DICONO

"Italia Tricolore per la Terza Repubblica", Dicembre 2008 - Gennaio 2009 - Febbraio 2009

 

Itinerario storico di verità
commemorazioni a cura del "Comitato storia e verità per la difesa della libertà"

 

88° anniversario della nascita

Beppe Niccolai

fascista di "sinistra"

Giacomo Adami   

 

«Non è importante la vita. Importante è ciò che si fa della vita»

Essendo appena pochi giorni fa ricorso l'88 anniversario della nascita di Beppe Niccolai (Pisa, 26 novembre 1920 - Pisa, 31 ottobre 1989), mentre il prossimo anno ricorrerà il Ventennale della scom­parsa, dedichiamo da questo nume­ro della rivista una serie di puntate per illustrare la figura di questo valoroso combattente e politico.

 

BEPPE NICCOLAI nacque a Pisa il 26 novembre del 1920 e crebbe nell'ambiente umanistico che il padre Alberto, autorevole fascista e Preside dell'Istituto Magistrale, aveva negli anni animato e guidato nell'intera città. Nella fornita biblioteca paterna il giovane Giuseppe poté formarsi una precoce coscienza politica e fu subito fascista. Laureato in Giurisprudenza e militante nelle organizzazioni giovanili fasciste, fu coerentemente, appena ventenne e ancora studente universitario, volontario in Africa settentrionale ove ebbe modo di distinguersi per coraggio e valore negli aspri combattimenti che si svolsero in quel tormentato teatro di guerra. Ma il suo sacrificio non ebbe poi gli esiti sperati e si risolse nella più desolante delle soluzioni possibili. Al momento della disfatta della Prima Armata, anche Niccolai fu infatti catturato dagli inglesi e insieme con molti altri combattenti italiani, tra i quali Giuseppe Berto, Carlo Tumiati, Nino Nutrizio, Dante Troisi e Alberto Burri finì nel Fascist's criminal camp di Hereford, un campo allestito dagli americani nel deserto devastato dai tornados del Texas, di cui ci ha ampiamente parlato in un celeberrimo volume Roberto Mieville, che ne aveva fatto personalmente l'avvilente esperienza. Ma anche Niccolai, pur senza scrivere libri, non mancò di evocare più volte il duro trattamento riservato ai prigionieri di Hereford, senza dimenticare per altro le brutture di tutti gli altri campi di prigionia americani, nonché i numerosi e ignobili episodi di inciviltà di cui gli statunitensi si resero ivi responsabili.
Dopo l'8 settembre, Beppe si schierò ovviamente, con i cinquemila "non cooperatori", cioè fra quei prigionieri che rifiutarono di schierarsi con Badoglio e di collaborare con gli alleati, scegliendo, al contrario, di restare fedeli a Mussolini anche nella cattiva sorte. Solo per questo la sua vita fu molto dura al pari di quella di tutti gli altri prigionieri italiani che rifiutarono di collaborare con gli americani. Su questo tema le pagine lasciateci da Roberto Mieville sono oltremodo eloquenti e documentate, ma noi preferiamo ora, per quanto riguarda Hereford, chiamare in causa Gaetano Tumiati, il giornalista poi passato tra i comunisti, che nel suo "Prigionieri nel Texas" ci racconta quali e quante furono le sofferenze dei nostri prigionieri ad Hereford, e a lui lasciamo senz'altro la parola:
«Dagli ultimi di maggio, dopo la fine della guerra in Europa, gli americani hanno cominciato gradualmente a diminuire le razioni. Prima hanno chiuso lo spaccio, poi hanno abolito le salse, il burro, ogni tipo di carne, fresca, congelata o in scatola. Un'altra nuovissima forma di pressione sono le adunate senza scopo. Hanno cominciato in giugno e hanno proseguito per tutta l'estate, di tanto in tanto, senza preavviso e senza senso. Ci radunano tutti là di primo mattino, chiudono il cancello di filo spinato, ci lasciano due sentinelle di guardia e se ne vanno senza dir niente. Di solito ci lasciano quattro o cinque ore, dalle dieci alle tre dei pomeriggio, sotto un sole africano che picchia inesorabile sulla pianura. Una volta siamo rimasti tutta la giornata».
Di fronte a simili raccapriccianti racconti a noi vien fatto di domandarci: questa era dunque la civiltà dei "liberatori" d'oltreoceano, la civiltà di coloro che si vantavano di averci portato la libertà e la democrazia? Forse anche ricordando i maltrattamenti subiti in questo famigerato campo di Hereford, Beppe non esitò addirittura a manifestare molto più tardi, come non pochi degli altri "Fascisti di Sinistra" suoi compagni di sventura, ma anche come deputato missino, la propria soddisfazione per la sconfitta del vecchio nemico per mano dei valorosi combattenti dell'eroico Vietnam, inaspettatamente ma meritoriamente vittorioso sull'imperialismo americano. E per sottolineare la sua avversione per tutto ciò che poteva ricordargli gli americani, Beppe addirittura rifiutò sempre di studiare e imparare l'inglese, vale a dire la lingua dei suoi selvaggi carcerieri di Hereford.
