"Intervento", Anno X, n° 6. Novembre-Dicembre 2010
Quelli che dissero «No»
8 settembre 1943:
la scelta degli
italiani nei campi di prigionia inglesi e americani
Pierangelo
Buttafuoco
Non cambiare casacca, non rinnegare
ideali per passare con i vincitori. Un libro racconta gli italiani
che nel 1943 non tradirono il proprio credo politico. Molto diversi
dei voltagabbana di oggi (e di domani)
Lo scrittore Giuseppe Berto non
cooperò
con gli alleati II suo rifiuto
rimase come una macchia nel
giudizio critico, tanto che
"il cielo è
rosso", pur essendo il primo
best-seller del dopoguerra, fu snobbato
dai critici |
Quelli che diranno no un domani in
questa nostra Italia sempre dimentica di sé, pronta a rinnovarsi rinnegando, non
somiglieranno ai Giuseppe Berto, ai Beppe Niccolai, agli Alberto Burri, ai
Gaetano Tumiati e agli altri prigionieri reclusi nei campi di concentramento
angloamericani. Fieri di essere soldati, questi «criminal fascist» -raccontati
adesso in "Quelli che dissero no. 8 settembre 1943: la scelta degli italiani nei
campi di prigionia inglesi e americani" (Mondadori, 180 pagine, 19 euro), un
libro di Arrigo Petacco- avevano rifiutato qualsiasi collaborazione con il
nemico vincitore dicendo no alle lusinghe del tradimento e del disonore.
E gli italiani di oggi non saranno, insomma, come il colonnello Paolo Sabbatini,
medaglia d'oro al valor militare, non collaborazionista detenuto alle pendici
dell'Himalaia, in India, che come tutti gli altri suoi camerati bruciava le
lettere che gli arrivavano da casa per non farsi prendere dalla nostalgia e così
resistere alla richiesta di farsi traditore. Gli italiani di oggi faranno di
tutto, a differenza di Berto, per farsi accettare nei salotti del potere
culturale e se per caso saranno grandi artisti, come Burri, lasceranno correre
se nelle note biografiche qualcuno scrivesse eufemisticamente di «prigionia
negli anni della guerra». Nessuno farà come Burri che, personalmente, armato di
pennarello, andava a correggere i pannelli scrivendo: «Prigioniero degli
americani».
E la lettura del nuovo libro di Petacco, giusto in queste giornate in cui tutti
attendono un nuovo Dino Grandi, ci aiuta non poco a scandagliare la psicologia
di noi italiani, sempre in bilico tra fedeltà e mugugno, nell'eterno
contrappasso. In questi tempi in cui gli odi ricominciano a fermentare si perde
di vista l'amorosa rabbia verso noi stessi e la dignità. Nessuno saprà aspettare
l'arrivo di chi non seppe combattere per fischiare: come accadde in Africa,
quando i valorosi guerrieri di El Alamein, fatti prigionieri, cominciarono a
fischiare altri italiani, i soldati catturati a Pantelleria che non spararono
neppure un colpo contro il nemico. E nessuno se ne andrà a cercare la bella
morte, e tutto il sottobosco -tutti quelli che senza Silvio non hanno mestiere-
non si ritroverà, come nella struggente pagina di Petacco, tra i reticoli del
filo spinato del campo di concentramento nell'isola di Oahu, poco lontano da
Pearl Harbor, quando i samurai reclusi cantavano l'inno all'imperatore e loro,
in perfetta riga, rispondevano con "Giovinezza". Gli uni salutavano: «Italia,
banzai!» e gli altri, di rimando, rispondevano: «Nippon, banzai!».
Ci sarà un generale George Patton che, revolver in pugno, riporterà in Italia il
«suo» ordine e la «sua» disciplina come ieri quello, bieco assassino, riportava
nell'Italia invasa dai «liberators» i peggiori mafiosi. Si consumeranno le
peggiori vendette e ci sarà un nuovo Charles De Gaulle, il generale francese
tanto amato dalla propaganda ufficiale, che però odiò di odio duro gli italiani
al punto che i nostri preferivano di gran lunga i gulag sovietici piuttosto che
finire tra i carnefici francesi. Quelli che diranno di no, insomma, non ci
saranno perché si sparerà a vista, come facevano gli americani quando radunavano
nelle piazze siciliane, ad Acate, per esempio, gli uomini in età valida e li
freddavano con un colpo alla nuca.
Come ieri saranno morti su cui nessuno potrà piangere, peggio di ieri -peggio
rispetto a quell'8 settembre 1943, la data della vergogna- nessuno potrà dire no
e non ci sarà modo di fare giornali parlati, come accadeva nei di Hereford, in
Texas o in India, tra i reticolati sorvegliati dagli inglesi, ma senza il
riscatto morale della gloriosa flotta dei «maiali» e dei «siluri umani» della X
MAS agli ordini del comandante Junio Valerio Borghese.
È un libro che fa male ai sentimenti questo di Petacco. È documentato, ma
scritto proprio bene e perciò ogni pagina diventa sceneggiatura di un film, di
un documentario, di un tornare dentro le profondità del nostro essere italiani e
cavarsene fuori col terrore di non essere oggi all'altezza di quella dignità e
di quel coraggio o di quella spavalderia.
