"Proposta", Anno IV
n° 6, novembre - dicembre 1989
Per un congresso di svolta
Il MSI in campo
Il
documento di indirizzo presentato da "Proposta Italia" per il XVI Congresso
nazionale che si terrà a Rimini dall'11 al 15 gennaio. Il partito deve liberarsi
dalla paura di far politica
Da oltre quarant'anni, il MSI-DN partecipa con pieno impegno alla vita pubblica,
si assume i compiti e le responsabilità del suo ruolo, contribuisce con le sue
idee e con i suoi atti, con la sua presenza elettorale e con il suo peso
parlamentare alle decisioni, alle svolte, alle vicende politiche. Frutto di una
precisa scelta compiuta nell'immediato dopoguerra, questo atteggiamento ha
trasferito all'interno della più recente fase della storia italiana il
patrimonio politico della fase precedente: in chiave certamente critica e
dialettica, ma non per questo meno intrinseca e determinante.
Tuttavia, il MSI-DN opera con spirito e obiettivi diversi da quelli comuni agli
altri partiti, perché vede nella comunità nazionale non una semplice
aggregazione di uomini che abitano un territorio, ma una individualità
spirituale e fisica, con una identità e un carattere, con una sua missione e un
suo destino. Ne rivendica dunque fieramente l'indipendenza, e ne difende la
sovranità tuttora compromessa dalle conseguenze della sconfitta che, a quasi
mezzo secolo dalla fine del conflitto, tenacemente perdurano.
Il MSI-DN vede quindi nell'azione politica il mezzo per suscitare e dirigere le
energie nazionali, e nelle istituzioni pubbliche gli strumenti per attuarne i
compiti e realizzarne le aspirazioni. Non trova punti di contatto fra questa
concezione e quella di altri partiti che riducono la nazione a popolazione,
abbassano lo scopo della vita alla produzione e al consumo di beni, considerano
lo Stato come un meccanismo che preleva risorse e rende servizi.
Il logoramento e la paralisi delle istituzioni appaiono dunque al MSI-DN non
come i naturali frutti dell'usura del tempo o come i casuali effetti di una
serie di errori e di marginali carenze, ma come la conseguenza di un vizio di
origine, nato da un pregiudizio ideologico -comune alle forze che modellarono la
nuova forma dello Stato e poi non a caso si ritrovarono nel cosiddetto "arco
costituzionale"- che volle adeguare le pubbliche strutture a compiti impropri e
superflui e sottrarle alle loro naturali funzioni: ponendo nello stesso tempo le
premesse congenite per impedirne il funzionamento e svuotarle di ogni potere.
In questa prospettiva, il MSI-DN contrasta quel ciclo di pensieri e di
comportamenti individuali e collettivi, sociali e politici, che si muovono verso
"sinistra" in senso ideologicamente e storicamente "progressista": ciclo che
capovolge i valori della vita privata e pubblica, annulla il sentimento della
responsabilità e del dovere, tende al livellamento della società, alla
distruzione della personalità, al dominio della quantità e del numero. Ma
proprio nella sua radicalità, questa posizione non si può collocare alla
retroguardia di quel ciclo e completarlo fornendogli un'ala moderata e
rallentatrice, in cui vadano a depositarsi alla rinfusa i residui
individualistici, gli egoismi di categoria, le velleità autoritarie, le punte
insorgenti dello sciovinismo e del razzismo.
Da questo punto di vista, il MSI-DN guarda alla disfatta ideologica del marxismo
e alla progressiva smobilitazione dei regimi comunisti come alla prima
manifestazione di un collasso che colpisce tutto il ciclo che nel marxismo e nel
comunismo aveva il suo culmine e il suo punto di sbocco. Il vuoto che si apre
all'Est non può essere riempito dalla dilatazione delle ideologie liberiste,
della prassi capitalistica, della morale consumistica, dei falsi valori che
avevano cercato nel comunismo la loro più compiuta espressione e la loro
realizzazione totale.
Spetta dunque al MSI-DN il compito di risollevare gli opposti valori di cui è
stato ed è custode: i valori della sua origine storica, della sua ispirazione
ideale, della sua concezione spirituale della vita e del mondo, della sua
tenace, incorrotta testimonianza politica. Sono i valori che già un tempo
rigenerarono l'Italia e aprirono una speranza al mondo. Averli salvaguardati è
stata la solitaria, eroica, quarantennale impresa di ieri. Ricondurli nel vivo
delle battaglie politiche è la grande responsabilità di oggi.
Nel riproporre questi valori il MSI-DN non può sentire se stesso come un corpo
estraneo che si sia ricavato un bozzolo nel corpo di un'Italia malata e ne abbia
atteso il disfacimento per riemergere nella sua intatta purezza. Un simile
atteggiamento ingeneroso e bigotto contrasterebbe con i valori stessi di cui il
MSI-DN è portatore, che si esprimono nell'attivismo, nell'intervento, nella
partecipazione, che non ammettono indifferenze, egoismi e autocompiacimenti.
Nato da una forza ideale che provocò e sostenne la lotta centrale e decisiva del
secolo, il MSI-DN non può rinnegarlo mentre tramonta e credere di poter
trionfare sulla sua decadenza, ma deve sentirlo come il suo secolo, quello in
cui ha agito, ha combattuto, è caduto, si è rialzato, quello da cui soltanto può
partire per riaffacciarsi al futuro. Una sola umanità ha attraversato le vicende
di questo secolo, una sola Patria le ha vissute, prima, durante e dopo. Non c'è
altro tempo che quello in cui si pensa e si agisce, come non c'è altra Patria
che quella in cui si nasce e si vive. Nessuno può essere veramente se stesso,
fuori dall'uno o dall'altra.
Con la ferma coscienza dei suoi ideali e della sua identità, ma anche con la
netta sensazione della sua appartenenza al tempo presente e all'Italia d'oggi,
il MSI-DN può avanzare sulla scena politica con la libertà di movimenti e la
feconda inventiva che le circostanze richiedono, senza temere contaminazioni,
vicinanze, invasioni sue nel campo d'altri e altrui nel proprio. Chi crede
veramente nelle proprie idee non può temere di perderle per strada. Chi è
davvero convinto della loro superiorità non può paventare di vederle
sopraffatte. Chi vuole veramente affermarle cerca nella realtà esterna le vie, i
modi, le possibilità di penetrazione, i punti di presa per farle espandere e
vincere. Può sostenere confronti, cercare convergenze, accettare compagni di
strada, chiedere e prestare appoggi, seguire una strategia attraverso una
tattica: sicuro di sé e della sua incrollabilità, come ormai non potrebbe essere
più se sfuggisse alla prova.
La partitocrazia dimezzata
Perseguendo il fondamentale obiettivo di restituire allo Stato l'esercizio reale
del potere, il MSI-DN ha sempre considerato la cosiddetta "partitocrazia" come
il primo nemico da battere. Ma in realtà la partitocrazia, in tutte le sue
forme, da quella più blanda di tipo anglosassone, a quella intermedia di tipo
italiano, a quella estrema di tipo sovietico (che vi siano uno o più partiti,
sotto questo aspetto, non fa differenza) è solo uno dei modi in cui si realizza
la tendenza, nata con la rivoluzione francese e culminata in quella russa, a
svuotare e sostanzialmente liquidare lo Stato privandolo del suo attributo primo
che è il potere: il cui esercizio viene sottratto alle istituzioni pubbliche e
trasferito nelle mani di associazioni private. Lo Stato diviene così una
macchina inerte, mossa e manovrata da queste associazioni, che usano tuttavia la
sua forza materiale, spesso accrescendola oltre misura, come strumento di
pressione e di oppressione sul resto della società e sulla generalità dei
cittadini.
Non è questa, tuttavia, una degenerazione del sistema, ma un logico sviluppo,
del sistema stesso che, nato come "rappresentativo" (nell'800 doveva
rappresentare attraverso il suffragio ristretto gli interessi dei proprietari, e
cioè della borghesia di allora) nel passaggio al suffragio universale non ha
saputo trasformare la volontà popolare in volontà dello Stato. Un sistema
politico-istituzionale che considera come elettori puramente e semplicemente i
cittadini che hanno compiuto una certa età, non esprime l'uomo nella
molteplicità delle sue dimensioni, nell'essere vero con cui partecipa alla
costruzione della società: e ignora quindi l'uomo che agisce, che lavora,
titolare quindi dei diritti sociali.
Questo sistema non può realizzare le esigenze della società contemporanea, i cui
protagonisti sono tutte le persone che la compongono. E la rappresentanza così
intesa, che viene attuata in pratica e inevitabilmente attraverso i canali dei
partiti, non è in grado di interpretare le esigenze dell'uomo, che oggi non è
più "a una dimensione" come lo era il cittadino della rivoluzione francese. A
questa inorganicità originaria, causa prima della sopraffazione partitica e di
tutte le altre forme di usurpazione che si sostituiscono allo Stato
nell'esercizio del potere, si contrappone il concetto della partecipazione
politica, che esprime l'idea dell'uomo-persona in tutte le sue molteplici
dimensioni, di cui il "cittadino che vota" è una soltanto, e spesso neppure la
più importante.
