Roma - Luglio 1982
Edizioni Parlamentari MSI-DN
Liquidazioni: contestazione sociale del regime
a cura dell’On. Giuseppe
(Beppe) Niccolai
* * *
Prefazione
La documentazione relativa alla battaglia parlamentare dei gruppi del MSI-DN
alla Camera e al Senato merita qualche parola di premessa; e non perché, o non
soltanto perché, i deputati e i senatori meritano l'elogio del Segretario del
partito e di tutto il partito; ma anche e soprattutto perché si è trattato di
una battaglia «emblematica», come si usa dire, di quel che il nostro partito sa
fare, può fare, vuole fare nel Parlamento e nel Paese.
Infatti:
1) si è trattato di una sonante e, vogliamo sperare, definitiva risposta a
quanti, straccamente, continuano a sostenere la identità Destra = reazione.
La più popolare, la più sociale, la più anti-reazionaria tra le operazioni
(perché ha colpito l'apparato di regime, ma al tempo stesso ha colpito e
scoperto l'apparato reazionario del potere economico) è stata da noi sostenuta,
è stata in Parlamento quasi soltanto da noi sostenuta; e ha visto il
significativo accoppiamento dei comunisti (inerti e comunque complici) con tutte
le forze «della reazione in agguato», come si diceva un tempo.
2) Pur essendo stata inizialmente promossa dai demo-proletari, con la raccolta
delle firme per il referendum, la battaglia è stata da noi condotta con vigore,
con tenacia, con entusiasmo, perché il MSI-DN non fa questione, quando si tratta
degli interessi del popolo lavoratore italiano, di fazioni e di etichette.
Quando una causa ci sembra giusta, la condividiamo e la appoggiamo.
3) Si è trattato di un omaggio di tutto l'antifascismo a tutto il fascismo,
inteso nella maniera migliore, cioè come fascismo-movimento di popolo.
Infatti, si è trattato di un ritorno agli «anni Trenta», ma non tramite una
mostra o una rievocazione; bensì attraverso il tentato mantenimento in vita di
una norma fascista di giustizia sociale.
4) Infine, si è trattato della dimostrazione più chiara e più convincente del
peso che la opposizione di alternativa può esercitare, purché sia di
alternativa, cioè purché sia capace di unire alle contestazioni contro il regime
le verità e i princìpi -sociali e nazionali- della Nostra Repubblica da noi
vaticinata.
E adesso, diamo la parola ai nostri parlamentari, cui il partito rinnova il più
affettuoso tra i ringraziamenti.
Giorgio Almirante
* * *
Finita in modo inglorioso la vicenda per le liquidazioni, riteniamo sia giusto
che tutti i lavoratori italiani meditino su quello che è accaduto e pongano la
loro attenzione soprattutto su alcuni aspetti della questione:
1) Un po' di storia di questo istituto;
2) che cosa si proponeva la richiesta di referendum;
3) qual'è l'aspetto economico della battaglia e quali le responsabilità delle
forze politiche e sindacali;
4) quale è stato il significato e la portata della battagli i sostenuta in
Parlamento dagli uomini del MSI-DN;
5) quale abbia a essere, necessariamente, il giudizio dei lavoratori verso chi
pretende di essere loro esclusivo difensore e quale conto fare su quelle forze
per l'avvenire.
* * *
Un po' di storia
Con il decreto luogotenenziale del 9 dicembre 1919 si stabiliva per la prima
volta «una indennità di licenziamento per gli impiegati».
Miglioramenti ed una più concreta disciplina giuridica vennero stabiliti con
R.D. 13 novembre 1924 n. 1825 convertito nella legge 19 marzo 1926 n. 562 e
soprattutto con la contrattazione sindacale che portò, con l'accordo del 5
agosto 1937, a stabilire tale indennità in 15/30 di una mensilità di stipendio
per ogni anno per le anzianità maturate fino a quella data e in 25/30 per le
nuove anzianità.
Si noti che tutto questo movimento a migliorare la situazione del lavoratore al
momento della cessazione dello stato di attività lavorativa, ancora
limitatamente all'impiegato, avveniva in regime fascista.
Ma la svolta fondamentale si aveva con la pubblicazione del nuovo codice civile,
nel 1942, il quale, all'articolo 2120, stabilisce:
«Art. 2120 (Indennità di anzianità)
In caso di cessazione del contratto a tempo indeterminato, è dovuta al
prestatore di lavoro un'indennità proporzionale agli anni di servizio, salvo il
caso di licenziamento per di lui colpa o di dimissioni volontarie.
Le norme corporative possono tuttavia stabilire che l'indennità sia dovuta anche
in caso di dimissioni volontarie, determinandone le condizioni e le modalità.
L'ammontare dell'indennità è determinato dalle norme corporative, dagli usi o
secondo equità, in base all'ultima retribuzione e in relazione alla categoria
alla quale appartiene il prestatore di lavoro.
Sono salve le norme corporative che stabiliscono forme equivalenti di
previdenza».
In questo articolo si codificano alcuni princìpi di importanza fondamentale:
1) l'indennità assume la qualifica di «indennità di anzianità»;
2) essa non è più dovuta soltanto agli impiegati ma a tutti i prestatori di
lavoro;
3) l'indennità deve essere proporzionata agli anni di servizio;
4) l'indennità deve essere calcolata in base all'ultima retribuzione e in
relazione alla categoria alla quale appartiene il lavoratore, cioè tenendo
integralmente conto dei miglioramenti di qualifica e di carriera economica
conseguiti dal prestatore di lavoro;
5) l'ammontare e le modalità sono correttamente rimesse alla contrattazione
sindacale (corporativa), essendo sufficiente che la legge abbia stabilito le
norme fondamentali.
Il successivo art. 2121 del vituperato codice fascista stabilisce in maniera
tassativa che «l'indennità di cui all'art. 2120 deve calcolarsi computando le
provvigioni, i premi di produzione, le partecipazioni agli utili o ai prodotti
ed ogni altro compenso di carattere continuativo, con esclusione di quanto è
corrisposto a titolo di rimborso spese (...) fa parte della retribuzione anche
l'equivalente del vitto e dell'alloggio dovuto al prestatore di lavoro».
Non sfuggirà a nessuno l'importanza dei princìpi stabiliti non in una leggina
qualsiasi, ma nel codice civile, legge fondamentale dell'ordinamento civile
dello Stato.
Con legge 18 dicembre 1960, infine, l'indennità di anzianità per gli impiegati
veniva fissata in un mese di retribuzione per ogni anno di servizio, da
computarsi, recita l'art. 2 di detta legge, «secondo le norme dell'art. 2121 del
codice civile».
Per gli operai si realizzavano, nel frattempo, accordi diversi per ogni settore,
in sede di rinnovo dei contratti di lavoro.
Sembrava una conquista definitiva da parte dei lavoratori, in applicazione,
giova ripeterlo, dei princìpi del codice civile fascista, da realizzarsi con la
contrattazione sindacale.
Ma il principio, sventolato dalla triplice sindacale e dai cosiddetti «partiti
della classe operaia» e, comunque, dai partiti cosiddetti «democratici» secondo
cui, nella lotta dei lavoratori, così come nelle conquiste civili, non si deve
mai «tornare indietro», veniva clamorosamente sconfessato dall'accordo
Carli-Lama del 26 gennaio 1977, concluso dai Sindacati della triplice senza
nessuna consultazione dei lavoratori e successivamente dalla sua trasformazione
in legge, che modificava l'art. 2121 del codice del 1942.
Giova che tutti rammentino come, nel 1977, fosse in piedi un governo, presieduto
dall'On. Andreotti, di «solidarietà nazionale» che comprendeva tutti i partiti,
con il PCI nella maggioranza e con la sola esclusione del MSI-DN.
Il 26 gennaio 1977 veniva concluso fra Confindustria e triplice sindacale un
accordo (noto come accordo Carli-Lama) che, fra le altre (festività soppresse,
distribuzione delle ferie, turni di lavoro, lavoro straordinario, mobilità
interna, assenze dal lavoro) conteneva la modifica del codice civile (art. 2121)
con l'aggiunta, al 3° comma, dopo le parole «con esclusione (dal calcolo
dell'indennità di anzianità) di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese»
della disposizione «e, a partire dal 1° febbraio 1977, di quanto è dovuto come
aumenti dì indennità di contingenza o di emolumenti di analoga natura, scattati
posteriormente al 31 gennaio 1977».
Si sanciva, così, in un accordo sindacale, la esclusione degli scatti della
scala mobile, dalla indennità di anzianità. Sacrificio gravissimo, come vedremo,
a carico dei lavoratori.
Giova soffermarsi un poco sui comunicati con i quali le parti annunciavano
l'accordo. Timido e reticente quello della triplice sindacale che, con un
frasario nebuloso e contorto, evitava qualsiasi diretto e chiaro accenno alla
sottoscritta rinuncia. Per cui moltissimi lavoratori hanno creduto per anni, e
taluni ancora forse credono, che il «taglio» alla loro indennità fosse una
imposizione del governo e non, come in effetti fu, un patto liberamente
sottoscritto dai loro sindacati. Trionfale e brutale, invece, quello della
Confindustria, che metteva bene in evidenza la rinuncia medesima.
