L'assessore alla Cultura (Maria Luisa Stolfi, comunista) sentenzia:
«La prosa di Montanelli non è mai satira, è un ignobile polpettone ...».
Si vedrà come andrà a finire.
* * *
Il brano, che pare abbia mandato in bestia i comunisti di Forte dei Marmi, sarebbe questo: «Guarda le facce dei partigiani. C'è scritto il programma politico del nuovo regime. Le rivoluzioni, in questo paese, cominciano sempre cosi, in piazza e finiscono sempre allo stesso modo: a tavola!».
* * *
Questo pezzo, Montanelli lo ha scritto nel settembre 1957, ventiquattro anni fa. È stato davvero profetico. Manca un ingrediente per caratterizzare i nostri tempi: il sangue.
Tavola e sangue. Ora ci siamo. Perfetto.

 

17 settembre 1981

«Quale consiglio darebbe ai suoi colleghi di governo più giovani?
Gaspari: "Primo non rubare ..."
(Remo Gaspari, 60 anni, vicesegretario della DC per alcuni anni, ora Ministro delle Poste).
("Gente", 7/8/81)
* * *
«Il progetto del Sangro è soprattutto un grosso affare di sottogoverno. Già è stato detto che Schanzer (petroliere, legato a Paul Getty e Monti - N.d.R.) gode dell'alta protezione del ras democristiano della zona, l'ex ministro Remo Gaspari, quello per intenderci che aveva proposto di risolvere il problema della libertà di stampa dividendo i giornali in base alla consistenza elettorale dei vari partiti.
Si è anche scritto che fra i risvolti non secondari dell'operazione in val di Sangro ci sarebbe una colossale speculazione immobiliare relativa a qualche centinaio di ettari ...».
(«Corriere della Sera", 25/5/1976)
* * *
«A Pietro Longo gli va riconosciuta, senza ironia, molta abilità: è a capo di una specie di Armata Brancaleone (PSDI), in perenne marcia alla conquista di clienti. Per essere forti han bisogno di stare al governo; l'opposizione li uccide.
Debbono distribuire favori: ideali sono le Poste, le Finanze, i Trasporti. Quando non si può concedere, si può minacciare.
È vero che anche i concorrenti non sono degli angioletti, che la croce della DC l'hanno dovuta portare in tanti, e come lottizzatori i compagni del PSI sono stanchi di dover recitare la seconda parte, ma il sole che sorge è un marchio della più grande agenzia di collocamento nazionale. È la Gabetti della supplica: affitta e vende»
(Enzo Biagi, "Panorama", 17/8/81)
* * *
«Desidero solo dire che il caso della P2 ha toccato solo marginalmente alcuni uomini della DC».
(Flaminio Piccoli, "il Popolo", 1/8/81)
Ci assicurano che Flaminio Piccoli è completamente privo di senso dell'umorismo.
* * *
L'on. Giacomo Mancini è in fase calante. Precipita. Gli si spezzano i nervi. Così come è accaduto nella riunione dell'Inquirente, quando, per la vicenda delle aste truccate dell'ANAS, si è trovato davanti, quale membro della commissione, l'onorevole Franchi.
Ed ha perso le staffe. Cosa per lui davvero insolita. Si invecchia on. Mancini.
Tanto da apparire patetico se è vero, come è vero, che tutto poteva escogitare per non rispondere a Franchi, eccetto una cosa: sollevare la questione morale.
«Io non risponderò alle sue domande!», ha detto rivolto a Franchi, accompagnando questa affermazione con una filippica contro il MSI-DN.
* * *
No, onorevole Mancini, questo non gli è concesso. È impudenza. Potremmo scrivere un volume sulle vicende che hanno fatto di Giacomo Mancini il prototipo del politico cinico, corrotto e corruttore. L'ultima, recentissima, quella con il giornalista Enzo Biagi: una querela avventata e presentata sul terreno che per Mancini è terra bruciata: le aste truccate dell'ANAS. Ne è uscito con le ossa rotte.
"la Repubblica", non il "Secolo", ha titolato: «Intervista con Enzo Biagi, assolto nel processo contro il parlamentare del PSI. E così, dice Biagi, ho dimostrato che Mancini preferisce non parlare dell'ANAS».
Ieri Biagi, oggi Franchi. E sempre... ANAS. Silenzio. Acqua in bocca. E sempre più a fondo.
* * *
Enrico Mattei, in un fondo de "la Nazione", sotto il titolo «I nodi al pettine» (18/5/69) scriveva 12 anni fa:
«In tutto questo gioca la scatenata ambizione personale di un uomo, il Ministro dei Lavori Pubblici Mancini, il cui temperamento spregiudicato si è rivelato, con stupore di molti suoi amici ed estimatori, quello di un vero gangster della politica».
* * *
«Gangster della politica». Così, dodici anni fa, uno dei giornalisti più noti della Repubblica italiana, qualificava Giacomo Mancini.
In questi dodici anni che ci separano dal 1969 il parlamentare cosentino non ha fatto nulla per scrollarsi di dosso quella rovente qualifica. Anzi. Ha fatto di tutto per confermarla.
Chi è causa del suo mal, pianga se stesso.

 

20 settembre 1981

È morto Eugenio Montale. Grande poeta. I giornali sono colmi di elogi. Caramellosi, scriverebbe Longanesi. Troppo. A Montale vivo non sarebbero piaciuti.
Del Poeta vogliamo ricordare un episodio di alcuni anni fa, completamente dimenticato dai più.
Fu lui a dare il via ad una dura polemica fra Giorgio Amendola e Leonardo Sciascia. Il terrorismo uccideva come non mai. Montale sul "Corriere della Sera" del 5 maggio 1977 aveva scritto che lo Stato era stato sconfitto, che la sconfitta veniva da lontano e che i mass media come la televisione fanno una continua apologia di reato distruggendo tutti i valori tradizionali.
* * *
A Eugenio Montale fece eco Leonardo Sciascia scrivendo, sempre sul "Corriere della Sera" (12.5.77) che lui, come cittadino «era assolutamente indisponibile a correre qualsiasi rischio per la sopravvivenza di questo regime».
Al che Giorgio Amendola, su "l'Unità" del 12 giugno 1977, replicava, con un duro attacco agli intellettuali, scrivendo:
«Speravo che dopo la Resistenza il vecchio costume del doppio gioco (chiamiamolo in termini più brutali e meno dotti di nicodemismo) fosse scomparso, invece... Questo è disfattismo, è l'antico vizio italico del doppio gioco, fiorentissimo durante il ventennio, specie fra gli intellettuali, per cui si rendeva omaggio al regime fascista riservando alla propria esclusiva coscienza le intime credenze di libertà».
Amendola, nel nicodemismo, comprendeva anche Eugenio Montale? Anche la sua poesia «ermetica», in cui (a detta dei più) si era rifugiato per combattere il fascismo?
* * *
«Ma noi dobbiamo ricordare oggi che la parte, il contributo di Di Giulio, comunista, hanno segno più vasto, più profondo. Bisogna muovere da lontano. Dalla scelta che è stata propria -ha avuto ragione a ricordarlo Ingrao su "l'Unità"- di un'intera generazione, quella dei giovani che di fronte al dramma e allo sconvolgimento della guerra, dalla rivolta morale e politica contro il fascismo passarono alla guerra partigiana -come Di Giulio dalla Normale di Pisa ai Monti dell'Amiata- e nella lotta di liberazione ...».
(dall'orazione funebre, in memoria di Di Giulio, di Alessandro Natta - "l'Unità", 31.8.81)
* * *
Per carità, nessuna polemica, che sarebbe fra l'altro di cattivo gusto, nei riguardi della memoria di Fernando Di Giulio, persona che abbiamo conosciuto corretta e umana nei comportamenti e nei pensieri.
Solo una precisazione a Natta che è vivo. E che non deve dire, proprio per il rispetto che si deve alta memoria di chi non è più, cose non vere.
Fernando Di Giulio non proviene dalla Scuola Normale di Pisa. Se Natta, sotto I'etichetta della prestigiosa Scuola pisana, ha voluto coprire il fatto che Di Giulio studiò nel Collegio Mussolini di Scienze Corporative che, come stabile, era, a quei tempi, collocato dinanzi alla Scuola Normale, ricorre ad una ipocrita finzione, finzione che lo stesso Di Giulio non apprezzerebbe.
Del resto dal Collegio Mussolini di Scienze Corporative di Pisa, non solo sono usciti partigiani di... grido, ma ministri della Repubblica italiana, antifascista e resistenziale. Tutti spesati, mantenuti, acculturati dal regime fascista.
* * *
Anche il nome di Ingrao è di troppo nella orazione funebre di Natta. Cosi si va troppo a ruota libera, fidando che ormai, in Italia, tutti abbiamo perduto la memoria storica. No. noi non l'abbiamo perduta.
Infatti parlare, come fa Ingrao, di «rivolta morale dei giovani contro il fascismo difronte al dramma della guerra», è di troppo.
E, per due ragioni. La prima che -come scrisse Benedetto Croce- le iscrizioni all'antifascismo erano chiuse con il 1938. La seconda che di «rivolta morale al fascismo» non può parlare chi fu premiato come «poeta del tempo di Mussolini». Da Galeazzo Ciano, il 18 agosto 1935, anno XIII, in Bagni di Lucca. Con la seguente motivazione:
«La Commissione mentre l'anno scorso rilevava che al disopra della varietà dei valori, ognuno dei componimenti poetici partecipanti al concorso, era veramente impregnato di dodici anni di Fascismo, promessa all'immancabile avvento di quell'arte del tempo di Mussolini destinata ad immortalare la Rivoluzione fascista nei secoli, constata che i componimenti premiati quest'anno sono già degni del tempo nostro, ed i poeti, quasi tutti giovani, sapranno cantare i destini imperiali dell'Italia fascista, chiaramente delineati sull'orizzonte aperto dal Duce»,
Pietro Ingrao era fra questi.

 

23 settembre 1981

«"la Nazione", in tredici puntate, ci ha raccontato la vita e le opere di Licio Gelli. Dalla nascita all'avvento della Repubblica. Fascista, antifascista, camicia nera, amico e collaboratore di partigiani e anarchici. C'è di tutto. Quale la morale?
* * *
È tutta in questo episodio: Licio Gelli, espulso da tutte le scuole del Regno, parte volontario per la Spagna. Ha 17 anni. Torna a Pistoia nel 1939. Da trionfatore? Nemmeno per sogno. «Era quasi alla fame», racconta il quotidiano fiorentino, «quando entra nel GUF di Pistoia, prima come fattorino e poi come dattilografo, i giovani universitari lo compiangono: è stato assunto per pietà».
* * *
«Che fare?». «Qualcuno», scrive "la Nazione", «gli suggerisce di ripartire dal punto in cui si è fermato: la scuola. Così si presenta all'esame come privatista. Ha vinto ben altre battaglie. Ma i meriti conquistati sul campo non valgono a surrogare quelli da conquistare sui libri. Non è una pagella, è una strage. Quattro in storia, geografia e, ironia della sorte, in cultura fascista; tre in latino, due in scienze naturali, a matematica e francese addirittura si ritira. Anche in cultura militare, proprio lui, il legionario, non va oltre una stentata sufficienza. Ancora peggio a settembre: due in latino, quattro in storia, geografia e cultura fascista, si ritira a matematica, prende uno a francese e due in scienze naturali».
* * *
Così "la Nazione" del 23-8-81. La domanda viene spontanea: ma non si è scritto, in lungo e in largo, che durante il fascismo, bastava avere il titolo di volontario di guerra per essere subito sistemati (nei meglio posti) e, se ci si presentava agli esami, si era promossi senza colpo ferire?
La vicenda Licio Gelli sfata questa leggenda. Gelli, malgrado la guerra di Spagna con le camicie nere, è un morto di fame. L'incarico più elevato che raggiunge è quello di fattorino. E quel posto glielo danno per pietà.
* * *
Diverso il discorso quando Licio Gelli, con i lasciapassare partigiani, sbarca sui lidi della democrazia italiana. Qui le cose cambiano. Il «morto di fame» del Ventennio, diventa talmente potente da avere con sé, nella sua banda, ministri, capi-partito, generali, ammiragli, giornalisti di grido, scrittori, cantanti, industriali, finanzieri, banchieri. Il fior fiore della nazione.
Come è potuto accadere? Questo "la Nazione" non lo spiega. È un vero peccato.
* * *
La giuria del «Premio Forte dei Marmi» per la satira politica ha fatto le sue scelte: ha premialo Indro Montanelli per la letteratura e Dario Fo per il teatro. Si temevano contestazioni. Dario Fo aveva detto: «É un pezzo che a Montanelli ne voglio dire due!». Non ci sono state. Anche i comunisti, che avevano inizialmente protestato, hanno applaudito. Culo e camicia. Una bella festa, davvero. Cosi la... satira è stata celebrata.
* * *
Le uniche battute, un po' fuori dell'ordinario, sono state queste: Dario Fo, rivolto alla giuria, ha detto:
«Avete scelto un rospo di un certo colore, grigio se non nero, eppoi per equilibrare il tutto ne avete cercato un altro diciamo sul rosso».
Montanelli, di rimessa, ha replicato: «Sono felice di essere seduto accanto a Dario Fo. Ma solo per cinque minuti. Lui, nel suo abituale egocentrismo, ha dimenticato di considerare che la scelta dei rospi fatta dalla giuria potrebbe essere avvenuta all'inverso».
* * *
Insomma, con queste perifrasi, si sono scambiali vicendevolmente del «fascista». Né Indro Montanelli, né Dario Fo sono fascisti. Longanesi direbbe: sono due paraculi.
* * *
A proposito, me lo dimenticavo. Il Tribunale di Varese, in data 7-3-80. ha sentenziato che «è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani». Infatti, per chi non lo sapesse, Fo, come volontario, era aggregato al Raggruppamento Arditi Paracadutisti di Tradate, unità militare della Repubblica di Mussolini.
Il... grande mimo finora non ha interpretato, sul teatro, la parte che recitò nella vita. Speriamo che lo faccia.
* * *
Ed ora rifacciamoci con una gustosa storiella. Craxi sta in Tunisia a prendere il sole in pareo, quando arriva da Roma la telefonata del fido Martelli: «C'è stato il golpe, il sistema parlamentare è finito, i militari hanno preso tutto il potere».
Craxi riflette un attimo, poi domanda perentorio: «A noi quanti generali spettano?»

 

26 settembre 1981

È di scena l'Istituto della Enciclopedia Treccani, ente pubblico. Ha un fondo di dotazione dello Stato di 12 miliardi di lire ed è sovvenzionato dal Banco di Sicilia, dal Banco di Napoli, dal Monte dei Paschi di Siena, dall'Istituto Nazionale Assicurazioni, dal Poligrafico dello Stato. L'ente, che è prestigioso, è sotto tiro.
* * *
Da una lettera, inviata a tutti i gruppi parlamentari da parte di una dipendente dell'istituto, se ne apprendono di tutti i colori.
Verità? Falsi? Staremo a vedere. L'ente, per il momento, tace. Il governo, interessato da una interrogazione del presidente del Gruppo missino on. Alfredo Pazzaglia, anche. Silenzio su tutta la linea.
Vediamo un po' di catalogare le cose denunciate
* * *
Quasi un miliardo di lire sarebbe stato sottratto dall'istituto ai suoi quasi 200 dipendenti per la mancata corresponsione di indennità previste dai contratti nazionali di lavoro.
Il 30% dei dipendenti dell'ente sarebbero fra loro parenti, il che dà subito ad addivedere con quali criteri si fanno le assunzioni.
Il direttore generale, che è anche presidente della "Domus galineiana" di Pisa, si servirebbe dei soldi e del personale dell'istituto a vantaggio e della "Domus" e della... propria Villa di Fregene.
Si va oltre: la rivista "il Veltro", di proprietà del direttore generale, guarda caso, viene stampata presso la società tipografica che stampa le opere dell'istituto.
Promozioni, scatti, assegni, superpremi, il tutto distribuiti secondo un criterio particolare: i prediletti, i vertici dell'ufficio personale, contabilità, vendite. Le predilette: le mogli dei capi-ufficio
* * *
L'ufficio legale dell'istituto merita un discorso a parte. È divenuto, secondo la denuncia, l'ufficio privato degli avvocati che lo dirigono, i quali, con le opere dell'ente non pagate dai clienti e da questi restituite, impianterebbero, non certo a vantaggio dell'istituto, un proficuo commercio.
Il meccanismo sarebbe questo: alcuni clienti morosi o i loro eredi, venendosi a trovare nella impossibilità di saldare il residuo debito, relativo all'acquisto di opere dell'istituto, pur di non pagare, scrivono all'ufficio legale, dichiarandosi disposti a restituire l'intera opera.
La richiesta viene accolta e se il debito è irrilevante (dalle 60.000 alle 200.000), lo stesso viene saldato dall'ufficio legale a nome del debitore. Di poi si telefona al magazzino facendo presente che l'opera restituita dovrà essere tenuta a disposizione dell'ufficio legale. Pertanto con poche migliaia di lire si viene in possesso di opere di parecchie migliaia di lire.
Che fine fanno queste opere recuperate?
Vanno, per caso, ad abbellire le case di parenti e di amici?
* * *
L'ufficio contabilità. Il capo ufficio, circa tre anni fa, per raggiunti limiti di età, va in pensione e viene sostituito. Formalmente, perché sostanzialmente continua, come consulente a dirigere t'ufficio, dove è ben... protetto. Infatti, in quell'ufficio, l'ex dirigente conta ben nove parenti. Sempre secondo le accuse. Sicché l'istituto (di diritto pubblico) pagherebbe 12 milioni al consulente ex-dirigente e, in contemporanea, l'assegno al proprio dipendente, in carica che, grazie alla situazione, di tutto si occuperebbe, fuorché dell'ufficio.
* * *
Il direttore generale? Ma, perdonate: c'è, esiste un direttore generale presso l'istituto Treccani?
* * *
C'è poi l'acquisto del Palazzo di Montecenci, una operazione di centinaia di milioni, onde riunire in un solo stabile tutti gli uffici dell'istituto sparsi per Roma.
Dopo tre anni dall'acquisto, la maggior parte degli uffici continua a stare dove è sempre stata, pagando regolarmente l'affitto.
In quanto alla contabilità dell'acquisto, c'è chi afferma che il prezzo pagato non è, come si dice, 750.000.000, bensì 1.518.590.231.
Speriamo di avere le delucidazioni del caso. E che siano chiare
* * *
In ultimo, una perla. Con legge n° 207 del 10.5.78, il fondo di dotazione dell'istituto è elevato a 12 miliardi di lire.
Il proponente della legge ha un nome: Giulio Andreotti, presidente del Consiglio dei Ministri.
Quando la legge viene approvata si verifica un fatto curioso: l'Istituto Treccani assume la signora Serena Andreotti, figlia del grande Giulio.
Ma guarda che combinazione...