Nel vuoto di rappresentatività e di potere provocato da questo sistema non si
inseriscono solo i partiti. Di volta in volta gruppi economici, finanziari,
industriali, sindacali, ma anche di altra natura come associazioni segrete,
lobbies e centri di pressione, organismi confessionali, occupano lo spazio che
le istituzioni abbandonano a causa della loro intrinseca incapacità di seguire i
mutamenti della società, ancorate, come sono, al modo ottocentesco di concepire
la rappresentanza politica. I gruppi si schierano l'uno contro l'altro, in un
contrasto spesso aspro che si svolge al cospetto di uno Stato ridotto a
spettatore impotente e incapace.
In Italia, dove lo svuotamento dello Stato è più accentuato che nei paesi
anglosassoni e meno che nei paesi del "socialismo reale" (nei quali ultimi il
partito è veramente tutto) gli alterni passaggi di questo processo si possono
seguire meglio che altrove. Già due anni or sono, nella mozione presentata al XV
congresso del MSI-DN, "Proposta Italia" ha osservato che nella storia del nostro
dopoguerra si possono distinguere tre fasi: l'era del centrismo in cui le forze
economiche si imposero al potere politico e gli strapparono leggi, strumenti
operativi e interventi finanziari mediante i quali condizionarono l'assetto e lo
sviluppo del paese; l'era del centro-sinistra in cui le forze politiche
ripresero il sopravvento e tentarono di costringere i processi economici nelle
strettoie dei loro schemi ideologici, con il solo risultato di paralizzare tutto
e di portare il sistema produttivo sull'orlo del baratro; la successiva fase del
"riflusso" in cui la crisi interna del sistema politico ha avuto "un effetto
benefico e tonificante sul sistema produttivo" e gli ha consentito di
riprendersi, ma ha anche rafforzato la tendenza degli operatori economici "a
considerare i partiti e le relative correnti come parte del proprio
'portafoglio' ed il parlamento come una dipendenza operativa, delegata ad
approvare leggi di comodo".
Nei due anni seguenti le cose sono andate tanto avanti e divenute tanto palesi
da indurre il presidente del Consiglio attualmente in carica a denunciare non
più la dipendenza del governo dai partiti, ma la dipendenza del governo e dei
partiti da altre forze che "affittano e comprano". E in realtà è impossibile non
vedere che il centro del potere reale si è spostato dalla sfera politica in
quella economica, e che in quest'ultima è in corso un processo di concentrazione
che va riconducendo il possesso dei mezzi e dei beni ed il controllo delle
attività in pochissime mani. Industrie, banche, "mass media" appartengono ormai
a un gruppo di persone meno numerose delle dita di una mano. Di fronte a questa
enorme potenza, ristretta e durevole, i labili governi, che vivono meno di un
anno, sono meno che fantocci; ed i partiti stessi "lottizzano" ancora ma sono a
loro volta "lottizzati" e condizionati.
La disfatta del potere statale, l'assenza di un centro al quale riferirsi e
intorno a cui ordinarsi, induce settori sempre più vasti della società ad
organizzarsi per proprio conto, a costruirsi, sequestrare, attribuirsi aliquote
e "lotti" di potere. Categorie lavoratrici e professionali sempre più numerose
si sottraggono al controllo dei sindacati "ufficiali" (a loro volta espropriati
e paralizzati dal prevalere della grande finanza) si organizzano per proprio
conto, lottano, si accordano con il potere economico senza altri tramiti. È la
fine dello Stato rappresentativo e il sistema dei partiti stesso che di fatto lo
aveva sostituito cede il passo da un lato ad altre forme di potere, dall'altro
al caos.
Così avviene ormai nelle fabbriche, nelle ferrovie, negli aeroporti, nei
giornali, nella Rai-TV, negli ospedali, solo per citare i gangli più dolenti. E
cosi avviene anche nelle aule giudiziarie dove non si producono beni o si
prestano servizi, ma si esercita un potere: e dove, se è sempre presente e
incombente il rischio dell'inquinamento partitico -come recenti "casi" hanno
clamorosamente dimostrato- è altrettanto evidente la tendenza dei magistrati a
costituirsi in corpo autonomo con sue proprie prospettive e vedute, e anche con
suoi interni problemi e conflitti che influenzano o determinano il modo di far
giustizia: come si vede da altri "casi", altrettanto clamorosi e recenti.
Completa il quadro il potere della criminalità organizzata, costituitosi
nell'estremo sud del paese ma ormai esteso in modo quasi incontrastato fino a
metà della penisola, e ramificato anche oltre. E tirate le somme, per fare il
conto della quota di potere che ancora si può attribuire al chilometro quadrato
di edifici romani in cui hanno sede le pubbliche istituzioni e le direzioni dei
partiti, resta davvero ben poco.
La partitocrazia ha dunque subito il "sorpasso" da parte della grande finanza e
continua ad esercitare una dispotica pressione sulle piccole e medie imprese. Il
suo potere, però, è soltanto periferico rispetto a quello delle grandi
concentrazioni di capitale. I partiti "amministrano" tangenti che non superano
il 10-15 per cento; la grande finanza gestisce il rimanente 85-90 e finisce per
esercitare surrettiziamente un potere impositivo sulla generalità dei cittadini.
L'Italia del "col danaro si risolve tutto" ha diviso la Nazione in due parti,
una conservatrice e confessionale, l'altra che si autodefinisce "modernista".
Ma vi è una terza fascia, non ideologicizzata e non rappresentata politicamente,
anche perché non emerge alla superficie. È l'Italia che lavora in silenzio,
subisce difficoltà e imposizioni, ma ancora apprezza l'abilità professionale e
conserva la capacità di muovere ideali e consensi. Una parte di questa Italia
guardava verso sinistra, ma oggi è matura per cambiare direzione. In questa
società fondata sul benessere, spensieratamente e felicemente consumistica, la
povertà è ancora presente, aree da "terzo mondo" sussistono ovunque in Occidente
e permangono in molte regioni italiane. Bisogna dar voce a questa "nuova
emarginazione" che non ha la possibilità di organizzarsi secondo le classiche e
ormai superate direttive "proletarie". E bisogna trovare nuove forme di
controllo del mercato, che ristabiliscano un sistema di garanzie contro la
concentrazione del potere economico e contro la sopraffazione del capitale
finanziario: condizioni queste, tra l'altro, che sono alla base di una sana e
reale crescita economica.
Questo non vuol dire, naturalmente, che la lotta alla "partitocrazia" si debba
mandare in archivio come un vecchio ferro propagandistico che non ha più
bersaglio. Vuol dire solo che le cose vanno viste come sono realmente e non come
si è abituati a vederle; e quando una situazione muta e si trasforma, va seguita
nella sua evoluzione, altrimenti si rischia di combattere a vuoto contro
qualcosa che non c'è più. Nell'Italia del dopoguerra, se è stata indubbiamente
la "partitocrazia", nella sua particolare incarnazione antifascista e "ciellenista"
a configurare un assetto statale e costituzionale congenitamente incapace di
esercitare il potere per aprire la strada alla propria usurpazione, è
altrettanto evidente che altre forze si sono ormai impadronite di quella
inefficiente struttura che i partiti avevano forgiato a proprio comodo e
beneficio. E dunque, è contro queste forze che va condotta principalmente la
lotta. Senza dimenticare, è ovvio, la sopraffazione e degenerazione partitica.
Ma ricordando sempre che l'obiettivo è quello di difendere lo Stato e di
restituirgli la capacità di esercitare il potere, non solo contro i partiti ma
anche, e ormai soprattutto, contro le altre forze che operano per sopraffarlo e
tendono a sostituirlo.
Il mondo a una dimensione
Una radicale trasformazione investe l'assetto del mondo. Il comunismo, come Marx
lo ha concepito, come Lenin, Stalin e Mao hanno tentato di realizzarlo, va
scomparendo. Nello stesso tempo, vanno anche scomparendo le condizioni
economiche, sociali, civili e umane che lo resero pensabile e ne fecero tentare
la realizzazione. Nei paesi dell'Est il "socialismo reale" è in demolizione,
l'economia collettivista cede spazio al mercato, l'iniziativa privata si
afferma, il ruolo-guida dei partiti comunisti declina, il "pluralismo" penetra
in più punti e dilaga. Nei paesi occidentali il "proletariato" -materia prima di
ogni ipotesi rivoluzionaria di tipo marxista- è in via di estinzione,
gradualmente assorbito da una trasformazione tecnologica e produttiva che ne ha
radicalmente alterato i caratteri, mentre le tradizionali antitesi classiste (borghese-operaio,
capitale-lavoro, imprenditore-dipendente) si scoloriscono e si attenuano nella
mentalità e nelle coscienze prima ancora che nei fatti. Il declino del comunismo
non offre possibilità di rivincita né prove d'appello.