Con l'America, «un'America invelenita, corrosa dal tempo e dalla Storia», un'America «feroce e lucidamente folle ieri come oggi, impastata di una inestinguibile sete di vendetta per chi non si arrende», Beppe non è mai stato tenero anche perché proprio in America aveva visto morire «per stenti, dissenteria e bastonature, per sfinimento e colpi di fucile dalle torrette di guardia, non pochi dei ragazzi che con lui avevano diviso le squallide baracche di reclusione».
Al momento del rientro in patria, Niccolai si schierò subito nelle file del M.S.I. e fu partecipe del gruppo dei cosiddetti "Fascisti di Sinistra" detti anche "Fascisti in camicia rossa", con i quali ebbe più tardi a condividere non poche esperienze, quale ad esempio quella del gruppo raccolto intorno alla rivista quindicinale "Il Pensiero Nazionale" diretto dallo scrittore e giornalista già "repubblichino" Stanis Ruinas o le altre dei cosiddetti fascisti-comunisti o comun-fascisti, dei socialisti tricolore e delle "Camice nere di Togliatti", il quale Togliatti, è bene ricordarlo, aveva furbescamente dichiarato nel 1947 di non nascondere «le proprie simpatie per quegli ex fascisti, giovani o adulti, che sotto il passato regime appartenevano a quella corrente in cui si sentiva l'ansia per la scoperta di nuovi orizzonti sociali. Noi riconosciamo agli ex fascisti di sinistra il diritto di riunirsi e di esprimersi liberamente conservando la propria autonomia». Tale gruppo annoverava nelle sue fila, tra gli altri, Ernesto Massi, Bruno Spampanato, Diano Brocchi, Giorgio Bacchi, Roberto Mievilie, Domenico Leccisi, Giuseppe Landi, Ugo Clavenzani e Beppe Niccolai, che non per caso ne fu uno dei principali ispiratori, riuscendo a dare quotidianamente con l'impegno febbrile, con l'esempio, con l'abnegazione generosa e con la denuncia, dimostrazioni quotidiane di coraggio e di stile. Non a caso diceva Tatarella che, a questo punto, Niccolai forse voleva fare del MSI una sorta di "laburismo nazionale". Fatto è che Niccolai si propose subito come un autentico uomo di sinistra che in prospettiva, certo non insensibile al fascino delle proposte del sindacalismo rivoluzionario di Nicola Bombacci, sembrava addirittura sognare una convergenza strategica tra il MSI e la sinistra italiana e non esitava a sostenere che il capitalismo e l'imperialismo americano rappresentavano un pericolo ben maggiore di quello sovietico per la cultura e la politica italiana. In ogni caso, come anima di sinistra del partito, sempre ne criticò aspramente la svolta borghese filoatlantica e filomonarchica e mai cessò di lottare per la realizzazione di un programma socialista nazionale in perfetta continuità ideale con l'esperienza della Repubblica Sociale Italiana. Di tale gruppo ebbe inizialmente a far parte lo stesso Giorgio Almirante,
l'Almirante reduce anche lui della Repubblica Sociale Italiana che poi, più tardi, doveva divenire Segretario del partito e, purtroppo, anche promotore della cosiddetta "Grande Destra", vale a dire, secondo Niccolai, della «Destra reazionaria, legata ai monarchici e asservita alle istanze del capitalismo americano».
Ma Niccolai non era solo perché anche la Federazione Nazionale Combattenti della RSI non mancò di condannare l'atteggiamento dei fascisti che «sbandavano verso la destra conservatrice autoritaria e totalitaria, in ibrido connubio coi monarchici e coi più retrivi gruppi confessionali» ed invitava tutti a respingere «il fanatico occidentalismo di destra pervenuto fino alla servile esaltazione di Nixon, il bombardatore del Vietnam». E parimenti non mancò di bollare a fuoco «ogni collusione coi regimi militari e liberticidi dei colonnelli greci e del generale Franco».
Eletto alla Camera dei Deputati nel Collegio di Pisa fu proclamato deputato della V Legislatura il 28 maggio 1968 e fece parte del gruppo parlamentare del Movimento Sociale Italiano dal 18 giugno 1968 al 24 maggio 1972. In quegli anni fu componente della VII Commissione (Difesa) dal 12 ottobre 1970 al 24 maggio 1972 e della X Commissione (Lavori Pubblici) dal 10 luglio 1968 al 12 ottobre 1970.
Rieletto nella VI Legislatura, fu componente della Commissione Difesa dal 25 maggio 1972 al 4 luglio stesso anno e della Commissione parlamentare Antimafia dal 28 luglio 1972 al 23 gennaio 1973 e dal 22 febbraio 1973 al 4 luglio 1976. Il suo lavoro fu molto apprezzato in tutti i settori e lo stesso Leonardo Sciascia, intervistato dalla TV francese, dichiarò che la relazione di minoranza presentata in Commissione Antimafia da Beppe Niccolai "era una cosa seria".


