dal "Secolo d'Italia", 19 dicembre 2009
Una raccolta di scritti
dell'esponente missino curata da Vito Orlando
consente di riscoprire a
vent'anni dalla morte
la sua grande capacità
di sintesi politico-culturale |
Gli anni ottanta nella
visione di Beppe Niccolai
di Raffaele Iannuzzi
Si parla del socialismo tricolore
approfondito a Giano Accame
Emerge poi il grande ruolo che
svolse papa Wojtyla |
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Quando Craxi invitava
Fini al congresso
del PSI e il PCI stava
con gli ex azionisti
di Norberto Bobbio
e con la DC di Andreotti |
Leggere "Scritti e discorsi di Beppe Niccolai", nell'antologia curata da Vito
Orlando, per i tipi della Società Editrice Barbarossa (pp. 200, € 15,00), ci ha
smosso le corde interiori, come ci era già capitato a contatto con le profetiche
pagine del documento congressuale missino "Segnali di vita" del lontano 1984. Ma
stavolta il moto delle corde interiori ha un'altra sponda, un altro codice
narrativo, si inscrive in un'altra ermeneutica. Abbiamo rivisitato mentalmente
alcuni giudizi che si sono rovesciati, nel corso della lettura, in cartine di
tornasole e criteri di verifica della verità storica di certe posizioni di
«socialisti della libertà», come amava ripetere e scrivere Gianni Baget Baget
soprattutto negli articoli dedicati a Bettino Craxi.
Il decennale della morte del leader socialista, il prossimo 19 gennaio, sarà,
tra un mese esatto, una data-cardine, un punto di non ritorno, per andare
avanti. Ci accorgiamo oggi -con la serenità che conquista e conforta le scoperte
rivelatrici di quel che si è, da sempre- di avere avuto le corde intimamente
collegate all'anima di Niccolai, pur avendo storie diverse, per ragioni
anagrafiche e per vicissitudini personali e radici politiche. Ma si tratta pur
sempre di una etica dell'alterità che non confonde spazi e tempi, ma interviene
per aiutare l'oggi ad essere più marcato dal futuribile. Il futuro viene dal
futuro, scriveva nel 1982 Baget Bozzo in un aureo libretto che scrutava il
futuro della DC nei nuovi segni dei tempi. La casa editrice: Editori Riuniti,
quella del PCI, che legava Fortebraccio alla vicenda di Niccolai e che ha legato
noi, provenienti da sinistra, al libertarismo. Futuro e radici-memoria, per
dirla con il lessico di Niccolai. Il tema è il fascismo, diceva Niccolai alla
fine degli anni Ottanta.
Craxi invitava Fini al congresso del PSI e il PCI stava con i borghesi ex
azionisti, con Bobbio e con la DC di Andreotti. Niccolai diagnosticava il male e
lo faceva -udite udite- da uomo di sinistra. Con un'idea della libertà
-comunitaria e nazionale- tipicamente riflessa nello specchio spesso del
socialismo patriottico. Tant'è vero che basta leggere: «Il socialismo o è
nazionale o non è». Niccolai rilegge la Kuliscioff che strapazza a dovere
Turati, senza penare e consumarsi in pruderie nei confronti del suo compagno di
vita; la socialista rivoluzionaria voleva che il dovere dei socialisti fosse
innanzitutto quello «di combattere per la liberazione del proprio Paese».
Non fa una grinza, l'argomento, che non confligge con lo spirito del Mussolini
anarco-socialista e scissionista. Il "socialismo tricolore" fu
contemporaneamente elaborato anche da Giano Accame -amico e interlocutore di
Baget Bozzo- e il mallevadore politico del progetto culturale e politico aveva
allora un nome ben definito: Bettino Craxi. E in questo anno 2009, nonostante
tutto, siamo ancora a questo punto di svolta. Perché gli anni Novanta, con
l'equivoco post-comunista saldato al mercatismo liberistico-deterministico
(Tremonti, socialista amico di Rino Formica, l'ha capito meglio di altri).
Niccolai aveva l'ossessione dell'autonomia nazionale dell'Italia, che voleva
Paese libero e indipendente nel gioco multipolare europeo e internazionale.
Bene, oggi avrebbe riletto questa sua magnifica ossessione con il post-factum di
Tangentopoli. E dubitiamo che avrebbe scritto cose diverse dalle nostre. Del
resto, con la sua follia di poièta del linguaggio e navigatore nel mare aperto
della storia, oltre e attraverso ogni contingenza, l'ex prigioniero
non-cooperatore (detenuto in Texas con Tumiati, Burri e Berto) aveva capito bene
la natura del PCI, un vero partito borghese, alleato oggettivamente con il PRI
di Ugo La Malfa e la DC di Giulio Andreotti. Mai e poi mai con Randolfo
Pacciardi, che perse un congresso con La Malfa (Ravenna 1961).