Si annuncia un mondo privo di quella che da cinquant'anni è la sua seconda metà:
un mondo a una dimensione. Questo sarà verosimilmente l'aspetto del XXI secolo,
e chi non vuol restare intrappolato nel XX deve cominciare fin da ora a intuirne
le linee salienti. Ma se l'irreversibile decadenza del comunismo è un dato
certo, non sono altrettanto certi i tempi in cui l'enorme potenza
politico-militare che esso ha accumulato si esaurirà. Se l'Oriente comunista si
avvia a scomparire, non per questo ci si può comportare come se fosse già
scomparso. E chi salta i tempi del processo in corso e traccia linee di
pensiero, strategie e tattiche adatte a un mondo in cui il comunismo già non ci
sia, marcia fuori strada esattamente quanto chi afferma, contro ogni evidenza,
che il comunismo muta maschera e pelle e non il volto, che nulla è cambiato e
nulla sta per cambiare.
Il "pericolo rosso" certamente non esiste più, e continuare a combatterlo
significa lottare contro i mulini a vento, vivere nel passato e non nel
presente. Ma il potere comunista esiste ancora, e chi non ne tiene conto ignora
un dato essenziale della realtà, vive a sua volta non nel presente ma nel
futuro. Benché il comunismo sia esaurito come ideologia, infatti, potrebbe
essere non molto vicino il momento in cui si esauriranno anche le forme
politiche, i complessi burocratici, le strutture statali dei regimi che ha
generato. L'ipotesi più probabile è che si svolga un processo non uniforme,
diversificato da paese a paese, con accelerazioni (tipo Ungheria e Polonia) ed
irrigidimenti di tipo cinese o arroccamenti esclusivi (Romania, Albania, Cuba)
anche se incontestabilmente il punto finale è già segnato.
Bisogna tener conto, peraltro, del ruolo e dell'evoluzione dei partiti comunisti
dell'Occidente e in primo luogo di quello italiano. Il tentativo di sopravvivere
attraverso una radicale modifica di metodi e di linguaggio che essi vanno
conducendo, non va sottovalutato, soprattutto a fini pratici. Si tratta di forze
che restano ancora in piedi, che conservano ancora una notevole capacità di
suggestione e di presa, e che potranno ancora esercitare una notevole influenza
sulle vicende politiche.
Il mondo si ricompone in una sola dimensione, ma per il momento ne ha ancora
due. Ne consegue che non si possono individuare con certezza i caratteri che
questa nuova dimensione assumerà quando sarà davvero l'unica. Fin da ora,
invece, si tende a credere che tutto si svolgerà con elementare semplicità, che
l'Ovest assorbirà l'Est, che il mondo futuro sarà interamente occidentale,
capitalista e liberaldemocratico. Da questa convinzione deriva il trionfalismo
dei pensatori e politici occidentali, che cantano vittoria e cominciano già a
presentare il loro sistema come l'ultimo e definitivo della storia umana:
rilevando quindi, a proprio beneficio, il mito della "fine dei tempi" che fino a
ieri il comunismo aveva creduto di poter incarnare. Ne derivano anche la tetra
rassegnazione ed il patetico complesso d'inferiorità che affliggono i governanti
dell'Est ed i capi dei partiti comunisti occidentali, tra i quali spicca quello
italiano. E ne discende infine l'atteggiamento di chi, dopo aver sempre
combattuto capitalismo e comunismo insieme, vede nella resa a discrezione
dell'Oriente una storica occasione, e considera l'Occidente in quanto tale come
il solo nemico da battere.
Le cose non sono, in realtà, così lineari. I regimi dell'Est sono in crisi
perché non sono riusciti a far funzionare l'economia pubblica e collettiva, e
non hanno potuto quindi dimostrare che il loro sistema produce più e meglio di
quello capitalista. Il loro fallimento non ha solo condannato alla penuria
cronica i popoli orientali, ma ha anche dimostrato che ogni sacrificio è inutile
perché per quella via non si può produrre quell'abbondanza di merci e di beni
che proprio Marx aveva indicato come la condizione indispensabile per costruire
il socialismo prima ed il comunismo poi. Fame, dunque, non solo interminabile ma
anche immotivata. Il crollo repentino del "socialismo reale" non si spiega se
non si tiene conto del fatto che in un regime non-ideologico o di ideologia
diversa la miseria è solo miseria, mentre in un regime che si ispira al marxismo
la miseria impedisce la realizzazione del marxismo stesso, e il serpente si
morde la coda. In realtà, se l'Oriente corre verso il "consumismo" occidentale e
capitalista non si arrende vergognosamente al nemico, né tradisce se stesso: al
contrario, torna dopo un lunghissimo giro a vuoto verso la sua autentica
vocazione di fondo, che per la propria strada non ha potuto realizzare.
Il riflusso dell'Oriente verso l'Occidente non è una capitolazione ma una
ricongiunzione. Riacquista unità quel mondo che già in origine generò il
marxismo dal capitalismo, e che seppe poi ritrovarsi unito quando un vero
avversario, il fascismo, unitariamente lo affrontò. La dimensione una che la
ricomposizione si prepara ad assumere, è in fondo quella di sempre, comune
all'Occidente e all'Oriente: quella dei valori edonistici e materialistici,
della vita come ricerca della felicità e della ricerca della felicità nel
benessere, del conseguente prevalere dell'economia come motrice e causa prima di
tutte le azioni umane.
Ma la "unidimensionalità" del mondo deve essere intesa anche sotto un profilo
diverso, che è quello dei processi di omologazione economica e culturale dovuti
alla costante espansione della "american way of life" in ogni angolo della
terra, veicolato dall'estensione di un "mercato" che ha diffuso in ogni angolo
del mondo -compresi, ormai, i paesi orientali- gli stessi valori, modi di vita,
modelli di comportamento. Si diffonde rapidamente un clima mondiale di
massificazione e spersonalizzazione che "rompe" con il corso della storia e
della civiltà così come si è evoluto fino ad oggi. È ormai reale l'ipotesi che
si formi uno scenario universale in cui non ci sia né Est né Ovest ma quello che
Adolf Huxley chiamava "One World", quale effetto di una compiuta
internazionalizzazione della società del benessere e dei consumi, in cui popoli
e nazioni perdano progressivamente la loro identità, talvolta con la loro
volontaria cooperazione.
Questo processo di omologazione tende a rimuovere criteri di appartenenza come
la nazionalità, la territorialità, la memoria storica, ed a sostituirli con
altri quali il ritmo di vita, il livello di benessere, il tipo di consumi. La
categoria del "politico" va in crisi. Il "governo" che veramente funziona è
quello delle multinazionali. L'occupazione "dolce" si rivela più efficiente di
quella militare. Tanto è vero che, mentre nazioni schiacciate e "cancellate"
all'Est dimostrano con la loro straordinaria vitalità di aver resistito al
tentativo di omologazione dell'imperialismo sovietico, le individualità
nazionali investite dalla dinamica di assorbimento e "digestione" del modello
opposto rischiano più gravemente di perdere i loro volti e caratteri.
In questo senso, l'America è dovunque ed è soprattutto "dentro" i popoli. Di
fronte a questo processo in atto, e in sua alternativa, si manifestano peraltro
tendenze di rinascita nazionale sul piano etnico, culturale ed anche economico.
L'idea di organizzare sistemi di scambio e produzione alternativi e
semi-autarchici si va facendo strada in alcuni paesi, e in particolare nel Terzo
mondo e nell'America Latina. Qui, e anche in Europa, si manifestano tendenze
neo-nazionaliste e specificità culturali, che tendono a un'azione di rottura
contro l'ideologia economicistica e massificatrice. Si può già individuare il
ruolo che l'Italia e l'Europa possono avere, come guida di quanti rifiutano la
logica di un "mondo unico", in nome dei diritti dei popoli ad affermare ciascuno
la propria esistenza e presenza.
Non a caso, in questo mondo che sembra ricomporsi in base ad una sua interna e
specifica logica l'economia riprende il suo ruolo dominante, soggioga la
politica, annulla non solo l'ideologia ma ogni idealità. E non a caso il
capitalismo, come non seppe bastare a se stesso e non rappresentò la "fine dei
tempi" centocinquant'anni or sono, ma suscitò dal suo seno il suo opposto, così
fin da ora sembra già sul punto di deporre i germi di un nuovo sviluppo e di un
nuovo contrasto.