Un pensierino occorre anche farlo sulle «ragioni» che venivano poste «a
cappello» del testo dell'accordo: «allo scopo di contribuire: 1) alla lotta
contro l'inflazione ed alla difesa della moneta mediante il contenimento della
dinamica del costo globale del lavoro e l'aumento della produttività; 2) alla
creazione di nuovi investimenti e allo sviluppo dell'occupazione specie nel
mezzogiorno».
Non vi pare di sognare? Sembra un discorso Spadolini 1982 e non un discorso
Sindacati-Confindustria del 1977. Nessuno degli scopi indicati per chiedere ai
lavoratori un sacrificio di così grosse dimensioni è stato effettivamente
raggiunto e tutti quei problemi aspettano ancora, drammaticamente, di essere
risolti.
L'accordo, stipulato il 26 gennaio 1977, fu recepito con eccezionale rapidità
nel decreto 1 febbraio 1977 n. 12 e trasformato nella legge n. 91 del 31 marzo
1977.
In sede di discussione in Parlamento le forze politiche che formavano la
maggioranza (della quale, è bene rammentarlo era parte decisiva il PCI)
respinsero con arroganza tutti i tentativi di migliorare in qualche modo la
legge, oltre, ben s'intende, quelli intesi a cancellarla. I parlamentari del
MSI-DN presentarono molti emendamenti, sollevarono questioni di
incostituzionalità, ma tutto fu vano. Erano tutti d'accordo.
Furono respinti perfino emendamenti, presentati dall'On. Valensise (MSI-DN) che
dettavano norme sull'utilizzo delle somme risparmiate dalle imprese.
Entrò, così, definitivamente in vigore la legge n. 91 del 31 marzo 1977 che
sanciva questo gravissimo sacrificio a danno dei lavoratori, e dei soli
lavoratori, non essendovi, nell'accordo interconfederale e nella legge nessun
preciso impegno della Confindustria alla realizzazione dei fini che
genericamente si indicavano nella premessa.
Il primo dicembre 1980 la CISNAL, unica confederazione che non aveva
sottoscritto l'accordo del 1977, (non una confederazione della triplice ma il
sindacato cosiddetto «fascista») presentava al Parlamento un progetto di legge
di iniziativa popolare per l'abrogazione degli artt. 1 e 1bis della legge 91
relativamente alla esclusione della contingenza dalla indennità di anzianità,
corredata da circa 70.000 firme di lavoratori, progetto di legge che fu lasciato
dormire nei cassetti del Parlamento fino a quando, venuto in discussione il
progetto governativo per evitare il referendum popolare, esso fu per forza di
cose abbinato agli altri.
Il 14 maggio 1981 Democrazia proletaria depositava circa 700.000 firme di
cittadini che richiedevano, mediante referendum, le stesse cose che la CISNAL
aveva richiesto con la proposta di legge di iniziativa popolare.
Qualcuno potrà chiedersi, e chiederci, perché il MSI-DN, che fu l'unico a votare
contro la legge 91, non abbia esso preso l'iniziativa della richiesta di
referendum. Si tratta di una scelta: sapendo in partenza quale sarebbe stata la
reazione (negativa, ovviamente) dei partiti e dei Sindacati responsabili dello
sciagurato accordo e della sciaguratissima legge del 1977, il MSI-DN, pensò di
lasciare via libera all'iniziativa della CISNAL, pronto a combattere in
Parlamento per la sua discussione, in maniera che le responsabilità venissero
ancora una volta chiarite.
Appena fu presentata la richiesta di Democrazia Proletaria, il MSI-DN, mosso
unicamente dall'interesse dei lavoratori, si dichiarò per il «Si» e si preparò,
altresì, per combattere in Parlamento contro la legge che il Governo avrebbe
sicuramente presentato per impedire il referendum.
Tutti rammenteranno l'infuriare di discussioni, di pareri, di conflitti che
precedettero la presentazione al Parlamento del disegno di legge relativo.
Sarebbe troppo lungo anche soltanto riassumere ciò che fu detto e scritto in
quel periodo, ma qualche accenno bisogna pur farlo.
Il PCI che, giova ancora ripeterlo, aveva approvatola la legge 91, dichiarò
subito che il referendum non si doveva fare e mise avanti una sua proposta:
recuperare il 50% degli scatti maturali dal 1 febbraio 1977 e, per il futuro,
calcolare la indennità di anzianità sul 50% della retribuzione mensile (compresa
la contingenza) per ogni anno di lavoro (“l’Unità”, 28 gennaio 1982).
Dall'importo di una mensilità intera già conquistata dai lavoratori al 31
gennaio 1977 alla mezza mensilità: un bel progresso sociale.
Il PSI, prestando al Presidente del Consiglio la sua testa migliore in queste
faccende (il prof. Giugni) è in fondo il vero padre della proposta. E se ne
riparlerà più avanti.
Il rappresentante degli industriali, il Presidente Merloni, scopre addirittura
che «i lavoratori non hanno perso nulla... perché una minore crescita delle
liquidazioni ha comportato un aumento delle retribuzioni dirette, ossia il
salario in busta, oltre all'acquisizione di un sistema pensionistico fra i più
cari del mondo» (“24 Ore”, 28 gennaio 1982). Che il nostro sistema pensionstico
sia «fra i più cari del mondo» sarà senz'altro vero, ma è anche vero che le
pensioni che vanno nelle tasche dei lavoratori sono ancora scandalosamente
insufficienti. Pensa, poi, il Presidente Merloni che, in regime di aumenti
generalizzati dei prezzi, le retribuzioni sarebbero dovute rimanere ferme, se le
imprese non avessero risparmiato le migliaia di miliardi sulla indennità di
anzianità?
Non si può fare a meno, poi, di riferire le incredibili dichiarazioni fatte da
Luciano Lama a “Il Corriere della Sera” del 2 febbraio 1982: «Bisogna evitare il
referendum, dannoso sotto tutti i punti di vista, perché anche se si dovesse
registrare una valanga di “si” esso non porterà ad alcun ripristino della
vecchia quiescenza o al recupero dei soldi persi in questi anni». Una falsità
perché la vittoria dei «si» nel referendum avrebbe portato al ritorno della
situazione ante legge 91 e un disgustoso contegno nei riguardi dei lavoratori
andati in pensione dal 1 febbraio 1977 in poi perché essi non avrebbero
recuperato i soldi «persi in questi anni». «Persi», lo dice Lama, ma non dice
che li hanno persi soprattutto per colpa sua.
Mette conto, infine, riportare quanto dichiarato a “Il Corriere della Sera” del
12 febbraio 1982 da «uno dei maggiori esperti in materia, il professore Guido
Zangari, docente ordinario di diritto del lavoro e di diritto del lavoro
comparato»: «La proposta di sostituire l'attuale sistema fondato sulla
retribuzione finale (l'ultima retribuzione mensile percepita per il numero degli
anni di lavoro prestati) con un regime di accantonamenti indicizzati anno per
anno (soluzione che, poi, in sostanza, è quella accolta) comunque rivalutati
secondo il tasso medio bancario di interesse viene avanzata tra gli altri dai
sindacati soprattutto perché si ritiene che non sia giusto che il lavoratore
riceva il capitale calcolato sulla retribuzione finale e sulla qualifica di
appartenenza al momento della cessazione del rapporto, anche per il periodo di
tempo nel quale aveva una retribuzione inferiore e una qualifica più bassa. Ma
io ritengo che questa argomentazione non abbia valore perché la funzione e la
ratio iuris della norma del codice civile (1942, attenti alle date!) articolo
2120, è proprio quella di premiare non solo l'anzianità di servizio e la fedeltà
del lavoratore, ma anche la carriera e la sua evoluzione».
Su queste considerazioni converrà ritornare più avanti.
Infine, dopo una serie interminabile di consultazioni e polemiche veniva
presentato il disegno di legge governativo che doveva servire ad evitare il
referendum popolare.
Sulla vicenda della affannosa discussione alle Camere e sull'azione dei nostri
parlamentari ritorneremo più avanti.
* * *
Che cosa si proponeva la richiesta di referendum
In poche parole sarà opportuno chiarire che cosa si proponeva la richiesta di
referendum promossa da Democrazia Proletaria e che noi del MSI-DN dichiarammo
subito di appoggiare.
Per la verità anche l'On. Berlinguer, in televisione, disse che, se si fosse
arrivati al referendum, il PCI avrebbe invitato a votare «SI»: strana
affermazione se si pensa che tutta l'azione del PCI è stata volta ad evitare il
referendum e che la nuova legge approvata, a colpi di voti di fiducia, è stata
giudicata, dallo stesso PCI e dalla triplice sindacale egemonizzata dal PCI,
degna di attenzione e bisognosa soltanto di alcuni emendamenti.
Ma, dicevamo, che cosa si chiedeva con il referendum? L'abrogazione degli artt.
