dal sito "Rinascita"
(http://www.rinascita.info)
Fazio indagato
Stelvio Dal
Piaz
Come noto, adesso la notizia è ufficiale: il Governatore della Banca d’Italia è
indagato dalla Procura di Roma per «abuso d’ufficio nell’ambito dell’inchiesta
su Antonveneta», reato penale previsto per i “pubblici ufficiali“.
E qui, a mio parere, sorge un problema in quanto la Banca d’Italia non è più un
ente di diritto pubblico e pertanto l’imputazione al vertice dell’Istituto
dovrebbe avere, nella circostanza, altre motivazioni giuridiche. C’è il
precedente di anni fa in cui il governo dell’epoca si affrettò a trasformare
banche ed istituti di credito aventi le caratteristiche giuridiche di enti di
diritto pubblico, in società per azioni, proprio per sottrarre la dirigenza di
questi istituti all’azione penale. Praticamente con tale meccanismo la stessa
Banca d’Italia, attraverso la trasformazione dei suoi maggiori azionisti di
riferimento, divenne di diritto e di fatto un ente privato. Ma non solo: voglio
anche dimostrare -con esempi concreti- che il mito della Banca d’Italia super
partes nella sua funzione di vigilanza, di regolatrice del credito e di
tutelatrice del risparmio, è un falso mito che si perpetua fin dall’immediato
dopoguerra.
Occorre rifare un po’ di storia, ad uso della memoria corta della maggioranza
degli italiani, per comprendere la genesi di queste trasformazioni nate
dall’esigenza di nascondere l’intreccio mafioso tra la finanza, gli affari e la
politica. Per ricostruire i fatti mi
affido alle notazioni precise e puntuali dell’On.le Beppe Niccolai, un
accusatore sempre molto documentato, mai smentito e senza scheletri negli armadi.
Prendo ad esempio alcuni periodi in cui scandali clamorosi hanno avuto forti
ripercussioni negative sulle finanze statali, sull’intera economia del paese
Italia e sui risparmi dei cittadini.
Siamo nei primi mesi del 1979 e i politici di turno sono molto preoccupati delle
indagini della magistratura su affari poco puliti e trasparenti. È un coro
unanime: qui si sputtana il buon nome dell’Italia all’estero. Non è ammissibile
che dei magistrati per indagare sulle ruberie dei politici mettano sotto
processo il vertice della Banca d’Italia. È un atto di eversione, e occorre fare
quadrato. Il coro è unanime, dal ministro del Tesoro agli economisti, da
Scalfari a Luciano Lama, da “Il Corriere della Sera” a “l’Unità”, dai partiti
dell’arco costituzionale ai sindacati. Qui si vuole la fine della democrazia!
Cosa era successo? Si era toccato il petroliere Rovelli ed i suoi protettori, in
quanto Rovelli non significava soltanto il vertice della Banca d’Italia, ma
soprattutto Andreotti, Giacomo Mancini, Giovanni Leone, il comunista Napoleone
Colaianni. Ecco perché tutti entrano in fibrillazione, da Carli ai comunisti, da
Scalfari ad Agnelli.
Il più agitato è il senatore Nino Andreatta. Quali erano all’epoca, i meriti di
cotanto economista? Il finanziere americano Bernard Cornfeld, poi finito in
galera in Svizzera, entra in Italia e rastrella denaro con i fondi di
investimento, presentandosi con il biglietto da visita dell’economista Nino
Andreatta. Poi il dissesto e la galera. Il dissesto di parte italiana viene
coperto dall’IMI di cui è consigliere lo stesso Andreatta. Nella circostanza
prima richiamata, l’Andreatta strepita in difesa del vertice della Banca
d’Italia, ma in realtà è un falso scopo perché la sua solidarietà è tutta per il
petroliere Rovelli. Millecinquecento miliardi Rovelli li pompa all’IMI; tanto
denaro pubblico viene concesso anche quando i rapporti dei tecnici dell’IMI
sconsigliano l’affidamento anche di una lira al petroliere brianzolo.
Naturalmente Andreatta è nel consiglio di amministrazione dell’IMI e presidente
è il Cavaliere del Lavoro Giorgio Cappon, poi inquisito per peculato per «aver
finanziato in modo dissennato la SIR di Rovelli».
Se si vanno a sfogliare gli annuari prima che Andreatta venisse eletto senatore,
troviamo che l’illustre personaggio si fa chiamare Beniamino, Mino e Nino, a
seconda che figuri in un consiglio di amministrazione, o su una cattedra
universitaria, o in un incarico politico. Nonostante che Andreatta sia poi
coinvolto per peculato nello scandalo SIR, la DC lo vuole al governo e
nientemeno che al Bilancio. Nel sostegno a Rovelli gli fa eco tutta la
plutocrazia cartacea e demagogica pilotata dal presidente della Confindustria
Guido Carli, ex-governatore della Banca d’Italia. (nota di colore: Rovelli viene
anche nominato “Cavaliere del Lavoro“ per le sue attività nel campo della
chimica).
Le fortune di Rovelli hanno una data ben precisa: l’assunzione da parte della
SIR del dott. Stringelli, marito di una sorella di Guido Carli. Per la
precisione: Rumianca vuol dire SIR, SIR vuol dire Rovelli. E alla Rumianca
vengono assunti, governatore della Banca d’Italia Guido Carli, l’ing. Carli
figlio del governatore e il prof. Liuzzo che è il genero. Così va il mondo. Nel
frattempo il governatore Carli è spesso in televisione a fare il predicatore;
nessuno gli chiede se conosce -per caso- il Rovelli: Carli non si tocca, da
presidente della Confindustria è sostenitore dell’ingresso dei comunisti al
governo per salvare l’Italia e basta questo per garantigli l’impunità.