Nel 1976, in corrispondenza delle forti perdite fatte registrare dal MSI, Niccolai non fu rieletto alla Camera dei Deputati. In quell'occasione, Carlo Giannuzzi, alto funzionario parlamentare, gli scrisse una lettera che è un autorevole riconoscimento della stima che Niccolai si era guadagnato in seno al Parlamento. Eccone l'eloquente testo: «Illustre e caro Onorevole, Ora che è passato più di un mese dallo svolgimento delle elezioni, credo di poter esprimere con sufficiente serenità il mio più profondo rammarico per non aver potuto salutare il suo rientro fra i deputati della VII Legislatura. Il Parlamento ha perduto una libera voce che non ha mai avuto un attimo di sosta nel fustigare i corrotti e nel confortare gli onesti. Potranno forse gioire quegli squallidi maneggioni cui il Suo costante, quasi ossessivo, richiamo ai valori di un'Italia onesta e pulita suonava come una forma di vieto moralismo. Non lo potrò io, che ho sempre ammirato nelle Sue battaglie politiche -pur non condividendone, come non Le ho mai nascosto, l'ideologia- il rigore morale, l'intransigenza addirittura giacobina, la profonda e tenace preparazione che le hanno sempre ispirate. Considero un grande onore l'aver potuto collaborare con Lei e l'essermi meritato la Sua stima e la Sua amicizia, che è mia ambizione conservare il più a lungo possibile. Cordialmente, Suo Carlo Giannuzzi».
La mancata rielezione non creò in Niccolai alcuna reazione negativa dal momento che, lontano dalle beghe del Palazzo, egli avrebbe potuto finalmente dedicarsi a problemi che, a suo giudizio, apparivano più vicini alla gente e più positivi. Era solito dire infatti che il contatto con il "palazzo" era stato per lui mortificante e le stesse istituzioni gli erano apparse «come vestigia ormai vuotate d'ogni contenuto morale, dove gruppi e bande di potere, con disprezzo e cinismo, conducevano i loro affari personali alle spalle e sulla testa del popolo italiano». In questo stato d'animo si capisce bene come, dopo una prima breve fase di stretta collaborazione anche con Almirante, negli anni Ottanta Niccolai ne sia divenuto addirittura il principale antagonista. Da allora il Nostro non ebbe più rapporti sinceri e cordiali di fraterna amicizia con il camerata Almirante; i due infatti erano troppo diversi per esperienze e per convinzioni politiche: intransigentemente antiamericano l'uno e realisticamente diplomatico, tanto da apparire filoamericano e strategicamente atlantista, l'altro.
Perciò spesso accusò eccessivamente Almirante di «lustrare le scarpe alla NATO e agli USA» e «di essere a loro servili» e per questo Niccolai non era capace di reprimere un moto di stizza e i suoi occhi si riempivano di collera. Per tutto questo, Almirante e Niccolai non furono più in grado di capirsi né riuscirono più a condividere idee e programmi.
Con le sue aperte prese di posizione Niccolai apparve sempre a tutti come l'eretico militante del tutto incapace di accettare il «conformismo della casta». Una posizione sicuramente minoritaria la sua e sempre anticonformista, che ovviamente fu sempre fortemente avversata dalla maggioranza almirantiana che governava il partito. Secondo Niccolai bisognava «denunciare, come nemici mortali che sono dentro di noi, la partitocrazia che genera professionismo politico contro la militanza, la casta contro l'impegno morale, la burocratizzazione, la corte e i cortigiani, la tendenza a ridurre il partito periferico ad una rete di piazzisti del voto, che conduce ad una selezione verticistica della classe dirigente secondo le fedeltà non alle linee ideali, ma alle persone che hanno il potere». Tanto più che, contemporaneamente, gli uomini della casta avevano assistito impassibili, o addirittura compiaciuti, al massacro sistematico dei valori della patria, della famiglia, della tradizione, della storia. Preso atto di questa inaccettabile situazione, a Beppe non restò che accentuare ulteriormente i toni della sua lotta contro il conformismo trionfante.