 

29 settembre 1981

Nessuno ci ha fatto caso, eppure è così. L'organizzatore della "Festa dell'Amicizia" di Trento è stato l'onorevole Franco Evangelisti. Ciò significa che le manifestazioni di Trento, tutte finalizzate al rinnovamento, addirittura alla rifondazione della DC, sono state gestite da colui che è rimasto celebre, in un altrettanto celebre episodio di corruzione, per la frase, da lui stesso messa in bocca a Gaetano Caltagirone: «A Fra', che te serve?». E giù assegni.
* * *
Come si possa rinnovare la DC, innalzando Franco Evangelisti a regista dei dibattiti sulla rifondazione, lo diranno gli esperti e i politologi. Noi rimaniamo alquanto scettici. Non solo, ma abbiamo l'impressione che. così stando le cose, ci sia e per democristiani militanti (che ci credono) e, soprattutto, per gli Italiani tutti, una presa per il bavero dalle proporzioni colossali
* * *
Evangelisti significa Andreotti. Il primo non muove foglia che il secondo non voglia. Ed anche Andreotti, al pari del suo scudiero, ha avuto nella Festa-rifondazione un ruolo primario, addirittura da protagonista. E tutta la stampa è concorde nel dare Andreotti candidato ad operazioni politiche decisive
* * *
Dunque la DC si rinnova con Giulio Andreotti? Non risponderemo facendo la storia delle non pulite vicende in cui l'ex-presidente del Consiglio è dentro fino al collo. Ci basta citare un piccolo particolare, ignoto ai più.
Durante il governo di «solidarietà nazionale» Andreotti, nella sua qualità di capo del governo, è stato costretto, per ben tre volte e per 18 ore complessive, in un'aula giudiziaria
(Catanzaro) nelle scomode vesti di testimone-imputando.
* * *
Non solo, ma la Corte d'Assise di Catanzaro, non credendo alla sua parola, lo ha costretto a 5 ore di confronto con un giornalista.
Il PCI, che faceva parte della maggioranza, non ha fiatato, ha sopportato tutto in silenzio. In quale mai altro paese avrebbe potuto accadere un fatto simile, senza che il capo del governo si dimettesse, o venisse cacciato con ignominia?
* * *
Non basta. Per il caso Kappler, il presidente del Consiglio, sostituisce al ministero della Difesa Lattanzio con Ruffini.
A tale proposito Giulio Andreotti chiede il preventivo benestare a Enrico Berlinguer, benestare che viene dato.
Ora "l'Unità" ha... scoperto che Ruffini aveva collegamenti con i costruttori fratelli Spatola. Sono «coloro» che gestiscono, da bravi mafiosi, la fuga di Michele Sindona.
Evviva. La DC si rinnova. Con Giulio Andreotti.
* * *
Dimenticavamo. L'episodio era sepolto nella nostra memoria ed è rispuntato imperiosamente. I comunisti, amici di Giulio, non lo sanno.
Andreotti, quanto era presidente del Consiglio (1972-1973) ricevette a Palazzo Chigi il direttore generale della Informazione del governo greco. Allora in Grecia governavano i colonnelli.
In quella occasione Giulio Andreotti ebbe, in omaggio una splendida icona.
Che cosa non farebbe Giulio Andreotti per un'opera d'arte?

 

2 ottobre 1981

Quanto è buffa la vita. Chi l'avrebbe mai detto: se il PCI oggi controlla gran parte delle FF.AA., lo deve al SID.
È proprio cosi. I malfamati servizi segreti sono stati il terreno sul quale il PCI ha colto brillanti successi per ciò che riguarda la sua penetrazione nelle Forze Armate.
Ed è proprio grazie al SID che oggi il PCI. non solo elabora, a suo piacimento, le leggi che riguardano l'Esercito, la Marina e l'Aviazione, ma addirittura il suo parere diventa vincolante circa te nomine dei vertici militari.
* * *
Basterebbe, al riguardo, citare il caso del generate Giuseppe Santovito (oggi dimesso per appartenenza alla P2) che, come un recente servizio (14.9.81) di "Panorama" ha dimostrato, è stato nominato capo del SISMI, il nuovo servizio segreto militare, grazie al benestare di due senatori del PCI: Amerigo Boldrini e Ugo Pecchioli.
I due erano soliti incontrarsi con i capi del SID in un appartamento vicino a Piazza Barberini, una sede coperta allestita dal reparto D del SID.
Si incontravano, parlavano, concertavano, concordavano provvedimenti per le FF.AA. La riforma dei servizi è uscita da quei conciliaboli. Lo ha ammesso, candidamente, Amerigo Boldrini, già centurione delta MVSN, ed oggi medaglia d'oro della Resistenza.
* * *
Non solo, ma come accadde con i ministri socialisti nel 1964. all'inizio del centro sinistra, anche i senatori Boldrini e Pecchioli, durante il governo di cosiddetta unità nazionale, sono stati inviati dal SID negli Stati Uniti d'America.
Esattamente il 4 aprile 1977. Viene da ridere a pensarci. Il senatore Ugo Pecchioli, il ministro-ombra degli Interni del PCI. tenere in quei giorni, in cima al grattacielo della "Salomon Brothers", al centro di Wall Street, e davanti ai finanzieri più illustri del capitalismo americano, una virtuosa lezione sulla bontà del comunismo.
* * *
«Bando alle paure infantili», disse Pecchioli, al mondo affaristico statunitense radunato davanti a lui, «i vostri affari potrete farli meglio che altrove in un'Italia comunista e stabile. Non dimenticate. La Costituzione italiana è e sarà di per sé una garanzia per i denari che investirete».
Tutto questo -come le visite alle basi americane- avveniva su benestare dei servizi segreti.
* * *
Non solo: e di quei militari che, all'interno del SID, dovevano poi rivelarsi gli «arnesi» più infidi se, nel tempo, sono sfati prima processati e condannati a Catanzaro e poi sorpresi come facenti parte della banda di Licio Gelli.
Questi, dunque, i protettori di Pecchioli e di Boldrini!
* * *
Gesù, Gesù: abbi pietà di noi. Anche questo dovevamo vedere: Berlinguer che fa il moralista e i senatori del PCI, due colonne portanti del comunismo italiano, manutengoli dei personaggi più chiacchierati del SID.
Reazioni? E la stampa? E la televisione? Nulla. Qualche sussulto. Qualche grido. Poi il silenzio ha coperto tutto. Il PCI non si tocca. Non lo avete ancora capito?

 

4 ottobre 1981

La sinistra, i radicali di ogni tipo, l'impero culturale dell'editoria miliardaria (Agnelli, Mondadori, Rizzoli), in testa "l'Espresso", per anni, hanno, concordemente, costruito una strategia tendente a portare il PCI nell'area del potere, strumentalizzando, fra l'altro, il convegno che, nel maggio del 1965, fu tenuto a Roma, sotto l'egida dell'Istituto Alberto Pollio di studi storici e militari, sulla «guerra rivoluzionaria».
* * *
Tallonando ad uno ad uno i partecipanti a quel convegno, in gran parte giornalisti e uomini politici di destra, la sinistra vi ha costruito, via via, e con un crescendo rossiniano, le storie più terrificanti.
All'ombra di quell'Istituto sarebbero stati ideati complotti contro la democrazia, pensati golpe, eseguite stragi. Il tutto, naturalmente, con la collaborazione dei vertici militari di allora che, sempre per la sinistra, avrebbero sostenuto e finanziato l'Istituto con i fondi del Ministero Difesa.
* * *
Da allora (1965) sono passati 16 anni e il PCI, con la sua marcia attraverso le istituzioni, strada ne ha fatta. Anche nelle FF.AA., se è vero come è vero, che la sua penetrazione, fra gli uomini in divisa, è giunta ad un punto tale che i vertici militari vengono scelti anche con il beneplacito del PCI.
E gli istituti di studi militari non lo irritano più. Anzi. Dà una mano a fondarne di nuovi, naturalmente orientati a sinistra. Cosi come è accaduto con l'ISTRID.
* * *
L'ISTRID, Istituto Studi e Ricerche Difesa, via Adelaide Ristori n° 4 Roma, ha fra i soci fondatori il comunista Aldo D'Alessio, il democristiano Giuseppe Zamberletti, il repubblicano Pasquale Bandiera, il socialista Paolo Bottino Vittorelli, il liberale Aldo Bozzi, il socialproletario Eliseo Milani. Non basta. Sempre in via Adelaide Ristori, n° 4, ha sede la società "EDIF", proprietaria dei bollettino "Informazioni parlamentari Difesa" (IPD), diretta dal signor Angiolo Berti, socialdemocratico, coinvolto nella vicenda dei falsi danni di guerra, e piduista di Licio Gelli.
* * *
C'è qualche cosa di più. La citata società "EDIF", costituita il 15.X.1979, ha come soci fondatori, i signori Francesco Marini e Elios Toschi, il primo grosso dirigente della Oto-Melara e il secondo, già ufficiale di marina, è uno strettissimo collaboratore dell'ammiraglio in pensione Gino Birindelli.
Un bel cacciucco dunque: comunisti, democristiani, socialisti, repubblicani, socialdemocratici, socialproletari, il tutto con abbondanti spruzzate di P2 e altri... scandali di sapore... militare.
* * *
L'ISTRID non si ferma qui. Il ministero della Difesa con una convenzione, si premura di stampare, a sue spese, gli atti dei convegni, gli studi, le ricerche effettuate dall'ISTRID, studi e ricerche che, in gran parte, sono finalizzati a reclamizzare l'attività di un gruppo di industriali che operano nel settore della produzione di armi.
Affari dunque. Non di «missili», ma sempre di oggetti che uccidono. E dentro il PCI (e soci) e molta, molta P2.
* * *
Infatti è accertato che il capo di Stato Maggiore ammiraglio Giovanni Torrisi, il capo dei Servizi segreti generale Giulio Grassini, il capo del SISMI generale Giuseppe Santovito, il direttore generale del ministero Difesa Michele Pizzullo, tutti nell'elenco della Loggia P2, insieme al sottosegretario alla Difesa in carica Bandiera, anch'egli amico di Gelli, partecipavano assiduamente ai dibattiti organizzati dall'ISTRID. Non solo: il citato sottosegretario è attivissimo nel guidare delegazioni dell'ISTRID in visita a complessi industriali del settore bellico e a basi militari.
Non è finita: è accertato che l'ISTRID ha l'accesso a informazioni riservate e si avvale, per i suoi fini... istituzionali, di personale militare.
* * *
Abbiate ora la bontà di confrontare l'attività che un tempo svolgeva l'Istituto Alberto Pollio e quella che tuttora svolge l'ISTRID; e diteci che cosa sarebbe accaduto se l'istituto Pollio, diretto da anticomunisti, si fosse azzardato a compiere la metà delle illegittimità che si permettono di compiere, sotto l'ombrello protettivo del PCI e dei soci dell'arco costituzionale, compresi i socialproletari, i componenti dell'ISTRID.
Si disse allora: sono golpisti.
Si potrebbe dire oggi: sono degli eversori, visti i rapporti, a stretto contatto di gomito, fra i soci dell'ISTRID e P2.
Non vogliamo giungere a tanto. Preferiamo definirli affaristi, o meglio intrallazzatori. Davvero intraprendenti se, per coprirsi parlamentarmente, hanno chiesto l'aiuto dei socialproletari.
* * *
Dimenticavamo: sull'argomento ISTRID giacciono in Parlamento, fin dal giugno 1980, dieci interrogazioni, tutte dirette, per chiarimenti, al ministro della Difesa. Il ministro si guarda bene dal rispondere.

 

8 ottobre 1981

«Lo scandalo, oggi, può essere la nostra speranza, perchè l'Italia si può aggiustare soltanto se, a furia di scandali, si riesce a creare un movimento di rinnovamento morale, importante quanto il rinnovamento politico per salvare la Repubblica. Il punto è questo: speriamo di salvare la Repubblica prima che arrivi l'assuefazione agli scandali»
(Roberto Ciuni direttore de "il Mattino" di Napoli - dal "Corriere della Sera illustrato")
* * *
È evidente. Roberto Ciuni, fedele alla tesi che lo scandalo e la nostra salvezza, e più ce ne i meglio (una furia di scandali) basta che non si arrivi alla assuefazione, era tutto dedito alla bisogna.
Infatti si è saputo «dopo» (l'intervista al "Corriere della Sera illustrato") che Roberto Ciuni, nato a Roma, direttore del rizzoliano (e democristiano) "il Mattino" di Napoli era in possesso della tessera P2 n. 2101, codice E. 1979, data di iscrizione 30-XI-79, gruppo 17, fascicolo 0814, barrato giallo, quote versate per il 1980 L. 100.000, con ricevuta 371 del 30-XI-79, grado 1° (apprendista).
Occorre riconoscere che come «apprendista», strada ne aveva già fatta tanta.
* * *
Sto esaminando, per conto del gruppo parlamentare, le carte riguardanti l'inchiesta parlamentare sullo scandalo del terremoto del Belice. C'è di tutto. Altro che P2. In Parlamento: leggi su misura, ritocchi sapienti per l'abbuffata partitocratica.
I morti sono ancora caldi sotto le macerie e l'ISES (l'Ente rosso dell'abbuffata) già si aggira sui luoghi del disastro. Sente odore di miliardi e si prepara, cooperato dai ministri dei Lavori pubblici, ad essere lui il rastrellatore.
* * *
Così accade. Le prime leggi sul disastro vengono, via via, con abili ritocchi, sapientemente emendate. Sembrano modifiche di poco conto. Spesso è una sola parola, invece distribuiscono miliardi. Il metodo è tipicamente mafioso, anzi peggio, la mafia è una cosa più seria dei partiti politici.
L'ISES, che fino ad allora (1968) era un Istituto dimenticato, diventa l'arbitro della ricostruzione. Girandole di miliardi, tutto passa per le sue mani: appalti, proroghe, modifiche, revisioni, prezzi, sanatorie.
Abbuffata incredibile.
* * *
I progetti sono approvati prima delle indagini geologiche, sicchè gli abitati si ricostruiscono su terreni inadatti, friabili, addirittura franosi; con il doppio, triplo della spesa. Spesso cinque volte di più. Quando, straordinariamente, I'esame geologico precede il progetto, non se ne tiene alcun conto. Si costruisce sul franoso.
È incredibile: «La scelta delle aree per la ricostruzione viene fatta su "impressione" anziché su serie e documentate indagini». Sta scritto nelle carte dei consulenti della Commissione di inchiesta.
Lavori che dovevano essere consegnati in un anno, dopo cinque anni, sono ancora da terminare. I responsabili di alcune ditte appaltatrici hanno lugubri precedenti penali.
* * *
Non è finita. Vi sono ditte appaltatrici che ottengono a trattativa privata altri lavori per centinaia di milioni, spesso miliardi, e nemmeno allo stesso prezzo e condizioni dell'appalto precedente, ma con l'annullamento del ribasso e l'aumento dei prezzi.
Le varie direzioni dei lavori, di emanazione ISES, concedono proroghe, stipulazione di atti aggiuntivi favorevoli alle imprese, sospensione dei lavori non giustificati. E il contribuente paga. E i terremotati, con i morti sotterrati, nel fredda umidità, senza i servizi essenziali.
* * *
Quando è stato chiesto alla Guardia di Finanza di indagare sulle Imprese, che avevano partecipato all'abbuffata della Valle del Belice, se ne sono avuti rapporti quanto mai singolari, sempre anomali, al punto che molte relazioni sono (prudenza?) prive di firma, di timbro e, perfino, di intestazione.
Sicché: «chi c'era dietro le ditte del Belice» è rimasto un mistero. E a dirci quanto marcio fosse in... Danimarca, basta dire che la Regione siciliana, zitta zitta, con un provvedimento tardivo (e mafioso), ha cancellato dall'albo regionale degli appaltatori ben 22 imprese (su 53) aggiudicatarie degli appalti della Valle del Belice. per miliardi.
Avevano già rapinato il malloppo. Il provvedimento poteva essere preso.
* * *
L'ANAS (siamo ai tempi delle aste truccate e il... trucco non è stato ancora scoperto) butta nel Belice tutta la... possanza (manciniana) della sua organizzazione. Non ci sono case, né ricoveri decenti, ma le opere faraoniche (e inutili) si fanno. Non servono alle popolazioni. Servono il ministro e i partiti. Ed ecco che 300 miliardi vanno al vento.
* * *
Ci credereste? Nessuno finora è andato in galera. Anzi. L'ex ministro del Lavori pubblici. Lauricella, è stato premiato per il Belice. Oggi è presidente dell'Assemblea regionale siciliana. Da lui si aspetta il... riscatto morale della Sicilia.
Il Parlamento tace. Cosi come ha taciuto sulle carte dell'antimafia. Anni e anni di lavoro. Spese ingenti. Documenti impressionanti raccolti e stampati. Uomini politici di vertice coinvolti nell'affare malavitoso. Dentro, fino al collo. Eppure: i rappresentanti del popolo non hanno ancora trovato il tempo di occuparsene.
Intanto c'è il PCI che stampa un questionario da distribuire nelle fabbriche. È intitolato: domande sul terrorismo. Come combatterlo.
* * *
Si, è esatto: i delitti commessi nel Belice portano la sigla socialista, spesso comunista. Comunque, dato che lapidi in Italia contro il fascismo, che non c'è più, se ne fanno tante e si sprecano, bene sarebbe murarne qualcuna nella Valle del Belice.
E il testo potrebbe essere questo:
«l'Italia, repubblicana e antifascista, rende grazie ai costruttori del Belice che, incuranti di ogni norma di legge e privi del tutto di sensibilità umana verso le popolazioni colpite; imperterriti, perché in possesso dei requisiti che li facevano ritenere dei progressisti di sinistra e perciò intoccabili, rubarono a man bassa, senza ritegno, senza scrupolo, senza misura. Sino alla nausea.
«Il Parlamento, da par suo. aiutò l'opera. Sicché, non le galere, ma le aule parlamentari si apersero per i protettori di simili, audaci costruttori.
«L'Italia 1981. memore, pose».

 

11 ottobre 1981

Sandro pertini è tornato a Savona: 150° anniversario della fondazione della "Giovine Italia" di Giuseppe Mazzini.
L'occasione era troppo grossa perchè il presidente della Repubblica si dimenticasse di ricordare un altro dei tanti episodi inediti vissuti durante «la tirannide fascista». Pertini ha ricordato il primo anniversario della morte di Giacomo Matteotti, vissuto da lui a Savona nel 1925. Di notte, ha ricordato il presidente, misi in Piazza una corona con la scritta: «Ricordate Matteotti». Poi, il giorno dopo, le botte, dei fascisti.
* * *
L'episodio ricordato da Pertini non è nuovo. Ahimè è tipico di tutti i climi (politici). Tanti anni fa (1954), in piena e restaurata democrazia repubblicana, nell'aula del Consiglio Comunale di Rimini, il consigliere missino che rendeva a Giacomo Matteotti, e soprattutto all'idea che era in lui e che non doveva morire con lui, il più alto omaggio, chiedendo che si sancisse l'universalità della condanna matteottiana contro il delitto politico e che si celebrasse, in tal senso, anche la memoria del filosofo Giovanni Gentile, venne prelevato dai banchi consiliari, picchiato a sangue e buttato giù per le scale del Palazzo Municipale. In nome dell'antifascismo. Cose che capitano.
* * *
A Savona, commemorando Mazzini, sia Pertini sia Spadolini hanno particolarmente insistito sull'amore per la libertà del primo grande esule genovese. È vero. Però entrambi si sono dimenticati di ricordare che Giuseppe Mazzini ha testualmente scritto:
«Amo la liberta, l'amo forse più della Patria stessa, ma la Patria io l'amo prima della libertà».
* * *
A Savona (sarà lo stesso presidente a rettificare se scriviamo cosa inesatta) Sandro Pertini tenne il suo grande comizio dopo l'esilio e la clandestinità. Se non sbaglio era il maggio 1945.
Di quel discorso del presidente della Repubblica di trentasei anni fa, i savonesi ricordano soprattutto le appassionate parole dedicate ad una donna; ad una donna che, come le eroine dei nostro Risorgimento, gli era rimasta fedele durante i lunghi, duri, anni del carcere e dell'esilio. Un omaggio commovente, reso li. a caldo, nella piazza. Quella donna era a pochi passi da lui e ascoltava.
È un vero peccato che Sandro Pertini, sempre cosi carico di ricordi inediti da esternare, non ci abbia più detto nulla di quell'episodio, di quella «eroina». Dove sia andata a finire?
* * *
Dunque De Filippo, neo senatore della Repubblica, era antifascista. E noi non ce ne eravamo accorti... «Eduardo», dunque, ha sofferto e lottato, e noi non lo sapevamo...
Questo, afferma la stampa di regime, è il senso, il sapore della scelta di Pertini. Ribadita, del resto, dall'intervista che lo stesso Eduardo ha dato a "la Repubblica" (27.9.81) dove, fra l'altro, ha affermato che fu il fascismo a staccare il teatro dal popolo.
* * *
Evidentemente De Filippo allude al popolo minuto, magro. Ora se quel popolo (magro) è andato a Teatro, per la prima volta in tutta la sua storia, c'è andato perchè il fascismo ve lo ha costretto a calci.
E che cosa è poi l'abnorme cultura di genii (quasi tutti compresi e sovvenzionati) che onora le aiuole fiorite di rosso del teatro italiano, se non è stata del resto concimata e innaffiata dai Littorali del Teatro e dai Teatri del GUF?
* * *
C'é una commedia di Eduardo. Si intitola: "Le bugie con le gambe lunghe".
* * *
La verità è che Eduardo non ha resistito, né lottato. né sofferto; ha fatto, come fa, il suo mestiere, e lo ha fatto bene, perché è stato l'incarnazione della sua Napoli, nutrita di allegrezza e di melanconia, di miseria e di nobiltà, di eroismo e di paura.
Eduardo è stato, ed è, Napoli: durante e dopo il fascismo.
Punto e basta, il resto, direbbe Eduardo, «sono fesserie...».
* * *
È sperabile che Eduardo De Filippo sia perfettamente a posto con il fisco e che Pertini a tale proposito, abbia fatto svolgere tutti i più rigorosi accertamenti. Il coro unanime di felicitazioni: «Bravo Pertini, hai scelto bene», non si deve strozzare in gola.
Sarebbe davvero una cosa spiacevole. Per tutti.

