da
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Niccolai, il ghibellino
pisano
Roberto
Alfatti Appetiti
Da "Charta
minuta" n. 5 - novembre/dicembre 2011 |
«Il secolo delle rivoluzioni è dietro le nostre spalle. C'è da ricomporre
l'Italia scissa, l'Italia frantumata. E la riconciliazione non può avvenire che
su una ricomposizione di una storia italiana». La lucidità di capire quando una
stagione è arrivata al capolinea. Il coraggio di aprirne una nuova, gettando
all'aria comode rendite di posizione. Battere sentieri inesplorati. Confrontarsi
con tutti, senza pregiudizi. Di uomini come Beppe Niccolai, scomparso il 31
ottobre del 1989, la politica italiana avrebbe un gran bisogno. Soprattutto i
più giovani, intrappolati come sono nel bipolarismo coatto, armati gli uni
contro gli altri nella stucchevole guerra civile tra berlusconiani e
antiberlusconiani.
«Immergersi nella realtà, essere figli del proprio tempo, accettare di misurarsi
con le contraddizioni dell'oggi, costruire elemento di rottura contro chi mira a
conservare l'esistente, essere protagonisti di libertà contro il qualunquismo
imperante». Sono questi i consigli che nel 1984 Beppe Niccolai rivolge ai
giovani del Movimento Sociale Italiano in vista del XIV congresso del partito.
Poco sopportati e guardati con sospetto, il più delle volte i ragazzi del Fronte
della Gioventù sono usati come mera manovalanza. Niccolai saprà riaccenderne gli
entusiasmi. Un amore ricambiato, quello tra i giovani militanti e il non più
giovanissimo Niccolai, pisano della classe 1920, non solo per il suo passato di
volontario di guerra e prigioniero non collaboratore nel "Fascist Criminal Camp"
di Hereford. È un esempio prima ancora che un maestro. Sobrio, attento,
disponibile, allergico a ogni ostentazione, nemico dei privilegi. Capace di
coniugare rigore morale e apertura mentale. «Una figura fresca, creativa,
rigorosa, carismatica», ebbe a definirlo Gianni Alemanno, leader del Fronte
della Gioventù, il primo dei tanti giovani che si affrettarono a sottoscrivere
"Segnali di Vita", la mozione pensata da Niccolai per dare la scossa a un
partito che va avanti per inerzia, incapace di tenere il passo con un mondo che
stava cambiando. Paradossale che a sfidare il verbo almirantiano non fosse
l'eterno rivale Pino Rauti ma un missino doc come Niccolai, fino a poco prima
fedelissimo del segretario.
«Ad un certo punto il conformismo almirantiano diventa talmente soffocante da
suscitare tra gli stessi amici del segretario, primo fra tutti Beppe Niccolai,
il desiderio di creare una qualche forma di confronto critico, attraverso
un'aggregazione informale che più tardi si tradurrà nella formazione della
corrente "Proposta Italia"», così scrive Marco Tarchi nel libro-intervista
"Cinquant'anni di nostalgia" (Rizzoli, 1995). Un anno dopo, nel 1985, Beppe
Niccolai aderirà all'innovativa corrente di Domenico Mennitti, l'esponente più
liberal del partito: modernizzatore per vocazione e non per opportunismo.
