da “Il Riformista” 18 febbraio 2005
Rimembranze. Fui tra i primi a promuovere il dialogo, ma...
Sono quello che stava con Mantakas quando uccidere i fascisti non era reato.
Altro che opposti estremismi:
dopo il ’72 era stato deciso di far fuori il MSI dalla vita politica.
Quando uccidere i
fascisti non era reato
Umberto Croppi
Caro direttore, il mio nome è spesso
associato (nella rete, sui testi) a quello di Mikis Mantakas, lo studente greco
ucciso durante il processo per il rogo di Primavalle. Quella mattina lo portai
io all'appuntamento con il suo assassino e io stesso, poche ore prima, fui
oggetto di alcuni colpi andati a vuoto, nei pressi del tribunale di Roma. Ero a
quei tempi dirigente del FUAN e del Fronte della Gioventù, divenni in quell'anno
membro del consiglio di facoltà di giurisprudenza e consigliere comunale. Ho poi
seguito un cursus honorum che mi ha portato fino ai vertici del MSI, da cui sono
uscito nel '91 seguendo altri percorsi politici. Ho abbandonato ogni impegno
diretto in politica una decina di anni fa.
All'epoca ho vissuto nell'epicentro dell'uragano che scosse l'Italia. I Mattei
li ospitammo, dopo la tragedia, nel paese in cui abitavo, dove rimasero per
anni, quasi clandestini, perseguitati dal terrore. Ho frequentato molti dei
protagonisti e delle vittime di quegli anni violenti, ho fatto il glob-trotter
per l'Italia, ho sentito sul collo il fiato della persecuzione dell'isolamento,
sono stato pestato a sangue il giorno delle prime elezioni universitarie solo
perché, matricola, ero andato a votare.
Sono stato tra i primi a cercare il dialogo con i nostri supposti avversari, già
alla fine degli anni '70, promotore con altri di iniziative (come gli ormai
famosi Campi Hobbit) che servirono a svelenire il clima, dei primi tentativi di
dialogo (il dibattito Tarchi-Cacciari) che sollevarono ondate di polemica,
perché ancora nel 1982 con «i fascisti» non si doveva nemmeno parlare.
Insieme a Beppe Niccolai e Giano Accame
sottoscrissi il primo comunicato di solidarietà per Adriano Sofri, all'indomani
della sua incriminazione. Mi sono sempre adoperato (per quel che mi è
concesso) per la chiusura definitiva di quella stagione e per la soluzione
politica di un fenomeno che fu vasto, se non, addirittura generalizzato.
Oggi sono amico di molti di quelli che trenta anni fa mi volevano morto. Se ne
parla liberamente, non si fa la conta a chi era più buono o più cattivo, chi
c'era e ha l'onestà di ricordare senza mediazioni propagandistiche sa bene cosa
è successo. Eppure non riesco a ritrovarmi nella rappresentazione che sta
emergendo dal dibattito scaturito a partire dalle novità legate alla strage di
Primavalle, che tende costantemente a riprodurre lo schema allora imposto: gli
opposti estremismi.
Sembra infatti, dalle dichiarazioni e le analisi di questi giorni, che ci
fossero due bande di facinorosi che si facevano la guerra, con magari qualche
complicità di ambienti politici e intellettuali ad essi contigui, e un'Italia
moderata che stava a guardare sbigottita. Non andò così. Tutto iniziò quando, a
cavallo delle elezioni del '72, la DC cominciò a temere una possibile
concorrenza a destra da parte del MSI. Fu dal maggior partito di governo che
partì l'anatema: con la formula dell'«arco costituzionale» (De Mita) si intese
escludere, dopo quasi trent'anni di pacifica convivenza, un partito dalla vita
politica e la comunità umana che ad esso faceva riferimento dalla vita civile.
Seguirono, a stretto giro, le direttive tipo «coi fascisti non si parla»
(Berlinguer) che furono raccolte e applicate da tutti (tutti!) a tutti i
livelli, dalle assemblee scolastiche ai consessi elettorali ai dibattiti
televisivi. Poi la campagna di raccolta firme per lo scioglimento dell'MSI,
fatta dal PCI non dai gruppi extraparlamentari. Il passo successivo fu semplice,
«uccidere i fascisti non è reato», «il sangue fascista fa bene alla vista», «se
vedi un punto nero spara a vista …» eccetera eccetera. E mentre gli apparati
politico-mediatico-giudiziari provvedevano al sostegno delle difese e delle
posizioni innocentiste, sui muri fiorivano i «10-100-1000 Primavalle», «i covi
dei fascisti si chiudono col fuoco».
Non voglio nemmeno più ripetere quello che infinite volte ci siamo detti: la
violenza c'era, c'è stato anche a destra chi ne ha coltivato il culto, ci sono
stati episodi di ferocia e di criminalità. Ma questo non basta a dar conto del
fenomeno che storicamente si è determinato tra il '73 e il '77 (quello che è
successo dopo ne è un derivato). L'intera società politica italiana aveva
decretato l'espulsione di una sola parte dal suo contesto. Gli omicidi erano
solo un corollario legittimo di quel decreto. La presunzione di incolpevolezza,
lo stupore di chi si vedeva processato per aver commesso un atto «di giustizia»
erano paradossalmente sinceri. Mantakas fu giustiziato con un colpo di revolver
alla testa, non durante uno «scontro», ma perché ai missini non doveva nemmeno
essere concesso di assistere al processo agli autori del rogo di Primavalle.