 

16 ottobre 1981

Il "Corriere della Sera" (10.10.81) si è trovato a dover fronteggiare e commentare, in contemporanea, lo sciopero delle proprie «maestranze» e la notizia che il PSI aveva posto al Governo un ultimatum, in relazione alla operazione, risultata vera, per cui il quotidiano di via Solferino andrebbe in proprietà della Olivetti, il cui presidente è il senatore Visentini che, a sua volta è presidente del PRI.
Secondo "il Giornale" di Montanelli la congiura avrebbe come sbocco di portare Eugenio Scalfari, direttore di "Repubblica", al "Corriere", schierando quest'ultimo a favore del governo con il PCI.
* * *
Come sia ridotta l'informazione in Italia già, di per sé, lo dicono i fatti che scorrono davanti agli occhi degli Italiani. Da tempo è in piedi un dilemma: sono migliori i politici o i giornalisti?
È un dilemma che non ha ragione di essere perché giornalisti e politici sono della stessa identica pasta: legati tutti e due alla partitocrazia. E a filo doppio. La stampa è una componente essenziale delle «bande» che scorrazzano in Italia.
Comunque il "Corriere", nel suo fondo dal titolo «La battaglia di via Solferino» (10.10.81), inalberando sul più alto dei suoi (non puliti) pennoni il gran pavese della moralità, dell'obiettività, della libertà, viene a definire l'impresa rizzoliana una «istituzione» nazionale, talmente al di sopra delle parti, da pretendere la tutela del Parlamento e della Banca d'Italia.
E perché no dei Carabinieri?
* * *
Non siamo né comprati, né venduti», scrive il "Corriere". Siamo al di sopra delle parti. Siamo la stessa democrazia, la stessa libertà. E come tali non vogliamo una protezione generica, ma istituzionale.
Bene, ed allora sfogliamo proprio il "Corriere della Sera" del 10.10.81, per constatare se la voce di questa... «istituzione», di questo «patrimonio nazionale», è davvero libera e indipendente.
* * *
Articolo dì Ulderico Munzi. Prima pagina, titolo: «Assassinato a Roma leader dei palestinesi. L'OLP: sono stati i sicari israeliani».
Per favore, leggetelo. Poi prendete "l'Unità" dello stesso giorno e confrontate le due notizie. Non vi sarà difficile riconoscere che, sull'avvenimento, è molto più sereno il foglio comunista.
Il "Corriere della Sera" sprizza veleno. Da tutti i suoi pori. La sua prosa non è nemmeno comunista, è brigatista.
* * *
Qualche tempo fa scoppiò una virulenta polemica. Vi furono denunzie all'Ordine dei Giornalisti perchè il mensile "Prima comunicazione", fra il serio e il faceto, aveva scritto che i mandanti morali dell'assassinio del giornalista Walter Tobagi del "Corriere", andavano trovati nella redazione di via Solferino.
Il «veleno» che il "Corriere della Sera", da anni, sparge sulla società italiana, attraverso i servizi dei suoi corrispondenti, disadattati e frustrati, è micidiale. Uccide, almeno moralmente.
* * *
Torniamo al "Corriere" del 10.10.81, quello che, secondo il direttore Cavallari, è «la bandiera della verità e della libertà». Prendete le corrispondenze dal mondo arabo. Sono tutte finalizzate a mettere in risalto che Sadat, sarà stato si un eroe, uno statista, ma era altresì un isolato, un capo non amato, tanto che intorno alla sua salma il mondo arabo ha fatto il deserto.
Può, li per li, apparire una diagnosi seria, ma se leggete bene troverete che, più che riferire i fatti, si ha, preminente, uno scopo ben preciso, e cioè quello di insidiare nel lettore che la causa di Sadat è perduta; che, come italiani, non conviene immischiarsi, che è bene avere paura, non impegnarsi. Non si scrive, apertamente: scegli l'URSS. Si scrive: fatti vigliacco. Mettiti alla finestra. Non lo vedi? Si muore a fare storia.
Anche questo è il "Corriere della Sera".
* * *
Continuate a sfogliare. Troverete che dietro Enrico Berlinguer che è volato a Cuba, il "Corriere della Sera" ha spedito il comunista Alfonso Madeo, famosissimo per la recensione stesa al libro di Marco Sassano, dal titolo «SID e partito americano», prefazione di Fabrizio Cicchitto, onorevole deputato P2.
Su questa recensione merita soffermarsi.
* * *
Compare sul "Corriere della Sera" del 3.7.1975. Il libro di Marco Sassano viene cosi definito dal Madeo: «La più aggiornata, meticolosa ricostruzione del ruoto che i servizi segreti italiani hanno giocato dietro le quinte di tutte le vicende nazionali».
* * *
Ora se si va a leggere questa «aggiornata e meticolosa ricostruzione» (pagine 32 e 33 del testo citato) si scopre che la morte del generate dei carabinieri Manes, durante l'interrogatorio svoltosi dinanzi alla Commissione parlamentare d'inchiesta sul SIFAR, è da collegarsi al suicidio del suo aiutante di campo, tenente dei Carabinieri Remo D'Ottavio, depositario di tutti i segreti del generale.
«Tre settimane dopo la morte del generale Manes», scrive Sassano «il suo ufficiale di ordinanza, il tenente Remo D'Ottavio, si spara al cuore, morendo sul colpo».
* * *
Ma come è possibile, se la Commissione di inchiesta sul SIFAR l'11.XII.1969 (cioè sei mesi dopo la morte di Manes) ascolta il tenente dell'Arma Remo D'Ottavio, cosi come si evince dalla stessa relazione parlamentare (pagine 545-548)?
Non avrà, per caso, la Commissione interrogato lo spirito del tenente D'Ottavio, magari usando un tavolino a tre piedi?
Che ne dice il recensore Madeo?
* * *
Non solo. Intere pagine del libro sono letteralmente copiate di sana pianta, parola per parola, dalla relazione parlamentare di inchiesta. Il Sassano se le attribuisce, così senza parere. E il Madeo recensisce in termini entusiasti, nientemeno che sul "Corriere della Sera".
Queste sono cose che in un Paese serio sarebbero costate care. In Italia no. Madeo non paga, informa. E per stipendiare questa... informazione -secondo alcuni- il contribuente italiano dovrebbe accollarsi il mantenimento del "Corriere".
* * *
«Al "Corriere" ogni tanto scoprivi, fra i più giovani o i meno maturi, qualcuno che stava vendicandosi del padre. C'era chi aveva il padre feroce critico d'arte reazionario e faceva il progressista.
Il padre di Alfonso Madeo credo fosse secondino nelle carceri.
Lui ha una funzione sindacale interna, cavalca, organizza, tresca all'interno del nucleo contestatori che è capeggiato da Raffaele Fiengo, uno che piange quando commemora l'articolo 22 dello Statuto dei lavoratori. Lo cita e versa lacrime di commozione».
(Enzo Bettiza, "l'Espresso", 27.9.81).
* * *
Istituzione? Monumento nazionale? Tradizione? Sentiamo Bettiza, che nel "Corriere" ha vissuto a lungo: «Oggi al "Corriere" i giornalisti sono diventati i becchini di una tradizione che a loro non dice più nulla». Seppelliamolo, allora!

 

21 ottobre 1981

Il massone onorevole Belluscio, già sottosegretario di Stato, alla Camera (28.9.81): «I primi piduisti della storia, mi piace ricordarli a me stesso, sono stati Aurelio Saffi, Giosuè Carducci, Francesco Crispi, Agostino Bertoni, Nicola Fabrizi, Giuseppe Zanardelli, Giovanni Bovio, Luigi Orlando ...»
Una voce: «... Belluscio. Longo, Danesi»...
* * *
Perché Pertini. in visita a Savona per il 150° anniversario della Giovine Italia, non incontrasse il nuovo presidente della Regione Liguria, il socialista Alberto Leardo, in fama di P2, si è rimandata la elezione al giorno dopo. Commento: non c'è stato l'incontro di Teardo!
* * *
Il vice sindaco di Orune (Nuoro), il comunista Salvatore Marras, è stato arrestato per il sequestro De Andrè-Ghezzi.
Il "Corriere della Sera" titola (10.10.81): «Sospeso dal PCI il vice sindaco di Orune».
È un titolo che capovolge la notizia. Infatti l'intenzione e quella di far fare bella figura al PCI. Giornalisticamente è una mascalzonata.
* * *
Da Orune a Terrasini, splendido paesino della Sicilia. Anche qui un sindaco, dal nome prestigioso: Vittorio Orlando. É della DC. Non ha seguito per le idee che esprime, ma per i favori che fa. Non amministra. Corrompe. Ora è dimissionario. Grazie ad una denuncia portata innanzi (da anni) dal consigliere comunale missino, il dottor Bartolo Catalfio. Infatti Vittorio Orlando, per valorizzare terreni di sua proprietà, ha abbandonato (anche alla sporcizia) l'intero, splendido paese di Terrasini. Ma quale interesse hanno gli Italiani a farsi governare dalla DC?
Sono dei cattolici, che non solo non credono più in Cristo, ma in nessun valore. Amano solo il potere. Per mantenerlo, corrompono. Il tono morale della società italiana decade. E dovunque, dalla metropoli al paesino, si raccatta corruzione, degradazione, sfascio.
* * *
Compravendita di posti-letto al "Regina Elena" di Roma. Le persone colpite da tumore, se volevano essere ricoverate dovevano pagare a quanto pare una salata tangente al prof. Guido Moricca, primario del Reparto Terapia del dolore.
Il PSI si è doluto del fatto che il prof. Moricca venga indicato, dalla stampa, come socialista e il "Regina Elena" un feudo del PSI.
Il PSI ha torto di lamentarsi. Il "Regina Elena" è sempre stato un suo feudo. E il mercato dei letti è da anni che è in piedi. E non solo a base di tangenti, ma anche con la compravendita dei voti.
Il 4 luglio 1972, il sottoscritto, deputato, chiedeva al ministro dell'Interno se era esatto che nel feudo socialista del "Regina Elena", il doti. Antonio Landolfi, primo dei non eletti nella circoscrizione di Roma nelle elezioni politiche del 1972, aveva potuto usufruire dello schedario riservato del Centro Tumori a fini elettorali; e se era altresì esatto che si era fatta pressione su centinaia di persone, in attesa di esseri ricoverate nel Centro tumori, facendo loro balenare, che se avessero votato Landolfi, la loro convocazione al Centro sarebbe stata cosa fatta».
* * *
Il ministro dell'Interno, in data 8.11.72 (prof. 666/74.1) laconicamente, mi rispondeva: «In merito ai fatti lamentati dalla S. V. On.le risulta che la Pretura di Roma ha avviato un'inchiesta, tutt'ora in corso».
* * *
Sono passati 10 anni dal 1972. Il dott. Antonio Landolfi non è stato chiamato a rispondere delle mascalzonate attribuitegli alle spalle dei malati del "Regina Elena" (e che reati!). Anzi. È stato promosso. Oggi siede sui banchi del Senato. La regola di questa Repubblica e stata rispettata.

 

23 ottobre 1981

Furto alla Commissione Sindona. Il volume, contenente I'interrogatorio di Rodolfo Guzzi, legale del bancarottiere, sparisce dai tavoli della Commissione fra le 16,10 e le 16,25 di giovedì 15 ottobre.
"I'Unità", fra tutti i quotidiani che riportano vistosamente il caso, è la più riduttiva. Mette in bocca a De Martino, presidente della Commissione, una dichiarazione, secondo la quale «mentre era in corso l'audizione di Guzzi, i commissari stavano sfogliando 4 delle 5 copie del volume: la quinta era in visione al magistrato Loi che assiste i lavori della Commissione. Il giudice si è allontanato brevemente lasciando sul suo tavolo la copia, quando è tornato non l'ha più trovala».
* * *
È un po' poco. "l'Unità" dimentica di riportare ciò che tutti gli altri quotidiani, fra virgolette, raccontano. E cioè la testimonianza dell'onorevole Gustavo Minervini.
«Sono arrivato», ha detto Minervini «alle 16,25 e sono entrato nella sala di consultazione. C'erano i due esperti, i giudici Umberto Loi e Raffaele Bertoni e c'era il comunista D'Alema. Ho parlato con Bertoni di cose familiari. Nel frattempo il dottor Posteraro (funzionario della Commissione, N.d.R.) e il giudice Loi erano usciti per far battere a macchina gli appunti. Al loro ritorno ho chiesto a Posteraro: posso avere una copia del documento Guzzi? Onorevole sono in lettura, ha risposto Posteraro, poi ha aggiunto: dottor Loi non può dare la sua copia a Minervini? E Loi: non la trovo più, debbono averla presa altri».
* * *
Dunque "l'Unità" è reticente. L'audizione di Guzzi, quando si è verificato il furto, non era iniziata. I commissari stavano arrivando alla spicciolata. E, nella sala di consultazione, come afferma Minervini, c'erano i due giudici Loi e Bertoni, l'onorevole Giuseppe D'Alema e il dott. Posteraro.
I protagonisti-testimoni sono questi. Sotto i loro occhi il furto viene eseguito. E in pochi minuti.
Perchè "l'Unità" non ne fa cenno? Si sente in imbarazzo?
Per quali motivi?
* * *
Un episodio quasi analogo accadde, nel febbraio 1970, quando dalla Commissione antimafia, super vigilatissima, venne trafugata la relazione sulla fuga di Liggio. Detta relazione comparve, pari pari, sul quotidiano di Palermo (del PCI) "l'Ora".
Anche allora grande scalpore. Denunce. Inchieste. Di diverso da oggi è che. nel 1970, vi fu un indiziato: l'onorevole Malagugini Alberto, poi giudice costituzionale, del PCI. Infatti il testo pubblicato da "l'Ora" corrispondeva, punto per punto, a quello che era in possesso dell'on. Malagugini. E il deputato, ascoltato dal Consiglio di Presidenza della Commissione (7/4/70), dichiarò che «non sapeva spiegare come poteva essergli stato sottratto quel testo nel breve tempo in cui egli ne rimase in possesso, e cioè nelle ore antimeridiane del giorno 20/2/70, durante le quali egli ricorda di essersi trovato presso la Camera dei deputati e di avere partecipato ad una riunione svoltasi al quinto piano di Montecitorio.
* * *
Come si può constatare i furti, nel Palazzo avvengono con una destrezza incredibile. Uno si volta e, oplà, il gioco è fatto.
Infatti, a Montecitorio, oltre i memoriali, sparisce dell'altro: orologi, portafogli, cappotti, spille. L'elenco degli oggetti... smarriti è appeso all'albo. Basta prenderne visione. É in costante aumento.
* * *
Ma nel palazzo accade anche altro. Un episodio dell'agosto 1974. Era il giorno 13, antivigilia di ferragosto, il palazzo deserto, due o tre commessi, nessun altro. All'ultimo piano era riunita la Commissione Senato-Camera per la riforma tributaria.
Era in discussione se conservare o abolire le esattorie.
* * *
Argomento di fuoco per la Sicilia. Basta un dato: nel 1962, cioè 19 anni fa, l'aggio delle esattorie private in Sicilia, su un totale di entrate di 3.500 milioni, era di 2.400 milioni.
Comunque fu notato che, in quella calda sera di agosto del 1974. quando sull'argomento prendevano la parola alcuni parlamentari siciliani, questi, insolitamente, alzavano il tono della voce come se avessero la preoccupazione di farsi ascoltare da qualcuno.
* * *
Ed era cosi. Perchè un senatore, trovando il telefono della stanza in cui era riunita la Commissione occupato, uscì per usare l'apparecchio posto nel corridoio. Quale fu la sua sorpresa (e che paura...) quando si accorse che, dietro l'uscio della Commissione (erano le 23), fra il buio del corridoio, c'erano alcuni individui che origliavano, e che, all'apparire del parlamentare, si allontanarono.
* * *
Chi erano costoro? Semplice. Erano uomini di fiducia delle esattorie, i quali, entrati tranquillamente nel Palazzo (dove si fanno le leggi), avevano il compito di riferire, «in alto», come si comportavano i parlamentari sul tema specifico. Ed ecco perché alcuni... rappresentanti del popolo, quando parlavano, alzavano la voce. Dovevano testimoniare che si battevano per la... causa.
* * *
Questo accade nel Palazzo. Dicerie? Questa storia l'ha vissuta, in prima persona. Filippo Maria Pandolfi. Fatevela raccontare. Lui conosce anche i particolari.
* * *
Quindi, morale: chi si scandalizza per quello che è accaduto nella Commissione Sindona o è uno sprovveduto, o mente.
Il Palazzo è quello che è. Basta guardarlo nei suoi comportamenti. Chiamato a giudicare i suoi membri per i reati, i più turpi, assolve sistematicamente «coloro» che fanno parte della cosca partitocratica e ciellenista. Con metodo tipicamente mafioso.
Si afferma; quante sofferenze per restaurare in Italia la democrazia!
Sì. ma se questa è la democrazia, che si è combattuto a fare?