1 e 1bis della legge n. 91 del 31 marzo 1977 cioè il ritorno alla situazione
precedente, con la inclusione della contingenza nella indennità di anzianità. Si
è detto che la vittoria dei «SI» nel referendum avrebbe creato un «vuoto
legislativo» per quanto riguarda i lavoratori andati in pensione fra il 1
febbraio 1977 e il ripristino della vecchia normativa. Ma ciò è esattamente
avvenuto con la nuova legge: chi è stato già derubato, non ha diritto a nessuna
riliquidazione. E a nulla sono valse le proposte da noi avanzate perché a quella
riliquidazione si arrivasse: il Governo e la maggioranza, caparbiamente, non
hanno voluto accettare emendamenti in tal senso.
Ma si è detto anche che la vittoria dei «SI» avrebbe recato un colpo decisivo e
mortale all'intera economia italiana. E c'è stata una danza di cifre per
impressionare la pubblica opinione.
Noi non entreremo nel vivo di questa guerra delle cifre, ma riteniamo di poter
fare qualche semplice considerazione:
1) la cifra che i datori di lavoro avrebbero dovuto sborsare non può essere
quella dell'intero importo della contingenza «congelata» in 5 anni, ma soltanto
quella relativa ai lavoratori che sarebbero andati in pensione nei vari anni,
quindi scaglionata nel tempo;
2) da tutti si è dovuto riconoscere che le migliaia di miliardi risparmiati dai
datori di lavoro, non essendo state vincolate come da noi richiesto, agli scopi
che si erano portati a giustificazione degli accordi interconfederali e della
susseguente legge 91, sono somme effettivamente incamerate dalle imprese, in
taluni casi portando ad una divisione di utili fra gli azionisti. Restituire il
maltolto sarebbe stata opera di semplice giustizia.
Diamo ora un'occhiata all'aspetto economico della battaglia combattuta dai
nostri parlamentari e alle responsabilità delle forze politiche e sindacali.
C'è stata, anche a questo proposito, una notevole guerra delle cifre. “II
Corriere della Sera” pubblicò a suo tempo delle tabelle che fecero scalpore:
queste tabelle furono contestate e noi non vogliamo ad esse fare riferimento. I
nostri parlamentari hanno portato all'attenzione della Camera e del Senato tutta
una serie, documentata, di dati, ma noi vogliamo riferimento, per non apparire
parziali, agli elementi forniti da Democrazia Proletaria e dalla rivista “II
Mondo”. La prima calcola che un impiegato del 4° livello metalmeccanico assunto
il 1 gennaio 1978 avrebbe, al 31 dicembre 1986 e cioè con 8 anni di anzianità e
quando la nuova legge entrerà integralmente in funzione, la seguente situazione:
— liquidazione che gli sarebbe spettata con la situazione antecedente al 1
febbraio 1977 (legge n. 91) e cioè con l'inclusione della contingenza L.
16.024.000
— liquidazione calcolata in base alla legge 91 e cioè senza la contingenza L.
8.268.000
— liquidazione calcolata in base alla nuova legge (n. 287) L. 9.748.000
e cioè:
— con la legge n. 91 a quel lavoratore sarebbero state sottratte, dalla
liquidazione, L. 7.756.000 e cioè quasi la metà;
— con la legge n. 297 (la nuova che anche i comunisti e i Sindacati della
triplice hanno definito «una buona legge») il danno si riduce a «sole» (si fa
per dire) L. 6.276.000.
Secondo i calcoli della rivista “II Mondo” (15 giugno 1982) il lavoratore con 30
anni di anzianità, che sia andato in pensione fra il 1 febbraio 1977 e il 29
maggio 1982, ha perso una cifra pari a L. 13.587.420.
E bisogna che la gente sappia che il prof. Giugni, socialista, inventore del
nuovo sistema di calcolo dell'«indennità di fine rapporto», come l'hanno
denominata, interrogato in TV sugli effetti economici della nuova legge e sul
fatto che, in taluni casi, la nuova legge è perfino peggiore della 91, rispose
che, in media, poteva calcolarsi il vantaggio offerto «quasi dell'1%»: cioè,
considerando un lavoratore che, per effetto della famigerata legge 91 del 1977,
avrebbe perduto, sulla «indennità di anzianità» come ci ostiniamo a chiamarla
noi, una somma pari a L. 20.000.000, con la nuova legge vedrà diminuita la sua
perdita di ben L. 200.000!
Su questi concetti di «indennità di anzianità» e di «indennità di fine rapporto»
si sono particolarmente soffermati i nostri parlamentari, nelle centinaia di
interventi svolti durante la discussione della legge.
E perché?
— Per rispondere a coloro che ritenevano e ritengono la «indennità di anzianità»
un istituto superato dai tempi e da cancellare dalla nostra legislazione perché
essa non avrebbe corrispettivi in altri paesi avanzati. Oltre alle brillanti
argomentazioni dei nostri parlamentari, vogliamo riferirci ancora una volta alle
dichiarazioni del prof. Zangari, uno dei massimi esperti della materia. Egli, in
una articolata risposta ai sostenitori di questa tesi, ne documenta la
sostanziale erroneità;
— per mettere in evidenza la sostanziale differenza che esiste fra noi e i
partiti che, con la legge n. 91 del 1977, cominciarono, appunto, a demolire il
concetto stesso di «indennità di anzianità». Noi ritenevamo, e riteniamo, che
questo concetto, introdotto nell'ordinamento italiano dall'art. 2120 del codice
civile fosse l'inizio di quella «partecipazione» del lavoratore alla vita
dell'azienda che è la base della nostra dottrina sociale. Il concetto per cui,
nel momento in cui cessa l'attività lavorativa, il lavoratore riceve una somma
commisurata all'ultimo stipendio e per ciò stesso comprensivo di tutti gli
aumenti di retribuzione verificatisi nel frattempo per effetto dei contratti di
lavoro e del miglioramento della sua posizione nell'azienda, e perciò
significativa dell'apporto da lui dato alla vita dell'azienda stessa, nonché
automaticamente commisurata al costo della vita nel momento del suo collocamento
a riposo, costituisce un premio e un riconoscimento della professionalità del
lavoratore. Ma costituiva anche, nella logica della disposizione dell'art. 2120
e di tutti gli articoli del Titolo del codice civile riguardante i rapporti di
lavoro costituenti la continuità dei concetti espressi nella Carta del Lavoro,
la premessa per affermare il diritto del lavoratore alla gestione e agli utili
dell'azienda, avendo egli, nel corso degli anni, con la parte differita del suo
salario, partecipato al finanziamento e, quindi, alla produzione degli utili
dell'azienda.
Ora, invece, con la nuova legge faticosamente approvata, le somme che vengono
trattenute dall'impresa costituiscono quello che è stato definito un «risparmio
forzoso», una forma di risparmio che non è nemmeno remunerato a livello di un
risparmio regolare, perché esso è aumentato, ogni anno, di un misero 1,5% e del
75% dell'aumento del costo della vita, cioè non è nemmeno rapportato, anno per
anno, all'andamento completo dell'indice dei prezzi.
Invano si è tentato, da parte nostra, e, per la verità, anche da qualche altra
parte, di modificare quegli indici o indicizzando le somme annualmente
accantonate al cento per cento (e non al 75%) dell'aumento reale del costo della
vita, o, in via subordinata, elevando al 2% la rivalutazione di cifra fissa. Gli
emendamenti relativi non sono stati nemmeno posti in votazione perché il Governo
aveva posto, sui 5 articoli del progetto di legge, la «questione di fiducia»,
per cui non si poteva nemmeno cambiare una virgola o correggere un errore
materiale.
Si è molto parlato, durante i giorni caldi della discussione, di questo problema
della «questione di fiducia» e si è detto, specialmente da parte comunista, che
ciò era avvenuto per colpa dell'«ostruzionismo» del MSI-DN e del Partito
Radicale.
È ben che anche su questo si conosca la verità.
E la verità è ben diversa.
Innanzitutto c'è da rilevare che, come già accennato nella prima parte del
seguente opuscolo, fino da pochi mesi dopo la sua approvazione, la legge n. 91
aveva ampiamente dimostrato la sua natura di truffa a danno del lavoratore,
senza che nessuno degli obiettivi che essa aveva detto di voler raggiungere,
fosse raggiunto. Sia detto di passaggio che la cifra di 25 mila miliardi che, da
parte industriale e governativa, veniva indicata come quella che le imprese
avrebbero dovuto sborsare in caso di vittoria del referendum, se vera,
corrisponde ad altrettanti 25 mila miliardi risparmiati dai datori di lavoro e
tolti ai lavoratori, senza che nessuno di essi sia stato impiegato per gli scopi
sopra accennati: quindi essi dovevano essere restituiti a coloro cui erano stati
tolti.
Riprendendo il filo del discorso, avvenne che, da diverse parti politiche, come
accennato nella prima parte del presente opuscolo, vennero presentate varie
proposte di legge intese a sopprimere o a modificare quella legge. Ma le forze
politiche le avevano fatte dormire nei cassetti delle Camere.
