postato su internet, 5 aprile 2010
Ha sistematicamente
distrutto il partito
Pierangelo
Buttafuoco
Un Pierangelo Buttafuoco tutto da
leggere (è lungo lo so ma forse ne vale la pena). l’analisi di chi
conosce come pochi il mondo della destra italiana (quantomeno per
averlo vissuto dal di dentro), se per destra intendiamo quel che
rimane di AN. Che dà voce come pochi alla disillusione di chi
assiste con perplessità e disincanto -insieme a diffidenza,
disorientamento, dubbio, incertezza e incredulità- alla svolta
finiana, chiarendo per l’ennesisma volta, per chi ancora continua a
far finta di non capire, chi stia dietro la “rivoluzione liberale e
libertaria” della fronda finiana. E disegnando da par suo il
trasformismo dei rautiani di ieri, oggi grigi proconsoli fedelissimi
al co-capo.
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Se la Lega è rimasta fedele a se stessa, la destra, a partire dalla svolta di
Fiuggi, ha sistematicamente distrutto “il partito”. E questo non l’ha fatto per
veicolare libertà tra i propri aderenti ma per cinturare un leader e
scimmiottare una contraffazione della società civile ritenendo ogni militante un
pezzo di mondo da lasciare alla deriva. Perpetuando così “un senso di
inferiorità”, così diceva Beppe Niccolai, “che ha fatto sì di non cercare
risorse al proprio interno ma fuori dai confini”.
Da Fiuggi in poi [...] è venuto meno il contatto carnale con il territorio, con
l’attivismo, con la base, con qualsiasi cosa che abbia a che fare con la
selezione di una classe dirigente, con la convocazione di un congresso, [...] la
Destra, oltre alla buona volontà di guastatori intercettati dalla polemica
giornalista, ha seminato questa malinconica stagione del berlusconismo in crisi
di grigi proconsoli fedelissimi al co-capo, ovvero quel Fini, altrettanto capo
carismatico ma che a differenza del senatore Bossi, non ha ancora attratto a sé
uomini autonomi, progetti e un fare presente che non sia la generica adesione
alla Costituzione, al patriottismo repubblicano e alla corrente elencazione dei
propositi assai in voga nell’antiberlusconismo così da guadagnare buona stampa e
niente più. Un dato, questo dell’aver buona stampa, con il quale si rivela
l’abolizione della passione senza sostituirla con l’intelligenza.
In principio fu la scoperta degli Hobbit, dopo di che gli altri cominciarono a
scoprire “il noi” contenuto nella parte di mondo chiamata “destra”. Un modo di
stare insieme secondo un alfabeto fatto di saghe, epiche, maghi, minuscoli
guerrieri, foreste infestate di orchi e fiammeggianti sovrani della luce.
Stupidaggini, forse. Proiezioni adolescenziali, magari. E tutto ciò fu rubato
dalle pagine di Tolkien pur di non perpetuare il rancore di una pesante eredità:
la sconfitta militare e un Dopoguerra eterno annodato al collo peggio di un
cappio da cui penzolare nella certezza inamovibile dell’inutilità di stare al
mondo. Figurarsi quanto utile, invece, per la destra, era quel tentativo di
stare nella scena politica. Qualcuno ci lasciava la pelle. Era ancora il tempo
in cui c’era il regime e l’arco costituzionale. Si faceva la lotta al sistema.
Non era più sufficiente risolverla con la colla e il secchio
dell’attacchinaggio. Bussava alle spalle della giovinezza – Giovinezza! – il
mito più che capacitante di farla finalmente estetica, la battaglia politica: e
giù con i Campi Hobbit, allora.