 

25 ottobre 1981

Nella seduta del I2.X della Camera, l'onorevole Cicciomessere (sempre lui) si è lamentato che alcuni funzionari della Camera, anziché aiutarlo a risolvere dubbi di natura regolamentare, avrebbero esercitato nei suoi confronti un vero e proprio ostruzionismo. Li ha definiti «funzionari della maggioranza».
È una accusa pesante. Ha risposto il repubblicano Battaglia, sottolineando che le affermazioni del deputato Cicciomessere erano «stupefacenti», anche perché i funzionari della Camera erano impossibilitati a replicare.
* * *
Due rilievi a Battaglia. Il termine «stupefacenti» non ci sembra adeguato al caso. Meglio sarebbe stato usare il termine «immorale». Seconda osservazione: sollevare, da parte di un repubblicano, una polemica sui funzionari della Camera (che non possono difendersi) ci pare azzardato.
* * *
Infatti fu proprio il santone Ugo La Malfa, quando Pertini era presidente della Camera (ottobre 1975), a rendersi responsabile di avergli tolto il sonno («sono disperato, passo le notti in bianco», scrisse Pertini), quando sollevo il caso degli stipendi dei dipendenti della Camera e del Senato, per cui i parlamentari si accorsero di prendere meno di una dattilografa.
Fu un attacco in piena regola a tutto il Parlamento. Il PRI non protestò perchè, in quella circostanza, i funzionari, attaccati da La Malfa, non potevano difendersi. Applaudì.
* * *
Solo chi scrive (che non è mai stato certo tenero nei riguardi delle posizioni privilegiate) si alzò in aula (Pertini presente) a ristabilire certe verità. E a ricordare che non poteva certo il PRI dare, su quel tema, lezioni di moralità, quando, fra i suoi consulenti più prestigiosi, c'erano proprio alti funzionari della Camera dei Deputati.
* * *
La vicenda di cui si parla, accadde nell'ottobre 1975. Esattamente sei anni fa. Per valutarne le dimensioni è opportuno ritenere la requisitoria di Ugo La Malfa, e la lettera che Pertini, allora presidente della Camera, gli scrisse in risposta.
Ugo La Malfa, su "la Voce Repubblicana" (8.X.75), sotto il significativo titolo «Il Parlamento centro della crisi nazionale», scrisse:
«Poiché I'amministrazione delle Camere è affidata ai parlamentari e i bilanci sono insindacabili, la maniera piuttosto disinvolta con cui quegli organi amministrativi hanno considerato i problemi del personale è indice di una mentalità e di un costume ben radicati, che sono quelli con cui il Parlamento affronta i suoi compiti legislativi e di controllo. In altri termini, non gli organi amministrativi del Parlamento hanno mancato al proprio dovere, ma è il Parlamento tutto che, mostrando come amministra se stesso, mostra con quale spirito e rigore interpreta la sua delicatissima funzione legislativa e di controllo».
* * *
Al che Sandro Pertini, replicava: «Sono disperato, passo le notti in bianco. Che vale sentirmi dire che personalmente ho le carte in regola, perché a suo tempo rinunciai all'aumento del mia indennità di carica, sicché oggi essa è inferiore di 200 mila lire allo stipendio di una dattilografa o di un commesso? Avrei voluto dimettermi quando le mie sollecitazioni e proposte per sanare la situazione ereditata furono respinte. E adesso debbo sostenere l'intollerabile e sciocca parte dell'avvocato di ufficio di una causa sballata! Sento crollare mezzo secolo di una vita politica onesta. Che disperazione, Ugo, nell'animo mio. Non ne posso più».
* * *
Questo scriveva Sandro Pertini. Da allora sono passati sette anni. Le cose non sono migliorate. Sono peggiorale. Si è toccalo il fondo.
Il bilancio 1945-1981 è tutto riassunto nella frase di Pertini, presidente della Repubblica.
«Sento crollare mezzo secolo di una vita politica onesta»
E se lo dice lui, bisogna crederci.

 

29 ottobre 1981

Nello spazio di 48 ore il terrorismo miete vittime a Milano e a Roma. Con una determinatezza, una spietatezza, una ferocia incredibile. Vittime: meridionali in divisa.
Sfoglio i resoconti parlamentari. Bollettino dei 21-X-81. Sui fatti di sangue una sola interrogazione: quella che porta le firme di Franchi. Pazzaglia. Servello, Zanfagna, Tremaglia, Miceli, Lo Porto, Baghino del MSI-DN.
Su tutto il resto del fronte politico, silenzio. Nemmeno un rigo.
* * *
L'On. Cicciomessere, parlando contro la riforma del regolamento parlamentare (21-X-81), cita il caso dell'ex-segretario generale della Camera, Francesco Cosentino, per cui ogni riforma del regolamento, tendente a limitare il diritto di libertà del deputato, è lesiva della Costituzione.
Cicciomessere dichiara di trovarsi pienamente d'accordo con Francesco Cosentino.
Sta bene. Ma tale dichiarazione non è un tantino azzardata in bocca ad un radicale che, da pochi istanti, si è seduto dopo avere vomitato, dai banchi parlamentari, cascate di male parole contro gli appartenenti alla P2?
Francesco Cosentino è un P2. E non di secondo piano. È una colonna portante della loggia massonica.
* * *
Lo sapete quanto costano allo Stato il migliaio di insegnanti «distaccati» annualmente ai sindacati?
Spesa annua delle trasferte: 10 miliardi di lire.
Questi 1.000 sono il cervello pensante dei sindacati, sono l'autentico governo (ombra) della Scuola. 12.000 funzionari, centrali e periferici, grandi e piccoli, del Ministero della Pubblica Istruzione, altro non sono che una manovalanza burocratica addetta ad eseguire la volontà partitocratica dei 1.000, che sfornano leggine su leggine. Nell'ultimo triennio i decreti sono una cifra spaventosa.
La Scuola è in sfacelo. Ma fra le spese da decurtare, nell'ambito della politica dell'austerità, il ministro Bodrato si è ben guardato dall'indicare i sindacalisti distaccati. Essi rappresentano la prepotenza. E dove volete che trovi il coraggio un ministro democristiano per combattere la prepotenza? O non è tutto una prepotenza, a cominciare dalla DC?
* * *
Per i favori a Sindona è stato interrogato a Milano, dal giudice Bruno Apicella, il banchiere Giovanni Guidi, presidente e amministratore delegato del Banco di Roma.
Da notare il misurato, contenuto, equilibrato articolo di "Repubblica", al riguardo. Fra l'altro il foglio scalfariano si dimentica (ma guarda un po' la memoria che scherzi fa!) di ricordare che il presidente del Banco di Roma compare negli elenchi della P2.
Perché?
Forse perché Guidi, a diversità di Calvi, quando "Repubblica" bussò a quattrini, non disse di no, ma sborsò ben 10 miliardi di lire appartenenti ai risparmiatori italiani? Tremaglia ha, da tempo, chiesto al ministro del Tesoro e delle Partecipazioni statali (il Banco di Roma é dell'IRI), quale fu, a tale proposito, il giudizio dell'IRI sull'operazione. La autorizzò? E in base a quali criteri?
La risposta tarda a venire. Ma credete voi che arrivi? lo dico di no. La mafia non é in Sicilia. È anche a Roma. Nel Palazzo.
* * *
"Lotta Continua", che é ritornata nelle edicole, afferma che i fondi, di cui si servirebbe il direttore generale della Olivetti De Benedetti (insieme a Visentini, presidente del PRI e della Olivetti), per l'acquisto del "Corriere della Sera", verrebbero dalla Lega delle Cooperative, che fa capo al PCI. Più precisamente l'impegno finanziario verrebbe assunto indirettamente dalle Compagnie di assicurazione Unipol che fanno capo al PCI.
* * *
Nessuna meraviglia. Andate a vedere, nei comuni dove amministra il PCI, con quale compagnia di assicurazione gli Enfi locali, le municipalizzate, i consorzi, le USL stringono rapporti economici. Sono giri e affari di miliardi. Il filo che li guida: la partitocrazia.
È questa la «diversità« di cui parla Berlinguer?
* * *
Alla regione Calabria i parlamentari del PCI, scontenti di una votazione, hanno sfasciato le urne. Ne è nata una polemica fra l'on. Giacomo Mancini (il quale dice che cosi non si deve fare) e Fabio Mussi (che esalta l'operato degli sfasciatori), quest'ultimo responsabile regionale del PCI.
* * *
Mussi ("l'Unità" 18-X-81) afferma che, dopo la «distruzione» (sic!), il discorso sarà più facile, mentre Mancini è di parere opposto. Comunque tutti e due discutono sull'accadimento con calma distaccata. Come se, fra le regole della democrazia, rientrasse anche lo sfascio delle urne.
* * *
È davvero cosa inusitata. Ricordate? Mussolini (16-XI-1922) rivolto ai parlamentari: «Avrei potuto fare di questa aula sorda e grigia un bivacco per i miei manipoli». Queste parole l'antifascismo non cessa di ricordarle come oscene; come dimostrazione dell'ignominia in cui il fascismo aveva fatto precipitare la Nazione uccidendo la democrazia.
Ora si sfasciano le urne, cioè il sacrario della democrazia. E si discetta, tranquillamente. Come se nulla fosse. Anzi. Se ne fa una linea politica: lo sfascio non solo è bello ma può anche essere utile.
A quando la stessa «terapia» a Montecitorio e Palazzo Madama?
Sfasciamo tutto?

 

31 ottobre 1981

A Bari, città del ministro socialdemocratico Di Giesi, ieri delle Poste, oggi del Lavoro, il PSDI ha triplicato i voti. Con quale ricetta? State a sentire. Il ministro delle Poste Di Giesi, alla vigilia delle elezioni ha assunto, fra le categorie privilegiate, 173 persone. Di queste, 108 a Bari. j
Per un concorso, che prevedeva solo 5 posti di operatore specializzato, il ministro ha fatto sì che i cinque posti diventassero 82 e li ha tutti assegnati a Bari.
Le assunzioni trimestrali, fra l'ottobre e il dicembre 1980, sono state 94. Ebbene il Di Giesi ha fatto sì che di queste assunzioni ben 90 avvenissero a Bari.
Nei mesi successivi le assunzioni sono state 458. Di queste 438 a Bari.
I cosiddetti «transitati» sono stati 106. TUTTI portati a Bari.
Identica musica per i trasferimenti: 121 unità vengono assegnate alla Direzione provinciale di Bari e altre 100 agli uffici locali e agenzie di Puglia.
Ecco come si amministra (e come si prendono i voti) in Italia. Il tutto in soli otto mesi, tanto quanto è durato l'impero socialdemocratico del Di Giesi alle Poste.
* * *
Scambio di cortesie fra il sen. Bruno Visentini. presidente del PRI e Claudio Martelli, vicesegretario nazionale del PSI. Il primo, a proposito dell'affare "Corriere della Sera", ha accusato il PSI di servirsi del caso Rizzoli come diversivo per stornare l'attenzione dalle dichiarazioni del banchiere Calvi, per cui il PSI sarebbe destinatario all'estero di somme ingenti non restituite. Il secondo, in replica, definisce Visentini uno psicopatico «alla ricerca di tonificanti, attraverso una risciacquatura di piatti in cui egli si immergerebbe, a causa di una vita intristita dall'astio». «Questa sì, scrive Martelli, è una questione privata. una perversione privata».
* * *
Badate bene: tutti e due, Visentini e Martelli, con i rispettivi partiti, partecipano al governo della Nazione. E l'uno grida: ladro! E l'altro, in replica: sei un pervertito!
* * *
Che i socialisti siano dediti alle tangenti, credo, non vi siano più dubbi. Una casistica, abbastanza nutrita, lo documenta. Meno note sono le notizie sulla «perversione» privata del presidente del PRI, di cui parla Martelli. Di che si tratta? Martelli proviene dal PRI, quindi è informato.
Questa «vita intristita dall'astio», di cui Visentini (secondo Martelli) sarebbe pervaso, da che cosa deriva?
* * *
Forse, senza volere, contribuisce a svelare il... mistero l'avv. Leopoldo Romanzini, trevigiano come Visentini, uno dei fondatori nel Veneto del Partito d'azione, coetaneo ed amico fraterno di Ugo La Malfa: «lo credo che ci sia in Bruno Visentini una sorta di complesso di inferiorità fisica. Si sente brutto, con quel suo gran naso. Ed invece forse non lo è, ma lui si sente tale e questo si trasforma in una acidità, in una permalosità ed in un ipercriticismo che finiscono per esacerbargli l'animo».
Sicché: tutto colpa di un... naso?
* * *
«Sempre nel libro di De Castro (sulla politica italiana per Trieste e la Venezia Giulia negli anni 1943-45, un'opera di apologia degasperiana - N.d.R.) si documenta che la calata hitleriana nella Venezia Giulia dopo l'8 settembre rientrava in un preciso disegno di recupero imperiale che la Germania aveva minuziosamente preparato e che si sarebbe attuato anche se l'Asse nazifascista avesse vinto la guerra.
Del resto, Mussolini aveva sperimentato l'attivismo di Hitler quando aveva ricevuto l'umiliazione dell'annessione dell'Austria e dell'assassinio del cancelliere Dolfuss, ostentatamente protetto dal capo del governo italiano. Sono pagine da meditare a fondo».
Così Giulio Andreotti nella rubrica "Bloc notes" de "l'Europeo" (n. 43 del 26-X-81), sotto il titolo «Pangermanesimo hitleriano».
Che queste cose le possa scrivere, magari un Piccoli, passi; ma Andreotti, che ha la civetteria della ricerca storica, no. O è ignorante lui (e questa è una sorpresa), o fida sulla ignoranza altrui (e ciò è ancora peggio).
* * *
Mussolini fu il solo, in Europa, quando Dolfuss venne assassinato, a schierare, dallo Stelvio alle Alpi di Corinzia, due Corpi di Armata, facendo sapere, con un telegramma al vicecancelliere austriaco, che l'Italia avrebbe difeso, fino alle estreme conseguenze, l'indipendenza dell'Austria.
È quello il momento (1934) in cui il Duce ordina che sia sostituita, a Bolzano, la statua del trovatore Walter von der Vogelweide, con quella di Druso, figlioccio di Augusto, vincitore delle Alpi e conquistatore di parte della Germania.
Sono le democrazie che lasciano cadere nel vuoto l'appello mussoliniano contro l'espansionismo hitleriano. Londra fa sapere che non intende assumere altri impegni sul Continente. La Francia risponde altrettanto. E non manca nella stampa «democratica» d'oltre Alpe, l'accusa a Mussolini, che ha schierato le divisioni al Brennero, di fomentare la guerra.
* * *
È vero: l'annessione avverrà più tardi. Ma in quale contesto? Quando Inghilterra e Francia, l'Italia in Etiopia, si faranno promotrici della politica sanzionista.
Che doveva fare Mussolini? Subire il tentativo di affamare il popolo italiano?
Se le «democrazie», dopo aver consentito ad Hitler di riarmarsi, invece di schierarsi con l'Italia (Stresa), l'avversavano, fino al punto di assediarla; che poteva fare l'Italia, se non rivolgersi alla Germania che, nel momento difficile, non si tirava indietro e ci consentiva, inviandoci le materie prime, di vivere e di lottare?
* * *
Dio ci guardi e liberi dal contestare il diritto di «odiare» il fascismo. Quello che non è consentito però è di ricorrere, in odio al fascismo, alla menzogna storica. Così, come fa Giulio Andreotti.

 

5 novembre 1981

«I night più costosi, i ristoranti più eleganti, gli alberghi più esclusivi di Roma sono sempre pieni di dirigenti socialisti. Il tenore di vita personale della grande maggioranza dei capi socialisti non ha niente a che vedere con la classe operaia. C'è anche da chiedere chi paga certe cene al Raphael, 50 persone, tutti ospiti di Craxi ...».
(Elio Veltri, già sindaco di Pavia, deputato regionale, ex iscritto ai PSI, "Panorama" 19.X.81).
* * *
«Chi paga? Un partito all'americana è una macchinetta mangiasoldi. Se non c'è più ideologia, l'unica molla organizzativa sono i soldi. Per questo non mi ha meravigliato affatto la notizia dei 23 miliardi dati da Calvi al PSI. È una notizia verosimile. Secondo me non sono gli unici miliardi entrati nelle casse del partito al dì fuori del finanziamento pubblico. E pensare che era stato proprio Bettino Craxi a porre per primo la questione morale!». (Idem).
* * *
«Via i ladri e induisti dalla vita politica!». Cosi Sandro Pertini ad Ancona (30.X.81).
Ahimè, se la direttiva del presidente della Repubblica viene attuata, che rimane del PSI ai vertici e alla periferia? Per fare un solo esempio, in Liguria, che è la regione prediletta di Pertini, il PSI rimane senza... guida.
Questo, comunque, è il partito in cui Pertini è cresciuto e di cui conserva, gelosamente, la tessera.
Perché non inizia lui la bonifica, restituendo la tessera?
* * *
Cosa ha inteso dire Pietro Longo, segretario del PSDI, quando ha asserito che, nelle nomine bancarie proposte dal ministro del Tesoro Andreatta, confluiscono anche «amicizie particolari, in tutti i sensi»?
* * *
Scrivemmo tempo fa che nel Governo Spadolini fa bella mostra di sé il ministro della Marina mercantile Calogero Mannino, indicato come il rappresentante dei Salvo, una famiglia siciliana potentissima, gestendo le esattorie.
I Salvo, notoriamente, sono DC e mafiosi. Il rapimento di un loro congiunto (Corleo Luigi, 7.7.75) ha provocato una serie impressionante di assassinii a catena. La strage continua.
Il Mannino, alle accuse, ha replicato facendo circolare una lettera e l'ha distribuita, «a circolo chiuso», nel Palazzo. Ha cercato, cioè, sul suo caso, di fare meno rumore possibile.
Ora dal Comune di Sambuca, in provincia di Agrigento, viene fuori una conferma. Infatti dagli atti di quel Comune risulta che Calogero Mannino è stato testimone di nozze al matrimonio di Gerardo Caruana.
Chi è costui?
È il figlio del boss siculo-canadese Leonardo Caruana, assassinato a Palermo il 10.9.81. Per affari di droga.
* * *
Monsignor Luigi Pignatiello, direttore del settimanale cattolico della Diocesi di Napoli "Nuova Stagione", ha invitato l'assessore democristiano Ciro Cirillo, rapito e poi rilasciato dalle BR, a dimettersi definitivamente dalla vita politica e «a dedicarsi alla famiglia».
«Abbiamo fondati motivi», ha scritto Pignatiello, «che a causa delle vicende passate il Cirillo possa rappresentare, nella vita pubblica, interessi eversivi quale prezzo della sua vita».
Parole gravi. Per il riscatto dell'assessore fu pagato un miliardo e mezzo.
«Il suo buon esempio», conclude monsignor Pignatiello. «potrebbe indurre altri politici napoletani a staccare il sedere dalla poltrona e avviare quel rinnovamento effettivo della DC, di cui ancora non si vede il minimo segno».
A chi allude il Monsignore?
A Gava?
* * *
Il palazzo, mafiosamente, ha solidarizzato con Emo Danesi, poi, altrettanto mafiosamente, lo ha trombato nel segreto dell'urna.
Sono fatti così, molti parlamentari. Dichiarano una cosa e ne fanno un'altra.
* * *
Si è dichiarato: a Danesi bisogna dare l'opportunità di difendersi. Davanti al magistrato ci deve andare nella sua qualifica di deputato (sic!). A lui si deve stima, salvo prova contraria.
E questo lo hanno affermato parlamentari che tirano tremendamente la carretta, che non si sono arricchiti, che fanno, giornalmente, il proprio dovere.
Ora se c'è, nel mondo della politica un personaggio che è la perfetta antitesi del parlamentare su descritto, questi è proprio Emo Danesi.
Danesi si distingue con la latitanza. In aula e in Commissione, in tutti gli anni che è stato deputato, non c'è un suo intervento. Silenzio. Le idee non lo interessano. Manovra con altri strumenti: favori, clientelismo, quattrini, corruzione spicciola.
Ufficialmente vive con l'indennità di deputato. Sostanzialmente può spendere, per le cinque segreterie che possiede nella circoscrizione, dagli otto ai dieci milioni al mese.
Dove li prende? Invitato a fornire elementi, ha sempre taciuto.
* * *
Danesi ha dichiarato che la Presidenza della Camera non gli ha consentito di chiedere il giurì d'onore. in quanto «l'onorabilità di un deputato merita tutela solo se offesa a parole e non con lo scritto».
Se Danesi fosse stato un deputato diligente saprebbe che ciò che afferma non è vero. C'è un esempio illustre. Il deputato Giacomo Mancini ottenne il giuri d'onore dal presidente della Camera (Pertini), solo perchè il deputato Quilleri (PLI), in una interrogazione parlamentare, aveva messo in dubbio l'onorabilità dell'ex ministro dei LL.PP. Cioè con lo scritto.
L'ignoranza si paga.
* * *
Ora Emo Danési se ne è andato. La sceneggiata, tutta programmata, non ha sortito i suoi effetti. Ora vedremo se la DC sarà talmente spudorata da rimetterlo in corsa.
Intanto sarà bene che Flaminio Piccoli, in attesa di ricevere il verdetto dei probiviri sui pìduistl rimasti ancora in sospeso, ci faccia sapere quale «collocazione economica» accoglierà il dimissionario Danesi. Non vorremmo che si trattasse dell'ENI.