Il primo e più evidente sintomo è in quel processo di concentrazione industriale
e finanziaria che, dopo una lunga pausa di relativo equilibrio ha ripreso vigore
-con una coincidenza non certo fortuita- proprio in questi anni, e si svolge
ormai a ritmo frenetico, con il passaggio in ciascun paese delle redini
economiche in poche mani (ne abbiamo già esaminato gli effetti in Italia) mosse
e manovrate a loro volta dalle pochissime mani in cui si va restringendo il
potere del mondo. Altro sintomo è quello della sfrenata e alluvionale produzione
di beni, riversata su parte della popolazione che lavora per produrli e si
affanna a consumarli. Terzo sintomo è, infine, l'emarginazione di vasti settori
della popolazione nell'area dei paesi prosperi, e di moltissimi paesi fuori da
quell'area, che sono esclusi dal ciclo del benessere, e non sono ammessi a
consumare quei beni e tantomeno a produrli.
Dopo una lunga serie di smentite, provocate in massima parte dalle intemperanze
e disobbedienze di Lenin e di Mao, sembra che Marx stia finalmente per trovare
conferma. A dargli ragione non è l'Oriente, dove tutto quello che si è fatto in
suo nome va in rovina, ma è l'Occidente che si illude di abbracciare il mondo
dopo il suo fallimento. Il Capitale torna a lui, in tutti i sensi. Il comunismo,
certo, non rinascerà perché non ci sarà più, a generarlo, la sua matrice
"proletaria". Ma quella che si affaccia all'orizzonte del XXI secolo è una
minaccia non diversa e forse più grave. Per non sbagliare direzione, fin dai
primi passi, è a quella che bisogna guardare.
Le mura di Bisanzio
Cambia di mano il potere reale in Italia, cambia l'assetto del mondo. Lo
scenario che il MSI-DN si trova dinanzi nell'affrontare il XVI Congresso è
completamente diverso da quello che fece da sfondo al XV. Quella che non è
cambiata è proprio la tendenza al cambiamento, a una rapida e radicale
trasformazione di idee, metodi, posizioni, equilibri, amicizie e inimicizie:
tendenza che investe la scena italiana e quella internazionale, che già due anni
or sono si era messa prepotentemente in moto, e che "Proposta Italia" pose al
centro dei suoi documenti e interventi. La necessità di affrontare una
situazione del tutto inedita e chiaramente instabile abbandonando gli
atteggiamenti e metodi che erano stati correttamente usati nella fase precedente
e che la nuova non richiedeva più, venne contestata allora da una sia pur
ristretta maggioranza congressuale, che poi diede vita alla nuova gestione.
Oggi, dopo tutto quello che è avvenuto nei due anni seguenti, questa necessità
si potrebbe difficilmente negare. O meglio, si potrebbe negarla solo sostenendo,
contro la clamorosa evidenza dei fatti, che nemmeno negli ultimi due anni, tra
un Congresso e l'altro, nell'orizzonte circostante è cambiato qualcosa.
C'è un solo punto che potrebbe offrire appiglio a un tentativo del genere:
l'apparente stabilità del "quadro politico" propriamente detto, che ha
sopportato molte traversie e molti scossoni, ma in definitiva si è poi
ricomposto in un disegno non molto diverso da quello che ci aveva presentato a
Sorrento. Se si guarda alla superficie delle cose, si può effettivamente
osservare che c'è ancora un DC al Quirinale e un altro a Palazzo Chigi, che la
formula di governo è sempre fondata sull'intesa tra democristiani, laici e
socialisti, che la legislatura "ha tenuto" e tuttora "tiene", che gli
spostamenti elettorali registrati nelle diverse consultazioni da allora
intervenute non sono tali da modificare sostanzialmente i rapporti di forza. E
si potrebbe anche aggiungere che la "crisi del sistema" più volte vaticinata e
preannunciata non si è poi vista, e che persino il pentapartito, dato per
spacciato e decotto da tempo immemorabile, è sempre vivo e di nuovo in sella.
Ma appena si guarda sotto la superficie, la realtà dei fatti appare molto
diversa. Nell'assetto interno dei maggiori partiti, nei loro rapporti,
nell'equilibrio che sono riusciti a stabilire e in quel che vanno preparando per
il prossimo futuro, ben poco è rimasto della situazione -già molto nuova e
altamente instabile- che ci si presentava due anni or sono. La scena era allora
dominata dal duello tra De Mita e Craxi, che già da molti anni monopolizzava
l'attenzione generale ed in cui si esauriva in pratica tutta l'attività
politica. Oggi, dei due antagonisti il primo è fuori combattimento dopo aver
tenuto brevemente e ingloriosamente la guida del governo e dopo aver ceduto a
viva forza la segreteria del suo
partito, mentre il secondo segna il passo, perde colpi, non conclude e non
riesce più a tenersi al centro degli eventi. Il terzo pezzo del gioco, il PCI,
ha cambiato in fretta segretario, ma anche sotto la guida di Occhetto ha perduto
tutto quello che già stava per perdere: l'ideologia marxista, la "classe
operaia", la "spinta propulsiva della rivoluzione d'Ottobre", il mito della
"casa madre" sovietica, oltre -inevitabilmente- a milioni di fedeli che lo
abbandonano in numero crescente ad ogni tornata elettorale. Ha conservato solo
il nome, e anche quello a fatica.
Con i tre protagonisti e con i loro partiti, declinano e perdono credito i
rispettivi "disegni". De Mita seguiva un filo lineare e visibile: fare il
congresso de prima di andare al governo, entrare a Palazzo Chigi dopo aver
ottenuto la riconferma a segretario, tenersi le due cariche, puntare
sull'accordo con il PCI e mettere Craxi fuori gioco. Nessuna meraviglia, quindi,
che le due forze minacciate dal suo tentativo -il PSI e mezza DC- si siano
coalizzate, lo abbiano costretto ad andare al governo prima di fare il
congresso, gli abbiano poi tolto la segreteria con il pretesto della "doppia
carica", e gli abbiano infine demolito il governo lasciandolo completamente a
terra.
Craxi aveva in mente un'operazione più complessa: togliere di mezzo De Mita,
cogliere un grosso successo alle elezioni europee, servirsene per provocare le
elezioni politiche anticipate possibilmente in autunno, bissare il successo e
servirsi della forza parlamentare così acquistata per puntare sulla riforma
istituzionale e assicurarsi la presidenza "presidenziale" della Repubblica: ma
aveva fatto i conti senza l'oste elettorale, e la battuta d'arresto subita alle
europee lo ha costretto a rimandare tutto il resto del programma a migliore
occasione. Occhetto sperava di tenersi a metà strada fra i due contendenti e
fare da ago della bilancia: tenendo ben strette nelle mani le due carte
dell'intesa con l'uno (compromesso storico) e con l'altro (alternativa di
sinistra) per scegliere al momento opportuno la via più conveniente e sicura. Ma
la paurosa emorragia elettorale che ha colpito il PCI ha fatto perdere i
"numeri* all'una possibilità e all'altra, perché il compromesso avrebbe un
margine di maggioranza minore di quello pentapartito, mentre l'alternativa
sarebbe del tutto impossibile: e nelle mani di Occhetto non è rimasto più nulla.
La facciata è ancora in piedi, ma dietro c'è terra bruciata. E mentre due anni
fa alle spalle del pentapartito di Goria si intravedevano le molte possibilità
diverse che si intrecciavano e si scontravano, oggi alle spalle del pentapartito
di Andreotti non si scorge possibilità alcuna: questi due anni sono serviti a
vanificarle tutte. E dunque non sono certamente trascorsi invano. Né possono
indurci a riprendere il discorso lasciato in sospeso a Sorrento con un «heri
dicebamus», come se tutto quello che nel frattempo è avvenuto non avesse
importanza per noi. Anche perché il deserto politico trova riscontro e conferma
nell'estrema incertezza elettorale. Le recentissime comunali romane hanno
confermato nelle linee generali la tendenza già delineata dalle amministrative
parziali dell'88 e dalle europee di quest'anno: la DC oscilla con guadagni e
perdite alterne ma non si allontana dal 30 per cento, il PCI prima crolla poi
cala più lentamente ma non si riprende, il PSI avanza millimetricamente da
tredici anni senza mai sfondare, i minori vegetano alla meglio e sfiorano la
consunzione, gli stessi "verdi" che sembravano un fenomeno in espansione hanno
subito un significativo regresso negli ultimi tre mesi.
Eppure, l'elettorato è tutt'altro che immobile. Le analisi dei flussi elettorali
dimostrano che mentre dieci anni fa gli spostamenti complessivi da una
consultazione all'altra non superavano il 10%, oggi c'è una massa fluttuante che
supera il 40%, e tra questi un 20% che non vota, e un altro 10% che da schede
bianche o nulle, o disperde il voto.