Nella sua Pisa Niccolai fu Consigliere comunale ininterrottamente dal 1951 al 1980 e dal 6 novembre 1960 al 27 gennaio 1969 fu anche Consigliere provinciale. In questi anni ebbe tra l'altro modo di incontrare, conoscere e apprezzare Massimo D'Alema, con il quale ebbe per altro anche vivacissime occasioni di aspra polemica. D'Alema, dal canto suo, ricorda Niccolai con viva simpatia e addirittura con affetto per le convinzioni forti che manifestava, e non esitò a considerarlo un «grande personaggio» che, magari, sapeva anche "menare", ma che poneva in atto una politica fatta di passioni e mai praticata «come calcolo delle convenienze».
Da autentico pisano dotato di un temperamento molto forte e in ogni momento disposto all'attacco, rimase sempre fedele alla regola propria di chi aveva avuto modo di sperimentare la vita in trincea; il suo insegnamento fu pertanto quello di stare sempre pronti a «rispondere colpo su colpo», e a non perdere tempo «per aggiustare la mira».
Del Fascismo Beppe Niccolai aveva sempre amato soprattutto il rigore morale e il disinteresse personale che aveva animato la parte migliore della vecchia classe dirigente nella sua Pisa e per questo, dal suo scranno di Consigliere di opposizione, avviò senza perder tempo un'intensa battaglia moralizzatrice contro i nuovi potenti molto disinvolti nell'amministrazione del pubblico denaro. La sua instancabile battaglia si concretizzava in seno al Consiglio comunale cittadino ma anche attraverso "il Machiavelli", il periodico da lui diretto popolarissimo a Pisa ed anche nell'intera provincia che fungeva da cassa di risonanza alle sue lotte e iniziative politiche. Tale giornale, che si autodefiniva «disintegratore del malcostume politico» era nato a Pisa nel 1954 ed ebbe vita florida fino al 1975.
Sicuramente politico "non di Destra", dal momento che la Destra è censura, reazione bigotteria, ma convintamente "di Sinistra", amava definirsi Niccolai, che in proposito, a scanso di equivoci, precisava di riagganciarsi alla tradizione che affondava le sue radici nel Mussolini giacobino, nel Socialismo risorgimentale di Pisacane, nel Sindacalismo rivoluzionario di Sorel e Corridoni, nel Fascismo sansepolcrista del 1919, ma soprattutto in quello assai più significativo del 1943-45 della Repubblica Sociale Italiana. «Io -dirà in proposito- aderisco al Fascismo che ho conosciuto in famiglia, che era il Fascismo libertario e generoso, il Fascismo rivoluzionario dell'inizio e della fine, quello che non conserva ma cambia».
Coerentemente, Niccolai rimase sempre fascista, mai rinnegando i sacri princìpi. Diceva al riguardo Pietrangelo Buttafuoco che «Niccolai era come Mussolini, anzi era la trasfigurazione mistica di Mussolini». Era altresì «una nobile bestemmia; era un fratello grande come un padre, era quello che aveva creduto e ci aveva dato la forza di credere, era un macigno, era una voce. E quella era una voce difficile da dimenticare». Ci piace, inoltre, ricordare le altre parole con le quali lo stesso Pietrangelo Buttafuoco, confessava di considerare Niccolai come il riferimento degli eretici. «Beppe Niccolai -diceva infatti- aveva la capacità di vedere la realtà senza l'affanno elettorale. Raccoglieva intorno a sé il mondo degli umili e degli indifesi e diede alla militanza politica un senso ed un imperativo categorico. Il senso e l'imperativo categorico di un impegno costruito con il cemento del progetto». A lui, infatti, un uomo già monumento per stile e dirittura morale, si rivolsero gli inquieti e tutti quelli che dopo avrebbero lasciato la Destra alle loro spalle. Non c'è oggi in circolazione un fascista che non abbia avuto da Niccolai un regalo: la fotocopia di una pagina importante, un libro sottolineato nei punti giusti, una lettera. Un libro sottolineato non suo, dal momento che egli -al pari di Berto Ricci e Antonio Carli- non scrisse mai libri. Anche questo -è stato rilevato- «rappresenta un segno distintivo di chi vive la trasgressione inviando segnali di vita e fornendo esempi di stile che, a ben riflettere, è il modo di concepire la lotta lontano dalle cattedre imbalsamate e dagli orpelli degli intellettuali».
 