 

7 novembre 1981

«Qui la bandiera della purezza non la può sventolare nessuno. Il PCI realizza entrate di entità pari a quelle del finanziamento pubblico attraverso le leggi regionali, della cultura, dello sport, del tempo libero, dell'associazionismo.
Cito una delibera della Regione Lazio al Circolo ARCI di Montefiascone; due milioni e mezzo per un concerto di chitarra classica. Il circolo non esiste; è la sezione del PCI, il concerto non costa più di 500.000 mila lire. Restano due milioni. A chi vanno? Al partito.
Con queste leggi regionali il PCI si finanzia per 15 miliardi: voglio dire che i partiti tutti i partili da piloni di sostegno della democrazia italiana stanno diventando strutture parassitarie delle istituzioni. Di questo la Repubblica muore».
* * *
Sono parole del sottosegretario alla Difesa Bartolo Ciccardini. Finora nessuna reazione da parte del PCI. La sua «diversità» pare non toccata da queste pesanti dichiarazioni.
L'accusa è precisa: siete dei ladri anche voi...
Noi lo sapevamo. Da tempo.
* * *
«Ascoltavo l'altra sera con un sentimento di melanconia il senatore Gerardo Chiaromonte di parte comunista che, con il tono baronale e intimidatorio ormai abituale a tutti i nostri politici, zittiva gli interlocutori, proclamando perentoriamente la diversità del suo partito.
Vorrei invitare il senatore Chiaromonte a una visita alla Riviera di levante da Bocca di Magra a Genova, dove otto comuni su dieci sono amministrati dai comunisti, e sommessamente chiedergli: dove crede che siano finite, senatore, le tangenti della più colossale speculazione edilizia?
Il conte, come lo chiamava Sindona, Calvi era a quanto pare preferito dai nostri partiti (PCI e PSI) per avere anticipazioni e prestiti,
Preferivano l'Ambrosiano alla Banca d'Italia. Perchè?
Perchè faceva tassi agevolati?
E li faceva gratuitamente?
(Giorgio Bocca "l'Espresso" 11.X.81)
* * *
Giorgio Bocca, notoriamente, è un intellettuale di sinistra. Anche lui non considera il PCI «diverso», ma eguale agli altri partiti, e perciò ladro...
E se lo dice lui...
* * *
L'ex sindaco Miretto Becuzzi di Ontano (Pisa), eletto nelle liste del PCI, e stato condannato dal Tribunale di Pisa ad un anno e tre mesi di reclusione, più l'interdizione dai pubblici uffici, perché, falsificando certificati di residenza, aveva assegnato al proprio cognato, come presidente della Commissione per l'assegnazione delle case popolari, un alloggio.
La «diversità» del PCI non riesce a decollare. Nemmeno nella più umile delle periferie.
Sono tremendamente eguali. Alla DC.
* * *
L'ex albergo Continental di Napoli (un rudere da anni bloccato dalla magistratura perché abusivo) sarà acquistato dalla Regione Campana. Prezzo: nove miliardi di lire. L'abusivismo rende. Si costruisce. E se non si è povera gente (in questo caso l'abbattimento è la norma) si aspetta. O prima o poi, tutto si sistema. Il dio quattrino fa di questi miracoli.
A Napoli è la stessa autorità che sborsa miliardi (dei contribuenti) agli speculatori.
Come è possibile, direte?
È possibile. Basta dare uno sguardo ai soci della Immobiliare Chiatamone, proprietaria dell'immobile.
Dentro c'è l'industriale del cemento Giuseppe Moccia; c'è l'ex presidente del Banco di Napoli Pasquale Acampora, con tessera DC; e c'è (poteva mancare?) il costruttore Albino Bacci, con tessera del PCI.
DC-PCI: come è possibile dire di no?
E la «diversità» di cui ci parla Enrico Berlinguer dove sta?
* * *
Drastica riduzione di personale a "Paese Sera", quotidiano del PCI. Tempi duri. Su 160 giornalisti, almeno 60 andranno a casa. Nel settore amministrativo del giornale, 90 persone seguiranno la stessa sorte. Sono 150 «lavoratori» che il PCI, per esigenze di ristrutturazione, manda via. Notato il silenzio di Lama, Carniti e Benvenuto. Acqua in bocca. Non parlano.
* * *
Intanto Maria Berlinguer, figlia di Enrico capo dei PCI, ha deciso che farà la giornalista. E, a diversità di tanti giovani come lei, trova subito collocazione. Non a "Paese Sera" (dove si licenzia) ma all'AGL (Agenzie Giornali Locali) dell'editore Caracciolo, parente di Agnelli, del gruppo editoriale che fa capo a "la Repubblica", "l'Espresso", "il Tirreno", "la Nuova Sardegna", "il Mattino" di Padova, "la Tribuna" di Treviso, "Ia Provincia pavese".

Una cordata tutta al servizio del PCI. Maria Berlinguer -che ha sangue blu nelle vene- si troverà bene. Anche perché l'ambiente è proletario e nobile al tempo stesso. Gli Agnelli e i Visentini sono, infatti, di casa.
Gradiremmo sapere, a questo punto, dal padre di Maria se anche questo episodio si può ascrivere alla «diversità» del PCI.
Sono «diversi» in quanto, a... «diversità» di milioni di giovani, le figlie del capo soddisfano le proprie ambizioni trovando subito collocazione adeguata?

 

15 novembre 1981

È morto a Borgosesia Vincenzo Moscatelli, comandante delle Brigate Garibaldi, senatore, deputato del PCI, sottosegretario di Stato nel 3° governo De Gasperi.
Il presidente della Repubblica Sandro Pertini, i ministri Nicolazzi e Aniasi, Berlinguer. Pecchioli, Scalfaro gli hanno reso omaggio. Arrigo Boldrini ha tenuto l'orazione funebre e di Moscatelli ha esaltato l'antifascismo, il carcere, la scelta di salire sulle montagne, gli ideali e il messaggio che ha consegnato. Così la stampa, la radio, la televisione.
* * *
L'8 luglio 1937, Vincenzo Moscatelli, dal carcere, inviava al prefetto di Vercelli, la seguente lettera: «Eccellenza! prima che l'onorevole Commissione Provinciale si riunisca per giudicarmi, sento il dovere di scrivere alla E. V. Illustrissima questa supplica, fiducioso che Ella vorrà benignarsi a prenderla in considerazione e trasmetterla all'Ecc.mo Ministro, affinchè io possa ottenere la sua indulgenza. Se nel passato ho mancato molto verso la Patria e verso il Regime, oggi sono lieto e orgoglioso di poter dichiarare che, con spontaneità superiore ad ogni sospetto di qualsiasi natura e direttamente derivata dall'impulso che soltanto la sincerità di animo sa dare, ripudio quel complesso di concezioni marxiste che la realtà fascista ha completamente vuotate del loro contenuto pseudo-scientifico di cui erano gonfie, dimostrandomi che soltanto il sistema corporativo sa effettivamente dare, coi fatti, ciò che altrove rimane e rimarrà eterna promessa.
E questo lo dichiaro non per opportunismo, ma per cosciente revisione di una mentalità che mi ero formata con la stessa buona fede con la quale oggi la sconfesso.
La certezza istintiva che la Giustizia fascista saprà premiare colui che lealmente dimostra buona volontà di riabilitazione, costituisce per me la migliore speranza di un presto ritorno in seno alla mia famiglia ed al mio lavoro: è stimolo a perseverare nella buona condotta affinchè rendermi sempre più degno della generosità del Duce e dei suoi collaboratori, nel clima, della nuova Italia Imperiale. Si degni accogliere, Eccellenza, il mio riconoscente grazie e il più rispettoso e devoto ossequio.
* * *
A pagina 279 della "Storia del Comunismo Italiano", Giorgio Galli, professore universitario, politologo di "Panorama", scrive: «Vincenzo Moscatelli, non resiste a lungo ai massacranti interrogatori e le sue rivelazioni permettono alla polizia di portare a termine la più colossale retata che sia mai stata fatta durante l'intero ventennio fascista. Soltanto a Parma, si ebbero 25 arresti, in Romagna 114, nel ferrarese 18. L'intera organizzazione del partilo comunista in Emilia Romagna, subì un colpo dal quale non potè riaversi se non molto lentamente e, comunque, mai completamente».
* * *
La direzione del PCI, davanti alta rivelazione della lettera (marzo 1953) di pentimento e di apologia del fascismo da parte di Moscatelli, emise un comunicato in cui è detto che la missiva era stata scritta per ordine del partito. Il mito Moscatelli era salvo.
* * *
Comunque la capitolazione di Moscatelli davanti al fascismo nel 1937, aveva un precedente illustre, quello del 1936, a tre mesi dalla proclamazione dell'Impero da parte di Mussolini, avvenuta il 9 maggio 1936.
* * *
Infatti, la direzione del PCI, in esilio, lanciava il manifesto dal titolo: «Per la salvezza dell'Italia e la riconciliazione del Popolo Italiano». La pubblicazione avveniva su "Stato Operaio", anno X, n. 8, agosto 1936. Il manifesto era indirizzato «al Popolo italiano, ai soldati, alle camicie nere, ai combattenti e volontari d'Africa».
«Lavoratore fascista», diceva il manifesto, «ti diamo la mano. Noi comunisti facciamo nostro il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori; Camicie Nere, Combattenti e Volontari d'Africa, vi chiediamo di lottare uniti per la realizzazione di questo programma. Noi proclamiamo che siamo disposti a combattere assieme a voi, fascisti della vecchia guardia e giovani fascisti, per la realizzazione del programma fascista del 1919.
Diamoci la mano, fascisti e comunisti, cattolici e socialisti, uomini di tutte le opinioni. Diamoci la mano e marciamo fianco a fianco. Abbiamo la stessa ambizione: quella di fare l'Italia forte, libera e felice».
* * *
Il manifesto del PCI in esilio (agosto 1936) porta le firme di: Palmiro Togliatti, Luigi Longo, Ruggero Grieco, Giuseppe Di Vittorio, Edoardo d'Onofrio. Maria Montagnana, Teresa Noce, Agostino Novella, Emilio Sereni, Ambrogio Donini. Celeste Negarville.
* * *
È proprio vero: la storia d'Italia dell'ultimo settantennio va tutta riscritta.

 

16 novembre 1981

«I comunisti li rispetto, non sono mai volgari come i missini»
(Indro Montanelli, "Panorama", 26.X.81, pag. 89)
* * *
Di che cosa si duole Montanelli? Del fatto che gli abbiamo più volte ricordato che non crede in nulla e che ha scritto di tutto e il contrario di tutto?
Che a Budapest Montanelli, 25 anni fa, durante la rivolta ha scritto una pagina di vita non cosi brillante come i suoi articoli?
Che, dopo avere esaltato la rivolta, poi se ne è pentito, per il complesso di inferiorità che ha con i comunisti ripudiandola?
Che il suo amore recondito va ai comunisti e il suo disprezzo ai socialisti, ma che è costretto a scrivere il contrario?
Perchè siamo i soli a dire che Montanelli non ha temperamento ma solo «splendidi» umori?
* * *
«Tutto il collaborazionismo (con i tedeschi, N.d.R.) del diciottenne Spadolini, che aveva appena preso la licenza liceale, furono un paio di articoli scritti per una rivista culturale fiorentina che continuò ad uscire sotto l'occupazione tedesca. Tutto qui. E mi pare un po' troppo poco per giustificare le chiacchiere che sono arrivate al suo orecchio. Si guardi bene da coloro che le mettono in circolazione o se ne fanno eco. Quando non sono degli impostori senza coscienza, sono degli irresponsabili senza cervello».
(Indro Montanelli, "La parola ai lettori", "il Giornale", 4-XI.81).
* * *
Alcune precisazioni. Doverose. Montanelli è disinformato, ed è grave per il direttore di un quotidiano caratterizzato politicamente, come il suo. La rivista culturale fiorentina ("Italia e Civiltà"), di cui scrive Montanelli, esce, per la prima volta, l'8 gennaio 1944, cioè in piena occupazione tedesca.
Il diciottenne Spadolini, che su quella rivista collabora fin dal primo numero, non si limita a scrivere «due articoli». Ne scrive parecchi, e di tutta la redazione (Giovanni Gentile, Arrigo Soffici, Barna Occhini, Silvano Tosi, Enrico Sacchetti, Marco Ramperti, Primo Conti), è il più estremista.
Se è vero, come è vero, che il rimprovero più solenne che rivolge al Fascismo è quello di non essere stato, nei riguardi dei suoi avversari, «spietato», come lo sono stati la Germania di Hitler e la Russia di Stalin.
* * *
Questa rampogna spadoliniana ("Civiltà Italica", 15 gennaio 1944), svolta con spietata logica giacobina, sarà bene riportarla nella sua frase essenziale. L'articolo va sotto il titolo: «Responsabilità».
«Ma perchè il fascismo, domanderà qualcuno, non ha come il nazismo in Germania e il bolscevismo in Russia, eliminati e spazzati via senza pietà e senza riguardi tutti i caporioni e i papaveri del disfattismo nazionale? Ma appunto perché il fascismo, a causa di certi suoi gerarchi corrotti ed indegni o disposti al compromesso con tutto e con tutti, e per il suo progressivo adagiarsi nel "tutto bene" aveva perduto il mordente, la spregiudicatezza e l'energia di un tempo, anzi era, come partito, in stato di avanzato scadimento come si è rivelato chiaramente il 25 luglio».
Nota non marginale: questo articolo Giovanni Spadolini lo scrive durante il pubblico dibattimento del processo di Verona che doveva condannare alla pena capitale Galeazzo Ciano, Giovanni Marinelli, Carlo Pareschi, Emilio De Bono e Luciano Gottardi.
* * *
Un paio di articoli... scrive Montanelli. Prendiamone, nel mucchio, un altro. Questo è del 22 aprile 1944. Giovanni Spadolini, commemorando il filosofo Gentile, assassinato dai partigiani, pone un parallelo fra coloro che si battono per ridare all'Italia «unità di spiriti, volontà di potenza, stimolo di grandezza», e coloro che si adoperano «perchè l'Italia sia quella terra di straccioni e di pezzenti, di servi e di lacchè, di albergatori e di mezzani, che corrisponde ai desideri della parte più spregevole e degenerata della nostra razza».
Sarà bene chiarire, in termini semplici, a chi allude Spadolini. I primi sono i fascisti, i secondi («straccioni, pezzenti, lacchè e mezzani») sono i partigiani.
* * *
Come si può constatare (con mano) il diciottenne, di cui Montanelli ci parla prendendone le difese, non si dilettava di argomenti culturali, ma scendeva, coraggiosamente (gli va dato atto), nella mischia; prendeva posizione, stendeva giudizi, duri, inesorabili. Una cosa, soprattutto, aveva nel suo mirino: il liberalismo, la democrazia. La sua penna si arroventava quando affrontava il tema della democrazia. E non aveva dubbi: la sotterrava sotto una valanga di durissimi giudizi.
* * *
Perchè, secondo Montanelli, coloro che ricordano queste vicende sarebbero «impostori senza coscienza, irresponsabili senza cervello»?
Forse perché è proibito attaccare «il Capo», il Pilota, il Faro che guida, attualmente, la nave Italia?
Non disturbiamo il Pilota, d'accordo. Ma per questo non c'è alcun bisogno che Montanelli scriva cose non vere. Se intende difendere Giovanni Spadolini lo faccia. Per carità, nessuno glielo vieta. Ma con altri argomenti.
* * *
A 18 anni, da una parte e dall'altra, nel 1944, ci sono stati giovani che hanno pagato, anche con la vita, la fedeltà alle proprie idee. E nel momento decisivo, da una parte e dall'altra, non hanno invocato la giovinezza per aver salva la vita. Hanno guardato se necessario la morte. Con il coraggio della maturità. E hanno saputo testimoniare. Con il sangue. E ciò dà loro il diritto di essere ricordati.
* * *
E dato che questi diciottenni sono caduti anche per gli scritti che altri diciottenni stendevano, sarà bene che questi ultimi, saliti oggi ad altissimi posti di responsabilità, se devono essere in qualche modo esaltati, non portino a giustificazione la giovane età per i... peccati compiuti. Per la verità Spadolini non lo fa. Lo fa Montanelli.
Comunque: l'aver demonizzato il passalo porta a conseguenze aberranti: a non aver passato, e l'uomo senza passato è vissuto male, o a vergognarsene e, quindi, a tentare di cancellarlo.
Con gli effetti che si vedono: vergogna e ridicolo. È una bruita miscela. E poi, nelle presenti condizioni, in cui tutti quanti ci ritroviamo, possiamo davvero fare il processo al passato?
O il passato deve processare noi? Culturalmente sta già avvenendo?