Il cosiddetto "zoccolo duro", sul quale ogni partito fino a poco tempo fa
credeva di poter contare, si va riducendo progressivamente, e in qualche caso
non esiste più. E questo sarebbe certamente un gran vantaggio, perché la
fluidità dell'elettorato potrebbe aprire un vastissimo campo di azione e di
conquista, se nello stesso tempo anche il MSI-DN non si fosse aggrappato al
proprio "zoccolo", che a sua volta si va assottigliando pericolosamente. E anche
questo -benché ancora una volta si debba osservare che i segni premonitori erano
già evidenti a Sorrento- è un segno chiaro che è emerso in modo inconfutabile
negli ultimi due anni, con una erosione costante del nostro patrimonio
elettorale che si è progressivamente manifestata in tutte le successive
consultazioni, anche se rotta episodicamente da qualche successo locale.
Sul fatto è impossibile dubitare. Sulle cause, che verosimilmente sono
molteplici e di diversa natura, si può discutere a lungo interpretando i dati in
vari modi e difendendo i più vari punti di vista. Ma è difficile non collegare
l'aspetto generale del fenomeno con la mancata presa di coscienza dei mutamenti
avvenuti e in corso che segnò l'esito del Congresso di Sorrento, e con il
mancato adeguamento di prospettive e metodi che ne seguì. E benché un elenco
delle occasioni trascorse e del loro influsso sugli orientamenti dell'opinione
pubblica sia a questo punto superfluo, sarebbe veramente grave se da quanto è
avvenuto -e da quanto non è avvenuto- non si cercasse di trarre qualche utile
conclusione per determinare il comportamento futuro.
Il più immediato dato di novità che "Proposta Italia" aveva messo in rilievo a
Sorrento, era la frattura nello schieramento avversario, che non consentiva più
un urto frontale, perché qualunque cosa si fosse fatta, soprattutto sul piano
parlamentare, sarebbe andata a vantaggio di uno dei contendenti. E in realtà,
nella lotta che si svolgeva intorno al governo Goria e che subito dopo entrò
nella fase finale, il MSI-DN ebbe una parte determinante, perché senza i suoi
voti espressi costantemente contro il governo, gli agguati dei "franchi
tiratori" non avrebbero avuto effetto. E poiché, come abbiamo visto, la lotta
contro Goria tendeva a far fallire il piano di De Mita costringendolo ad entrare
anzitempo a Palazzo Chigi, il MSI-DN determinò la vittoria dei suoi avversari. E
nello stesso modo si comportò nei mesi seguenti, quando la lotta ebbe come posta
il sistematico logoramento del governo De Mita e la definitiva "bruciatura" del
suo presidente, operazioni che sarebbero state chiaramente impossibili senza la
costante del voto contrario missino.
La situazione politica e governativa che oggi ci troviamo a esaminare, insomma,
è stata in larga parte da noi determinata, perché se ci fossimo comportati in
modo diverso sarebbe certamente diversa. Ma l'abbiamo determinata, non decisa.
Quel che abbiamo fatto era certamente giusto e opportuno, ma non era volto ad un
preciso obiettivo, né inteso -e quindi propagandisticamente sfruttato- in tal
senso. E benché fossimo tra i protagonisti di quello che stava avvenendo,
l'opinione pubblica continuava a considerarci come spettatori passivi e fuori
gioco, traendone poi le relative conclusioni al momento del voto.
L'eventualità di rappresentare all'opinione pubblica la parte risolutiva che
stavamo sostenendo nel corso della vicenda politica, e nello stesso tempo di
chiarire a noi stessi con un ampio, impegnato e sereno dibattito il nostro ruolo
e le nostre prospettive, ci si offerse quando tutti gli altri partiti tennero
nell'arco di pochi mesi i loro congressi. Poiché l'appuntamento congressuale era
per noi lontano, "Proposta Italia" suggerì la convocazione di una grande
Assemblea Nazionale, che ci consentisse di dire la nostra parola mentre
risuonavano quelle degli altri, e ci presentasse ai mezzi d'informazione e
quindi al pubblico come un elemento costitutivo del concerto politico.
L'impossibilità di superare preventivamente, secondo il desiderio della
Segreteria, le contrapposizioni derivate dal Congresso di Sorrento bloccò
l'iniziativa, e l'Assemblea non venne indetta. Lo spettacolo che si presentò tra
l'inverno e la primavera scorsa fu in tal modo quello di un quadro politico
formato da nove partiti e non da dieci. E questo all'immediata vigilia delle
elezioni europee. Nello stesso tempo, venne a mancare una sede di dibattito che
avrebbe offerto la possibilità di riesaminare e sanare le divergenze
d'interpretazione sorte sempre a Sorrento fra le sei correnti, e ne derivò -tra
l'altro- la pubblica manifestazione di quelle divergenze nella sede non certo
propria di un quotidiano romano, con una eccezionale diversificazione di idee e
di linguaggi. E anche, qui, alla vigilia di una prova elettorale di grande
importanza, come quella che poche settimane dopo riguardò il Comune di Roma.
Con una efficace espressione, nel prendere atto di questa situazione di
pericolosa stretta esterna e di acceso dibattito interno, il Segretario del
partito ha fatto più volte riferimento a Bisanzio. Non si può che convenirne. In
realtà, a Bisanzio abbiamo dimorato a lungo, e ancora vi siamo rinchiusi. Il
problema è di uscirne. Non solo superando le discussioni che troppo ci prendono
e ci calamitano e che spesso somigliano davvero a quelle sul sesso degli angeli
che appassionavano i teologhi bizantini, ma anche e soprattutto decidendo di
irrompere fuori delle mura con una sortita all'aperto. Uscendo "in campo".
Altrimenti, potremmo davvero correre il rischio che il paragone si dimostri
dolorosamente esatto. E fino in fondo.
Polo escluso e polo autoescluso
Per uscire da qualcosa -Bisanzio, ghetto, gabbia, steccato o comunque si voglia
chiamarlo- il primo passo è certamente quello di accertare se si può davvero
uscire, il secondo è quello di stabilire se si vuole davvero uscire. Il primo
punto presenta ancora aspetti contraddittori. Certo, proprio negli ultimi due
anni, la pregiudiziale nei nostri confronti, che fino all'inizio degli Anni '80
era stata assoluta e intransigente, si è ulteriormente allentata ed ha perduto
la sua ermeticità: i rapporti parlamentari sono divenuti più aperti ed elastici,
nel dialogo sulle riforme istituzionali -sia pure in seguito al solitario invito
di Craxi- siamo stati inclusi, le nostre delegazioni sono apparse nei congressi
di altri partiti, gli inviti che partono dal nostro mondo a partecipare a
dibattiti, confronti e tavole rotonde non vengono più rifiutati nemmeno da
esponenti altolocati e di grosso calibro, uno scambio particolarmente intenso è
avvenuto con settori militanti del mondo cattolico.
E tuttavia, siamo ancora in una fase di transizione. Il MSI-DN non è più
ghettizzato ma non è ancora legittimato a governare, non è più osteggiato e
aggredito ma non è ancora considerato come possibile parte contraente di
eventuali scenari politici. Non trae più i benefici della rendita del passato,
ma non è ancora in condizione di raccogliere i frutti del dialogo e del
confronto. È nella «terra di nessuno» o, come si suol dire, «in mezzo al guado»:
esposto alle critiche di chi vorrebbe respingerlo indietro ma non sa come, in
balìa di chi gli chiede di andare avanti ma forse solo per meglio colpirlo.
La possibilità di uscire dunque sussiste, ma non si manifesta certo
spontaneamente: le porte sono aperte, ma nessuno ci stende il tappeto sotto i
piedi, o ci offre il braccio per aiutarci a varcarle. Dovremmo agire
d'iniziativa, superare i punti che non sono più sbarrati, forzare quelli che
ancora lo sono.
Ma qui viene il secondo aspetto della questione: vogliamo davvero farlo? E,
prima ancora: non riteniamo inopportuno, pericoloso, o addirittura disdicevole o
colpevole farlo? Il nodo non venne sciolto a Sorrento, e si ripropone, nel nuovo
Congresso come tema centrale del dibattito. Nell'affrontarlo, due anni or sono,
"Proposta Italia" fece presente che l'esclusione del MSI-DN dal gioco politico
non è originaria né congenita, né dovuta alle sue radici ed ai suoi riferimenti
ideali e storici, poiché negli Anni '50 -quando la guerra e la guerra civile
erano ben più vicine- le forze missine appoggiarono e sostennero governi, e
altri ne fecero cadere che avevano richiesto e non ottenuto il loro aiuto.
L'esclusione venne all'inizio degli Anni '60, quando il ciclo politico che si
era avviato con il centro-sinistra, e che nel decennio seguente si prolungò
nella cosiddetta «unità nazionale», ebbe bisogno di un contraltare, di
un'opposta "polarità" e, poiché marciava verso sinistra, lo trovò in modo ovvio
e naturale nella destra.
