FRAMMENTI

dal sito "www.adsum.it"

 

Mino Maccari - Il fascismo di Orco Bisorco

 Pino Tosca
 

Nell’estate del 1989 se ne andava anche Maccari. Doveva pur accadere a chi come lui s’era giocato novanta primavere. Forse è anche vero, come si maligna, che qualche gazzetta aveva già messo da tempo in freezer il solito bell’articolo “ad memoriam”, attendendo il momento fatale del trapasso dell’avvocato di Colle Val d’Elsa. Sta di fatto che solo calandosi “maccarianamente”, nei panni del Mino defunto (che irride ai suoi postumi critici da salotto) Fausto Gianfranceschi riusciva a scrivere il più bel pezzo sul “selvaggio” senese.

Si è scritto di lui citando il pittore originale, il graffiante disegnatore, l’umorista all’acido solforico. Ma su ciò che su piano della cultura politica la bella squadra di "Strapaese" ha rappresentato nell’Italia fascista, il silenzio e la reticenza la fanno ancorata da padroni nelle redazioni dei grandi quotidiani.

Per chi scrive, invece, Mino Maccari ha rappresentato la strada “maestra” del fascismo storico italiano, del Fascismo migliore, quello “Tradizionalista” e “popolare”, cattolico e antiborghese, anticalvinista e antiamericano, antidealista e antimodernista, quello dei superstiti della "Disperata" che se ne infischiavano dei pennacchi e degli orbaci all’ultima moda, quello contadino e quello strapaesano che contrastava ogni barbara industrializzazione e ogni urbanizzazione forzata (altro che i “verdi” nostrani: poveri dilettanti).

Beppe Niccolai considerava Berto Ricci l’espressione culturalmente più dura e profetica del fascismo. E, forse, sul piano umano ed esistenziale, può esser stato così (senza nulla togliere a Barbiellini, ai Palliotta, ai Giani). Ma sul piano della testimonianza culturale, ritengo che "Strapaese" abbia rappresentato l’ambito più incisivo, più “forte” più “ortodosso” del fascismo (rispetto ai princìpi tradizionalisti). Proprio su "L’Eco della Versilia", la battagliera rivista di Niccolai, campeggiava infatti un motto famoso di Maccari: «Sia fatto arrosto chi s’è messo a posto».

Eh sì. Perché Orco Bisorco (uno degli pseudomini preferiti) «a posto» non si mise mai. Si può discutere sulla parabola umana, finita, nel dopoguerra, in una disillusa “apoliticità”. Ma sulla sua dirittura morale non penso vi possano essere dubbi.

“Maestro”, Maccari, più che di disegno, lo fu di cultura. Lo fu certamente per “intuito”, per una “cultura” (intesa come senso di “civiltà” più che da lui esistenzialmente vissuta che ideologicamente assorbita. Certo non gli mancavano preparazioni specifiche (specie in architettura), ma egli viveva naturalmente il diritto naturale in tutti i suoi aspetti. E gustava visceralmente le tradizioni del Paese.

Quante cose noi sosteniamo oggi e "Strapaese" sosteneva ben mezzo secolo fa! Si pensi alle nostre polemiche contro la rivoluzione francese e rileggiamo il n. 1 de "Il Selvaggio", che si scagliava contro «i vigili custodi della verginità costituzionale» alleati «con i berretti frigi della repubblica pollaiola», che «bestemmiando i nomi sacri di Cristo e di Patria, patteggiano con i massoni della social-democrazia e si alleano con gli atei del materialismo storico».

Si pensi alle nostre denunce contro la civilizzazione consumistica ed all’automobile come “camicia di Nesso”, e riandiamo all’eticità anticonformista dei “selvaggi” che si erano imposti (allora, anni trenta!) di non usare mai l’auto (cosa che procurò loro gravi inconvenienti logistici per i loro numerosi traslochi).

Si rifletta, nel tempo di certe cotte (fortunatamente finite) per il De Benoist, alla posizione di rottura assunta da "Il Selvaggio" quando si cercò di scimmiottare certe risibili tesi razziste giunte da Oltralpe. Lo stesso Telesio Interlandi fu ampiamente ridicolizzato da Maccari con una serie interminabili di battute, al punto che gli fu dedicata una quarta di copertina con la seguente didascalia: «A Telesio Interlandi / Or ciascun si raccomandi / presentando com’è logico / l’albero genealogico». È un merito, questo di antirazzismo controcorrente, che a Maccari è stato riconosciuto dalla stessa critica antifascista (Luciano Troisio) che pure lui aveva denunciato «la ben più grave adesione alle squadracce delle cui prodezze il nostro fu spesso appassionato protagonista».

Ci si ricordi, mentre combattiamo le nostre sacrosante battaglie contro la nuclearizziazioni e le urbanizzazioni più folli delle nostre campagne, che "Strapaese" si autodefiniva «colonia dei fascisti selvaggi, che è quanto dire degli italiani rurali, di quelli che si salvano dalla società americana». Si dice che i “Selvaggi” erano “eretici” rispetto al fascismo mussoliniano. Ne siamo sicuri? A parte che già Vittorio Vettori ha smentito questa illazione, non era forse un “Selvaggio” di Mussolini che scriveva: «L’urbanesimo assume in Italia aspetti sempre più inquietanti… Bisogna ruralizzare l’Italia, anche se occorrono miliardi e mezzo secolo»? A queste parole del Duce, Orco Bisorco faceva allegramente notare: «O Mussolini, gli Strapaesani hanno già cominciato: da qualche anno e senza un quattrino».