 

20 novembre 1981

Il tribunale di Sondrio (nella provincia oltre il 50% dei voti sono democristiani) ritiene lecito, con sentenza del dicembre 1980, che un cittadino possa accusare la DC di «attività delinquenziale».
Ora, dati anche questi precedenti, la vicenda che vede l'ex-senatore Gastone Nencioni, disperatamente proteso a chiedere la iscrizione nelle fila della DC, e questa rifiutargliela, ci muove ad indignazione.
Primo pensando che, ahimè, Gastone Nencioni è stato per anni alla testa del gruppo senatoriale del MSI; secondo che vi possa essere un... personaggio che si fa dire quello che gli dicono, pur di essere ammesso in un organismo politico così squalificante da far venire il rossore alle gote, solo con il pronunciarne il nome.
* * *
Anche "l'Unità" si occupa, e in prima pagina, della «vergogna» Nencioni (4.XI.81). «Quello che De Giuseppe (presidente del gruppo senatoriale della DC, N.d.R.) si guarda bene dall'evocare», scrive I'organo comunista, «è il fatto che Nencioni aveva un credito da esigere dalla DC essendo stato uno degli autori del tentativo di dar vita a un movimento di destra (la cosiddetta Democrazia nazionale, N.d.R.) fiancheggiatore della DC. Tale benemerenza, nonostante l'esito disastroso, doveva essere ripagata».
* * *
Qui "l'Unità", come suo solito, non dice tutto. Infatti coloro che, insieme alla DC, figurarono fra i più attivi perché "Democrazia nazionale" prendesse il via, furono proprio i comunisti. In testa, Pietro Ingrao, presidente allora della Camera.
"Democrazia nazionale", senza la decisione del presidente della Camera di consentire la rapina di parte del finanziamento pubblico destinato al MSI a favore dei vari Nencioni, mai avrebbe visto la luce.
E Ingrao, con la collaborazione del capo dell'ufficio legale della Camera, il comunista avvocato Antonino Terranova, ce la mise tutta perché quella decisione fosse presa.
Qual'era il prezzo dell'operazione?
Che la destra di comodo coprisse, con il suo silenzio, l'accordo (allora in atto) di governo DC-PCI.
Nelle pratiche corruttrici il PCI non è da meno della DC.
Anzi. Corrompe. Con arroganza.
* * *
Incontro fra le delegazioni democristiana e socialdemocratica. L'operatore della TV passa in rassegna i protagonisti. Accanto a Piccoli c'è il prof. avvocato Ugo Zilletti. Accanto a Longo c'è Costantino Belluscio. Sorrisi e strette di mano.
Ma, perdonate, lo Zilletti, già vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, non era stato dimesso in quanto il suo nome brillava fra le carte del venerabile Gelli?
E che dire di Longo, dei suoi colloqui con il capo della Loggia? E Costantino Belluscio, le sue appassionate difese di tutte le logge, compresa quella di Gelli ?
Eccoli lì, davanti ai teleschermi, al cospetto degli Italiani.
In vetrina. Si incontrano per risanare l'Italia.
* * *
Secondo il "Corriere della Sera" (15.XI.81) le uova che sono volate all'indirizzo delle autorità nella manifestazione antiterrorismo di Verona (un vero fallimento, scrive "il Giornale"), dopo avere colpito il ministro Rognoni, il sindaco di Verona, il questore, il Gonfalone del Comune di Marzabotto, hanno sfioralo il leader della UIL Benvenuto che, rosso in volto, carico di ira, ha investito i contestatori (autonomi, N.d.R.) «quattro gatti intirizziti dal freddo» ("il Giornale", 15.XI.81): «Non avete fatto ascoltare il messaggio di Pertini. Ve lo voglio ripetere perchè noi siamo per il diritto alla parola. Forse c'è qui, in questa piazza, qualche missino travestito, ma travestito da fascista».
* * *
A Giorgio Benvenuto riconosciamo il pieno diritto di parlare di travestiti, ma che si tratti di travestiti «puri», senza ulteriori aggettivazioni. Se ne intende.
Meno di «missini travestiti da fascisti». Se mai Benvenuto è autorizzato ad occuparsi dei fascisti che, nella UIL, si sono, a suo tempo, travestiti da sindacalisti. Sindacalisti che, fra l'altro, intavolarono rapporti d'affari con Michele Sindona.
Se Giorgio Benvenuto ha dimenticato, noi no. Ce lo chieda: gli forniremo tutti i particolari.
* * *
«Cinquanta tiratori scelti dell'area di Autonomia. Non hanno lanciato molotov, ma alcune decine di uova... Hanno centrato in pieno il ministro dell'Interno Rognoni che, scambiato il suo paltò macchiato con quello di un poliziotto, ha pronunciato il suo discorso con i gradi di brigadiere». ("il Giornale", 15.XI.81).
Il ministro di polizia con i gradi di brigadiere.
Uno scherzo del destino?
* * *
Giuseppe Milazzo e Salvatore Mancino, due siciliani emigrati in provincia di Firenze, vengono trucidati a colpi di lupara.
I giornali (18.X.81) scrivono che i due assassinati facevano parte del clan di Vincenzo Rimi, boss di prima grandezza detta mafia, morto in carcere.
* * *
Già, è vero. E che Vincenzo Rimi fosse di prima grandezza è dimostrato da inoppugnabili atti parlamentari. Infatti, a favore suo, fra l'aprile 1969 e il 1971, sono intervenute diverse persone, fra le quali il ministro di Grazia e Giustizia Reale (PRI), i sottosegretari alla Giustizia Pellicani (PSI), Dell'Andro (DC), Pennacchini (DC), i senatori Corrao (PCI) e Cifarelli (PRI).
Come vedete ministri e sottosegretari al soccorso di un mafioso prestigioso e pluriomicida. Fateci caso: c'è tutto l'arco costituzionale.
Direte non è possibile, non è vero, è una calunnia.
Fatemi un favore, perchè non dite a lor Signori di querelarmi?

 

22 novembre 1981

Si vendicano del padre e della madre. Questa la tesi, di origine psicoanalitica, secondo cui i radicali si caratterizzerebbero. È il caso, affermano gli intenditori, di Ciciomessere. Figlio di un ufficiale dell'Esercito, rigidissimo, e di una greca, donna di straordinaria bellezza.
Il dramma del figlio, freudianamente, nascerebbe da lì. Squassato fra la divisa del padre e la bellezza della madre
* * *
Su "la Navicella", lo stesso Cicciomessere, scrivendo di suo pugno, le note più salienti della sua vita, da forza a questa tesi. Infatti, dopo avere detto di essere nato a Bolzano 33 anni fa, di essersi iscritto al Partito radicale a 21 anni, e di non aver fatto altro nella sua vita che il... radicale, tiene a sottolineare di avere subito, per non aver voluto vestire la divisa militare, più di 50 processi, processi che lo hanno portato ad essere recluso nelle carceri militari di Peschiera del Garda, di Forte Boccea, e di Cagliari.
Per un figlio dì un militare non c'è... male. La vendetta contro il padre, psicanalisi aiutando, è stata portata a termine.
Vistosamente.
* * *
Andiamo oltre. Sempre nella "Navicella" troviamo scritto: «Candidato radicale per la Camera nelle circoscrizioni di Milano, Torino e Udine, Cicciomessere è eletto deputato il 3-6-79 nella circoscrizione di Torino, con 3.930 voti preferenziali».
La vicenda, a questo punto, merita un chiarimento.
* * *
Il parto elettorale di Cicciomessere non è così semplice. È più complesso, diremo contorto. Vediamolo insieme. Nella Circoscrizione di Milano l'onorevole Cicciomessere è quinto con 4.310 voti preferenziali (Pannella ne ha 28.189, Sciascia 17.387, la Faccio 12.243, Pinto 6.059). Non passa.
Nella circoscrizione di Udine, l'onorevole Cicciomessere. capolista, è trombato. Nessuno è profeta in patria. Preferenze: 2.338.
* * *
Nella circoscrizione di Torino, dove lo stesso Cicciomessere, trionfalmente, ci fa sapere di essere stato eletto, la situazione, espressa dal voto popolare, è questa:
1) Aglietta, voti 19.015
2) Sciascia, voti 13.973
3) Spadaccia, voti 8.289
4) Pinto, voti 5.155
5) Cicciomessere, voti 3.930.
* * *
Come è stato possibile che Cicciomessere arrivasse sui banchi di Montecitorio quando i voti popolari lo confinavano a Torino al quinto posto con 3.930 voti di preferenza?
Presto detto: Sciascia, eletto anche a Roma, viene dirottato su quel collegio; Spadaccia, eletto anche al Senato, io si invia a Palazzo Madama; Pinto, eletto anche a Milano, lo si fa optare per il capoluogo lombardo.
I su descritti «accorgimenti» comportano, per fare eleggere Cicciomessere, un'altra serie laboriosissima di opzioni a catena.
È così che l'antimilitarista Cicciomessere entra alla Camera.
* * *
A questo punto vorremmo che il deputato radicale ci facesse sapere se la sua «sistemazione» può farsi rientrare in quei canoni della democrazia diretta e partecipativa di cui lo stesso Cicciomessere non manca mai di richiamarci, con accenti, a volta pedagogici, a volte irati, di grande santone del viver civile e democratico.
A modesto parere di chi scrive, quando ci si trova in simili situazioni, l'umiltà dovrebbe essere la regola.
Cicciomessere non sa cosa sia l'umiltà. Conosce solo l'insolenza e lo smisurato orgoglio di sé. Egli, per dirla con Eliot, crede, come il gallo, che il sole si sia levato per udirlo cantare.
Non è cosi.
* * *
Non è poi vero che l'on. Cicciomessere abbia voluto restare un po' in ombra nell'ultimo congresso nazionale del Partito radicale di Firenze.
È una malignità. Ha invece lavorato con la consueta alacrità e passione, impegnandosi in particolare sui problemi del sesso.
Ho sotto di me un lungo documento del Coordinamento nazionale del Sex pol.
È un appello appassionato «agli omosessuali, alle lesbiche, alle donne che amano più uomini, agli uomini che amano più donne, a quanti vogliono vivere una sessualità più libera».
Un punto, delle varie richieste, mi ha impressionato; quello per cui lo Stato e gli enti locali dovrebbero farsi promotori detta costruzione di «spazi» (sic!) per incontrarsi e fare l'amore.
Di che si tratta? Si torna, per caso, alte case di tolleranza (l'inventore fu Francesco Crispi), questa volta gestite interamente dalla mano pubblica?
Chiamali fessi, questi radicali! In questo settore produttività, rendimento, utili, soprattutto margini di profitto. sono assicurati. È un settore che non soffre crisi.
Sarà, allora, previsto un consiglio di amministrazione, appositamente lottizzato fra le varie componenti democratiche? E la presidenza a chi andrà?
Cicciomessere non ha avuto il tempo di precisare questi dettagli. Lo farà, senz'altro, la prossima volta.

 

27 novembre 1981

Racconta lo storico Renzo De Felice, nella sua monumentale storia del fascismo ("Mussolini, il Duce, lo Stato totalitario", Einaudi editore) che le condanne, pronunciate dal Tribunale speciale fra il 1927 e il 1939, furono 3596: con una punta massima di 639 nel 1928, una minima di 59 nel 1933 ed una media di 376 nel corso di questi tredici anni.
A tutto il 25 luglio 1943, sempre per lo storico Renzo De Felice, le Commissioni Provinciali per il confino emisero 15.470 ordinanze. Al momento della caduta del fascismo (25.7.43) i confinati erano 1.882; gli altri 13.411i erano stati rimessi in libertà e 177 erano deceduti per morte naturale.
* * *
Se facciamo un paragone con la situazione attuale (1981), scopriamo che le differenze numeriche, riguardanti le condanne erogate in regime democratico per la difesa dello Stato repubblicano con quelle emanate a difesa dello Stato fascista, non sono affatto rilevanti. Anzi.
Quindi, la morale è questa: la difesa delta Repubblica antifascista, presieduta dal resistente Sandro Pertini, richiede un impegno e un volume di azioni repressive grosso modo paragonabili a quelle su cui si puntellò il regime fascista.
* * *
«Fra il 1969 e il 1980 i morti per terrorismo sono stati complessivamente 362; 6.011 feriti in agguati e in stragi, cui sono da aggiungere 4.000 feriti nel corso di 12.156 attentati ed episodi di violenza».
(Leo Valiani, "Dodici anni di terrorismo", "il Corriere della Sera", 7.XI.1981)
* * *
Il terrorismo (non lo si dimentichi mai), di ieri e di oggi, ha sempre avuto alla base la contestazione della legittimità del potere, una perdita radicale di consenso da parte delle istituzioni. Si spara e si uccide perché, a torto o no, si afferma che l'autorità costituita non rappresenta il popolo; anzi, lo opprime, e perciò va colpita.
Il terrorismo, nella sua storia più che millenaria, si è sempre giustificato cosi. Parallelamente al suo esistere e operare c'è l'esistenza di una crisi di legittimità.
* * *
Ed ecco la domanda: come mai, in tutto il periodo fascista, cioè in regime autoritario, illiberale, antidemocratico, non si trova, neppure lontanamente, un periodo che possa, in ordine a stragi, attentati, agguati, dettiti, morti, feriti, essere paragonato a quello citato da Leo Valiani (1969-1980), cioè un dodicennio così sgradevole. cosi carico di sangue e che macchia l'immagine dell'Italia, libera, democratica, antifascista e resistenziale?
Come mai. durante il ventennio mussoliniano. non si sviluppò una contestazione di sangue, cosi come si è prodotta contro la Repubblica antifascista?
Dovrebbe rispondere Leo Valiani. Lo farà?
* * *
Indagine demoscopica: oggi il 74,5% degli Italiani non ha fiducia nei partiti: il 60% non ha fiducia nel Parlamento: il 70,9% non ha fiducia nei parlamentari; l'84% non crede nella serietà e nella onestà degli uomini di governo.
Ciò significa che 73 elettori democristiani su 100 e 87 elettori laici su 100, cioè coloro che volano l'attuale governo, ritengono i ministri un branco di inetti e di ladri.
* * *
Che l'indagine demoscopica non sia tanto lontana dal vero, lo dimostra il fatto che, sia Palazzo Montecitorio il quale accoglie la Camera dei Deputati, sia Palazzo Madama il quale ospita il Senato, sono divenuti dei veri e propri bunker, delle linee Maginot e Sigfrido,
Dappertutto fortilizi presidiati 24 ore su 24; le vie di accesso disseminate di corsie che costringono a percorrere spazi obbligati, stretti, a passo d'uomo; le entrate delle Camere dotate, non solo di vetri antiproiettile, ma di tutti i più sofisticati servizi di sorveglianza.
* * *
Non avevano affermato, quando arrivarono insieme alle liberatrici armate anglo-americane, che (finalmente!) per colloquiare con i governanti democratici, il popolo non sarebbe stato più costretto ad essere incolonnato in piazza per applaudire «a distanza», ma avrebbe potuto (finalmente!) incontrare, davanti a Montecitorio e a Palazzo Madama, davanti a quelle porte aperte, apertissime, i rappresentanti del Popolo?
* * *
Fascismo-antifascismo. Nella locuzione evangelica, trovo: «E che guardi tu il fuscello che è nell'occhio del tuo fratello, e non avvisi la trave che è nell'occhio tuo? Ipocrita, trai prima dall'occhio tuo la trave, e poi avviserai di trarre dall'occhio del tuo fratello il fuscello». (San Matteo, VII, III, 5).

 

29 novembre 1981

Lo «storico» Mack Smith. Il suo ultimo parto è una storia su Benito Mussolini. Ma è vera storia?
E può -scusate il bisticcio- uno «storico», che non è uno «storico», scrivere libri di storia?
Il bisticcio merita un chiarimento. O meglio un interrogativo, cui può rispondere solo Mack Smith.
L'interrogativo è questo: come mai lo «storico» Mack Smith non è mai riuscito, nella sua patria inglese, ad ottenere la cattedra ma un suo surrogato, e viene, in Italia, fra noi, a fare il cattedratico?
* * *
Secondo interrogativo: quali sono le motivazioni, grazie alle quali, lo «storico» Mack Smith, quando traduce per i connazionali i suoi libri dall'italiano all'inglese, accuratamente omette di riportare passi dell'edizione italiana dedicati alla notizia pamphlettistica scandalistica, sfiorante la libellistica?
Si prenda, tanto per fare un esempio, il libro "Vittorio Emanuele II", edizione Laterza, autore Mack Smith. L'edizione italiana si dilunga nell'avvalorare la diceria che Vittorio Emanuele II fosse un figlio spurio (e precisamente di un macellaio fiorentino), messo al posto del vero Vittorio Emanuele, quando questi avrebbe subito ustioni mortali a Poggio Imperiale (Firenze) nel settembre 1822.
Se sfogliate l'edizione inglese questa «malignità» è appena accennata in una nota di due righe.
Perché questo diverso comportarsi?
* * *
Forse perché Mack Smith ha degli Italiani un concetto di sapore razziale, valutandoli, più che attenti studiosi e storici, degli individui alquanto leggeri, superficiali, dal palato goloso per le malignità? E che, invece gli inglesi, suoi connazionali, non sopporterebbero perché studiosi attenti e seri?
Abbiamo I'impressione che anche il suo Mussolini sia stato scritto con questa mentalità.
Non dunque opera storica, ma libello. E i libelli passano. Mussolini resta.
* * *
«Il colonnello Gheddafi? Anche quello è una creatura di Mussolini. I fascisti hanno sterminato metà della popolazione della Cirenaica, con le armi chimiche e la fame. Ecco perché, dopo la guerra, in Libia è nato un vasto movimento anti-italiano, lo stesso che ha portato al potere Gheddafi».
(«A colloquio con Denis Mack Smith». "Il Sole - 24 Ore", 3-11-81).
* * *
Qui lo storico inglese precipita nell'impudenza. Se c'è un popolo che ha esercitato il colonialismo nel modo più barbaro, assassinando e sterminando, e con una crudeltà impareggiabile, intere popolazioni, questo è l'inglese.
E il signor Smith, questo gentleman, ci viene, su tale materia, a fare la morale, a noi Italiani. Che cialtrone.
* * *
Le strade, gli acquedotti, gli ospedali, le case coloniche, il grano del Gebel cirenaico, la cittadinanza speciale per i libici. No, per lo... storico Mack Smith, queste realizzazioni, dovute al lavoro degli italiani, non esistono. Siete stati solo dei torturatori, ecco perché vi meritate Gheddafi.
* * *
Ma se dalla Libia italiana dagli italiani, secondo Mack Smith, martorizzata, si entrava -a quei tempi- nell'Egitto di Sua Maestà britannica, che si trovava? La civiltà? Il progresso? Il paradiso? Dovunque deserto, dovunque miseria. Dovunque gli arabi, con la pelle resa cartone dallo sfruttamento.
Ecco il confronto! Ma qui, cialtroni, ahimé, siamo noi che a Mack Smith diamo ospitalità, quattrini, ed incarichi.
* * *
Sono andato a ritrovare un articolo di Giovanni Ansaldo. Si intitola: «Diario egiziano». Porta la data del 15-1-1952. Ventinove anni fa. «Quella popolarità», scrive Ansaldo, «che qui, ad onta della latente xenofobia, circonda ancora il nome dell'Italia, poggia, me ne accorgo sempre di più, ancora sulla guerra di Etiopia».
«Lei non ha idea», mi dice oggi un italiano di qui, «che cosa fu quell'anno qui in Egitto (1935). Fino allora, gli Europei, qui avevano fatto fronte unico; c'era stata la frattura della guerra 14-18, ma poi il fronte s'era alla meglio ristabilito. E l'Inghilterra sempre su, per una specie di convenzione, rispettata da tutti. In quell'anno, invece, una nazione bianca ruppe la convenzione, e cominciò a parlare chiaro, fuori dai denti. E cominciò a parlare, avvalendosi dei mezzi della tecnica moderna, della radio; raggiungendo cioè strati sociali che la stampa non avrebbe raggiunto mai. Non le dico. In ogni villaggio del Delta, in ogni accampamento di beduini arrivò questa novità immensa: che dei bianchi, gli Italiani di Mussolini. dicevano corna degli Inglesi. Fu una rivelazione. I saluti romani che s'è veduto fare al Musqui, si ricollegano ancora a quella rivelazione».
* * *
In fondo lo... «storico» Mack Smith non ha tutti i torti. Ancora gli ribolle dentro che l'Italia del 1935 abbia osato «parlar fuori dai denti» agli Inglesi e che, grazie a quel parlar duro, il mondo arabo, per la prima volta, fosse pervaso da sentimenti di rivolta e di libertà contro la più che cinquantennale schiavitù inglese. Ancora gli ribolle dentro che il colonialismo inglese, fino ad allora temuto e rispettato, proprio dal 1935, iniziasse, per virtù dell'Italia, la sua parabola discendente.
Sì, siamo stati sconfitti e umiliati, signor Mack Smith, ma la memoria storica non ce la siamo ancora giocata. È li. È pietra. Non si cancella. Si figuri se lo può fare lei, con le sue interviste e i suoi libelli.
* * *
In quanto alle popolazioni libiche, che sarebbero state sterminate dagli italiani, ci fa d'uopo ricordare che gli ultimi italiani, caduti per mano di altri bianchi, finita da tempo la seconda guerra mondiate, sono triestini. Appena diciottenni. Lottavano per la libertà della propria terra. E ad assassinarli fu la fucileria inglese del colonnello Wintherton. In nome degli slavi. Con spietata, coloniale ferocia.
Perché, signor Mack Smith, non prova a scriverci un libro? Un libro, non un libello..