Esclusione, quindi, non ideale, storica, morale o politica, ma semplicemente
strumentale, perché rivolta ad un fine preciso che era la graduale immissione
del PCI nell'area di maggioranza prima e in quella di governo poi: venuto meno
il quale con la precipitosa ritirata comunista alla fine del 78 vennero meno
anche i furori che avevano accompagnato la ghettizzazione missina. Che,
certamente, non cessò di colpo né si può considerare ancora oggi completamente
rimossa. Ma che é certamente priva della ragion d'essere per cui gli altri la
posero. E non dovrebbe quindi avere ragion d'essere nemmeno per noi, essendo
fallita la vasta e pluridecennale marcia verso sinistra alla quale, come forza
di destra, avevamo il preciso e sacrosanto dovere di opporci.
A due anni di distanza, si deve inoltre osservare che per i missini restare un
"polo escluso" sta diventando scomodo e pericoloso, e in sostanza lo era fin
dall'inizio di questa nuova fase. Fino a quando gli altri partiti, più o meno
spontaneamente e consapevolmente, seguivano un progetto, l'opposizione a quel
progetto aveva un preciso senso politico. E benché per gli altri partiti
l'esclusione del "polo" missino rispondesse ad una precisa necessità operativa,
quella stessa esclusione dava al MSI-DN una collocazione chiara, facilmente
identificabile e comprensibile, pienamente giustificata: chi non accettava
l'evoluzione che era stata impressa alla politica italiana, in quella
collocazione si riconosceva automaticamente.
L'abbandono del progetto (e, come si è visto, a questo punto, di ogni progetto)
ha fatto venir meno la necessità di un contraltare al medesimo. Ed ha tolto
quindi, per converso, alla posizione missina, gran parte della sua presa: per
essere un contraltare bisogna pur esserlo a qualcosa. Nello stesso tempo, con il
passare degli anni I'«alternativa» stessa ha perso capacità di presa, sia per
l'allontanarsi del fascino "storico" di cui si era alimentata, sia per la
consistenza stazionaria delle sue forze.
L'uscita in campo si presenta dunque non solo come una logica conseguenza dei
fatti, ma come una necessità vitale. Certo, per quanto riguarda i veri e propri
rapporti politici e interpartitici e nello specifico settore dell'azione
parlamentare, la ricomposizione del pentapartito sotto la guida di Andreotti, la
messa in sordina della questione istituzionale, l'affievolirsi del cosiddetto
"dibattito politico" sembrano aver ridotto di molto le possibilità di
intervento. Ma basta osservare più a fondo le sia pur modeste vicende in corso,
per vedere che si tratta solo di una tregua, tutt'altro che pacifica e
presumibilmente non lunga.
La frattura tra l'area laico-socialista e la DC è sempre aperta, e mostra a ogni
occasione (si vedano le elezioni comunali romane) la sua profondità e
insanabilità. In parlamento, il governo viene battuto non più dai "franchi
tiratori" ma a scrutinio palese. La crisi istituzionale non è stata certamente
sanata dal fatto che non se ne parla più. La progressiva perdita di potere della
politica in quanto tale, e l'avanzata delle forze economico-finanziarie da un
lato e malavitose dall'altro creano una situazione di drammatica precarietà, in
cui a tutto si può pensare meno che ad "escludere" un "polo".
Ma una politica di intervento non si deve limitare al campo parlamentare. La
caduta degli steccati ha "liberato" le nostre idee, ne ha aumentato la velocità
di circolazione, ne ha forse stemperato la matrice, ma le ha messe in condizione
di influenzare gli altri. La fine del ghetto è anche questo: alcuni dei nostri
temi di battaglia sono diventati patrimonio comune, o comunque patrimonio di una
larga parte del paese. Pensiamo alla riforma "presidenziale", all'elezione
diretta del sindaco, alla lotta contro la droga, all'illiceità del drogarsi,
alla riforma delle USL, al servizio militare volontario, alla regolamentazione
degli scioperi, al problema di un'Europa unita fra i due blocchi. E anche la
battaglia contro l'aborto e per il diritto alla vita trova oggi un maggior
riscontro rispetto a dieci anni fa.
C'è nel paese (lo ha riconosciuto anche Craxi) una «maggioranza referendaria»
che è diversa da quella parlamentare. Ci sono valori, idee, aspettative, bisogni
diversi da quelli espressi dai partiti. Ci sono problemi e proposte che tagliano
trasversalmente le forze politiche, che rompono i vecchi schemi e creano nuove
aggregazioni. C'è lo spazio, c'è la possibilità per realizzare su questi temi
una nostra "maggioranza referendaria". È un fondamentale strumento che il MSI-DN
può usare per uscire dalla "terra di nessuno", per superare il "guado", per
conquistare una presenza attiva, condizionante e determinante sulla scena
politica. Se le nostre proposte vengono accolte da altri e divengono maggioranza
nel paese, possono essere utilizzate per creare convergenze, punti di contatto e
di incontro: quattro, cinque grandi battaglie condotte insieme a chi altri le
condivida e per il tempo necessario, e sulle quali dividere le forze politiche
ed i loro elettorati, ma sulle quali costruire nello stesso tempo un'unità forte
e netta, capace di proporre e di aggregare.
Né, fra i temi di agitazione e di aggregazione, si devono dimenticare o
sottovalutare quelli che riguardano l'Europa, anche e soprattutto sotto il
particolare aspetto dei suoi rapporti con gli altri popoli e con l'area del
sottosviluppo. Non si può dimenticare che una larga fetta di prosperità dei
paesi europei (oltre che, naturalmente, degli USA) deriva dallo sfruttamento
effettuato a danno dei paesi produttori di materie prime. Il prezzo di queste
viene tenuto artificialmente e prepotentemente basso e talvolta al di sotto del
prezzo di costo dai principali consumatori che dominano il mercato, con una
politica che crea miseria e provoca quindi come conseguenze dirette prima i
rivolgimenti sociali e poi l'emigrazione. A questi problemi si è pensato di far
fronte con prestiti a tassi da usurai che hanno creato altri squilibri e altra
povertà. Far parte di un'Europa che gareggia con gli Stati Uniti nello
sfruttamento di altri popoli, che apparentemente presta o regala ma poi si
riprende tutto con pesanti interessi e paga sottocosto quello che compra, non
può essere accettato da noi, e non solo da noi. Sollevare questi problemi in una
particolare chiave non solo economica ma anche politica e morale e proporre
precise iniziative, per risolverli è azione che compete specificamente a noi, e
può attirarci non solo consensi di opinione, ma anche solidarietà e convergenze
politiche.
Il primo problema che dovremo affrontare, a congresso appena concluso, sarà la
tornata amministrativa della prossima primavera, alla quale non possiamo
assolutamente presentarci con i soliti, logori schemi. I risultati negativi
delle elezioni comunali a Roma, Catania, Reggio Calabria, Matera, Barletta e
nella maggior parte dei centri in cui si è votato in questi due anni, ci
impongono di ripensare radicalmente la nostra presenza negli enti locali. E di
farlo subito prima che il processo di disgregazione diventi inarrestabile. Il
pericolo maggiore è nei piccoli Comuni dove bastano poche decine di voti per
perdere il quoziente ed uscire dai consigli comunali (e in molti casi il
consigliere comunale è l'unico veicolo politico che persiste alla crisi della
struttura territoriale), ma non meno importante è il problema di carenza
propositiva nei medi e grandi centri del Meridione dove si stanno pregiudicando
posizioni consolidate.
È tradizione che il nostro partito ottenga meno voti alle amministrative
rispetto alle politiche, perché diversa è la valenza del nostro ruolo; ma la
"forbice" tende ad allargarsi ogni giorno di più, con pericolose conseguenze
sulla ramificazione territoriale del MSI-DN. Per invertire il trend negativo, è
necessario apparire credibili come alternativa di governo locale, recuperare il
rapporto con la società civile, la stima e l'attenzione dei ceti medi, la
fiducia e il consenso di chi protesta. Per farlo occorrono due cose: un progetto
politico chiaro, moderno, incisivo, che faccia sentire in ogni ambito il peso
dei nostri voti, il loro tasso di utilità nazionale; e un'immagine elettorale
che sia la più vicina al comune sentire, che rappresenti l'Italia che noi
desideriamo ed amiamo. In alcuni casi il modo migliore per farlo è quello di
rappresentare sino in fondo la nostra alterità, di presentare simbolo,
struttura, classe dirigente; e ciò vale soprattutto per le città del Nord dove
la nostra presenza è una conquista recente e dove quindi la riproposizione del
simbolo assume di per sé una propria autonoma ed importante valenza politica. In
altri casi, si possono tentare operazioni più vaste, promuovendo ed accelerando
il processo di ricambio, e ricucendo il rapporto con chi si è allontanato dalla
politica, con chi ha realizzato i propri ideali fuori e spesso contro la
politica. Non si tratta di promuovere liste civiche dove il partito è debole,
tantomeno ripescare personaggi logori e formule che non hanno più riscontro
nella realtà come quella abusata e consumata della "grande destra". Si tratta di
realizzare un'operazione politica dove il partito è forte, radicato, con buone
potenzialità e adeguata classe dirigente; dove cioè può legittimamente aspirare
ad aggregare le forze antagoniste al sistema di potere locale.