Non si trattava di conflitti, Mazzola e Giralucci furono le prime vittime delle
BR, uccisi a sangue freddo nella federazione del MSI di Padova, Ramelli e
Pedenovi a Milano furono uccisi in agguati sotto casa, Zicchieri fuori una
sezione del MSI al Prenestino. E qui interrompo il lungo necrologio.
A me non è venuto mai nemmeno in mente, nemmeno per vendetta, di uccidere un mio
avversario, ma arrivo a capire cosa può essere successo nella testa di un mio
coetaneo che voleva uccidere me. Era il contesto che lo legittimava. Lo
motivava, in un certo senso lo armava. Sono i miei amici di ora che mi
confermano di aver provveduto alla compilazione degli schedari in cui finivano
le informazioni sui miei spostamenti, le mie foto "segnaletiche", a nessuno di
noi è mai venuto in mente di schedare, di seguire un nostro avversario. Ma posso
capire le emozioni derivate che spingevano un ventenne a considerarsi parte di
un esercito che si sentiva alla vigilia della propria rivoluzione di ottobre.
A creare l'acqua in cui quei rivoluzionari credevano di muoversi come pesci (in
realtà era un acquario ben sorvegliato da chi li -ci- lasciava fare per
utilizzarci tutti al momento giusto) non erano tanto i capetti invasati. Nemmeno
gli intellettuali blasonati che li accoglievano nei loro salotti. Erano i
moderati che non si limitavano a tollerarne le gesta ma li incoraggiavano, gli
fornivano l'alibi morale ancor prima che politico. Io entrai nel consiglio di
facoltà ancora matricola e con ancora un occhio bendato e le costole fasciate,
scortato da 100 poliziotti, e dovetti subire l'ordine del giorno, con cui si
chiedeva la mia espulsione dal consesso in cui ero stato eletto in quanto (cito
testualmente) «complice degli stupratori del Circeo». Il documento era firmato e
illustrato da un'illustre professore comunista (oggi uno dei più stimati e
pacati intellettuali italiani) ma veniva votato dai cattolici, dai moderati: ci
fu una sola astensione, quella del professor Ferri, nemmeno un voto contrario.
Il giorno dell'omicidio Calabresi andai col mio parroco a far visita ad un
contadino democristiano, insieme a suo figlio, delegato giovanile della DC:
stavano festeggiando. Quando a Milano venne ucciso il consigliere provinciale
del MSI Enrico Pedenovi, il mio sindaco (sindaco di un monocolore democristiano)
fece stampare un manifesto di condanna, poi ne comprese l'«inattualità» ed evitò
di affiggerlo.
Quando furono istituiti a Milano i primi consigli di quartiere, i ragazzi del
MSI che furono chiamati a prendervi parte dovettero affrontare un vero e proprio
sistematico massacro, con prognosi anche di 90 giorni e non ci fu un solo
Consiglio in cui non fu chiesta, con ordine del giorno, la loro espulsione. Io
per quindici anni ho fatto il consigliere comunale senza, una sola volta poter
instaurare un dialogo, senza far parte di una commissione, senza neanche fare lo
scrutatore. Ho dovuto abbandonare l'Università di Roma perché, come a molti
altri, mi era semplicemente impedito di varcarne i cancelli. A un povero cristo,
colpevole solo di assomigliarmi, aprirono la faccia dalla bocca fino
all'orecchio.
Ancora nell'82, quando Cacciari decise scandalosamente di parlare con un
intellettuale che era stato di destra, Marco Tarchi, ci fu una corale levata di
scudi dell'intelighentia italiana, rileggetevi la rassegna stampa dell'epoca, il
filosofo veneziano fu ricoperto di improperi soprattutto dai suoi amici, in
prima fila quelli che oggi stanno in Forza Italia. Con i fascisti non si parla!
Punto e basta.
Insomma è ora di chiuderla definitivamente quella stagione e non serve nemmeno
andare a ricercare le responsabilità individuali, siamo tutti altre persone
rispetto ad allora, e alcuni di noi l'outing l'hanno fatto completo, senza
riserve e in tempi non sospetti. Se si vuole, però, ricostruire il quadro
storico degli eventi bisogna farlo secondo verità: in quell'inizio degli anni
'70 non ci fu guerra per bande, non ci furono opposti estremismi, ci fu il
tentativo dichiarato, argomentato e praticato di cancellare dalla faccia della
terra una comunità politica.
Sette-otto anni fa viaggiai in treno da Firenze con Adriano Sofri, andavamo
entrambi a Roma ad assistere ad un dibattito sugli anni di piombo in una
libreria. Il pubblico era costituito prevalentemente da giovanissimi autonomi.
Adriano era già andato via quando uno di quei ragazzi affermò: «Ramelli era uno
che di professione faceva il picchiatore fascista e quindi è giusto che abbia
fatto la fine che ha fatto». Tra i presenti fu soltanto Giampiero Mughini a
reagire e fu costretto ad andarsene sotto le ingiurie dei giovanotti. Gli altri
relatori tentarono una benevola conciliazione. Forse una onesta ricostruzione di
quanto successe aiuterebbe anche non far rinascere tossine, di sinistra o di
destra, poco importa.
Umberto Croppi
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