Giampiero Mughini, dal canto suo, lo ricordava su "il Giornale" con queste parole: «Niccolai era una delle figure più adamantine che io abbia mai incontrato, un italiano figlio di una guerra civile che non amava nemmeno un po', un intellettuale e un dirigente politico che metteva sempre la sua coscienza al primo posto. La sua coscienza, non la carica, l'orpello, il pennacchio, lo scranno, la carriera, le correnti, i capiclan, i boss. Beppe era uno che aveva in uggia l'americanismo, il mondo delle quantità materiali e la sfrenatezza consumistica. Non sarebbe mai andato a genuflettersi nella City di Londra, la sua anima sociale, la sua coscienza non l'avrebbero permesso. Non sarebbe andato nemmeno a Fiuggi. Le sue reni erano salde sebbene avessero tentato in tanti di spezzargliele».
Sbaglia perciò sicuramente l'attuale Ministro Altero Matteoli, vecchio missino di Cecina e influente politico e parlamentare del MSI-Destra Nazionale e più tardi fedele alla linea rinunciataria di Fini, quando pensa di poter sentenziare che, «dopo la nascita di Alleanza Nazionale (gennaio1995), Niccolai avrebbe anch'egli condiviso la svolta di Fiuggi». Ma poi, forse preso da qualche dubbio, si domanda anche se piuttosto Niccolai «avrebbe dato vita ad un'altra formazione politica alla destra di Alleanza Nazionale», ma precisa infine che la sua risposta rimane quella secondo cui, probabilmente, «Beppe Niccolai sarebbe stato con noi in AN, con il suo atavico spirito da pisano rompiscatole a pungolarci ogni giorno con i suoi forti ammonimenti, con il suo carattere poco incline alle mezze misure e ai facili compromessi, ma anche con la sua innata capacità di guardare lontano, di immaginare e vedere il futuro».
In proposito ci sembra inutile dire che Niccolai, a nostro avviso, non avrebbe sicuramente potuto mai aderire ai programmi dell'Alleanza Nazionale di Fini. Ma fu proprio Fini, il futuro carnefice del Movimento Sociale, a proporre Niccolai, dopo la sua uscita dagli impegni parlamentari, come Presidente del MSI, riconoscendogli un'indubbia autorità morale in tutto il Partito. Ma Niccolai non ne volle proprio sapere, dal momento che quella alta carica non faceva proprio per lui. Ringraziò comunque, ma non esitò a rifiutare quel ruolo che lo avrebbe posto al di sopra delle parti e preferì continuare ad essere parte.
Per i suoi numerosi scritti su riviste e giornali e in special modo sul "Secolo d'Italia" (nelle rubriche "Rosso e nero" e "Duello al sole") e su "L'Eco della Versilia" (nelle battagliere "Pagine Libere"), fu considerato da tutti come un autentico fustigatore di costumi ed anche come l'inflessibile "Fascista corsaro". Non per nulla egli fu il punto di riferimento più forte per il dissenso interno e i tentativi di dialogo con l'esterno.
E non a caso, quando ancora nessuno immaginava le brutture di Tangentopoli, fu proprio Niccolai a denunciare che nella politica italiana esisteva il fenomeno diffuso della corruttela. Ma queste sue indicazioni premonitrici erano destinate purtroppo a rimanere inascoltate. Le sue denunce furono comunque sempre forti e insistite. Sulla scuola, ad esempio, una scuola gestita per quarant'anni da uno stormo disarmonico di ministri democristiani, per lo più chiacchieroni e incapaci, si domandava: «Che cosa è stata la Scuola italiana in mano alla Democrazia Cristiana che l'ha gestita per quarant'anni? Quali valori vi ha profuso?»
Ma quali valori poteva profondere mai -si affrettava a chiarire Niccolai- un partito come la DC «che aveva sempre chiesto voti per difendere gli italiani dal comunismo, ma quando quei voti li ha ricevuti (e in abbondanza) si è costantemente dimenticata di quell'impegno, fino al punto di portare il PCI nella maggioranza di governo?»
Ma che cosa era stata dunque la scuola in mano democristiana? «La Scuola -rispondeva Niccolai- è stata il luogo permanente della guerra civile fra gli italiani». E quali tradizioni educative potevano esserci mai «in una Scuola che demonizzava il passato dei padri, uccidendovi il sentimento della nazione, cioè la memoria? È la memoria storica che ci tiene insieme. Coloro che perdono la memoria di sé, la memoria delle proprie radici, si dissolvono: come Comunità e come Popolo. Non riescono più a stare insieme. Perchè non hanno più nulla in comune. Non sanno più cosa dirsi. Parlano lingue morte».
Tale scuola -continuava Niccolai- ha cercato inoltre di imporre il divieto di «guardare al passato» e così è nato «l'uomo-massa, l'uomo senza identità secondo il modello americano; quel modello che tutti i giorni la TV, attraverso i network, ci porta in casa: i telefilm dell'orrore, delle bande giovanili, della droga, dei culti demoniaci, delle bande che adorano il diavolo e il dio quattrino. E il cinema ha saputo offrirci solo i modelli dell'italiano vivente negli anni del cosiddetto boom economico con tanta eloquenza illustrati da Alberto Sordi: un italiano scroccone, bugiardo, vanesio, vile, opportunista, senza un briciolo di carattere, sempre disimpegnato».