Sono i raduni di una destra “anni Settanta”, non propriamente una replica di
Parco Lambro, neppure una presa di Fiume, piuttosto un esperimento riuscito di
“destra”: comunitarista e non democratica, libertaria e non liberale, militante
e non militarista, plurale e non occidentale, creativa e non museale e perfino
anche musicale. Succedeva questo in Italia quando tutti, con faciloneria,
pensavano fossero solo addestramenti paramilitari quelli dei Campi Hobbit dove,
in luogo di confrontarsi “con l’egemonia degli altri paradigmi culturali”, poter
sfoggiare Ray-Ban e scarpe a punta. Furono – insieme a tanti convegni e al
proliferare di riviste intellettuali tra le quali Elementi e Diorama Letterario
– l’apice della Nuova Destra. E qualcosa di ancora più nuovo, a destra, dopo
quell’esperimento che vide in Marco Tarchi l’animatore e il leader, non c’è più
stato. Fu l’unico momento in cui la destra entrò in un mondo dal quale si era da
sempre “autoesclusa”.
A maggior ragione con una “destra” al governo. Esclusa comunque. Nulla è mutato
rispetto al passato. Per dirla con Tarchi, “la destra non sapeva partorire
niente che andasse al di là di una produzione intellettuale di seconda scelta,
una sub-cultura (in termini gerarchici), come qualcosa che si collocava sotto il
livello della cultura vera”. E ancora adesso, malgrado il governo del paese, è
così.
E fin qui ce la caviamo con i modi del prologo. Le cose della teoria hanno i
piedi per camminare e siccome tempo n’è passato da allora, il filo si riannoda a
partire dall’attualità. Ecco: comunque vadano le elezioni, la destra – per come
ha cristallizzato la propria fisionomia – è arrivata alla sua ultima fermata, e
l’atto finale si rivela già nell’impossibilità di fare futuro (e non è un gioco
di parole) oltre l’ombrello del berlusconismo.
La destra-destra, qui s’intende. È quella derivata dalla doppia mutazione da
Alleanza nazionale in Pdl e, da questo, poi, in quel che è diventato il
laboratorio della fronda finiana. Domanda delle domande, però: perché, facciamo
ad esempio, la Lega di Umberto Bossi è cresciuta e si è evoluta senza farsi
vampirizzare da Silvio Berlusconi – anzi, sovrastandolo ma aiutandolo non poco –
mentre al contrario la destra è risultata solo un inciampo e si è dissolta
nell’abbraccio con Forza Italia, anzi, creando non pochissimi disastri per
sparire senza resti e senza eserciti?
La destra-destra non avrà futuro fuori dell’epoca berlusconiana. Magari esisterà
la parola è sarà una qualsiasi immondezza di tipo nevrastenico pop (esempi,
purtroppo, non ne mancano a furia di isterie xenofobe e occidentaliste) ma la
destra derivata dalla tradizione culturale della vena ghibellina, quella della
Tradizione, quella, insomma, risorgimentale del liceo classico, della caserma e
di Guglielmo Marconi, non troverà più modo di essere contemporanea al proprio
tempo per manifesta incapacità di disegnare, innanzitutto, il presente.
Cerco, intanto di dare a me stesso la risposta alla domanda di prima: la Lega
vince perché è prassi. Tanto per cominciare il Carroccio, che pure nasce da una
comunità a guida carismatica, rende tutti gli onori al capo ma ha messo in campo
fior di campioni quali Roberto Maroni – quello che materialmente sta sfasciando
la mafia e la camorra –, quindi Tosi, sindaco di Verona (uno che non teme il
paragone con la celebrata tradizione amministrativa delle municipalità rosse,
tanto è bravo), quindi ancora un ottimo ministro come Zaia e poi ancora curiosi
e ghiotti incursori della cultura, magari sconosciuti al pubblico altero dei
grandi quotidiani, ma di solida tempra (sia consentita l’espressione)
spirituale. Sono quelli di “Terra Insubre”. Personalmente li ho incontrati in
una tavolata degna dei banchetti di Asterix e Obelix, anzi, degna dei Campi
Hobbit. Ad un certo punto della discussione hanno iniziato a fare una sana
litigata e se in quello stesso momento, a Capalbio, qualcuno stava accalorandosi
sulle “Mine vaganti” di Ozpetek, questi almeno se le stavano ragionando le
questioni a proposito del concetto di divenire: si dividevano tra hegeliani ed
eraclitei. Con tanti saluti all’egemonia culturale.