Insieme alle altre dormì anche quella presentata il 23 settembre 1980 dai
deputati del PSDI (fra i quali vi era il non ancora Ministro Di Giesi), proposta
indicata con il n. 2017.
Come si può leggere nella relazione vengono affermate due cose importanti:
— che la diminuzione del costo del lavoro si ottiene, per effetto della legge
91, ma soltanto a carico dei lavoratori;
— che i lavoratori stessi «si sollevano sentendosi defraudati di un loro diritto
che da sempre, in tempi certamente peggiori di quelli attuali, non soltanto per
motivi economici ma anche politici era stato loro riconosciuto e giuridicamente
garantito».
I proponenti socialdemocratici di questa proposta di legge (tra i quali,
appunto, il non ancora Ministro del Lavoro Di Giesi) usano, come si vede, una
frase contorta per non essere costretti a dire che quel «diritto» ai lavoratori
era stato «giuridicamente garantito» dal codice civile fascista del 1942.
Ma il bello deve ancora venire: la proposta di legge n. 2017 dormì tanto che
l'On. Di Giesì, diventato nel frattempo Ministro del Lavoro e della Presidenza
Sociale non se ne ricordava più quando mise la sua propria firma, come
proponente, nel progetto di legge governativo tendente a negare ai lavoratori
ciò che l'On Di Giesi, non ancora Ministro, voleva loro restituire, cioè il
progetto di legge che è poi diventato la legge n. 297 mercé l'opera anche del
Ministro del Lavoro Di Giesi, il quale, anche quando deputati di vari gruppi
cercarono di svegliarlo sventolandogli sotto gli occhi la sua firma su due
proposte di legge l'una contraria all'altra, nemmeno allora si svegliò per fare
almeno un comunicato con il quale dichiarasse di togliere la sua firma da uno di
quei progetti.
Chiusa questa divertente ma poco edificante parentesi, riprendiamo il discorso
per riaffermare che il Governo non si sentiva indotto, dalle varie proposte
presentate in Parlamento a preparare una sua proposta organica, che potesse
essere ampiamente discussa e infine approvata, se non quando si trovò col cappio
alla gola dell'ammissione del referendum pronunciata dalla Corte di Cassazione e
dalla Corte Costituzionale. Di qui, lo strozzamento della discussione in una
materia così importante e la corsa contro il tempo, pur di evitare il
referendum, che il Governo medesimo fu costretto a stabilire per il 13 giugno.
Di qui la ridicola situazione: referendum indetto, manifesti attaccati,
certificati elettorali già consegnati agli elettori, schede già pronte con una
spesa che si è stimata intorno ai 200 miliardi, mentre al Senato e alla Camera
si stava tentando il tutto per tutto pur di evitare il referendum.
Di qui anche, ed è bene che i lavoratori se ne ricordino, l'atteggiamento del
PCI e delle organizzazioni sindacali della triplice d'accordo con il Governo per
non far effettuare il referendum. Il PCI conduceva al Senato e alla Camera una
opposizione morbida limitandosi a far intervenire, ogni tanto, qualche raro
deputato del suo grande esercito parlamentare per chiedere migliorie alla legge
che, però, lo disse esplicitamente il Capo gruppo alla Camera On. Napolitano,
andava bene «anche così come era» purché non si andasse al referendum, cioè per
evitare che il popolo, con quello che propagandisticamente si era sempre
esaltato come «democrazia diretta» sotterrasse sotto una valanga di «si» la
sciagurata legge n. 91.
E, allora, bisognava vincere l'unica forza che, per il numero e per l'impegno,
poteva dar vita ad una opposizione decisa, il MSI-DN.
Ecco perché il Governo, dopo aver ridotto il progetto di legge dagli originari
17 articoli in 5 lunghissimi, ingarbugliati e praticamente incomprensibili,
decise di porre, su tutti e cinque gli articoli la «questione di fiducia»,
impedendo così ogni più modesta modifica.
Quanto all'ostruzionismo, del quale si è tanto parlato, giova riportare quanto
dichiarato dal nostro Capogruppo alla Camera on. Pazzaglia.
«Non si venga a dire che è stato l'ostruzionismo a impedire una discussione sul
merito: l'ostruzionismo tendeva anche a costringere ad una tale discussione
coloro i quali non volevano modificare alcunché di questo disegno di legge; era
uno strumento di pressione in casi del genere, per forzare la mano a coloro i
quali non vogliono assolutamente ritoccare nulla dei testi che hanno presentato
e si valgono della forza della maggioranza.
Questo dovrebbe essere evidenziato all'opinione pubblica; questo dovrebbe essere
compreso dall'opinione pubblica; questo dovrebbe essere utilizzato per indicare
di chi sono le responsabilità di un provvedimento che non viene ritoccato
neanche in parti importanti. Onorevoli colleghi della maggioranza, la questione
di fiducia è stata posta anche contro di voi, per evitare le pressioni che
venivano dall'interno di alcuni settori della maggioranza, per impedirvi di
discutere su un disegno di legge che voi non sentite, perché vi rendete conto
che l'opinione dei lavoratori, con i quali entrate anche voi in contatto, è
veramente di dissenso e vi sta isolando presso quegli ambienti».
Abbiamo detto più volte che, chiusosi nella torre della fiducia, il Governo non
ha permesso di apportare alla legge il più piccolo miglioramento.
Non vogliamo, e non sarebbe nemmeno utile, riportare tutti gli emendamenti
migliorativi proposti dal MSI-DN, il quale, mentre combatteva strenuamente la
battaglia per ottenere che la legge non fosse approvata e si andasse al
referendum popolare, contemporaneamente portava avanti il disegno inteso a
portare alla legge qualche miglioramento.
Faremo cenno ad alcuni di essi:
1) Metodo di accantonamento della liquidazione: la legge, all'art. 1 stabilisce
che la retribuzione annua va divisa per 13,5. Ciò vuoi dire che, per un
lavoratore avente lo stipendio annuo di L. 10.000.000 il datore di lavoro è
tenuto ad accantonare la somma di L. 740.740.
Noi abbiamo fatto due proposte la seconda delle quali subordinata alla mancata
approvazione della prima:
a) dividere per 12, il che avrebbe portato ad un accantonamento di L. 833.333;
ciò avrebbe voluto dire, ammessa una anzianità a retribuzione costante di 20
anni, una liquidazione di L. 16.666.000 contro i 14.814.800 nel caso previsto
dalla legge cioè con un incremento della liquidazione di circa 2.000.000. La
differenza aumenta sensibilmente con il variare contrattuale della retribuzione
base;
b) dividere per 13, con vantaggi più contenuti per il lavoratore, mentre con il
divisore 13,5 si è tenuto conto della minoranza di lavoratori che godono di più
mensilità aggiuntive, anche in questo caso sacrificando i lavoratori con minor
reddito;
2) Indice di rivalutazione. L'articolo 1 della legge 297 prevede una
rivalutazione annua costante dell'1,5% e una rivalutazione pari al 75%
dell'aumento del costo della vita.
Noi avevamo proposto questi emendamenti:
a) portare l'indice costante almeno al 2%;
b) portare la rivalutazione sul costo della vita dal 75 al 100%.
3) Anticipazioni. Su questo comma dell'articolo 1 il governo si è fatto bello
come di una grande conquista. Andiamo allora a vedere di cosa si tratta:
a) per poter chiedere l'anticipazione il lavoratore deve avere almeno 8 anni di
servizio presso lo stesso datore di lavoro;
b) potrà ottenere l'anticipazione soltanto il 10% degli aventi diritto e,
comunque, non più del 4% dei dipendenti.
Facciamo l'ipotesi di una azienda con 500 dipendenti dei quali 200 con anzianità
di 8 anni presso lo stesso datore di lavoro. Possono chiedere l'anticipazione
soltanto 20 lavoratori: 20 su 500!
Ma non basta. L'anticipazione può essere richiesta una sola volta: pertanto, ove
un lavoratore abbia ottenuto un'anticipazione dopo 8 anni di anzianità, per
tutto il resto della stia vita lavorativa non potrà ottenerne un'altra,
quantunque gravi siano le ragioni della sua richiesta.
Ma non basta ancora. Soltanto due sono le ragioni per le quali si può ottenere
l'anticipazione:
a) «eventuali spese sanitarie per terapie e interventi straordinari riconosciuti
dalle competenti strutture pubbliche»;
b) «acquisto della prima casa di abitazione per sé o per i figli, documentato
con atto notarile».
Sul primo caso, a parte la considerazione che la riforma sanitaria avrebbe
dovuto assicurare a tutti la completa assistenza, non si vede perché (e noi lo
avevamo proposto) non debba prevedersi anche il caso di spese sanitarie per i
familiari.
Sul secondo caso c'è da dire che si è inteso prendere in giro il lavoratore.
Infatti, per acquistare una casa, in qualsiasi località del nostro paese, per
quanto modesta, non ci vogliono, oggi, meno di 40 milioni: e nessun lavoratore
arriverà, con il nuovo sistema, a liquidazioni di questo valore, nemmeno al
momento della cessazione del rapporto di lavoro.