Ma anche questa è stata l'Italia, quella dei furbi. Il giudizio toglie le
contingenze anche in questo caso: «Non crediamo al cosiddetto realismo dei furbi
che sottovalutano la forza delle convinzioni». E ancora: «Spesso la furbizia
toglie l'intelligenza e il coraggio, due doti indispensabili per vedere bene le
cose, per vedere lontano». Senza una "mente eroica" -siamo sicuri che un
filosofo come Ralph Waldo Emerson sarebbe piaciuto non poco a Niccolai- non si
va da nessuna parte. Dopo il terrorismo, frutto del "sistema" che vuole
scannamenti di parte per stabilizzare i soliti noti ai posti di comando, è l'ora
della crisi dei partiti, che non è cronaca di oggi, sia chiaro: «I partiti sono
questi. Non ci crede più nessuno. Si scelgono per convenienza e ci si sta per
curare la propria trippa. E, in nome della trippa, si delegano i pochi a
decidere per tutti. Per il resto mi prendo le indennità, doppie pensioni… Il
tutto alla condizione che non pensi, che non venga fatto di alzare il dito e di
obiettare. L'unica cosa a cui sono tassativamente tenuto è di schiacciare il
bottone della votazione, così come stabilito altrove e dalle teste che contano.
Il verbale riporterà: presente, e tutto è a posto! Più schiacci bottoni e più
sua maestà il partito ti sarà riconoscente. Anche se sei un cretino!». Scritto
il 7 gennaio 1989. Sembra di oggi, fresco di stampa. Erano già, questi, "tempi
postmoderni"? Sia come sia, era già la crisi dell'età post-rivoluzionaria che
non aveva metabolizzato le sconfitte storiche delle grandi rivoluzioni. Un mondo
che aveva visto la luce, con la democrazia neoborghese posticcia, dopo Piazzale
Loreto, la "barbarie", sottolinea giustamente Niccolai, mettendo a confronto la
fine di Mussolini.
Ma chi perde ha sempre torto e la guerra civile combattuta fra gli italiani non
rende ciò meno vero. Si possono anche proclamare verità sacrosante -come la
Fiat, azienda protetta e parassitaria- ma si è sempre "fascisti". Lo diceva
anche Craxi e infatti era l'Uomo Nero con il fez e gli stivaloni... Vuoi
demonizzare qualcuno, in Italia, anche oggi? Dagli del "fascista" e sei sempre a
posto. Antonio Di Pietro lo spiattella in faccia ai suoi nemici a destra e a
manca, basta la parola…
Ma, intanto, la realtà era la realtà, e tra le sue pieghe si scoprono dettagli
non irrilevanti: «Gli ascoltatori alle conferenze stampa dei segretari di
partito in televisione: 1974, 17 milioni di ascoltatori; 1989, un milione e
mezzo di ascoltatori». C'erano mutamenti epocali in corso, il comunismo stava
cedendo irreversibilmente, solo in Italia l'operazione al ribasso dei
post-comunisti cercava di fare lo slalom gigante tra il socialismo craxiano
(l'unità socialista) e il massimalismo dei nuovi sconfitti. Risultato: il
partito radicale di massa con addentellati "mercatisti", la vera tigre di carta.
Nessuno aveva d'altra parte un papa Wojtyla dalla sua -neanche la Democrazia
cristiana, che aveva condotto al "nichilismo" l'Italia (don Giussani definiva la
DC «un partito laicista»)- e solo la Chiesa era la Chiesa: «Tutti hanno gli
occhi puntati su Gorbaciov, come colui che ha messo in moto gli arrugginiti
meccanismi della Storia atti a mutare il volto dell'Impero sovietico. A mio
modesto parere, Chi ha fatto da acceleratore (c'è la maiuscola, si badi, nel
testo) al processo che stiamo vivendo è il Papa polacco». Punto e a capo. Quando
si dice chiarezza di giudizio. C'è, in questa collazione di testi, anche la
polemica con il settimanale ciellino "Il Sabato" che dava del massone a Giuseppe
Mazzini. No e ancora no, si scaldava con acuta ragionevolezza Niccolai, Giuseppe
Mazzini era un cristiano mistico e patriota, rigoroso e anti-massone, insomma,
vi è una miniera da esplorare in questa fucina di generatività politica e
antropologica. Ma un passaggio dobbiamo citarlo, infine.
È l'incipit dell'intervento al XIII Congresso del MSI-DN, del 21 febbraio 1982:
«Due mozioni sembrano guidate da un sociologismo esasperato la prima e da un
umanismo individualistico venato da destra all'inglese la seconda, e ambedue non
individuano il "male oscuro" che ci circonda, cioè che la crisi che ci
attanaglia è di ordine religioso. E con crisi a religiosa non va inteso il Dio
trascendente, ma soprattutto la religiosità dei nostri rapporti politici, dei
rapporti interpersonali che nei nostri congressi si è sostanziata in una vistosa
divaricazione fra giovani e anziani circa la concezione della vita e del mondo».
Et de hoc satis.
Raffaele Iannuzzi |