 

2 dicembre 1981

Trovo fra I ritagli dei giornali che riguardano il processo dell'Italicus, attualmente in svolgimento a Bologna, continui, insistenti riferimenti del Pubblico Ministero dott. Persico alla P2. Secondo il magistrato la chiave per capire il movente della strage è tutta li.
L'ultimo episodio P2-strage, secondo Persico, riguarderebbe un certo Giovanni Gallastroni che, nell'agosto 1980, pochi giorni dopo la strage di Bologna, avrebbe dichiarato ad un ufficiale di polizia giudiziaria di Arezzo che, nel 1975, il latitante Augusto Cauchi, «neo-fascista», ma ufficialmente uomo dei servizi segreti, era in ottimi rapporti con Gelli, dal quale avrebbe avuto ingenti somme di denaro.
* * *
Non sappiamo se il dott. Persico si renda conto del significato dei suoi affondi accusatori. Davanti a sé come imputati ha la manovalanza, ma Gelli, il Venerabile, aveva fra te mani ben altre pedine.
Che ne dice il dott. Persico del fatto che il prof. avvocato Ugo Zilletti, vice presidente (nientemeno!) del Consiglio superiore della Magistratura, figura nelle carte fra coloro che, con Gelli, avevano rapporti di denaro?
Cauchi - Zilletti, insieme nella P2. Come la mettiamo, dott. Persico?
Continueremo a far volare gli stracci?
* * *
Sedici febbraio 1981, Firenze: manifestazione contro il terrorismo. Promotore: il Consiglio regionale delta Toscana. Oratore ufficiale della manifestazione: il prof. avv. Ugo Zilletti. Un anno fa. La vicenda della P2 è ancora da venire.
* * *
Questi alcuni concetti espressi, in quella occasione, dal prof. Zilletti.
«Esiste addirittura una strategia comune della destra e della sinistra. Dobbiamo riflettere che i non reazionari e i totalitari sono l'oggetto degli attacchi terroristici, ma i democratici progressisti e aperti. E se cosi non fosse, come spiegarsi la confluenza del terrorismo di destra con quello di sinistra, cosicché, quando uno tace si fa avanti l'altro?».
Ma il PM Persico, da Bologna, ci fa sapere che per lui la P2 ha le mani in pasta in brutte vicende di sangue, stratega il belzebù Gelli. Ma con Gelli c'era, nientemeno, che il capo di tutti i magistrati d'Italia, compreso Persico?
Ditemi voi: quale situazione più paradossale?
Peccato che non ci sia un Pirandello a interpretarla.
Ma come si fa, in questa situazione di degradazione morale, a venire a capo della verità?
* * *
«Marco barbone della XXVIII Marzo (è il gruppo terroristico di sinistra che ha assassinato il giornalista milanese Walter Tobagi) ha dichiarato, nel suo interrogatorio, che il suo gruppo ha versato alla rivista "Metropoli" dieci milioni, in cambio di un quantitativo di armi, armi che sarebbero servite a mettere in atto alcune rapine, i cui proventi sarebbero stati inviati poi, in misura congrua, anche a "Metropoli"». ("l'Unità", 10.2.1981)
* * *
«"Metropoli" avrebbe però usufruito» è sempre "l'Unità" che scrive «di altri finanziamenti anche da parte del Centro Ricerche di programmazione economica e territoriale (CERPET). la cui sede è a Roma, in Piazza Cesarini Sforza, dove si trova (ma guarda il caso!, N.d.R.) anche la sede redazionale di "Metropoli"».
* * *
Cosa ci sia dietro il CERPET lo ricaviamo dall'interrogatorio (Giudice istruttore Rosario Priore. 30.6.79) di tale Luigi Sticco, impiegato presso la Corte dei Conti e iscritto al PSI.
«Sticco ha dichiarato di essere stato contattato nel 1976 da certo Antonio Landolfi, il quale gli chiese di fare da prestanome per l'iscrizione della società CERPET: con la raccomandazione che, espletate le formalità, doveva sparire di circolazione. Da quel momento non doveva, per nessuna ragione, avere contatto con quelli del CERPET. Insomma non doveva più impicciarsi... La sua parte l'aveva fatta».
I soci veri del CERPET erano invece Lanfranco Pace e Stefania Rossini, già amica di Landolfi e poi di Pace.
* * *
Spunta l'alba del 14 novembre 1981. I giornali: «Inquisiti per banda armata Antonio Landolfi e una giornalista romana».
Antonio Landolfi è senatore della Repubblica italiana. Fa parte della direzione nazionale del PSI. Si dichiara «manciniano».
* * *
Particolare (esilarante): fra i finanziatori di "Metropoli"; oltre il CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) e il Formez (Centro di Studi e di formazione per il Mezzogiorno), la Montedison. Questa ultima (e qui siamo nel dramma) è l'azienda alle cui dipendenze lavorava l'ing. Taliercio, massacrato dai terroristi. Quindi i quattrini delle Montedison. della ricerca, della Cassa del Mezzogiorno finiscono nelle tasche di chi organizza agguati, rapine, assassinii, stragi.
Questa è l'Italia 1981. Pertini afferma che. malgrado tutto, è un Italia che progredisce.
* * *
Il PSI, dalle colonne de "l'Avanti!", ha accusato la FIM-CISL di proteggere i terroristi. La CISL ha risposto che il PSI deve stare attento a quello che dice. E sono scesi nei particolari. Nell'aprile del 1980, ha affermato la CISL, quando fu arrestato Perotti, iscritto alla UIL, delegato, membro del coordinamento nazionale e della segreteria provinciale della UILM. La UILM milanese si rifiutò di sospenderlo. Lo fece solo dopo che, catturato, Peroni si dichiarò prigioniero politico.
«E i due arrestati a Bologna, l'anno scorso -ha insistito la CISL- con armi e il resto» chi erano se non iscritti alla CGIL, con tessera socialista?
* * *
Si potrebbe cantare: «Chi è più terrorista di me»? CISL, UIL o CGIL? Sull'aria della vecchia canzone italiana: chi è più felice di me.

 

5 dicembre 1981

Ieri sera (4/5/1945) Sandro Pertini ha preso una squadra Matteotti, si è recato alla villa che ospita il Principe di Piemonte, in visita a Milano, e ha fatto scaricare i mitra contro le finestre illuminate: a titolo dimostrativo, dice ridendo».
(Pietro Nenni, «Tempo di guerra fredda» "Diari 1943-1956").
* * *
Mercoledì 18 novembre 1981, nella sala cenacolo di Via Valdina, in Roma, c'è stata una conferenza su Bakounine. Uno dei relatori: il senatore, storico Leo Valiani.
Valiani da Bakounine è venuto a tracciare un profilo del terrorismo più vicino ai giorni nostri e, fra l'altro, ha raccontato l'episodio che lo vide, in terra di Spagna, amico dell'anarchico Buenaventura Durruti.
A parte il fatto che Valiani ha descritto Durruti come un «sognatore», «pur avendo ammazzato il Cardinale di Saragozza, compiuto rapine e svaligiato banche» (parole del senatore, appartenente, come si sa, all'arco delle forze democratiche), quello che ha lasciato perplessi è la versione che lo stesso Valiani ha accreditato della morte dell'anarchico, figura ben nota in tutta la Spagna repubblicana. Morte che sarebbe avvenuta quando, sul fronte di Madrid, volendo mettere un po' di disciplina fra le truppe che comandava, ne avrebbe provocato la ribellione, tanto che gli spararono. Morto, sicché, per Valiani, per mano anarchica.
* * *
È la versione dei comunisti. Però non è quella degli anarchici che quella morte fanno risalire ai comunisti quando costoro, per obbedire alle nuove direttive di Stalin -che voleva in quel momento, per ragioni di politica estera, cattivarsi la benevolenza degli inglesi, si era ai tempi dei fronti popolari- decisero di smantellare, in terra di Spagna, tutte le conquiste operaie e di ripristinare la democrazia borghese, fu un autentico massacro. Specie in Catalogna. Anarchici e socialisti caddero sotto il piombo dei giustizieri comunisti. Uno dei più feroci, nella repressione, fu Luigi Longo.
Ecco, è in questo clima di scontro fra anarchici e comunisti, clima che preesisteva al massacro, che Durruti viene eliminato.
Valiani accredita la versione opposta, quella di comodo, quella dei comunisti. Perché mai? Antiche solidarietà?
* * *
I giornali hanno dato risalto alla morte di Renato Ciadri, il partigiano Bube del più famoso romanzo di Carlo Cassola ("La ragazza di Bube"), oggetto di un noto film di Comencini.
"la Nazione" (8/11/1981) ha scritto: «Bube scappò all'estero nel 1945, dopo una sparatoria davanti ad una Chiesa, vicino Firenze, nella quale rimasero uccisi un maresciallo dei carabinieri, suo figlio e due partizioni».
«La sparatoria», sempre secondo "la Nazione", «fu l'epilogo violento e imprevisto di una discussione nata perché il prete non voleva far entrare in Chiesa alcune partigiane in pantaloni».
* * *
Come sempre si toccano temi adatti perché menzogna e conformismo dispieghino tutto il loro effetto: il carabiniere, la repressione, i partigiani, cioè la resistenza, cioè il bene che viene colpito.
Un lettore, il signor Antonio Rebasti, in data 8/11/1981, ha cosi replicato a «quella» versione:
«Ho letto su "la Nazione" di domenica 8 novembre la notizia della morte di Bube. Amico di famiglia di quel galantuomo del maresciallo dei carabinieri, anche lui ex partigiano, ucciso con il figlio ad una festa al Santuario della Madonna del Sasso, ho un ricordo del fatto diverso da quello riferito dal Suo giornale. Fra l'altro non mi risulta che nella "sparatoria" siano stati uccisi due "partigiani". Riportando l'episodio cosi come l'avete riportato sembra un episodio della Resistenza, mentre si è trattato semplicemente di un fatto di teppismo avvenuto circa un anno dopo il passaggio della guerra».
Il nome resistenza fa storia, ma, spesso, é una storia tutta da rivedere.
* * *
Alla Commissione Inquirente: in arrivo nuovi documenti cosiddétti emblematici. Questa volta riguardano lo scandalo dei petroli. Stranamente il presidente della Commissione ha nominato un solo relatore (anziché due) perchè riferisca.
C'è, fra i documenti, una telefonata fra il petroliere latitante Musselli, grande architetto della truffa, e persona amica.
Musselli dice: «In quanto a Reggiani, statti sicuro, lo tengo in pugno ...».
Reggiani è l'onorevole Reggiani Alessandro, socialdemocratico, presidente della Commissione Inquirente.
Fino ad oggi, pur essendo già stato abbondantemente sfiorato dalla vicenda petroli, non si è dimesso.
Le dimissioni? Ma che sono mai? Un istituto sorpassato.
Da mettere nella grande riforma ed eliminare. E cosi Reggiani aspetta. La... grande riforma.
* * *
È trascorso un ventennio dalla morte di Luigi Einaudi, già presidente della Repubblica, professore ed economista di fama.
Di lui questo giudizio. Lo ricaviamo da un suo libro: "Le lotte del lavoro", edito da Pietro Gobetti. Torino 1924.
«A tanta distanza di tempo; riandando coi ricordi a quegli anni giovanili, quando assistevo alle adunanze operaie sui terrazzi di via Milano in Genova o discorrevo alla sera in umili osterie dei villaggi biellesi con operai tessitori, mi esalto e mi commuovo. Quelli furono gli anni eroici del movimento operaio italiano. Chi vide. raccapricciando. nel 1919 e nel 1920, le folle briache di saccheggio e di sangue per le vie delle grandi città italiane, non riconobbe i figli di quegli uomini, che dal 1890 al 1900 nascevano alla vita collettiva, comprendevano la propria dignità di uomini ed erano convinti di dover rendersi degni dell'alta meta umana a cui aspiravano. Lo spirito satanico della dominazione inoculato da politicanti tratti dalla feccia borghese li travolse e li trasse a rovina. Quel che erano allora gli operai che, attraverso a persecuzioni ed a carceri, capitanavano il movimento della loro classe, furono dal 1919 al 1921 i giovani ardenti che chiamarono gli italiani alla riscossa contro il bolscevismo».

 

10 dicembre 1981

«Voglio dire che è proprio nel 1976, cioè nel momento della nostra astensione che non solo abbiamo il massimo della mobilitazione della P2, ma anche un rapido accorrere nelle sue fila di politici, esponenti dei servizi segreti, delle Forze Armate. Il fine di Gelli era chiaro, impedire con tutti i mezzi che si realizzasse la terza fase indicata da Moro. E non cito Moro a caso. Insomma la P2 come un grande vecchio. Ma non si sa già che "golpe Borghese", "Rosa dei venti", "piazza Fontana", "Italicus" avevano radici nella P2?»
Giuseppe D'Alema, PCI, "L'Espresso", 6.12.1981

Già, ma è proprio nel 1976, anzi meglio nel 1975, cioè nel momento in cui si gettano le fondamenta per l'ammucchiata PCI/DC che il generale Gianadelio Maletti, capo del controspionaggio militare, piduista, implicato nel processo della strage di Piazza Fontana, condannato in primo grado, prende contatti con i senatori Boldrini e Pecchioli del PCI, responsabili della politica militare e dei problemi dello Stato per conto del PCI.
Gli incontri avvengono negli uffici (riservati) di via Sicilia, di proprietà del SID. Vengono propiziati (ma guarda un po'!) dall'ufficiale dei carabinieri Giorgio Angeli, tuttora in servizio, che per anni aveva diretto gli uffici incaricati di vigilare sul PCI e i partiti comunisti dell'Est e di impedire infiltrazioni nelle FF.AA. C'è da stare davvero... freschi. Che si dicono Maletti, Boldrini e Pecchioli? Se lo è mai chiesto, l'onorevole D'Alema?
Tante cose, ma soprattutto è in quella sede di via Sicilia che il PCI, insieme alla DC, concorda le nomine (anche dei piduisti) ai vertici delle Forze Armate.
Che ne dice, onorevole D'Alema? Dramma? Farsa? E perché non si fa una bella Commissione d'inchiesta su questi episodi?

 

13 dicembre 1981

Il senatore Alberto Cipellini, presidente del gruppo senatoriale del PSI, ha abbandonato la cerimonia dell'inaugurazione di Palazzo Cenci, destinato ad ospitare i nuovi uffici del Senato, perché «indignalo» dal fatto che il presidente Fanfani aveva presentato a Pertini «tutta la delegazione del MSI».
("il Giornale", 2.XII.81)
* * *
Non riusciamo a capire -dati i tempi- la natura dell'indignazione. Se l'indignazione parte da una questione morale è mal posta. Infatti se c'è qualcuno che, specie sul piano parlamentare, si deve indignare, è il MSI-DN non certo un socialista.
Il senatore Fossa Francesco, tanto per fare un esempio, se fosse presentato a Pertini, difficilmente riceverebbe la stretta di mano che hanno ricevuto i senatori missini. Anche se senatore, anche se è membro della direzione nazionale del PSI.
* * *
E perchè mai? Se il senatore Alberto Cipellini è di corta memoria gli ricorderemo noi un comunicato del Quirinale. È dei primi giorni di novembre. Esso diceva: «Il Presidente della Repubblica ha comunicato al ministro della Marina mercantile che non firmerà mai il decreto della nomina a presidente del Consorzio autonomo del Porto di Genova del senatore Francesco Fossa perché appartenente alla P2».
Alberto Cipellini -per chi non lo sapesse- è di Cuneo.
* * *
Se l'indignazione la... spostiamo a Montecitorio, la situazione, per il senatore socialista Cipellini non migliora. Anzi, peggiora.
Infatti si dà il caso che il Presidente dei deputati del PSI si chiami Labriola Silvano.
Anche per lui il presidente della Repubblica ha rivolto un perentorio invito al segretario Bettino Craxi; cioè che non accada che salga le scale del Quirinale in compagnia di quel «signore» (Silvano Labriola), in fortissimo, acutissimo odore di P2.
Già, ma il senatore Alberto Cipellini è di Cuneo.
* * *
La vicenda dell'onorevole Silvano Labriola, accusato ripetutamente di avere appartenuto alla loggia del venerabile Licio Gelli, vicenda per la quale il giurì d'onore ha concluso con un colpo al cerchio ed uno alla botte (in termini calcistici con l'uno a uno), è tutta da raccontare.
Da giorni il quotidiano di proprietà Scalfari-Caracciolo. "il Tirreno", la cui diffusione massima è nel collegio di Labriola (Pisa, Livorno, Lucca e Massa Carrara), ha intensificato la punzecchiatura, non certo benevola, dell'ex-segretario particolare dell'on. De Martino, oggi presidente del gruppo parlamentare socialista. Ultimamente ha riportato una intervista dell'avvocato Ermenegildo Benedetti di Massa, notissimo in zona, iscritto al PSI, massone di grido e da sempre. Il Benedetti ha confermato che l'onorevole Labriola è stato regolarmente iscritto alla P2 e, al riguardo, ha portato testimonianze, fra le quali, quella di Osvaldo Grandi, presidente della Cassa di Risparmio di Massa.
* * *
Malgrado ciò, gli ambienti politici toscani fanno silenzio. All'interno delle quattro federazioni socialiste toscane è come se la notizia non le riguardasse. Silenzio anche da parte comunista che per il piduista Emo Danesi ha mosso mare e monti. I Toscani, di solito rissosi e suscettibilissimi, non reagiscono. Incassano. Anche per loro, si vede, trenta anni di doroteismo non sono passati invano.
* * *
Ma è vero quello che scrive "Panorama" (7.XII.81) «che Silvano Labriola, sospetto di P2, è restato al suo posto grazie alla conoscenza di alcune marachelle di Craxi»?
I politologi affermano che se si andasse ad elezioni anticipate, il PSI prenderebbe un sacco di voti. E spiegano: «Per la sua carica di rinnovamento, soprattutto morale, che si porta dietro».
* * *
Al giornalista Vincenzo Gallo, 35 anni, da Palermo, in arte Vincino, vignettista del "Male" e di "Lotta Continua", è stato impedito l'ingresso alla tribuna stampa di Montecitorio.
I motivi? «Volevo raccontare per immagini la vita quotidiana di Montecitorio. Luci e ombre. Virtù poche e vizi, moltissimi. Me lo hanno impedito, dice Vincino. Una sopraffazione».
("Panorama", 7.XII.8I)
* * *
Ma i suoi disegni danno così tanto fastidio, dentro il Palazzo? Sempre "Panorama": «Disegnavo Claudio Martelli sorpreso a sniffare cocaina dopo il suo ultimo intervento. Una Nilde Jotti incoronata: la Queen non sbaglia mai. Tutto qui? Lui non ha dubbi. A buttarlo fuori sono stati i giornalisti parlamentari, in particolare (cosi "Panorama") i "velinari", cioè quei pochi che scrivono note confidenziali e poi le rivendono. Vincino aveva preso di mira il più noto. Vittorio Orefice, papillon enorme e, immancabile, il farfallone della TV. Il più ricco giornalista d'Italia. Ogni pomeriggio compila due fogli, li telefona alla segretaria, li manda a 300 superpotenti, al prezzo di 300-400 mila lire al mese. Poi invece la sera legge al TG le due stronzatine, cosi per le masse».
* * *
Ora se Vincino è stato allontanato per vilipendio di categoria, il Palazzo, intendo dire la Presidenza della Camera (questori in testa), fa finta di nulla?
Delle due, l'una. O Vincino è un pazzo, allora lo si dica chiaro e tondo. O non lo è, allora quello che afferma è grave, molto grave, anzi gravissimo. E ci sono due modi, dinanzi a quelle affermazioni, di comportarsi. O gli interessati querelano a tutela della propria dignità (offesa) e se lo fanno, tutto bene. Ma se tacciono, come se l'episodio rientri nella categoria dello scherzo, le cose cambiano. E a questo punto deve essere la Presidenza della Camera ad intervenire. Perché «velinari prezzolati e venduti» non alberghino a Montecitorio.
State pur certi: non se ne farà di nulla. Quando siamo immersi nel fango, che vale qualche schizzo?