Come fuggirsene dal campo di prigionia in Kenya per scalare il monte omonimo
solo per piantare in cima il tricolore e magari finire in una tavola di Achille
Beltrame sulla "Domenica del Corriere",
Non c'è il ritratto autoassolutorio degli «italiani brava gente» in "Quelli che
dissero no". C'è, al contrario, il racconto degli «italiani di carattere»,
quelli della strada impervia, straordinari a dimostrare quanto fosse vera la
parola d'ordine del credere, obbedire e combattere rispetto alla disfatta fin
troppo facile della stragrande maggioranza dei voltagabbana, tanti al punto di
raccapricciare lo stesso nemico che, per la prima volta nella storia, s'impegna
a rieducare il prigioniero, a trasformarlo in un cobelligerante. Tutto ciò
mentre pochi uomini sdegnosamente rifiutavano l'elemosina di trasformarsi da
vinti in alleati.
Ci sono pagine commoventi in questo libro così estraneo all'albertosordismo fino
a diventare contravveleno alla vulgata ufficiale.
Vincenzo D'Agostino, prigioniero a Bangalore, non dimenticò mai i giorni di
piazzale Loreto. Gli indiani comandati a fare la guardia gli mostravano le foto
dello scempio, il corpo del Duce martoriato, e gli dicevano: «Vergogna, siete
dei selvaggi voi italiani». Ci sono ferite che non si rimargineranno mai, come
quella che separa lo specchiato senso dell'onore di questi combattenti e Casa
Savoia, impegnata a trattare segretamente con gli inglesi per ritardarne il
ritorno in patria temendone il voto al referendum. Avrebbero votato contro
quella monarchia che li aveva esposti al fuoco, come quei sommergibilisti
riemersi nelle acque dell'Oceano Pacifico dopo l'8 settembre, ignari del cambio
di fronte e perciò costretti a dover scegliere subito tra il re e la Repubblica
Sociale Italiana.
Fra i momenti più drammatici c'è quello dei nostri soldati dispersi tra l'Oceania,
il Sud Africa e gli USA quando, disgustati da Pietro Badoglio, strappano dalle
proprie giacche le mostrine e, ricavandole dalle scatole di latta, si ritagliano
il Gladio e l'Alloro della Repubblica. E c'è ovviamente la storia mai conosciuta
in questo libro vivo come un racconto fatto a voce.
C'è il duca d'Aosta che viene importunato da un suo sottoposto, un generale
traditore, che gli propone di vendersi agli inglesi. Il duca, decorato durante
la prigionia, gli risponde: «Dovremmo essere arrestati entrambi. Voi per avere
parlato, io già per avervi ascoltato».
C'è, in questo discendere nei segreti della memoria storica, l'entusiasmante
avanzata dei nostri soldati che dopo avere sopportato il ridicolo sussiego dei
loro generali, tutti distanti, s'innamorano di Erwin Rommel, la «Volpe del
deserto». Cantano: «Rommel, Rommel, portami via con te». È il comandante che
consuma il rancio con loro, quello che arriva in prima linea e combatte accanto
al più umile dei soldati, è l'uomo che li condurrà tra le dune fino a fare
un'infinità di prigionieri tra inglesi, polacchi, neozelandesi, indiani, maori e
sudafricani, bianchi e di colore, e dare poi ai britannici una lezione di
civiltà, la civiltà dei guerrieri. Henry Koppler, il generale di questa grande
massa di soldati tutti prigionieri dell'Asse, protestò presso Rommel chiedendo
che venissero separati i prigionieri bianchi da tutti quelli di colore. Rommel,
scrive Petacco, «lo raggelò». E disse: «Per me i soldati sono tutti uguali. I
neri indossano la vostra stessa uniforme, hanno combattuto al vostro fianco e
quindi resterete rinchiusi tutti insieme».
Ecco, quelli che diranno no ai vincitori oggi non ci saranno perché rispetto a
quei giorni non ci sarà un'altra totalità a sostituire una totalità, non ci
saranno le idee, le illusioni o gli ideali.
E non ci saranno a stare insieme il
soldato Giuseppe Niccolai, futuro fondatore del MSI, e il tenente Giovanni Dello
Jacovo, futuro deputato del PCI, entrambi non collaboratori, fieri al punto di
guadagnarsi la medaglia di un riconoscimento dai propri carcerieri: «You are
true soldiers». Non ci saranno perché nel frattempo, arciitaliani come siamo,
abbiamo imparato a fare come quei contadini che nel levarsi il cappello davanti
al padrone gli avevano già rubato tutto l'olio.
La fedeltà è stata ridotta a macchietta e la lucerna della dignità è stata tutta
prosciugata. Fatto fu che Filippo Anfuso, ambasciatore a Berlino, uomo di grande
fascino e di rara eleganza, dopo anni di prigionia in Francia, lacero e smagrito
tornò nella sua casa di Catania in via Crociferi. Si presentò al cancello della
sua nobile dimora e quando il maggiordomo si precipitò per allontanarlo
immaginando di avere a che fare con un questuante, nel riconoscerlo malgrado gli
stracci, commosso gli disse: «Eccellenza, ma vossia proprio a favore degli
italiani si doveva mettere?».
Pierangelo
Buttafuoco
Fonte: Panorama - Settembre 2011
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