E tanto per gradire, poi, la Lega che predica male con parole d’ordine ai
confini del razzismo e dell’islamofobia, razzola poi benissimo se si pensa che
quel fantastico Gentilini, pro sindaco di Treviso, è quello che meglio di un
qualsiasi prete di frontiera ha saputo gestire l’immigrazione nella sua Alabama
della Marca se è vero che più del 20 per cento delle partite Iva sono dei
regolari extracomunitari. Gentilini è – giusto perché la Lega è sangue di popolo
– quello che va a prendersi il tricolore di Cesare Battisti, la bandiera
dimenticata nella tazza del cesso da Umberto Bossi, per stringerselo al proprio
collo di vecchio alpino.
La Lega è prassi mentre la Destra è tentativo senza essere pensiero, questa è
l’unica risposta possibile al perché tutto quel lavoro dei Pinuccio Tatarella e
dei Beppe Niccolai (sul piano politico) e dei Domenico Fisichella e dei Marco
Tarchi in illo tempore (di quest’ultimo, appunto, e del suo nuovo libro adesso
parleremo) sia infine sfumato nel fallimento del Pdl. E il dramma è doppio
perché anche a dover vincere le elezioni regionali, il Pdl, il partito nato
dalla fusione tra Forza Italia e quel che restava di AN intorno alla figura di
Gianfranco Fini, è crepato. Se la Lega ha approfittato dell’opportunità del berlusconismo per realizzare i propri capitoli
-sia esso il federalismo,
l’immigrazione o la conquista del Veneto- la destra, al contrario, in Silvio
Berlusconi -fatta salva la schiera lealista e faticatrice di Maurizio Gasparri- ha avuto un padrone cui riservare solo coltellate. Non a caso Bossi, dal palco
di piazza S. Giovanni, indicando il Cavaliere ha detto: “A lui io non ho mai
chiesto una lira”. Se la Lega è rimasta fedele a se stessa, la destra, a partire
dalla svolta di Fiuggi, ha sistematicamente distrutto “il partito”. E questo non
l’ha fatto per veicolare libertà tra i propri aderenti ma per cinturare un
leader e scimmiottare una contraffazione della società civile ritenendo ogni
militante un pezzo di mondo da lasciare alla deriva.
Perpetuando così “un senso
di inferiorità”, così diceva Beppe Niccolai, “che ha fatto sì di non cercare
risorse al proprio interno ma fuori dai confini”. Da Fiuggi in poi, sempre con
l’eroica eccezione della sim telefonica di Gasparri dove ancora vive un sano
nocciolo identitario, è venuto meno il contatto carnale con il territorio, con
l’attivismo, con la base, con qualsiasi cosa che abbia a che fare con la
selezione di una classe dirigente, con la convocazione di un congresso, meno che
mai con il movimentismo creativo e metapolitico di un Campo Hobbit. E, dicendo
questo, la prendo alla larga per arrivare al punto.