Chiaramente, con spregiudicata sincerità, prima di cercare di convincere gli
altri che la nostra presenza è utile, che la nostra forza è necessaria, dobbiamo
cercarne le ragioni in noi stessi, in quel che siamo e non nei nemici che
combattiamo: vincendo, quando è il caso, la paura di non trovarle. Paura
infondata, da cui nasce un vano ritegno che paralizza l'azione. Il nostro
contenuto ideale ha in sé la forza per generare la soluzione non solo dei
problemi planetari del mondo, ma anche di quelli grandi, piccoli e medi della
nostra società. E può dare l'orientamento per intervenire nella vita nazionale,
e poi in quella di una vasta regione o di un grosso capoluogo, e infine in
quella di un piccolo centro. E non solo per protestare, denunciare e inveire, ma
per cooperare a risolvere, per determinare e stabilire equilibri, per
controllare situazioni, per aiutare le città a respirare e la gente a vivere:
pesando e determinando, promettendo e mantenendo oggi e subito, e non
annunciando che lo faremo quando andremo, e da soli, al potere. Il consenso deve
sorgere dalla capacità di estrarre il pratico, il concreto, l'efficiente,
l'attuabile, dalle grandi idee universali che sono il nostro patrimonio; e poi
dalla capacità di trovare e stabilire i rapporti politici, le convergenze
pratiche, i collegamenti opportuni, le solidarietà possibili per rende
realizzabile quello che proponiamo. Deve venire da un'azione politica, dal suo
quotidiano vigore, dalla fiducia che ispira. È una via poco agevole, e forse
rischiosa. Ma è la sola degna di quello che veramente siamo. Ed è anche la sola
che ci offra una reale possibilità di successo.
Sta al MSI-DN non continuare ad "autoescludersi". Al punto in cui siamo, non è
nemmeno più il caso di parlare di campanelli d'allarme: quello che è suonato a
Roma è solo l'ultimo in ordine di tempo. È ormai chiaro che sono sempre meno
numerosi gli elettori disposti a votare per ragioni "storiche" o metapolitiche,
o per un'alternativa che raggiunga improvvisamente, con un colpo di bacchetta
magica, i consensi necessari a renderla attuabile. L'ideale, se è valido, deve
potersi manifestare nel reale. E l'elettore che accoglie le nostre idee vuol
sapere in che modo, seguendole, modificheremo il presente, all'indomani del voto
e non in un imprecisato futuro. Dalla risposta che sapremo dare su questo punto
vitale dipende, ormai, praticamente tutto.
Il partito che vogliamo
La rilettura delle idee per l'adeguamento della struttura del partito avanzate
da "Proposta Italia" al Congresso di Sorrento ne rivela la piena attualità alla
prova dei fatti e delle nuove esigenze emerse nel successivo biennio. Al
contempo, però, gli stessi fatti comprovano il grado di vischiosità e di
autoconservazione di istituti pleonatici, pletorici, inutilizzabili e quindi
sostanzialmente inutilizzati, presenti nello statuto del partito. Solo qualche
marginale, anche se significativa mutazione di rotta è stata impressa nella
direzione da noi indicata e sotto la nostra pressione. Valga come esempio il
piccolo ridimensionamento del Comitato centrale ed il blocco delle cooptazioni
lottizzate. Sarebbe pertanto sufficiente riproporre immutate le soluzioni
indicate al riguardo dalla mozione presentata da "Proposta Italia" al precedente
Congresso. E quanto in sostanza faremo, riorganizzando e integrando la materia
alla luce dell'esperienza fatta e dei necessari aggiustamenti.
La zona d'ombra più evidente è rappresentata dalla discontinuità e spesso dalla
carenza di quadri: è, in altri termini, il problema della formazione della
classe dirigente. Accantonando ormai definitivamente l'anacronistica e mai
realizzata idea di una scuola di partito, è il partito stesso in tutti i suoi
momenti associativi, in tutte le sue fasi d'azione che deve assumersi il compito
di essere un grande cantiere di elaborazione culturale, di farsi educatore, di
darsi come obiettivo principale e mai esaurito quello di trasformare i propri
iscritti in classe dirigente, per le proprie funzioni ma anche per la nazione.
È questo un lavoro complementare a quello della ricostruzione di una cultura
politica, oggi quantomeno appannata, che metta tutti in condizione di dare
automaticamente risposte univoche alle domande che la politica quotidianamente
pone. Si tratta quindi di ridefinire in termini più ampi la funzione del settore
Cultura, che deve divenire sempre meno "settore" e sempre più fattore di
propulsione per tutte le articolazioni del Movimento. Oltre a tale compito più
generale vi sono almeno tra funzioni specifiche che in quest'area bisognerebbe
individuare:
1) La costituzione di un "centro di studi e ricerche", con un campo di interessi
più ampio di quello dell'Istituto di Studi Corporativi (che potrebbe esserne
assorbito) e con un aggancio diretto con I'attività delle strutture del partito
e le sue rappresentanze dirette.
2) L'acquisizione di un rapporto stabile on il mondo accademico, attraverso la
diversa valutazione ed il coinvolgimento di quei docenti che in vario modo
continuano ad offrire la propria disponibilità, ed una diversa utilizzazione
delle nostre rappresentative studentesche che dovrebbero essere emancipate dalla
riduttiva collocazione tra le organizzazioni "giovanili".
3) Un compito di direzione e collegamento con quanti svolgono attività nei
diversi ambiti associativi della realtà italiana. Va a questo riguardo precisato
che riteniamo esaurita e quindi superata l'idea (che pure ha esercitato a suo
tempo una funzione propulsiva) delle "iniziative parallele". In un periodo in
cui la molteplicità degli interessi dei singoli e dei gruppi trova sempre nuove
ed articolate risposte nei modi stessi in cui la società va organizzandosi,
nelle sue forme di rappresentanza, nei suoi nuovi soggetti, è là che bisogna
saper cogliere i fermenti e dirigere l'azione. A nulla servirebbe tentare di
crearne dei doppioni in cui far recitare una diversa parte in commedia al
militante. Anche la funzione dell'agitatore culturale e politico è profondamente
mutata in questi ultimi anni.
I risultati omogeneamente negativi delle ultime tornate elettorali, la
sostanziale perdita di consenso, il disorientamento di parte dell'elettorato e
in qualche caso dei quadri dirigenti ci dicono che quella che il Movimento sta
attraversando è soprattutto una crisi di "posizionamento", quindi di
comunicazione e di immagine. Sono funzioni, queste, che dipendono da fenomeni
complessi, da una serie di elementi che sono tuttavia misurabili e verificabili.
Ne indichiamo alcuni:
1) L'omogeneità del gruppo dirigente. La tendenza al correntismo, pur procurando
talvolta fasce di elettorato, abbassa complessivamente il prestigio del gruppo
dirigente.
2) La capacità di far pervenire agli aderenti e agli elettori messaggi semplici,
chiari, non sovrapponibili a quelli dei partiti concorrenti.
3) Un rapporto con i mass-media che assicuri la presenza costante del Movimento
al centro dell'attenzione. La stabilità di presenza al centro del dibattito
politico-culturale con ricchezza e vivacità di tematiche che consenta agli
elettori un facile riconoscimento e li garantisca sulla continuità d'azione di
un partito non caratterizzato per un solo tema. La ricchezza di tematiche
garantisce la stabilità elettorale dei partiti.
4) La capacità di produrre una o più persone che siano una "incarnazione" dei
tratti distintivi del partito. Questo consente una comunicazione rapida ed
efficace fra il centro del partito e la periferia degli elettori e dei
simpatizzanti, permette una trasformazione rapida e l'adattabilità delle linee
del partito a fronte di contesti mutati; ha funzioni di controllo sulla
stabilità e omogeneità dell'apparato che tende sempre a frazionarsi e quindi a
generare temi e interpretazioni dalle linee diverse e contraddittorie.
All'avvicinarsi degli anni Duemila, la comunicazione politica va determinata con
riferimento ad una serie di concetti che spieghino, metamorfizzandole, le
funzioni di un partito politico. La struttura del partito deve servire a questa
funzione. In questo senso deve permettere il massimo di circolazione delle
tematiche fra gli elettori e la classe dirigente.
Lo sviluppo della cultura e dei mezzi di comunicazione richiedono uno sforzo
eccezionale di adeguamento delle nostre strutture. È ormai ampliamente superato
il concetto di "propaganda" come puro dato organizzativo della stampa e di
diffusione del materiale propagandistico. Ai settori "stampa" e "propaganda"
deve essere sostituito un unico dipartimento che si occupi della "immagine" del
partito, e che dovrebbe assolvere a tre fondamentali funzioni:
1) Svolgere una costante verifica del posizionamento dell'immagine del partito
tra il proprio elettorato e tra i gruppi che, nella loro articolazione,
costituiscono l'opinione pubblica.