Inoltre, la formazione dei criteri della concessione della anticipazione (di
denaro che è di proprietà del lavoratore, si ricordi) è lasciata alla
contrattazione collettiva senza che sia previsto un qualsiasi organismo al quale
il lavoratore possa ricorrere; anche su questo noi avevamo proposto opportuni
emendamenti.
4) Fondi di garanzia. Anche questa è stata sbandierata come una conquista
destinata a controbilanciare le negative ripercussioni delle nuove norme sulle
liquidazioni.
E anche qui è opportuno fare un poco di chiarezza.
Prima di tutto esisteva, ed è stata soppressa dall'art. 4 della nuova legge, la
legge 2 ottobre 1942 n. 1251 (attenzione: 2 ottobre 1942) con il quale era stato
costituito un «fondo per le indennità dovute dai datori di lavoro ai loro
dipendenti, in caso di risoluzione del rapporto di impiego» gestito dall'INA e
sottoposto ad uno speciale Consiglio di Amministrazione del quale facevano parte
i rappresentanti sindacali. Questo fondo assicurava il pagamento della indennità
di anzianità entro quindici giorni dalla richiesta e interveniva in caso di
fallimento, trasformazione dell'azienda, ecc. Ora questo fondo è stato soppresso
e «le disponibilità del fondo (nessuno ha saputo dire ai nostri parlamentari a
quanto ammontano tali disponibilità, anche perché, con una serie di leggine
passate inosservate i datori di lavoro sono stati esonerati dall'effettuare i
pagamenti dovuti (l'ultima leggina è del 1974); dal 1974 la leggina non è stata
rinnovata ed i datori di lavoro sono inadempienti, tanto che pende una causa
penale in proposito) sono devolute ai datori di lavoro aventi diritto,
proporzionalmente agli accantonamenti effettuati a norma di legge». Perché ai
datori di lavoro, se si tratta di somme che essi dovevano versare per garantire
le liquidazioni ai dipendenti. Noi abbiamo proposto che quei fondi venissero
devoluti al nuovo fondo di garanzia, sul quale peraltro avanziamo serie
perplessità: esso è stato affidato all'INPS, questo carrozzone che fa acqua da
tutte le parti e non è stato nemmeno votato un nostro emendamento tendente a
farlo gestire ai lavoratori.
5) Pensioni. I socialdemocratici e, per essi, il Ministro Di Giesi, si fanno un
grosso vanto per questo art. 3 della legge 297 riguardante le pensioni. I
comunisti contestano che questo art. 3 è opera loro. Occorre riconoscere che,
con il nuovo complicato meccanismo, ci si avvicina all'80% dell'ultimo salario.
Ma anche qui vanno messe in rilievo alcune considerazioni. Anzitutto questo
miglioramento viene pagato dai lavoratori, e soltanto dai lavoratori. È norma,
di solito, che i contributi previdenziali gravino per 2/3 sui datori di lavoro e
per 1/3 sui lavoratori. Questa volta no. Ma notate con quale perfida ipocrisia
sia stato scritto il testo di questa parte della legge. Si legge: «Agli oneri
derivanti al Fondo pensioni dei lavoratori dipendenti dall'applicazione del
presente articolo si provvede elevando le alìquote contributive a carico dei
datori dì lavoro ...». E sembra finita qui. No! Punto e a capo: «I datori di
lavoro detraggono per ciascun lavoratore l'importo della contribuzione
aggiuntiva di cui al comma precedente, dall'ammontare della quota del
trattamento di fine lavoro relativa al periodo di riferimento della
contribuzione stessa».
6) Trimestralizzazione della scala mobile. Sono passate poche settimane da
quando la nostra proposta di trimestralizzazione della scala mobile ai
pensionati fu respinta, in sede di discussione della legge finanziaria. Ora
viene accolta. Meglio tardi che mai!
Ma, come ha fatto osservare l'On. Rubinacci «l'articolo 3 è un articolo
“civetta”, è l'esca che si mette nell'amo per attirare il pesce! È un articolo
“civetta” per far sembrare ai lavoratori che qualcosa di positivo c'è in questa
legge e quindi si afferma che dal primo gennaio 1983 la contingenza sarà
trimestrale anche per i pensionati. Ma che bravi! Vi siete mai domandati perché
non gliela avete data prima? Quanto avete sottratto prima? È una cosa
vergognosa! E non vi siete chiesti perché resiste una disparità fra il
pensionato e il diritto del lavoratore, voi non rispondete e non avete
giustificazioni valide dal momento che si afferma -questo è il concetto- che
siccome nel 1977 comunisti, socialisti, democristiani, socialdemocratici,
repubblicani e via dicendo, su suggerimento della Confindustria, d'accordo Lama,
Benvenuto e Carniti hanno fatto quel patto rapinando i lavoratori, il dover
ripristinare lo status quo ante quel periodo diventa -dite nella vostra
relazione- un nocumento all'attuale situazione economico-sociale, talché non si
dovrebbe compiere questo passo che arrecherebbe un danno ai rapinatori del 1977.
È una cosa mostruosa il contenuto di questa relazione: oggi che abbiamo
individuato chi ha commesso la rapina, non dobbiamo arrecare loro danno per
l'aver rapinato i lavoratori. Ma è un concetto mostruoso, questo! Non so se il
Comitato dei nove si sia reso conto del contenuto di questa relazione. Ripeto,
non sono abituato ad adoperare termini, aggettivi e attributi che possano
offendere qualche collega, però a questo punto vi devo pure invitare a rileggere
la relazione e poi a guardarvi nello specchio, attentamente, ed a giudicarvi;
forse è probabile che a sera, nella vostra camera da letto, soli dinnanzi ad uno
specchio la vostra coscienza si manifesti molto meglio che non in quest'aula.
Ripeto, è una vergogna il contenuto di quella relazione».
7) Dipendenti pubblici. Inutilmente noi del MSI-DN (e, per la verità, anche
altri settori, perfino della maggioranza) abbiamo chiesto che il calcolo della
contingenza nella liquidazione fosse esteso ai dipendenti pubblici.
Niente da fare, come niente da fare, giova ripeterlo, per qualsiasi ipotesi
migliorativa o anche correttiva.
Abbiamo parlato del fondo istituito dalla legge 2 ottobre 1942 n. 1251 e ora
soppressa. Siccome, come abbiamo già detto, tutti i datori di lavoro sono
inadempienti e passibili di denuncia penale, gli estensori della legge hanno
voluto offrire una scappatoia, stabilendo, all'art. 5: «È riaperto, fino al 31
maggio 1982, il termine stabilito nell'art. 23 del decreto legge 8 aprile 1974
n. 95, convertito ecc... per il versamento degli accantonamenti ...». Termine
riaperto, per mettersi in regola, agli inadempienti, fino al 31 maggio 1982,
quando la legge 297 è del 29 maggio 1982!!!
Nemmeno questa ridicolaggine hanno voluto correggere.
* * *
A conclusione di questa parte del nostro opuscolo riteniamo utile riportare per
intero l'appassionata dichiarazione di voto del nostro giovane deputato On. Nino
Sospiri.
Nino Sospiri. «Signor Presidente, onorevoli colleghi, il MSI-destra nazionale
voterà contro il disegno di legge che autorizza il furto sulle liquidazioni sia
per motivi di principio, che di metodo e di merito. Per motivi di principio in
quanto noi crediamo nella validità dell'istituto della indennità di anzianità,
mentre questa normativa, nello spirito degli accordi raggiunti contro i
lavoratori nel 1977 tra CGIL, CISL, UIL, Confindustria, Governo e partito
comunista, ne prevede la graduale soppressione. Per motivi di metodo, in quanto
il Governo, di intesa con il partito comunista, ha fin dall'inizio precluso
qualsiasi possibilità di modifica ponendo questioni di fiducia sull'intero
articolato. Per motivi di merito, in quanto le norme approvate non solo non
rispondono alla domanda referendaria, ma addirittura peggiorano la disciplina
oggi in vigore. Il partito comunista, in grave crisi di credibilità, ha detto, e
forse ripeterà in questa occasione, che la legge garantisce importanti
miglioramenti per i lavoratori. Non è vero. Al contrario, essa assesta un altro
duro colpo all'economia familiare dei lavoratori dipendenti. La liquidazione non
sarà più retribuzione differita, ma risparmio forzoso; il suo calcolo non
avverrà più sulla base dell'ultima mensilità, né sarà proporzionale agli anni di
servizio prestato. Gli accantonamenti annui saranno decurtati dall'applicazione
del divisore 13,5 ed erosi nel loro potere di acquisto dalla inflazione. D'altra
parte nessuna forma di indennizzo è prevista per i lavoratori posti a riposo tra
il 1977 ed il 1982, mentre permane la disparità di trattamento per i dipendenti
pubblici, la cui liquidazione non ha mai compreso la contingenza. Il MSI-destra
nazionale si è impegnato con tutte le forze di cui dispone per evitare che ciò
avvenisse. In ventinove, giorno e notte, abbiamo difeso le liquidazioni ed i
lavoratori. Il referendum sarà ora difficilmente evitabile; ma dipenderà dal
giudizio della Corte di cassazione. Se fossimo stati anche solo in cinquanta,
gli italiani avrebbero avuto la possibilità di rivendicare direttamente, il 13
giugno, il loro diritto alla liquidazione. Che cosa ha fatto il partito
comunista con i suoi 193 parlamentari? Che cosa hanno fatto i complessivi 296
deputati dell'area di sinistra? Dove è finita la presunta vocazione popolare
della democrazia cristiana? Perché CGIL, CISL e UIL si sono schierate con il
Governo e con la Confindustria contro i lavoratori? Si tratta di inquietanti
interrogativi ai quali può attagliarsi una sola risposta: tutti alleati per il
potere contro il popolo lavoratore. E se non fosse stato per il MSI-Destra
Nazionale, sarebbero anche riusciti a contrabbandare come buona una normativa
invece iniqua, fortemente punitiva dal punto di vista economico, oltremodo
mortificante per il prestatore d'opera, per la sua professionalità, per la sua
dignità.