A ricostruire con dovizia di particolari e preziose testimonianze il percorso
umano e politico di Niccolai è stato Alessandro Amorese in "Beppe Niccolai. Il
missino e l'eretico" (Eclettica Edizioni, pp. 270), libro la cui seconda
edizione tornerà prossimamente in libreria. Felice, sin dal titolo, la
sottolineatura di come il politico pisano seppe rimettersi in gioco,
aggiornarsi, fare ammenda dei propri errori -uno si tutti: non aver capito con
la necessaria tempestività l'importanza dell'opzione meta politica- e agire di
conseguenza, anche a costo di pagare un prezzo salato. Un prezzo che,
ovviamente, gli fu fatto pagare per intero. Lasciandolo fuori dal Parlamento,
come prima cosa. Nel 1985 si apre uno spiraglio: c'è la possibilità di poter
eleggere un senatore in più nel collegio lombardo. Durante il comitato centrale
chiamato a definire le candidature un giovane dirigente del Fronte, Adolfo Urso,
prende la parola e propone, pur senza conoscerlo personalmente, la candidatura
di Beppe Niccolai. L'assemblea applaude. Almirante è spiazzato ma non può che
verificare la disponibilità dell'ex parlamentare pisano che, a sorpresa,
rifiuta. «Non potevo accettare una candidatura fuori dalla mia terra, se avessi
deciso di ripresentarmi alle elezioni, mi sarei fatto votare dalla mia gente,
senza paracadute o collegi quasi sicuri». Dichiarazioni che oggi sembrano folli,
incomprensibili. E poi ci sono i giovani da mandare avanti. «Mi stavo attaccando
troppo alla poltrona», confida all'amico Giano Accame.
La trasformazione è irrevocabile: all'uomo di apparato, a suo agio tra
federazioni e comizi, brillante polemista e gladiatore d'aula, giornalista
sempre pronto a fustigare ogni malcostume politico, si è sostituito l'eretico:
l'intellettuale insofferente, tanto severo con se stesso da fare autocritica ma
anche da pretenderla dal suo partito -ad esempio sugli errori compiuti nei
confronti della contestazione giovanile del '68- in un mondo, quello
neofascista, che sino a quel momento s'era nutrito di granitiche certezze,
coltivando uno "splendido isolamento".
Gliene diede atto, pochi mesi dopo la morte, Franco Franchi. Commemorandolo
nella sua qualità di presidente del congresso missino di Rimini del 1990 -il
primo senza Niccolai, ma anche senza Giorgio Almirante e Pino Romualdi- ne evocò
la presenza: «A una cert'ora, magari di una seduta notturna, salirà alla tribuna
il volto tormentato e corruso del ghibellino di Pisa, Beppe Niccolai, e ci porrà
mille domande, animato da un pensiero senza riposo».
Il motivo della rottura con Almirante? La cosiddetta goccia che fece traboccare
il vaso. «Disse che era stato deluso dall'operazione "Eurodestra" -riferisce
Tarchi- e che aveva visto il segretario in mezzo a una folla in uniforme
azzurra, in un comizio in Spagna, gli aveva dato un'impressione pessima, che
richiamava un improbabile passato». Rifiuto di ogni nostalgismo, insofferenza
per il conservatorismo da partito d'ordine, per la rassegnazione alla
prospettiva di fare da stampella alla Democrazia Cristiana. «È la DC che ci ha
sradicati rendendoci sconosciuti gli uni agli altri -ripeteva- e rendendoci, in
un effimero benessere, infelici. Tutta la mia modesta battaglia politica è stata
indirizzata a far capire alla gente che non si costruisce una società migliore
votando per paura o per quieto vivere. Il prezzo della viltà è sempre il male».
E coraggioso è, invece, Bettino Craxi. Nel 1985, in occasione della crisi di
Sigonella, Niccolai fa approvare dal Comitato centrale del MSI un ordine del
giorno di sostegno al segretario socialista: in nome dello "scatto" di orgoglio
nazionale e dell'idea di un'Europa forte, non subalterna ai due blocchi, che si
svincoli dall'egemonia statunitense, senza che a prevalere sia la linea
utilitaristica e mercantilistica. Il laburismo nazionale di Craxi, per Niccolai
come anche per Accame, rappresentava la novità in grado di minare il bipolarismo
DC-PCI e il posizionamento stesso del MSI alla destra del sistema politico.