Fatto è che quella democristiana è stata una Scuola senza educazione, dal momento che la prima preoccupazione del potere è stata quella di cancellare la memoria del passato e con essa il concetto di Patria. Ma questa cancellazione della memoria non è stata senza conseguenze, essendo chiaro che quando un popolo perde la memoria, non sa più cos'è. Ed è proprio in questa situazione che «spuntano i due idoli che oggi sono predominanti: il dio danaro e l'economia».
Senza contare che l'appiattirsi dell'Europa sull'America fu un errore perché il solo guardare con simpatia al protestantesimo americano significava produrre «uno sradicamento totale delle nostre tradizioni. In queste condizioni noi italiani siamo cambiati anche dal punto di vista antropologico. Non sappiamo più chi siamo». Anche questo trapasso è stato operato dai democristiani i quali, «per avere la legittimazione degli americani che hanno vinto la seconda guerra mondiale a poter governare il paese permanentemente, non hanno esitato a rendere l'Italia il paese meno cristiano d'Europa».
Nel febbraio del 2002, nel corso di un affollatissimo convegno organizzato dal Fronte Sociale Nazionale e svoltosi a Roma al Ripa All Suites Hotel sul tema "Beppe Niccolai e Antonio Carli", un Convegno sicuramente privo del "sapore cinereo" che è proprio delle commemorazioni, al quale presero parte, tra i tanti, Pietrangelo Buttafuoco, Giampiero Mughini -un Mughini «suo caro amico e caro nemico»- si intese soprattutto di riproporre Beppe Niccolai «per l'attualità del suo pensiero, che non aveva certo perso di smalto con l'andare degli anni, ma che dimostrava di aver saputo cogliere le avvisaglie di situazioni politiche che si sarebbero puntualmente appalesate più tardi».
Non a caso Beppe Niccolai fu l'unica voce "fuori dal coro" nel Congresso missino di Roma del 1984, nel corso del quale egli presentò la mozione "Segnali di Vita" sottoscritta con entusiasmo dalle componenti giovanili e creative del partito, per le quali il MSI rimase sempre quel partito al quale Niccolai aveva aderito sin dal ritorno dalla terribile esperienza del Fascist's criminal camp di Hereford, in cui era stato internato senza mai piegarsi a collaborare. Da quella durissima esperienza, Niccolai seppe attingere la forza per le sue future battaglie politiche, mai allineate e mai inquadrate nel solco consueto della passiva adesione.
Dalla relazione di minoranza nella Commissione antimafia (che tra l'altro si conquistò il caldo plauso di Leonardo Sciascia), all'interrogazione parlamentare che fece esplodere il caso dell'Argo (1), all'elogio rivolto al Vietnam vittorioso sull'imperialismo americano, si snodò il suo percorso "non-conforme". Al "gusto del Palazzo" e alla comoda poltrona Beppe preferì sempre, senza esitazione, la militanza del semplice iscritto con l'intento di poter dare luogo anche ad una severa autocritica che cercò pure, purtroppo senza apprezzabili risultati, di estendere a tutto il partito. In quegli anni con la sua rivista "L'Eco della Versilia", Niccolai fu comunque il punto di riferimento più forte per il dissenso interno e per i tentativi di dialogo con l'esterno.
Celeberrime e degne di menzione sono anche le sue vivacissime polemiche con Indro Montanelli, la cui prosa Niccolai non esitava a giudicare vivace ed anche lì per lì brillante e convincente, ma purtroppo indirizzata anche all'obbiettivo evidente di favorire e rendere definitiva l'egemonia della DC e del PCI. Niccolai aveva sempre ritenuto che Montanelli, «se proprio non lavorava per il compromesso storico, puntava almeno a consolidare l'indecorosa egemonia a due DC e PCI».
Ma per chi e per che cosa -si domandava ancora Niccolai- lavorava Indro Montanelli? E rispondeva subito che il giornalista di Fucecchio stava lavorando soprattutto per «impedire ogni tentativo di aggregazione politica che individuasse nella DC il veicolo principale dell'infezione comunista, portando avanti tutte le operazioni che, in qualunque modo, potessero contrastare l'incontro, o meglio il formarsi di una politica tesa a combattere il compromesso storico».
Il compito maggiore di Montanelli -ribadiva sempre più convinto Niccolai- era in definitiva quello di farsi «capofila nel richiedere lo scioglimento per legge del MSI-DN». Non per nulla, quasi a titolo di giustificazione, se ne era uscito un giorno con questa battuta: «I comunisti li rispetto, non sono mai volgari come i missini». E con questo Montanelli aveva finito per «sostituire il partito comunista nel farsi aguzzino e promotore del ricorso alle manette per il MSI. Ma d'altra parte egli sapeva bene che per saldare e rendere definitivo l'accordo tra democristiani e comunisti era assolutamente necessario togliere di mezzo il Movimento Sociale Italiano.