2) Attrezzare il partito con strumenti di comunicazione interna che tengano
sotto costante controllo i canali di socializzazione interspecifica e ne
elaborino l'immaginario collettivo.
3) Tradurre in un'ampia strategia comunicazionale i temi deliberati dagli organi
politici: a chi si occupa della comunicazione deve essere affidata la scelta
delle formule, degli slogan, dei mezzi e dei momenti di intervento. Non serve al
riguardo giustificare ataviche carenze con la carenza di mezzi finanziari; le
energie spesso disperse nella nostra azione propagandistica, se razionalizzate e
mirate, sarebbero largamente sufficienti per un'azione svolta in profondità.
Resta comunque fondamentale un ri-adeguamento complessivo dello strumento
partito alle esigenze di un'azione agile ed efficace, che restituisca al tempo
stesso autorità e funzionalità ai suoi organi. Torniamo a ripetere che questo
compito deve essere affrontato direttamente dal congresso con una radicale
riforma dello Statuto, da completare durante il congresso stesso, abbandonando
il costume delle deleghe "aperte" al Comitato Centrale e ad altri organi
direttivi. Così come ancora si presenta, la struttura del partito è un edificio
farraginoso, antiquato; di tipo ottocentesco, basata sull'illusione che si possa
costituire una rigida organizzazione di massa, volta a rendere militante
l'intera area del proprio consenso. Occorre invece prendere atto che interessi,
costumi, correnti culturali, aggregazioni sociali si formano per altre vie e che
schemi generali di interpretazione e unificazione non esistono più. Bisogna
quindi fare dal partito un organismo snello ed elastico, in grado di intervenire
sui molteplici aspetti di una realtà frammentaria, in costante osmosi con la
società civile.
Va quindi rinnovata la struttura vera e propria, che conserva la sua base
territoriale. Le sezioni, le federazioni, le segreterie regionali devono essere
liberate delle loro bardature burocratiche e restituite alle loro funzioni di
organi politici, elementi di propulsione, elaborazione e indirizzo, e
soprattutto di guida per chi rappresenta il partito nelle assemblee elettive.
Una sezione che non è in grado di svolgere questi compiti va sciolta, sostituita
o chiusa. Saranno poi le strutture territoriali snellite e rinnovate ad assumere
e pilotare iniziative di penetrazione e presenza negli ambienti culturali,
economici e professionali, ma sempre con l'obiettivo di interessare, influenzare
e guidare, mai di irreggimentare.
Anche al centro gli organi devono avere funzione e contenuto politico, prima che
preoccupazioni organizzative.
Attraverso i suoi organi centrali il partito deve guidare e controllare l'opera
dei suoi rappresentanti parlamentari, che oggi hanno finito invece per assumersi
in pratica il compito di determinare ed esprimere la politica del partito. A
questo fine va anche assicurato il rigoroso rispetto del principio
dell'incompatibilità fra le diverse cariche elettive, senza alcuna eccezione. Va
inoltre eliminato il deleterio costume di ricandidare automaticamente gli
eletti, per cui una carica, una volta ottenuta, comporta una sorta di diritto
acquisito alla riconferma. Un limite ad un troppo alto numero di rielezioni
successive potrebbe essere istituito; sia pure in linea di massima e con le
necessarie cautele.
Occorre infine una vera e propria operazione chirurgica, per liberare gli organi
direttivi dalla pletora che attualmente li paralizza e ne impedisce il
funzionamento. Il nuovo Statuto deve dunque prevedere un Comitato Centrale
ridotto nel numero dei suoi membri, tutti eletti dal Congresso, che tenga a
scadenza regolare vere e proprie sessioni di quattro-cinque giorni su tutti i
problemi generali di indirizzo politico, una Direzione Nazionale eletta dal
Comitato Centrale, parimenti ridotta nel numero dei suoi componenti, che si
riunisca almeno una volta al mese; una segreteria nazionale ristrettissima con
funzioni esecutive che collabori quotidianamente con il Segretario, in una
gestione sostanzialmente collegiale. Può essere invece istituito un Consiglio
Nazionale con funzioni rappresentative e consultive, molto vasto, in cui trovino
poto e voce tutte le diverse istanze del partito, e si riunisca una o due volte
l'anno. Va infine rivista la composizione del Congresso Nazionale, nel quale
devono confluire solo delegati eletti, con l'abolizione di ogni partecipazione
di diritto: per fare in modo che anche l'appartenenza alla classe dirigente del
partito non sia più una rendita di posizione, ma venga sottoposta periodicamente
a verifica.
L'organizzazione universitaria, come si è detto, deve essere liberata dal suo
carattere sindacale-giovanilistico, per essere ricompresa in una funzione più
ampia all'interno del partito, di ricerca, di elaborazione, di rapporto con il
mondo accademico e della cultura in generale. Per quanto riguarda il Fronte
della Gioventù, pur tornando a manifestare perplessità sui limiti di una
organizzazione nata in altri tempi e con altre esigenze rispetto a quelle che la
società oggi richiede, riteniamo che ben altro ruolo e spazio andrebbe riservato
ai giovani, che continuano a dimostrare, nonostante tutto, grandi capacità di
presenza, di sacrificio, ma anche di creatività e di approfondimento. Certo è
che l'attuale situazione di diarchia nell'organizzazione giovanile, dovuta a
logiche del tutto estranee ad essa e soprattutto alle esigenze di autonomia
intellettuale che dovrebbero caratterizzarla, è risultato un elemento fortemente
negativo. È una situazione cui bisogna porre immediatamente riparo, con coraggio
e senza piccoli calcoli, che se sono in ogni caso perniciosi, in questo settore
rischiano di divenire fatali.
Conclusione: il coraggio di far politica
Con una lettera pubblicata nel numero 16 di "Proposta" e dedicata al recente
libro di Pietro Ignazi, così scriveva
Beppe Niccolai in quello che si può considerare l'ultimo messaggio che ci
ha inviato: «Abbiamo reso omaggio ai nostri quarant'anni e ne avevamo pieno
diritto e il libro, nel suo rigore critico, sia pure indirettamente a quegli
anni rende omaggio, ma, per tutte le pagine, ci pone costantemente davanti a
quello che in quaranta anni, o non abbiamo voluto fare, o non abbiamo saputo
fare: scrivere noi la nostra storia, "criticamente", in modo che le "radici" si
armonizzassero con le nuove coordinate politico-strategiche atte a farci
navigare nei mari aperti, nuovi e perigliosi del post moderno. Una storia del
nostro "isolamento", quell'isolamento che, splendido in certe sue fasi, rischia
ora di trasformarsi in una paura, la paura di fare politica, la paura della
politica... Il richiamo del libro del prof. Ignazi è un richiamo alla sofferenza
del pensare e dell'agire. Il che significa che ciascuno di noi deve,
responsabilmente, riprendere i propri "posti", quelli sostanziati da ciò in cui
"dentro" effettivamente si crede. C'è questo appuntamento da soddisfare prima di
riordinare le idee. Il libro del prof. Ignazi può aiutarci in questo compito:
non aver paura della politica».
* * *
Hanno sottoscritto le tesi di "Proposta Italia":
APRILE Carlo
BAIGUINI Dionisio
RENASSI Marino
BENVENGA Mario
BERTUCCELLI Valerio
BOLLATI Benito
BOSCHIERO Sergio
BRIGANTI Egidio
BUTTAFUOCO Pietrangelo
CAMOZZA Cesare
CARGIANI Fernando
CARLI Antonio
CASALENA Carlo
CAVALLARO Lino
CELLAI Marco
CERTO Giuseppe
CHICCHI Maria Grazia
CONDORELLI Matteo
CROPPI Umberto |
DE MARCHI Giancarlo
ERRA Enzo
FALCONE Michele
FALLONE Salvatore
FATUZZO Fabio
FERGOLA Gabriele
FONTE Leonardo
GIRI Giulio
GNACCARINI Maria Letizia
GRUOSSO Bruno
IAIA Nicola
INCARDONA Gluseppe
INDRI Alberto
INZANI Giovannl
LERCARI Graziano
LETTIERI Angelo
LOSURDO Stefano
MALANIMA Massimo
MARIANI Sergio |
MATTEOLI Altero
MENNITTI Domenico
MEVOLI Cesare
NANNI Giuseppe
NARICI Marzio
PAMPO Fedele
PELLEGRINI Giampietro G.
PINTO Leonardo
RAISI Enzo
RASSU Bruno
RAVENNI Danilo
SANESI Sergio
SPECCHIA Giuseppe
STAITI DI CUDDIA Tomaso
STANCANELLI Raffaele
TOSTO Giuseppe
TRIZZA Antonello
ULIVI Roberto
URSO Adolfo |
|