La testimonianza di Mennitti, riportata nel libro di Amorese, conferma al
riguardo la crescente distanza tra Almirante e Niccolai: «Quando si manifestò
con chiarezza la suggestione craxiana del "socialismo tricolore", Niccolai
chiese ad Almirante di aprire un fronte di riflessione nuova, privilegiando la
disponibilità ad interloquire con noi dichiarata da una parte importante della
classe dirigente socialista. Non a caso MSI e PSI furono i due partiti che
presero posizione chiara contro la "conventio ad excludendum", che aveva tenuto
fuori dal gioco politico il movimento di Almirante. Però alla fine si
incamminarono su due strade diverse: Almirante continuò a sostenere la tesi del
"fascismo del 2000", poi ripresa da Fini dopo la successione alla segreteria;
Niccolai venne al congresso di Sorrento del 1987 condividendo e sottoscrivendo
la mozione di "Proposta" che sosteneva la necessità che la destra facesse il
salto dalla testimonianza alla politica».
Per fare questo occorreva un partito nuovo, snello, sburocratizzato, con un
movimento giovanile più autonomo e senza più strutture inutili. Non più mere
sedi elettorali da riservare alle alchimie partitiche ma ponti aperti verso la
società. In conclusione Proposta Italia chiede una svolta, vuole un partito che
non sia più esclusivamente anticomunista ma anche "anticapitalista e
antiborghese", che sia anche alternativa antropologica e culturale.
Una convergenza naturale, quella tra Niccolai e Mennitti, sviluppatasi prima
della nascita della componente di "Proposta" sul mensile che portava quel nome e
ne costituiva la base culturale e che, per primo, creò le condizioni per aprire
quel dibattito interno, ma anche e soprattutto rivolto all'esterno, che molti
anni dopo portò alla nascita di Alleanza Nazionale. «Noi avevamo vissuto per
anni rinchiusi nel castello delle nostalgie, perché fuori non ci erano
consentiti spazi di iniziativa politica, potevamo solo gestire la sopravvivenza
-ha spiegato Mennitti- però l'evoluzione del PSI da partito alleato (prima del
PCI e poi della DC) a forza autonoma alla ricerca di un protagonismo proprio,
aveva fatto saltare il sistema del dopoguerra, quello dominato dal principio
della esclusione della destra. Quindi bisognava elaborare un progetto
finalizzato non all'opposizione eterna ma alla conquista -quando le condizioni
lo avrebbero consentito- del potere. E definire un programma, porre obiettivi
realistici, scegliere le alleanze. Almirante era bloccato dal timore che, di
fronte ad una operazione così rivoluzionaria e complessa, il vecchio mondo
missino avrebbe perso la coesione, smarrito il patrimonio dell'unità. Così
ripiegò sulla purezza ideologica, che nei partiti estremi costituisce una
costante tentazione di fuga all'indietro, di liquidare con il marchio del
tradimento il tentativo di innovare. "Proposta" fu lo strumento che liberò il
dibattito interno dalla gabbia della fedeltà strumentalmente intesa e lo
trasferì sui campi verdi della modernità intellettuale e politica».
Tra "Segnali di Vita" e "Proposta Italia" c'è un filo rosso che si riannoda con
l'esperienza di Ideazione e poi la più recente di "Charta Minuta" nel rinnovato
tentativo di modernizzare la politica e tenere vivo un dialogo a tutto campo,
anche con i nemici di ieri (come Niccolai fece con Adriano Sofri, che pure gli
aveva scatenato la piazza contro). Con chiunque abbia a cuore, ancor prima
dell'interesse di parte o di partito, le sorti -come dicevamo all'inizio- di
un'Italia frantumata, se possibile persino di più rispetto a quella conosciuta
da Niccolai.
«Il tormento delle idee e il dubbio -come ci ha insegnato Beppe- è sempre meglio
della prudenza dei plaudenti. Non ascoltano, applaudono: vivono di suoni.
Confondono il rumore in certezze. Si fidano. Si concedono. Oppongono la prudenza
dello stare con chi pensa per loro e li libera di ogni fastidiosa riflessione.
Si fanno spettatori e protestano vibratamente con chi non segue, zitto, lo
spettacolo».
Roberto
Alfatti Appetiti
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