Ma era davvero costruttiva, si domandava Niccolai, la prosa di Montanelli? «Concettualmente -rispondeva- nella prosa montanelliana, se ci si cura di depurarla delle frasi ad effetto e cariche di colore, non c'è nulla che possa essere paragonato, sia pure lontanamente, ad una prospettiva politica. È il vuoto. È come l'ubriacatura. Lì per lì ti carica. Poi viene il mal di testa, l'amaro in bocca, una confusione terribile».
In politica estera, se Niccolai rimase sempre ferocemente critico verso la politica imperialistica degli americani, e contro di essi, nel 1985, si schierò anche nel corso della cosiddetta crisi di Sigonella, allorché fece approvare dal Comitato centrale del MSI un ordine del giorno di sostegno a Craxi, in considerazione del sia pure occasionale «scatto di orgoglio nazionale» che costui aveva provocato. Per quanto riguardava gli israeliani non esitava a giudicarli come il popolo più vicino alle battaglie del MSI, un popolo, «costretto ad andare a letto con gli stivali», che pur tuttavia lavorava, intraprendeva, creava ricchezza, progrediva e dava «un grande contributo alla civiltà e al progresso».
In Italia, al contrario, si era arrivati alla negazione dei valori nazionali favorendo con ciò l'insorgenza del terrorismo e della nevrotizzazione degli antagonismi. Ed era stata ancora la DC a produrre lo sradicamento dei valori nazionali così come l'ideologia occidentalista aveva contribuito in maniera determinante a far perdere il senso dell'identità nazionale. L'Italia, sosteneva Niccolai, era purtroppo «un territorio occupato dai missili americani» ed era proprio «dietro quei missili» che stava la perdita della dimensione del popolo e delle sue radici storiche, civili e culturali. Bisognava riflettere -insisteva Niccolai- su questa alienazione del sentimento nazionale e bisognava che l'Italia si riappropriasse delle "chiavi di casa" se gli italiani volevano cercare di avere un qualche peso nel contesto dell'Alleanza atlantica. Anche per questa via, pensava Niccolai, si poteva custodire "la memoria storica".
Ma quale era, in definitiva, il mondo che Niccolai sognava? Era il mondo nel quale si potesse finalmente ritrovare il rispetto per i valori nei quali lui stesso era cresciuto, un mondo con le sue idee, le sue bandiere e le sue religioni, un mondo dove l'uomo potesse finalmente nutrirsi ancora di sentimenti validi, quali la fratellanza e la solidarietà. Tutto questo ce lo dicono questi pochi passi di una conferenza tenuta a Livorno nel 1995, con i quali ci piace chiudere questo ricordo del nostro Beppe Niccolai. Eccoli:
«Quali tradizioni educative possono esserci in un Paese che continua a demonizzare il passato dei padri, uccidendo il sentimento della nazione, cioè la memoria? Che vale conservare un paesaggio, un fiume, un ruscello? Anche quelli sono valori della tradizione. L'uomo non è fatto solo per produrre e consumare; l'uomo è anche pianta, albero-figlio della terra, della sua terra. La città a misura d'uomo. A chi abita nelle "batterie" degli uomini da lavoro resta oggi una sola via da percorrere per consentire la stima di sé: non rimuovere dalla coscienza la vita di chi gli è accanto, di chi ci è compagno di sventura, non chiudersi nel più completo isolamento. Si abita sullo stesso pianerottolo e non ci si conosce. E si fa di tutto per evitare di conoscersi. A tanto ci hanno fatto arrivare. Si chiudono con i tramezzi i balconi. Perché? Per paura di vedere riflessa nel vicino la propria immagine disperata di uomini al lavoro "in batteria". E i figli? Scendono dalle nuove zone di frontiera le bande. Che possono fare se sono cresciuti in questa cultura che ha ucciso con la memoria storica, città e territori? E come possono avere rispetto se ciò che vedono (e in cui vivono) è triste e brutto? Centinaia di migliaia di abitazioni che si distinguono solo per i numeri civici. I ragazzi di oggi, abituati ad essere consumatori, sfiorano l'angoscia, la noia per sazietà di stimoli fuorvianti. Via la terra dei Padri, via le religioni, via ogni fede, via ogni autorità naturale, tutto è permesso! Viva la città senza bandiere, senza altari, senza idee, senza politica vera che scatena i demoni! La città senza limiti all'inibizione, dove si può tutto senza avere nulla. Ed ecco la noia, l'infelicità, il collasso. Come si esce da questa crisi metapolitica, da questa "crisi di religione"? Occorre ritrovarsi, stare insieme! Tornare ad un modo di vivere che infonda speranza e dia un senso alla vita. Superare la vacanza della Storia che ci ha portato alla perdita dell'identità dell'appartenenza»
Niccolai, a questo punto, appare purtroppo preda di una visione pessimistica della vita. D'altra parte si sentiva ormai profondamente amareggiato dalla situazione che si era consolidata nel Paese. Non trovava quasi più la forza di reagire e se ne andrà di lì a poco, il 31 ottobre del 1989, mentre stava pedalando in un viale alberato della sua città, solo con la sua amarezza. Ma se ne andrà anche, come è stato sempre detto da tutti, «con le tasche vuote e con la faccia pulita». Beppe Niccolai ci ha davvero lasciato un'eredità preziosa di idee e di sentimenti.