Se la Lega ha incoraggiato al proprio interno la crescita di figure autonome
(anche al costo di oscurare il capo), la Destra, oltre alla buona volontà di
guastatori intercettati dalla polemica giornalista, ha seminato questa
malinconica stagione del berlusconismo in crisi di grigi proconsoli fedelissimi
al co-capo, ovvero quel Fini, altrettanto capo carismatico ma che a differenza
del senatore Bossi, non ha ancora attratto a sé uomini autonomi, progetti e un
fare presente che non sia la generica adesione alla Costituzione, al
patriottismo repubblicano e alla corrente elencazione dei propositi assai in
voga nell’antiberlusconismo così da guadagnare buona stampa e niente più. Un
dato, questo dell’aver buona stampa, con il quale si rivela l’abolizione della
passione senza sostituirla con l’intelligenza. Machiavellica va da sé. Ecco,
parliamo di Tarchi. Politologo estraneo a qualsivoglia destra, ieri ideatore
della più entusiasmante stagione della destra-destra (tanto da averla fatta
nuova e – soprattutto – disarmante rispetto agli anatemi e ai luoghi comuni del
patriottismo costituzionale di allora immutato rispetto a quello di adesso),
Marco Tarchi che è uno studioso di provato spessore ha saputo scrivere un libro
con la serietà propria di chi vive con distacco una stagione di cui fu il
principale attore. Fu lui, infatti, a vincere un congresso contro Gianfranco
Fini che dovette ricorrere a Giorgio Almirante per farsi nominare comunque alla
guida del Fronte della gioventù. Poiché la storia non si fa con i se, non
perdiamo di certo tempo ad immaginare cosa sarebbe diventata la destra-destra
se, giusto in quel frangente, con la leadership di un Tarchi non si sarebbe
certo attardata con il vecchio armamentario: perfino “il Fascismo del 2000!”.E
però, il “capire cosa potesse spingere i ragazzi che frequentavano le sezioni
missine a intestare un loro raduno nazionale a un personaggio fiabesco”, è
un’operazione di analisi culturale urgente specie se quasi tutta la schiera di
chi era giovane allora, al fianco di Tarchi, adesso stia con Fini, su posizioni
che l’attuale presidente della Camera ieri osteggiava e che oggi, al contrario,
sostiene. E l’ultimo libro di Tarchi, “La Rivoluzione impossibile. Dai Campi
Hobbit alla Nuova Destra” (edizioni Vallecchi, euro 18,00), è un perfetto
candaglio per rischiarare una stagione altrimenti dimenticata, specie se solo
attraverso questa si può capire il come, il perché e il come mai la
destra-destra di oggi al governo – pur con tutti quei protagonisti, Alessandro
Campi, Luciano Lanna, Flavia Perina, Umberto Croppi, Adolfo Urso e gli altri
rautiani derivati da quella stagione – abbia esaurite tutte le sue potenzialità.
Era un giocattolo che doveva entrare per forza nella storia della destra, quello
della Nuova Destra e con i Campi Hobbit a far da sfondo non c’è un dettaglio da
scapestrati, ma la strategia metapolitica, l’unica che potrebbe definitivamente
forgiare la destra senza per questo sfinire d’agguati un Berlusconi che il
merito fondamentale lo ebbe: porgere l’ombrello alla cui ombra rendere fresca
l’assolata solitudine di tanti. Sarebbe opportuno che, in sede di analisi e di
confronto, si ricominciasse da quella stagione. Scrive Tarchi: “Le eredità
ideologiche sono sempre più frequentemente rifiutate dai beneficiari e i segni
delle identità originarie vengono cancellate per non creare imbarazzi negli
interlocutori”. Non è il caso degli Hobbit. Nessun imbarazzo deriva dai giorni
di Castel Camponeschi e di Montesarchio (alcuni dei luoghi che videro i raduni),
tanto meno possono essere dimenticati i convegni della ND dove arrivavano anche
intellettuali fuori area come Massimo Cacciari. Sarebbe, appunto, opportuno che
si riprendesse quel filo. E che i temi proposti allora – comunità solidale,
critica al liberalismo, identità plurale, la paganitas perfino – trovassero
finalmente i propri tempi, questi nostri. Altrimenti ci sarebbe un’ulteriore
domanda, questa: perché il partito democratico è nato e l’altra cosa lì, una
destra-destra, invece, no?
via Destra, ultima fermata – [ Il Foglio.it › La giornata ].
Si spera che non venga rapidamente incluso, dal fighettino di turno, ovviamente
attrezzatissimo culturalmente e che da qualche tempo pullula pure da questa
parte politica – “ottimo”, recente acquisto… quelli che sanno sempre tutto e
hanno capito tutto con largo anticipo, quelli del lento e inserabile tramonto
per intenderci – tra gli “ossessionati” che odiano il futuro e ineludibile (o
ineluttabile?) capo. Quelli che non usano mai incidentali. E che le recenti
elezioni regionali sono state, innegabilmente, una incredibile e come ampiamente
previsto (da loro e da Bersani) sconfitta per Berlusconi e per il centrodestra
tutto.
Pierangelo
Buttafuoco
postato su internet, 5 aprile 2010
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