da "Rinascita",
12 dicembre 2004
dal libro:
Il caso Sofri
Dalla condanna alla
"tregua civile"
Aldo Cazzullo
(…)
Il 5 maggio 1972 il MSI di Pisa chiude
la campagna elettorale con un comizio di Beppe Niccolai. Un fascista atipico, di
quella corrente «rossa» che, a seconda di come la si guardi, può affascinare o
disgustare, essere considerata antiborghese, antisistema, votata alla sconfitta
e per questo nobile e generosa o invece una mascheratura della reazione,
un’illusione ottica per irretire e incanalare energie e metterle al servizio
degli assetti che si vorrebbero abbattere. Un uomo cui in ogni caso non si può
rimproverare l’incoerenza: preso prigioniero in Africa, schieratosi con Salò,
trasferito nel "Fascist criminal Camp" di Hereford, Texas, con Gaetano Tumiati e
Giuseppe Berto (che vi scrive "Il cielo è rosso"), dove patisce la fame e come
forma personale di resistenza rifiuta di imparare una parola d’inglese.
Lotta continua ha lanciato per quella
campagna elettorale la parola d’ordine «I fascisti non possono parlare».
Sui muri di Pisa compaiono questi manifesti:
«Il ducetto Giuseppe Niccolai protetto
dagli industriali, pagato e imbottigliato dal barone nero Ostini, padrone
dell’acqua d’Uliveto, si è piccato di parlare a Pisa. Cascasse il mondo su un
fico il fascista Niccolai a Pisa non parlerà. Venerdì ore 16 tutti in piazza
Garibaldi».
Venerdì 5 maggio il fascista Niccolai
parla per un’ora e mezzo.
Quelli di Lotta continua sono trecento, con un gruppetto di anarchici, tra cui
Serantini.
Agenti e militari sono cinque volte di più. Da Roma è giunto il Primo
raggruppamento celere, 800 uomini, che con 500 carabinieri, 100 carabinieri
paracadutisti e i reparti di stanza in città circondano la piazza.
La caccia all’uomo durerà tutta la sera. Corrado Stajano, che a Serantini ha
dedicato il suo libro Il sovversivo, ha raccolto la testimonianza dei
commercianti del centro di Pisa: raccontano di pestaggi di inaudita violenza, di
candelotti sparati da pochi metri, di facce sanguinanti, denti e sangue sparsi a
terra, corpi trascinati.
Franco Serantini lo prendono sul lungarno Gambacorti e lo massacrano. Lui resta
immobile, senza reagire. Il commissario Giuseppe Pironomonte lo arresta per
sottrarlo alla furia dei colleghi; sconvolto, si dimetterà dalla polizia,
troverà un posto al ministero del Tesoro, impiegato di gruppo B all’ufficio
pensioni di guerra.
Il dottor Alberto Mammoli, medico del carcere di Pisa, lo visita e non trova
nulla di grave.
Da lì a trentasei ore firmerà il certificato di morte.
Cinque anni dopo, il 30 marzo 1977, sarà ferito da quattro pallottole, alle
gambe e al torace, sparate da terroristi di Prima linea.
Alle 16.30 di domenica 7 maggio, giorno delle elezioni, un funzionario della
direzione del carcere si presenta al Comune con il documento firmato dal dottor
Mammoli, a chiedere l’autorizzazione per il trasporto del cadavere. Nessuno è
venuto a reclamare il corpo di Serantini. L’impiegato Antonio Abenaim rifiuta di
firmare: non sono trascorse le 24 ore previste dalla legge per l’inumazione e
manca il nulla osta del procuratore della Repubblica.
Lunedì 8 maggio, l’autopsia. Vi assiste l’avvocato Giovanni Sorbi,
ex-magistrato, militante del Manifesto. «È stato un trauma. Un corpo massacrato,
al torace, alle spalle, al capo, alle braccia. Tutto imbevuto di sangue. Non
c’era neppure una piccola superficie intoccata. Ho passato una lunga notte di
incubi».
Il cadavere di Serantini è rimasto a lungo nudo, il suo vestito era stato
sequestrato per la perizia e lui non ne possedeva un altro. Un amico ha portato
una giacca, un paio di pantaloni e una rosa rossa.
Martedì 9 maggio, i funerali. I giovani repubblicani e gli anarchici della
Toscana, i più anziani con il cravattone nero. I comunisti e i ragazzi con i
berretti alla Mao. La corona della giunta comunale, portata dai vigili urbani. I
detenuti del Don Bosco hanno mandato margherite. Lotta continua con un enorme
striscione rosso: «Franco rivoluzionario anarchico assassinato dalla "giustizia"
borghese». Soriano Ceccanti sulla sedia a rotelle spinta da due ragazze con il
fratello Sauro. L’ingegner Podio Guidugli. Luciano Della Mea. Renzo Vanni, il
professore che gli prestava i libri.
L’orazione funebre la tiene un vecchio anarchico, Cafiero Cinti, ferroviere in
pensione; ardito del popolo nel ’21, licenziato dal regime nel ’24. Si canta l’
Internazionale. Stajano cita un passo di Kaminski tratto da Quelli di
Barcellona: il funerale di Buenaventura Durruti
(Barcellona, novembre 1936). E un brano di Giovanni Raboni, da Le bombe di
Milano: il funerale di Giuseppe Pinelli (Milano, dicembre 1969).
Sabato 13 maggio Adriano Sofri tiene un comizio di fronte al San Silvestro,
l’istituto di Serantini. Per Lotta continua, Franco è il nuovo Pinelli.
Anarchico, massacrato dai questurini, lasciato morire. L’accostamento è
esplicito. «Noi non siamo venuti a gridare slogan o a ripetere la vecchia verità
che la polizia assassina i compagni in lotta» dice Sofri. «Noi siamo venuti ad
affermare una forza e a chiarire un programma di lotta. A dire che, come il
ferroviere anarchico Pinelli non era solo, così lo studente rivoluzionario
figlio di nessuno Serantini non era solo. A dire, a chi nel suo opportunismo
mascherato da nobile e imparziale cordoglio ci accusa di “strumentalizzare”, che
noi strumentalizziamo Pinelli e Serantini, perché Pinelli e Franco, e ogni altro
compagno rivoluzionario, sono, da vivi e da morti, strumento cosciente e
volontario di una lotta collettiva, la lotta per il comunismo».
Al termine del comizio, secondo l’accusa di Leonardo Marino e i giudici che
l’hanno avallata con le sentenze di condanna, Sofri avrebbe ordinato l’omicidio
dell’uomo che da due anni e mezzo Lotta continua addita come l’assassino di
Pinelli.
Luigi Calabresi vivrà ancora quattro giorni.
(…)
Aldo Cazzullo
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