«Noi possiamo vantarci -diceva fiero l’Orco toscano- di essere i più strenui difensori del fascismo rurale e delle qualità probe, oneste, forti della nostra gente; noi soli la difendiamo -e non per estetismo- dal bastardume novecentista, dalle teorie futuriste-bolsceviste, dalle impostazioni sfacciate della cosiddetta civiltà di marca americana».

Non ci si dimentichi, inoltre, di ciò che lo “squadrismo culturale” (la definizione è dell’antifascista Giuseppe C. Martino) rappresentò per la tutela di quelli che oggi si chiamano “beni culturali”: dalla accanita difesa della toponomastica tradizionale di paesi e di città contro «contro lo stolto vezzo inaugurato dalle amministrazioni comunali dell’epoca liberale, di mutare i nomi più propri, i nomi più significativi è più giustificati con altri che non hanno nulla a che fare in modo che la pietra domini il fango».

E si pensi, infine, all’importantissimo lavoro che "Il Selvaggio" compì negli anni Trenta, sul piano dell’antropologia culturale, raccogliendo e schedando testi dispersi e misconosciuti di poesie e canti popolari tramandati oralmente. Se oggi si conservano ancora i bruscelli ciociari, istriani, fiumani, arabo-siculi e toscani lo si deve essenzialmente a Maccari.

Checché se ne dica, "Strapaese" (da "Il Selvaggio") maccariano all’italiano longanesiano) costituì il più interessante apporto organico di tipo “tradizionalista” al fascismo italiano. Di un “tradizionalismo” ben inteso, non certo su un elaborato corpus dottrinale (come, invece, per il carlismo spagnolo)  o su un’esperienza totalizzate nel rapporto fede-mondo (come per il guardiamo romeno), ma forgiato su alcuni princìpi semplici e chiari e su genuini sentimenti capaci di dargli una sua dignità culturale.

Se "L’universale" di Ricci proponeva per un “ghibellinismo” spiritualista, (sfiorato, a volte, da ventate “laiche”), se "900" di Bontempelli era condizionato da polemiche “antitradizionaliste” ed “europeizzanti”, "Il Selvaggio" dell’avvocato Maccari e del vinaio Bencini si autoidentificò, invece, in quella cultura post-squadrista che però dell’esperienza squadrista aveva raccolto solo lo stile aspro a canzonatorio (e senza compromessi) che -come ha riconosciuto certa intellighenzia di sinistra- «consiste nella guerra ad oltranza al pompierismo littorio e alla vuota magniloquenza».

Nessuno potè considerarsi immune dall’aggressività strapaesana. Nemmeno uomini come Gentile e Evola, Spirito e Chiurlo, Pende e De Stefani, Volpe e Ansaldo furono risparmiati dalle mitragliate antimoderniste dei “selvaggi”. Nessuna istituzione di regime, per quanto intoccabile, fu considerata “città aperta”: «che seccatura / l’istituto fascista di cultura».

Nonostante le sue frecciate da toscanaccio gli avessero già una volta procurata l’espulsione dal partito, Maccari non sapeva restar muto di fronte al carrierismo gerarchista: «Ispezionate le provincie, camerata Farinacei, ma ispezionatele a fondo e troverete delle carogne da buttar via e dei buoni da utlizzare. Perché molto spesso la disciplina, localmente, diventa il mezzo col quale un pugno di faziosi stretti da vincoli oscuri, sottomettono i nuclei pensanti e le intelligenze che oltre a portare al partito un contributo di pensiero, di idee e volontà, romperebbero le uova nel paniere misterioso dei sullodati signori».

E l’orco “salvatico” (attenzione però: salvatico è "colui che salva”) che non risparmiava nulla e nessuno, sapeva ridere e sorridere, al punto di imputare al regime di aver ereditato e fatto proprio una certa tetra “austerità” di tipo “mazziniano”: «Abbiamo spesso considerato che il Fascismo non ha, oggi, manifestazioni d’allegria. I suoi giornali umoristi fanno piangere. I giornali politici son quasi sempre lugubri. Il Fascismo che non sa ridere ci stringe il cuore. L'apolitica che non sa ridere non fa per noi».

Questo, in sintesi, fu il Fascismo di Orco Bisorco e della “tribù selvaggia”di "Strapaese" (nella quale militarono Soffici e Malaparte, Pelizzi e Bilenchi, Ungaretti e Bencini): una miscela esplosiva fatta di squadrismo e tradizionalismo, oggi utilizzabile più che mai.

Oltre il “tradizionalismo” spurio e laicistico degli Omodeo, oltre il “tradizionalismo” esoterico e neo-pagano di Evola, quello di Maccari e della sua squadraccia fu il tradizionalismo popolare cattolico, rivoluzionario e antiborghese, antiamericano e antimodernista che spavaldamente proclamava:

«Siamo nati in campagna! Abbiamo bazzicato per le osterie! Abbiamo amici fra i barrociai, fra i vetrai, fra i contadini, fra gli artigiani!… Si finisse a Piccadilly, ed alla Fifth Avenue, sempre ragioneremo e discorremo alla maniera antica italiana. Se la civiltà dei nostri tempi è, come dicono, una civiltà meccanica, ovvero macchinista, non saremo così sciocchi da farci schiacciare o rimbecillire dalle macchine».

 Pino Tosca