Giacomo Adami
 

NOTE

(1) Era un vecchio Dakota utilizzato dai Servizi e caduto a Marghera il 13 novembre del 1973 causando la morte dei quattro membri dell'equipaggio. Era adibito a portare armi in Sardegna, alla base di Gladio. Gli uomini ivi in addestramento provvedevano a trasportare le armi nei vari Nasco. L'aereo sarebbe stato sabotato dagli agenti del Mossad. I Nasco erano i nascondigli di armi americane, provenienti dalla base USA di Camp Darby, destinate a finire in dotazione di Gladio.
(2) Antonio Carli (Smirne 1933 - Viareggio 2000) Così è ricordato in una nota di "Tabularasa": «Giornalista, non ancora adolescente falsificò i documenti per arruolarsi nella Repubblica Sociale Italiana. Militò a lungo nel MSI senza ricoprirne mai cariche ufficiali, spesso su posizioni di contrasto con la dirigenza e con la linea politica. Uscì definitivamente da quel partito al tempo della Iª Guerra del Golfo per intraprendere l'avventura di direttore della rivista antagonista "Tabularasa". È stato, non soltanto in campo politico, ma anche in quello editoriale, l'erede più apprezzato di Beppe Niccolai".



 

Testimonianza del nostro Direttore
Il pessimismo scetticistico di Niccolai
 

Si conclude con questa terz'ultima puntata il ricordo che il nostro Collaboratore pisano Dott. Adami ha voluto ottimamente scrivere come suo contributo di testimonianza alla storia di cui questa rivista è umile ma ferma servitrice così come la sognammo e la volemmo nell'ormai lontano Gennaio 1992. Tuttavia lo scrivente, che com'è noto all'epoca in cui Niccolai morì era già da oltre tre anni consigliere comunale per lo stesso Movimento, non può esimersi dal fare alcune brevi annotazioni testimoniali, avendo a sua volta conosciuto personalmente il dirigente missino toscano soprattutto durante gli incontri che egli tenne in Romagna. Quando conobbi Niccolai, nei primi anni '80, ebbi la sensazione di trovarmi dinnanzi a una persona molto amareggiata e demotivata (che ricondussi alla sua mancata rielezione alla Camera nel 1976).
Approfondendo poi le sue gesta e i suoi scritti ebbi ancor meglio la conferma di ciò, ma quel che più mi stupì fu la mattina del 24 maggio 1988 mentre mi stavo recando a Roma alle esequie del suo e nostro Segretario Almirante, per quanto lessi da lui scritto sul giornale del partito "Secolo d'Italia": un attacco velenoso oltrechè irriverente e ingrato a colui che non c'era più e non poteva neppure più difendersi, relativa al suo presunto almiranticentrismo ovvero al fatto che Almirante era stato... un egocentrico factotum che lasciava poco spazio al rinnovamento della classe dirigente missina pretendendo di voler fare quasi tutto lui e delegando poco o nulla agli altri dirigenti! Accusa quest'ultima vera, ma che a posteriori dobbiamo riconoscere giusta e sacrosanta e dettata da ragioni di salvaguardia del Movimento ed anzi il giorno che Almirante ad essa si è piegata, lasciando la successione ad altri (Fini e poi Rauti) quel giorno ha segnato l'inizio della fine del MSI-DN come purtroppo ben sappiamo degenerata nella demenziale e demoniaca nascita di AN con l'infame e prezzolata abiura di Fiuggi e via vie le successive sempre più prezzolate e demoniache. E tuttavia quel "ricambio generazionale" auspicato da Niccolai avvenne e guarda caso, come Adami ha scritto in quest'ultima puntata, fu proprio Fini badogliano e oggi massone-ebraico che propose la carica di presidente del partito a Niccolai che egli non accettò perchè probabilmente il suo innato pessimismo, gli faceva sentire la morte oramai vicina. Niccolai divenne avverso ad Almirante soltanto negli anni '80 (dopo averne per oltre 30 anni accettato e condiviso di esso tutto), per il suo personale odio nei confronti di tutto quanto era anche solo correlante agli americani perfino giungendo a pensare di potersi sostituire alla guida del MSI-DN. Ecco spiegato pertanto il pregiudizio o meglio il pretesto che creò in quel periodo per attaccare Almirante nel tentativo di incrinare la sua segreteria per poter toglierlo dal vertice missino ai fini egoistici di poter sostituirvici. Niccolai possiamo pertanto considerarlo come il tipico toscano afflitto da quel pessimismo rancoroso scetticistico distruggitore e velenoso per sè, che ne determinò il suo limite.
 

Augusto Fontana

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Ringraziamo Augusto Fontana che ha inviato il materiale di questa pagina.