Questa grigia vicenda ha così finito con il rivelare l'anima vera delle forze
politiche presenti in Parlamento. Nelle fabbriche e negli uffici milioni di
lavoratori hanno conosciuto un MSI-Destra Nazionale differente, non da quello
che è sempre stato, ma da quello che il regime ha sempre tentato di farlo
apparire. Il sistema, persa la maschera, a questi stessi lavoratori ha mostrato
il proprio autentico volto. Retorica? Demagogia? Lo si dica, lo si pensi pure.
Ma così non è. I prestatori d'opera sanno che le nostre origini e le nostre
scelte sociali e nazionali, starei quasi per dire esistenziali, non ci
consentirebbero mai, neppure se lo volessimo, di fare demagogia sulla pelle di
chi lavora e produce per sé e per l'intera comunità. La verità è che siamo di
fronte ad una legge assurda, che si tenta di approvare all'unico scopo di
evitare la consultazione democratica e diretta del popolo su uno tra i più
scottanti problemi in materia di sicurezza sociale. Ci riuscirete, non ci
riuscirete? Vedremo e vedremo anche come potrà la Corte di cassazione dichiarare
la rispondenza del disegno di legge n. 3365 ai requisiti necessari perché sia
annullato lo svolgimento del referendum. Un solo esempio varrà per tutti. Ove il
referendum si svolgesse regolarmente e gli italiani esprimessero il loro sì,
verrebbe ripristinata la normativa precedente il 1977 e quindi si determinerebbe
anche il recupero delle 432 mila lire perse annualmente dai lavoratori nel
periodo dal 1977 al 1982, in quanto l'indennità di fine rapporto di lavoro
sarebbe calcolata con il riferimento all'ultima retribuzione, moltiplicata per
il numero degli anni di servizio prestati. Ai fini del calcolo della
liquidazione sarebbero pertanto ininfluenti i punti di contingenza fino ad oggi
sterilizzati. Ove invece questo disegno di legge passasse e impedisse lo
svolgimento del referendum il meccanismo degli accantonamenti annui non
consentirebbe il recupero di quelle stesse somme e per quello stesso periodo,
pur prevedendo per il futuro la reintegrazione graduale della contingenza. Già
questo dovrebbe, a nostro giudizio, indurre la Corte di cassazione a decidere in
un modo ben preciso e fin da oggi ipotizzabile. Tutto, però, può accadere; tutto
si può verificare, anche il peggio, anche l'iniquo. Ma qualunque sia, ai fini
referendari l'esito della nostra battaglia, certo è che essa non sarà
dimenticata né da quest'Assemblea né dai lavoratori italiani. Con questa
convinzione ci prepariamo ad un altro importantissimo appuntamento: quello della
discussione sul progetto di riforma del sistema previdenziale. Sappiamo che i
pensionati ci guardano con fiducia. Già ora diciamo loro e alla Camera che il
nostro impegno non li deluderà».
Poiché, nel corso della presente esposizione i punti 3 e 4 indicati all'inizio
sono risultati compenetrati l'uno all'altro, non resta che da scrivere
schematicamente poche parole circa il giudizio che i lavoratori italiani non
possono non dare sui partiti e sui sindacati che sono stati protagonisti di
questa vicenda e circa il grado di credibilità per il futuro che a loro può
essere riservato.
E cominceremo dal Governo, che comprende, come è noto, la DC, il PSI, il PSDI,
il PRI e il PLI: ci riferiremo alle responsabilità collettive di questo Governo
che sono anche responsabilità dei singoli partiti che lo compongono.
— Il Governo, come abbiamo già rilevato, è colpevole di aver trascurato il
problema, quando esso veniva sollevato da più parti, anche se in maniera
diversa;
— il Governo è colpevole per aver voluto ad ogni costo evitare il referendum
popolare, cioè la chiara manifestazione della volontà popolare in una materia
così importante e riguardante, direttamente o indirettamente, quasi tutta la
popolazione;
— per queste due colpe principali il Governo è stato costretto a macchiarsene di
un'altra, che ha distrutto la funzione stessa del Parlamento, messo nella
condizione, come abbiamo visto, di non poter nemmeno correggere errori materiali
e ridicolaggini contenuti nella legge;
— il Governo, infine, è responsabile del varo di una legge che sostanzialmente
conferma, e in qualche caso aggrava, la rapina perpetrata a danno dei lavoratori
nel 1977, con la legge n. 91.
I lavoratori sì possono, quindi, fidare di un Governo che si è comportato in
questa maniera? E si possono fidare dei Partiti che lo compongono?
Occorre ora vedere da vicino quale credibilità può essere concessa ai partiti di
opposizione.
E cominceremo dal PCI che vuole essere considerato sempre in prima linea nella
difesa dei lavoratori.
Se la televisione avesse trasmesso in diretta, come ha fatto per i mondiali di
calcio, il dibattito svoltosi in Parlamento, i lavoratori avrebbero potuto
constatare direttamente la fiacchezza con la quale si è comportato il PCI in
questa battaglia. Pochi interventi, qualche interruzione. Tutti gli osservatori
politici sono stati concordi nel rilevare che, se il PCI fosse sceso in campo
con tutte le sue forze; delle due l'una: o si sarebbe andati al referendum o si
sarebbero avuti dei miglioramenti della legge.
E allora che senso ha avuto, se non di pura demagogia, la dichiarazione
televisiva di Berlinguer che, qualora si fosse arrivati al referendum, il PCI
avrebbe invitato a votare «Si»?
La verità è che il PCI non riesce più a trovare il contatto con la base, con la
sua stessa base, perché ha cessato da tempo di rappresentare, anche
teoricamente, il partito dei lavoratori. Nel 1977, il PCI, essendo stato il
promotore primo dell'accordo Carli-Lama e, quindi, della legge n. 91, ha
imboccato una strada che non va più in difesa dei lavoratori. La stessa
impostazione di fondo che il PCI ha cercato di imbastire in questa occasione è
in linea con questa tendenza, perché il PCI, come la CGIL, non ha nessun
interesse alla vera risoluzione dei problemi del lavoro, perché la sua stessa
possibilità di esistenza consiste nel rendere sempre più esasperata la lotta fra
le parti sociali, pronto, sempre, dopo aver sbandierato i sacri princìpi, a
ripiegare le bandiere nei compromessi che sono sempre fatti a danno dei
lavoratori, nella prospettiva dello sviluppo storico.
Il PCI si è difeso affermando che l'interesse dei lavoratori sta non
nell'accumulazione di un salario differito, che, prima della inflazione
selvaggia di questi ultimi anni, consentiva al lavoratore, concretamente, al
momento della pensione, l'acquisto della casa, che è il segno più tangibile
della tranquillità e di una sostanziale libertà dell'uomo, ma nel trasferire
tutto nel salario percepito ed in pensioni adeguate. A parte il fatto che PRIMA
di dare colpi di piccone all'indennità di anzianità, si doveva aver raggiunto
una congrua pensione, è opinione di tutti gli economisti che trasferire nel
salario tutte le componenti di esso aumenta il consumo dei beni voluttuari e,
quindi, l'inflazione che si mangia, ancor prima che li ottengano, tutti i
miglioramenti che i lavoratori possono ottenere. In definitiva il PCI vuole che
i lavoratori rimangano SEMPRE fuori della fabbrica, in perpetua guerra, noi
vogliamo che il lavoratore entri dentro la fabbrica come parte essenziale, a
dirigerla e a ricavarne gli utili.
Si possono, anche per queste ragioni, i lavoratori fidare in avvenire del PCI,
nella difesa dei loro reali interessi?
Il PDUP, sempre truculento a parole, in questa battaglia non si è praticamente
visto, per un sotterraneo accordo con il PCI: un certo numero di deputati
(l'attuale classe dirigente del partito) sicuramente eletti nelle liste del PCI
in cambio della latitanza in questa battaglia. Sarebbero forse bastati, se si
fossero impegnati, i pochi deputati del PDUP per far saltare i tempi fissati dal
Governo e per rendere possibile il referendum popolare.