 

22 dicembre 1981

Alessandro Alibrandi, 21 anni, una vita breve e violenta. Di lui si è detto e scritto tutto il male possibile. E lo si è fatto, non tanto per «illuminare» la sua sciagurata esperienza, segno dei tempi (l'ora dei lupi), quanto per colpire, attraverso lui e la sua vita disperata, un vivo: il padre, il magistrato Antonio Alibrandi.
* * *
Nessuno lo ha scritto (i sociologi tacciono quando muore un «nero»: non ci sono le sottili analisi umane che per altri, assisi sulla sponda opposta abbondano), ma Alessandro Alibrandi, non ha solo colpito giovani come lui in divisa, ha ucciso suo padre. E con una spietatezza che non ha l'eguale. Perchè, credo, non vi sta morte più crudele che quella di togliere a chi resta la ragione di vivere.
Questa è la morte che ha colpito Antonio Alibrandi. giudice integerrimo, nullatenente, tanto da sentirsi, lui che aveva dovuto e saputo affrontare, per ragioni di giustizia, i potenti della politica e del denaro, dell'autobus «perché l'auto non ci si può sempre permettere».
* * *
Alessandro Alibrandi, a 21 anni, è finito riverso sull'asfalto della Via Flaminia. Il padre vive. Con la morte nel cuore. Non riesce nemmeno a piangere. L'ora dei lupi. L'ora della barbarie. I nostri ragazzi pendono su tutti noi, come spade. Ho scritto nostri. Perchè la campana suona per tutti, fascisti ed antifascisti.
* * *
Per la morte dell'on. Giovanni Gioia, già ministro della Repubblica, chiacchieratissimo in fatto di mafia, avrebbe dovuto subentrare al suo posto di deputato, come primo dei non eletti, Lipari Vito, ma quest'ultimo il 13-8-80, per mano mafiosa, è passalo a miglior vita. E quindi entra alla Camera colui che, in graduatoria, segue Vito Lipari: Alberto Rosario Alessi.
* * *
La vicenda sembra di ordinaria amministrazione, ma non è così. Alberto Rosario Alessi infatti, appartenente in Sicilia alla sinistra DC, volle di sua iniziativa essere ascoltato, nella sua qualità di consigliere comunale di Palermo, dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulla mafia. E ciò avvenne il giorno 2-12-1970, alle ore 18,50.
L'interrogatorio durò fino alle 20,40. Che disse il neo-onorevole Alberto Rosario Alessi?
* * *
Non lo sapremo. Infatti il testo stenografico delle dichiarazioni rese dal dr. Alberto Alessi, che avrebbe dovuto essere pubblicato nel volume che raccoglie tutte le dichiarazioni rese da terzi alla Commissione, non vedrà la luce. Il dr. Alessi, ora deputato, interpellato, ha chiesto ed ottenuto che le sue dichiarazioni rimanessero segrete.
* * *
È davvero un peccato. Quelle dichiarazioni, rese fra l'altro spontaneamente, avrebbero potuto servire. Violentemente antidemocristiane come sono, sarebbero state in sintonia con il tentato processo di rinnovamento e di rifondazione della DC.
Perchè l'on. Alessi non ci ripensa, consentendo la pubblicazione?
Giovanni Gioia non è più. Forse perché c'è ancora Lima?
* * *
Il gruppo "Rizzoli-Corriere della Sera" ha risolto il rapporto di lavoro con il signor Mimmo Scorano della divisione cinema e TV, nell'ambito, dice il comunicato, del programma di ristrutturazione del settore televisivo.
Ne è nato uno scandalo. Le sinistre, perfino il pudico centro, protestano. Affermano che è una vendetta, in quanto lo Scorano è autore di una inchiesta televisiva sulla P2, nella quale si ricostruiscono anche i rapporti fra la loggia Gelli e il gruppo Rizzoli.
* * *
Siamo un tantino di parere diverso. Infatti, per noi, lo Scorano non merita alcuna solidarietà. Le inchieste contro i suoi padroni le doveva fare quando costoro, mettendo le vele a sinistra, erano nel fulgore della loro potenza, non certo quando mordono la polvere. Nessuna solidarietà dunque a questo maramaldo che ha servito i Rizzoli (e il "Corriere delta Sera") fin quando le cose sono andate bene e si è messo, come il topo, a stridere, quando l'acqua ha cominciato a penetrare nella barca rizzoliana.
* * *
Enzo Enriquez Agnoletti, Presidente della Federazione italiana delle Associazioni partigiane, ha protestato ("la Repubblica") perchè i familiari di Ferruccio Parri hanno voluto celebrare le esequie con il rito religioso.
Padre Gino Concetti, teologo de "l'Osservatore Romano", ha replicato dicendo che il gesto, lungi dall'essere come asserisce l'Enriquez Agnoletti «un atto di violenza sulla libertà di coscienza», è, viceversa, una fedele esecuzione delle ultime volontà del defunto.
La vicenda -non se ne dispiaccia il presidente di tutti i partigiani- ci offre lo spunto per porgere alcune domande a lui, paladino dell'intransigenza assoluta alle proprie idee.
Costi quello che costi.
* * *
E cominciamo. Nel novembre 1937 l'Enriquez Enzo, non ancora Agnoletti, partecipa al concorso a professore straordinario alla cattedra di diritto processuale civile dell'Università di Urbino.
Domanda: dato che il decreto del Capo del Governo 21.XII.1932 n° 293 prescriveva che per partecipare ai concorsi era necessario essere iscritti al PNF, l'Enriquez ha esibito tale sua qualità?
* * *
Seconda domanda: come mai il prof. Enriquez Enzo, con atto della Corte d'Appello di Firenze del 23.2.1939, viene adottato dalla signora Maria Domenica Agnoletti?
Se ciò servì all'Enriquez ad aggirare le leggi razziali, nulla di male. Ma se cosi è, è alquanto imprudente porre ad altri (vedi vicenda esequie Parri) questioni di coscienza. È meglio tacere.
* * *
Un destro raggiunge le guance del ministro Di Giesi. Un sinistro, non meno violento, gli piomba sul naso. Il ministro traballa, sta per accasciarsi e l'onorevole Madaudo lo colpisce con dei calci.
A pochi metri di distanza c'è Arnaldo Forlani che assiste esterrefatto. Intorno gli altri parlamentari sembrano agghiacciati. Evangelisti, che è stato presidente della federazione pugilistica, esclama: «Ma quel Madaudo è un professionista! Che destro!»
("Corriere della Sera", 4.XII.8I).
* * *
Un russo chiede ad un polacco: se noi del Patto di Varsavia vi invadessimo a chi sparereste per primi, ai cecoslovacchi, ai tedeschi dell'Est o a noi sovietici?
Ai tedeschi e ai cecoslovacchi, risponde il polacco.
Ma perchè?, chiede il russo.
Cosa vuoi, tovarisc, prima il dovere e poi il piacere.
(Giorgio Bocca, "l'Espresso", 18.X.81)

 

24 dicembre 1981

Dicembre 1941 - Dicembre 1981: sono passati quaranta anni da Bir el Gobi. Alla VIIIª Armata britannica si offriva l'occasione di accorciare di oltre un anno la guerra in Africa, accerchiando e annientando, con una manovra alle spalle, lo schieramento italo-tedesco.

Tutto ciò sarebbe riuscito se il Corpo d'Armata del gen. Norrie non si fosse imbattuto nei ragazzi della GIL (Gioventù Italiana del Littorio), sedici-diciotto anni, «i ragazzi di Mussolini» come essi stessi si chiamavano, armati di moschetto 91 e qualche anticarro 47/32.

Erano stati confinati lì, nel deserto, come cosa ingombrante, fastidiosa, inutile. Lo stesso Rommel «non li voleva fra i piedi». Già per arrivare al fronte, avevano dovuto rischiare perfino l'insubordinazione. Badoglio aveva chiesto il loro scioglimento. La Milizia li aveva rifiutati. Il partito anche. Non si arresero. Ebbero, a fatica, sulle fiamme giallo-cremisi le stellette. E furono buttati (il termine è giusto), come per dimenticarsene, nelle buche della sabbia rovente di Bir el Gobi.

E, guarda il destino, proprio sulla pista arroventata dal sole di Bir el Gobi, gli inglesi idearono di prendere Rommel alle spalle. Ahimè (per loro) c'erano quei ragazzi, quei «quattro mocciosi» che, non facendosi stanare dalle loro buche, consentirono a Rommel, che si era spinto in avanti, di ripiegare e di evitare così l'accerchiamento e il totale annientamento.

Oggi, dicembre 1981, in tempi in cui i giovani muoiono sull'asfalto delle abbrutite città, o nelle lugubri periferie con la siringa ficcata da qualche parte, ricordiamo quei ragazzi di quaranta anni fa, ragazzi che seppero, nel deserto, scrivere una pagina pulita di storia patria.

Non sono un ricordo, sono una speranza. Perché il giorno in cui l'Italia vorrà ritornare a nutrirsi di dignità, anche a quei «quattro mocciosi» dovrà tornare.

In un introvabile libro dal titolo "Eroismo e miseria ad El Alamein" di Dino Campini (settembre 1944), trovo scritto:

«Per intendere queste cose bisogna aver dormito molto per terra, in semplicità. Bisogna aver sofferto la fame, la sete e le cannonate. Le veglie e l'angoscia dei rumori notturni. Bisogna, dopo aver inteso a fondo il sentimento del mestiere delle armi, aver imparato a non contare più i nemici perché, quale che sia la fortuna di una giornata di guerra, alla sera, la paura non riposerà certo dalla nostra parte».

I ragazzi di Bir el Gobi non contarono i nemici che avevano davanti, e non ebbero paura.

Ragazzi di Bir el Gobi: consentiteci di inginocchiarci davanti a voi e di chiedervi perdono del fango, del troppo fango che, anche per colpa delle nostre miserie, ha coperto, in questi aridi 40 anni, il vostro sublime ricordo.

* * *

Alessandria d'Egitto: ore 5,57 del 19 dicembre 1941: un sommergibile, sei siluri a lenta corsa (maiali) contro l'intera Flotta di Sua Maestà Britannica. Lasciamo che sia il Capo di stato maggiore imperiale Alan Brooke a descrivere la vicenda:

«Un terribile disastro navale è avvenuto nel Mediterraneo orientale. Dopo la perdita dell'Ark Royal, della Bahram, della Prince of Wales e del Repulse, le ultime due corazzate dell'ammiraglio Cunningham sono state affondate, nella base di Alessandria, da siluri a tempo guidati da marinai italiani. Così è salito a 15 il numero delle navi da battaglia inglesi e americane affondate o gravemente danneggiate in un mese, quasi la metà dell'intera marina alleata in tutti gli oceani».

A mettere la flotta alleata k.o. furono: Junio Valerio Borghese, Durand de la Penne, Emilio Bianchi, Mario Marino, Vincenzo Martellotta, Antonio Marceglia e Spartaco Schegart. Ufficiali e semplici marinai, tutti decorati di Medaglia d'Oro al Valor Militare.

A undici mesi di distanza (19.1.1941) la Marina Italiana restituiva a quella britannica il colpo vibrato nella notte di Taranto.

Così alla Camera dei Comuni, riunita in sessione segreta il 23.4.1942, Winston Churchill ricordò l'avvenimento:

«Un altro colpo mancino stava per esserci vibrato. All'alba del 19.12, mezza dozzina di Italiani che indossavano scafandri di forma insolita, furono catturati mentre nuotavano nel porto di Alessandria. Estreme precauzioni erano state prese, in passato, contro i vari tipi di uomini torpedine o di sommergibili comandati da un solo uomo che avevano tentato di penetrare nei nostri porti. Non solo vi sono reti ed altri sbarramenti, ma scariche subacquee vengono ogni tanto fatte esplodere sulle rotte di sicurezza. Ciò nonostante, questi uomini erano riusciti a penetrare nel porto. Quattro ore dopo si verificarono delle esplosioni nelle chiglie della Valiant e della Queen Elisabeth, provocate da bombe adesive, applicate con straordinario coraggio e ingegnosità da marinai italiani, il cui effetto fu di aprire delle larghe falle nelle chiglie delle due navi e di allagare parecchi compartimenti stagni, mettendo tali navi fuori combattimento per parecchi mesi. Così, anche nel Mediterraneo, noi non abbiamo più alcuna squadra da battaglia. Il nemico, per molto tempo, non seppe del successo del suo attacco e soltanto ora io ritengo opportuno di darne comunicazione alla Camera, in seduta segreta».

Fate caso alle parole di Churchill: «Applicate con straordinario coraggio e ingegnosità da marinai italiani». Churchill, per temperamento, e tantomeno verso gli Italiani, non era tenero di complimenti. Anzi. Il disprezzo, di solito, saliva su quella bocca, al nome Italia. Per Valerio Borghese e i «SEI» fece eccezione. «Straordinario coraggio».

Mettiamole bene in mente queste parole. Sono pietre. Sono una testimonianza. Incancellabile.

Infatti la Marina Militare ha celebrato, in questi giorni, a La Spezia, alla presenza di 18 Medaglie d'Oro, il 40° anniversario del forzamento della base inglese nell'Africa Settentrionale. All'appello è mancato l'allora capitano di fregata Junio Valerio Borghese, il cui libro, "X Flottiglia MAS", è adottato in tutte le accademie militari del mondo, compresa quella sovietica.

Un popolo, se non è capace di esprimere questi fatti, questi ricordi, precipita.

«Morte, sangue, funerali! Basta, è un tormento». È l'accorato sfogo di Sandro Pertini. Domanda: come è stato possibile che una «tirannia», come quella «mussoliniana», abbia potuto dare pagine di eroismo così sublimi da costringere un Churchill a togliersi il cappello?

 

29 dicembre 1981

L'onorevole Giuseppe Montalbano, 86 anni, ex sottosegretario alla Marina mercantile, ex vicepresidente dell'Assemblea regionale siciliana, ex comunista, ex ordinano di Procedura penale nell'Università di Palermo, è stato solennemente commemorato, in aula, alla Regione siciliana, dal presidente Salvatore Lauricella.
«Onorevoli colleghi, in questi giorni è venuto a mancare un uomo che ha svolto nella vita politica siciliana e nazionale un ruolo importante, mi riferisco a Giuseppe Montalbano ...»
* * *
Senonchè la notizia della morte dell'on. Giuseppe Montalbano era inventata, tanto che lo stesso ex deputato del PCI, vitalissimo, letta la commemorazione che lo riguardava, più che lamentarsi dell'equivoco che lo riteneva morto, si e doluto del discorso del presidente Lauricella. a lui dedicato. «Troppo breve... troppo breve. Una commemorazione striminzita per ricordare la mia vita di combattente antifascista, di militante della libertà... Soprattutto del tutto reticente sugli avvenimenti che mi videro protagonista nell'accusare Togliatti di avermi impartita la direttiva "di non disturbare troppo la mafia"; e quando, apertamente, era il 22 7 71, davanti alla Commissione antimafia, denunciai l'atteggiamento più che equivoco del PCI in occasione dell'assassinio del sindacalista Accursio Miraglia, avvenuto a Sciacca nel gennaio del 1947 ...»
* * *
Così Montalbano. Ma di che si tratta? Vediamolo nei suoi episodi più significativi. L'ex deputato del PCI ha sempre avuto nel suo mirino l'onorevole Girolamo Li Causi, un santone, un eroe (secondo il PCI) della lotta alla mafia.
Montalbano è stato sempre di parere diverso. E come prova di questo suo giudizio, riporta proprio la deposizione, da lui stesso resa, alla Commissione antimafia il 20.7.71, quando Li Causi, vice presidente della stessa, lo contrastò. Ciò, dice Montalbano, era scorretto perchè Li Causi, essendo segretario regionale del PCI al tempo dei fatti da me denunciati, non poteva certo, ascoltandomi, assurgere a giudice. Si trovava nell'assurda posizione di essere giudice e parte insieme.
* * *
Quali le accuse di Montalbano al PCI, suo stesso partito? Le troviamo elencate in una lettera scritta da Montalbano al capo dello Stato, subito dopo la sua contrastata deposizione davanti la Commissione antimafia.
«L'onorevole Li Causi», scrive Montalbano, «conosce innanzi tutto la grande sensibilità morale da me dimostrata, quando fui sul punto di presentare le dimissioni da professore universitario di ruolo a causa delle continue pressioni esercitate su di me da dirigenti comunisti, affinché io promuovessi studenti per il solo fatto che erano da loro segnalati quali studenti comunisti o simpatizzanti comunisti».
* * *
«Ma quello che è più grave -continua Montalbano- riguarda l'atteggiamento equivoco tenuto (in contrasto con quello mio personale) dal PCI in occasione dell'assassinio del sindacalista Accursio Miraglia avvenuto a Sciacca nei primi del 1947 (Accursio Miraglia per i comunisti, in Sicilia, è un autentico eroe, tanto che le liste elettorali del PCI hanno avuto, spesso, come simbolo, l'immagine del sindacalista assassinato, N.d.R.), atteggiamento equivoco relativamente ad un certo Fiorino, da Ribera, tesserato comunista, ed all'onorevole Michele D'Amico, da Ribera, segretario (allora) della Federazione comunista di Agrigento, nonché ex deputato alla prima legislatura repubblicana alla Camera ed amico intimo del Fiorino, il quale ultimo procurò l'alibi falso al Marciarne nell'aprile del 1947, determinando il proscioglimento dei responsabili dell'assassinio di Miraglia. Ebbene -incalza Montalbano- segretario regionale in Sicilia del PCI era allora l'on. Li Causi, oggi vice presidente dell'Antimafia!»
* * *
Come si può constatare lo scomparso, poi... redivivo, Giuseppe Montalbano, commemorato come «illustre» alla Assemblea siciliana, accusa il PCI di connivenza con la mafia, per giunta assassina di uno dei «figli» migliori del PCI.
* * *
«La massoneria pistoiese partecipa con profondo cordoglio il passaggio all'Oriente eterno del carissimo fratello Corrado Gelli. Figlio di massone segui liberamente e spontaneamente gli ideali paterni. Fu assertore di ogni libertà e amministrò la cosa pubblica nel rispetto di ciascun cittadino con onestà e alto senso di giustizia».
* * *
Tranquillizzatevi, non si tratta di Licio Gelli, anche lui di Pistoia, ma di Corrado Gelli, sindaco comunista della Città dal 1959 al 1970. Lo stesso cognome, ma nessun grado di parentela, se non quella massonica.
Il manifesto della massoneria, affisso in decine di copie sui muri di Pistoia, ha sorpreso non poco i compagni comunisti che del loro sindaco ignoravano completamente la appartenenza alla massoneria. E che avevano fatto sapere, a destra e a manca, che il PCI era completamente estraneo «alla logica di qualsiasi associazione segreta».
È stata una sorpresa. E non sarà l'ultima.
* * *
Il mensile "Capital" (11/11/81) del gruppo "Rizzoli-Corriere della Sera", ha intervistato il pittore Renato Guttuso, senatore del PCI.
Domanda di "Capital": «Ha mai pensato di abbandonare il Senato?»
Risposta di Guttuso: «Sempre. Ci vado pochissimo. Ogni tanto mi ordinano di fare un intervento, allora lo faccio».
È con questi... personaggi che Enrico Berlinguer ci vorrebbe dare a bere che si può rinnovare moralmente l'Italia.
* * *
Guttuso? Guttuso? Questo nome non ci è nuovo. Ma, per caso, non è quel Guttuso che nel 1973 fu fermato al confine con la Svizzera, per l'esattezza nei pressi di Varese, e trovato in possesso di documenti bancari, dai quali risultava che aveva depositato in banche estere fra i 500 e i 600 milioni, valore 1973?
Si. è proprio lui. E il PCI lo fa senatore! Perché esporta valuta all'estero?
Compagni: ma non vi siete ancora accorti che Berlinguer vi prende tutti per le mele?

 

Inviato da Andrea Biscàro - http://www.ricercando.info