Si possono, in futuro, i lavoratori fidare di essi che, fra l'altro, si
preparano a rientrare nei ranghi del PCI?
I parlamentari radicali, è giusto ammetterlo, hanno fatto la loro parte in
questa battaglia: ma la loro consistenza e le loro declinanti fortune elettorali
rendono questo partito non certo affidabile per le future lotte dei lavoratori
italiani.
Non abbiamo analizzato uno per uno i partiti governativi ma dobbiamo fare due
eccezioni, per il PSI e per il PSDI.
Il primo, che aspira a sostituire il PCI come partito egemone della sinistra, fu
tra i responsabili della legge n. 91. In questa occasione ha tentato, come al
solito, di tenere il piede in due staffe. Da una parte ha mandato avanti
Benvenuto, della UIL, il quale, sulle orme di Berlinguer, ha dichiarato che, se
si fosse andati al referendum, avrebbe votato «Si» ma ha dichiarato anche di
apprezzare la legge che il referendum doveva impedire. Craxi, troppo impegnato
nel tentativo di vestire la camicia rossa di Garibaldi, non ha aperto bocca ma
il suo partito ha appoggiato senza riserve, anche con i pochissimi interventi in
aula dei deputati del suo gruppo, questa nuova pessima legge, che, d'altra
parte, era stata preparata, lo si ricordi, dal prof. Giugni, esperto del PSI.
Si possono, i lavoratori, in futuro, fidare del PSI?
Per il PSDI è opportuno ricordare ancora una volta la ridicola figura di un
partito che presenta solennemente, con le firme di tutti i suoi uomini più
prestigiosi, una proposta di legge che aveva lo stesso scopo del referendum e
poi, per mezzo del suo Ministro Di Giesi, firma il progetto di legge governativo
che aveva finalità esattamente opposte.
Si possono, i lavoratori,in avvenire, fidare di un partito che si copre di
ridicolo in questa maniera?
Che dire, poi, dei Sindacati della Triplice? Autori dell'accordo Carli-Lama, poi
trasformato nella legge n. 91, di fronte al totale fallimento dei propositi con
i quali quell'accordo si era tentato di giustificare, dichiarano che la nuova
legge è accettabile. Ma si sono guardati bene, come hanno fatto diverse volte in
questi ultimi tempi per altre ragioni, (con risultati non certo incoraggianti)
dal promuovere una consultazione fra i lavoratori, di sentire quale era la loro
opinione (la conoscevano benissimo). Non si parli, poi, di uno scioperetto, di
una qualsiasi manifestazione. Come se la legge che si stava per varare non
riguardasse i lavoratori, non riguardasse loro, che dei lavoratori pretendono di
essere i rappresentanti.
Ed infatti loro non li riguarda, i loro stipendi non destano preoccupazioni, la
casa di Lama a Roma, in Via Mercadante, di 320 metri quadri, in una delle più
belle vie di Roma, comprata nel 1977 per 400 milioni (400 milioni del 1977!) è
lì a dimostrare che lui, dell'indennità di anzianità non ha bisogno.
Possono, i lavoratori, per il futuro, fidarsi di questa gente?
I fischi di Napoli stanno ad indicare che i lavoratori hanno cominciato a
capire.
Si possono, i lavoratori, fidare del MSI-DN?
È chiaro che la nostra risposta non può essere che positiva. Ma può essere
positiva per solide ragioni. Perché il MSI-DN proviene dal discorso di Dalmine,
proviene dalla Carta del Lavoro, proviene dal codice civile del 1942, proviene
dalla socializzazione della RSI e, in questa battaglia, ha fatto onore alle sue
origini, senza risparmio di tempo e di energie, nella difesa, sfortunata ma
egualmente nobile, delle giuste aspettative del popolo lavoratore italiano.
* * *
Da non dimenticare
È profondamente giusto, dopo avere descritto il cammino di questa dura battaglia
parlamentare a salvaguardia dei diritti acquisiti del popolo lavoratore, dire
dei protagonisti che l'hanno resa possibile, ottenendo fra l'altro, se non il
massimo, certo qualcosa di più di quello che inizialmente Governo e PCI
intendevano concedere all'Italia che lavora.
È doveroso ricordare l'on. Pietro Pirolo e l'on. Raffaele Valensise (13 maggio
1982) che hanno svolto le pregiudiziali di costituzionalità e di merito sulla
legge, con la puntigliosa sottolineatura delle violazioni degli articoli 75, 36
e 53 della Costituzione; con la denuncia, da parte di Valensise, delle ambiguità
social democratiche in materia; socialdemocratici che, a cominciare dal ministro
Di Giesi, mentre il 23 settembre 1980 chiedevano di abrogare la legge 91 del
1977, ora si schieravano, con il provvedimento all'esame, praticamente per il
suo mantenimento; con il mettere sotto accusa la pseudo opposizione del PCI,
sostanzialmente d'accordo con le posizioni del Governo e della Confindustria;
con i profondi richiami giuridici da parte di Pirolo che ha più volte ricordato
gli orientamenti della Corte Costituzionale.
Orazio Santagati (14 maggio 1982), intervenuto nella discussione generale, con
la competenza e la generosità oratoria che gli vengono riconosciute anche dagli
avversari, ha smantellato puntualmente il nuovo aberrante testo di legge,
dimostrando come non rispondesse alla domanda referendaria, ricordando, fra
l'altro, che se si fosse approvata la proposta di legge presentata nel 1979 dal
MSI, primo firmatario l'onorevole Valensise, che disegnava una riforma della
materia che rispondeva all'attuale richiesta referendaria, quella approvazione
avrebbe potuto sì impedisce il referendum.
Nino Sospiri, Raffaele Valensise, Antonio Macaluso («Si ruba così ai lavoratori
il denaro frutto del loro sudore e del loro impegno, dando ogni giorno numeri e
cifre diverse per giustificare tale ignobile operazione»), hanno il pregio di
portare innanzi la discussione generale (18 maggio 1982) e di dimostrare come la
maggioranza e il PCI, privi di argomentazione, si accingevano a compiere un
grave atto di sopraffazione parlamentare decidendo, a colpi di maggioranza, la
chiusura della discussione generale; gesto questo che veniva, nella
dichiarazione di voto, stigmatizzato dal Presidente del gruppo parlamentare del
MSI, on. Pazzaglia.
È la volta dell'on. Domenico Mennitti di illustrare, a nome del MSI, l'ordine
del giorno di non passaggio all'esame degli articoli.
Sottolineate, nell'intervento, la farroginosità, le incertezze, le
contraddizioni della nuova normativa proposta; cose tutte che si dovevano poi
puntualmente verificare a legge approvata.
Tutto invano. A colpi di maggioranza pentapartito e PCI decidono la seduta fiume
e l'inizio dell'esame dell'articolato e lo fanno fra le vibrate proteste dei
parlamentari del MSI i quali denunciano la gravissima scorrettezza «degli
emendamenti ancora da stampare e da distribuire».
Ed è ancora Sospiri, con Caradonna, Lo Porto, Martinat, Parlato, Romualdi,
Rallo, Rauti, Miceli, Rubinacci, Santagati, Staiti, Tremaglia a sostenere il
peso della discussione notturna, discussione che avrebbe senz'altro avuto la
meglio sulla prevaricazione del Governo e del PCI se non si fosse ricorsi
all'altro espediente: il voto di fiducia, articolo per articolo.
Sono ancora Valensise, Abbatangelo, Pazzaglia che portano la discussione a
mercoledì 19 maggio, quando il Governo, ponendo la questione di fiducia, si
sbarazza illiberalmente dell'articolo 1 che, non dimentichiamolo, accorpava nel
suo seno ben 5 articoli del testo che la Camera aveva ricevuto dal Senato.
Sono le 0.30 di giovedì 20 maggio. Preclusi tutti gli emendamenti,
subemendamenti e articoli aggiuntivi presentati all'articolo 1, la Camera passa
all'esame dell'articolo 2 e sono ancora Santagati e Pazzaglia a sostenere il
confronto.
Gli stampati parlamentari attestano che sono i deputati missini a sostenere il
peso della opposizione. E sono le 3,05 di giovedì 20 maggio 1982.
Si riprende la discussione sull'articolo 2, fu un giorno intero. Sono le 0.30 di
venerdì 21 maggio quando, a nome del MSI parla Rallo e così conclude:
«Il voto del MSI travalica la pura posizione dì partito, interpetrando la rabbia
di tutti gli Italiani contro un modo truffaldino e camorristico di gestire il
potere».
L'articolo 3 non subisce diversa sorte. Parla Giorgio Almirante («La battaglia
del MSI dimostra che le vere campagne sociali sono solo quelle condotte dalla
destra, che hanno ben diversa consistenza rispetto ai vari conati del marxismo e
del liberal-capitalismo»); e c'è un'altra dura battaglia procedurale sollevata
dal MSI e, come al solito, viene risolta con l'arbitrio di una presidenza ormai,
e apertamente, schierata al fianco della maggioranza e del PCI.
Parlano Antonino Parlato («Il governo, con la posizione della questione di
fiducia impedisce un esame adeguato e, impedendo a sua volta la votazione degli
emendamenti proposti dal gruppo del MSI tendenti a migliorare la legge, compie
una pura e semplice rapina ai danni dei lavoratori»); Marcello Zanfagna
(«L'esagerato strumento della fiducia è contro la democrazia e la volontà
popolare»); Massimo Abbatangelo («Le avvisaglie dell'avversità popolare nei
confronti di questo provvedimento si possono significatamente cogliere nella
contestazione dei leaders della triplice sindacale, come quella avvenuta ieri a
Napoli»); Franco Franchi («L'articolo 3 nel testo della Commissione conta ben
168 righe, e succede che un soggetto sia separato dal rispettivo predicato da
ben 12 righe, spezzati solo da qualche virgola. Varrebbe la pena di organizzare
una mostra degli anni '30 dove esibire le leggi di quel periodo, raffrontate
agli incredibili rafforzamenti di oggi. Allora non c'era la libertà, si dice: ma
tra i diritti fondamentali di libertà c'è anche quello di essere governati da
leggi comprensibili»); Franco Servello («L'informazione diffusa dalla RAI-TV sul
dibattito delle liquidazioni dimostra, ancora una volta, l'asservimento
dell'Ente radiotelevisivo al regime»); Orazio Santagati («Il provvedimento che
si discute e che, secondo stampa e RAI-TV, avrebbe dovuto essere già approvato,
è ancora qui. E sono le 15,15 del 21 maggio 1982. Questa è opera nostra. Ed è
opera seria, giusta, utile al popolo italiano»); Pino Romualdi («Siete intenti,
non a fare una buona legge, ma a contrastare in tutti i modi e con tutti i mezzi
l'espletamento di un atto di democrazia come il referendum»); Mirko Tremaglia
(«Il vostro articolo 3 altro non serve che ad avere il PCI amico della
maggioranza, cioè a garantire il governo Spadolini»); Antonino Tripodi («La
fiducia che la Camera da al Governo non è autentica; l'istituto, sancito dalla
Costituzione, è oggi degradato a strumento tecnico formale che esprime una
fiducia sostanziale»); Giuseppe Rubinacci («I lavoratori, consci della rapina
effettuata a loro danno con la legge 91 del 1977, hanno però compreso che tale
rapina si perpetua con il provvedimento in esame»); Antonino Macaluso («Il
governo sta tentando di sfuggire al responso elettorale del referendum che
porterebbe certamente all'abrogazione della legge 91 del 1977»); Girolamo Rallo
(«L'abrogazione della legge 91 del 1977, se attuata con referendum, non
determina alcuna vacatio legis, ma solo la reviviscenza delle norme da tale
legge abrogate»).
E sono ancora Girolamo Rallo, Ugo Martinat («Il confronto e tra il MSI, unica
vera forza popolare di opposizione, e tutti gli altri gruppi, compresi quelli
che si definiscono di opposizione, ma che in realtà fiancheggiano il Governo»);
Vincenzo Trantino («Sono i deputati del MSI che parlano, tutti gli altri sono
muti, evidentemente sono dimentichi delle ragioni morali del mandato
parlamentare»); Nino Sospiri; Tomaso Staiti di Cuddia delle Chiuse («Vi piaccia
o no, è la nostra battaglia che migliorerà i vostri improvvisi provvedimenti
antipopolari»); Giuseppe Tatarella («Nell'attuale vicenda c'è stato chi ha
riportato un successo innegabile, ed è chi è riuscito a sfruttare e
strumentalizzare il PCI per portare avanti la logica filo-padronale che
caratterizza il disegno di legge in esame»); Antonio Guarra («Questa legge è
contro i lavoratori. È sacrosanta la dura opposizione del MSI»); Raffaele
Valensise («Tutta la posizione del PCI è ambigua, truffaldina, contraria agli
interessi dei lavoratori»); Pietro Pirolo («Il modo prevaricante con cui la
maggioranza sta conducendo l'attuale dibattito è sorretto da una Presidenza che
non rispetta le norme regolamentari»); Guido Lo Porto («Il Governo è privo di
una sua strategia economica. È perciò interesse del Paese che dalla decisione
sulla liquidazione, così importante e delicata, non sia spogliato il corpo
elettorale»); Giulio Caradonna («In Italia il colpo di stato, quello vero, c'è
già stato con l'esautoramento delle Camere, ridotte a "mettere lo spolverino" su
quanto deciso fuori di esse»); Vito Miceli («L'opposizione del MSI non è
ostruzionistica, bensì volontà autentica di giungere a soluzioni popolari, ed è
tanto più robusta di fronte all'atteggiamento del Governo e della maggioranza
che gettano discredito sul Parlamento»); Alfredo Pazzaglia («Ogni volta che si è
preteso far risparmiare denaro agli industriali, qualche ministro è poi finito
davanti alla Commissione parlamentare per i procedimenti d'accusa»); Cesco
Giulio Baghino («Il disegno di legge è un furto ai danni dei lavoratori; ed è
proprio per denunciare tutto ciò, in questa aula, che ho ritenuto doveroso,
appena rientrato dalla missione svolta con la Commissione trasporti, di
intervenire sul dibattito in corso»); Guido Lo Porto («Il no del MSI è anche un
"no" al quadro politico esistente, dal quale è derivata al Paese una serie di
iatture»).
L'articolo 4 non ha migliore sorte. Ma prima di cedere è battaglia dura.
Giuseppe Tatarella, Domenico Mennitti, Mirko Tremaglia, Olindo Del Donno («”II
Popolo”, organo della DC, afferma cose del tutto false sull'ostruzionismo del
MSI»); Massimo Abbatangelo; Giulio Caradonna, Franco Franchi, sono ancora in
Aula a tenere in piedi il confronto parlamentare. E sono le 0,30 di domenica 23
maggio. E la seduta continua.
Guido Lo Porto, Antonio Parlato, Girolamo Rallo, Marcello Zanfagna, Orazio
Santagati, Antonino Macaluso, Pino Romualdi, Vincenzo Trantino, Francesco
Servello, Giuseppe Rauti, Nino Sospiri, Antonio Guarra, Ugo Martinat, Tomaso
Staiti di Cuddia delle Chiuse, Raffaele Valensise, Nino Tripodi, Giuseppe
Rubinacci, Alfredo Pazzaglia, Giorgio Almirante per tutta la notte fino all'alba
di lunedì sono in Aula a difendere, non solo gli interessi più genuini della
gente che lavora, ma gli stessi princìpi sui quali dovrebbe poggiare un regime
di libertà.
E si arriva così alle 0,15 di martedì 25 maggio. E la seduta continua.
Si giunge così all'articolo 5. È il serrate finale. E sono ancora Trantino,
Sospiri, Rubinacci, Valensise, Pirolo, Guarra, Mennitti a parlare. Sono le 4,45
quando riprendono la parola Tatarella, Tremaglia, Franchi, Santagati, Alfredo
Pazzaglia («Intendo consegnare agli atti il ringraziamento a tutti i deputati
del MSI in questi 13 giorni di dura battaglia parlamentare durante la quale
nessun deputato del mio gruppo si è sottratto all'impegno»).
E si passa al voto dell'articolo 5 e all'esame degli ordini del giorno
presentati, numerosissimi quelli del MSI.
Siamo alle dichiarazioni finali. Ed è Sospiri a chiudere la bella, vigorosa
battaglia del MSI con queste parole:
«Il provvedimento, voluto dalla maggioranza e dal PCI, assesta un duro colpo
alla gente che lavora. Il MSI si è battuto perché ciò non avvenisse. La vicenda
quindi ha mostrato l'animo vero delle diverse forze politiche e ha indicato chi,
pronunciandosi a favore di un provvedimento così iniquo e punitivo, persegue
disegni di potere contro il popolo lavoratore».
Una bella battaglia, davvero una bella battaglia. Va reso grazie a tutti i
parlamentari del MSI. Nessuno escluso.
* * *
INTERVENTI NELLA DISCUSSIONE
(dai resoconti stenografici della Camera dei Deputati):
Abbatangelo - 5
Almirante - 2
Baghino - 6
Caradonna - 5
Del Donno - 4
Franchi - 5
Guarra - 4
Lo Porto - 6
Macaluso - 6
Martinat - 6
Mennitti - 5
Miceli - 3
Parlato - 7
Pazzaglia - 14
Pirolo - 6
Rallo - 7
Rauti - 7
Romualdi - 5
Rubinacci - 4
Santagati - 8
Servello - 5
Sospiri - 8
Staiti - 6
Tatarella - 6
Trantino - 4
Tremaglia - 5
Tripodi - 3
Valensise - 10
Zanfagna - 4
La legge è stata trasmessa alla Camera dal Senato il 26 aprile 1982. Deferita e
discussa in commissione dal 27 aprile 1982 al 13 maggio 1982. Discussa in Aula
dal 13 maggio 1982 al 25 maggio 1982. La seduta fiume è durata dal 18 maggio
1982 al 25 maggio 1982.
Beppe Niccolai (a cura di)
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