Sul personaggio scrive Niccolai: «Lo
definiscono uomo di dottrina, rigoroso nei comportamenti, aperto ai problemi del
tempo moderno. Per noi resta un personaggio ambiguo, pericoloso, intrigante, di
una ambizione scatenante, alla quale sacrificare tutto».
Occorre anche ricordare gli stretti rapporti e le complicità tra Carli,
governatore della Banca d’Italia, e il Ministro del Tesoro Colombo, ed è proprio
sotto di lui che maturano le condizioni della frana della spesa pubblica. Prima
che Colombo andasse a Bruxelles i due si incontravano tutte le sere.
«Due anime in un nocciolo -scrive
Niccolai- o meglio culo e camicia».
Il 24 marzo 1972 la Banca d’Italia invia un rapporto alla Procura di Milano
avente per oggetto: le banche di Sindona. Ci sono -dice l’organo di vigilanza-
vistose irregolarità. Si provveda. Febbraio 1973, l’Organo di vigilanza insiste
con un secondo rapporto. Tutti zitti. Si arriva così al 29 luglio 1974. Siamo al
crollo.
Eppure il governatore della Banca d’Italia Guido Carli, che -ovviamente- doveva
conoscere le denunce presentate e che era perfettamente al corrente che il
crollo era imminente, autorizza che le due banche di Sindona (sotto inchiesta!)
vengano riunite in un nuovo istituto chiamato Banca Privata Italiana (quante
coincidenza con quello che è successo in quest’ultimo periodo!). Dopo appena due
mesi tutto in liquidazione, ma il governatore resta al suo posto.
Ma non è finita qui. Sindona trasferisce parte delle sue attività in America
convogliandole sulla Franklin National Bank, di cui è il maggiore azionista. La
Franklin va al fallimento Per tamponare il disastro della Franklin e delle
banche italiane di Sindona, il Banco di Roma, su diretto interessamento del
vertice democristiano e con la supervisione della Banca d’Italia, in piena
stretta creditizia ed in piena restrizione alla esportazione di valuta,
attraverso la filiale di Nassau nelle Bahamas, mette a disposizione di una
società di comodo di Sindona, ben 100 milioni di dollari. Più di 90 miliardi
vanno a finire negli Stati Uniti d’America. Insomma il contribuente italiano
indennizza gli americani per i bidoni di Sindona. E questa elargizione, avviene
-Guido Carli consenziente- mentre migliaia di aziende stanno languendo sotto una
feroce stretta creditizia.
Veniamo adesso ad illustrare lo scontro fra la finanza vaticana e quella
massonica (la storia si ripete regolarmente!). Il Banco di Roma, su cui
l’influenza vaticana data dal dopoguerra pur essendo una Banca dell’IRI, con
l’operazione Nassau fa un buon affare. Oltre accontentare coloro (Andreotti e
Fanfani) che lo avevano invitato e sollecitato ad intervenire a favore di
Sindona, incamera come garanzia per l’operazione, l’Immobiliare e le banche di
Sindona che, non lo si dimentichi, hanno gli sportelli a Milano. È indubbiamente
una operazione vantaggiosa (anche per le finanze vaticane). E ciò non può star
bene alla parte “laica“ in particolare a quella massonica. Anche perché, così
restando le cose, Sindona è sì sconfitto, ma gli si evita di comparire davanti
alla giustizia penale.
A questo punto si muove Cuccia, amministratore delegato di Mediobanca, che
impone a Petrilli, presidente dell’IRI, di richiamare il Banco di Roma a non
prestarsi al salvataggio di Sindona e, nello stesso tempo a Guido Carli, di
dichiarare il crack definitivo dell’impero finanziario dell’uomo di Patti (a sua
volta sostenuto dagli alleati -guarda caso- fin dallo sbarco in Sicilia nel
1943).
E così avviene: come al solito a rimetterci sono i risparmiatori italiani. Carli
rimane in sella.
A levarlo dai guai, inizialmente, ci pensa Andreotti che, al momento del crack,
storna l’attenzione degli italiani dal caso Sindona al cosiddetto “golpe
Borghese“. È il momento in cui Andreotti, con una piroetta di 360 gradi passa a
sinistra e vende alla stessa parte, con le FF.AA. di cui è ministro, i Servizi
di Informazione. L’ombrello comunista si apre su Andreotti e su Carli che,
divenuto presidente della Confindustria, proporrà -come già citato «per salvare
l’Italia»- che i comunisti siano chiamati al governo. I comunisti ringraziano e
fanno silenzio anche sull’altra vicenda sindoniana, quella cosiddetta dei «500»,
cioè di coloro che, politici di vertice, sindacalisti di fama nazionale, uomini
d’affari legati alla politica, avendo investito denari nelle banche di Sindona
corrono il rischio di perderli nel fallimento.
Che fare? È il 28 agosto 1974 e alla Banca d’Italia è in corso una riunione
importante. La presiede il governatore Carli. Oggetto: i soldi dei «500», cioè
trovare il modo di far rientrare i «500» personaggi in possesso dei denari
investiti nelle banche di Sindona. Cosa si inventa? Dato che c’è da «tutelare
all’estero» l’immagine del sistema creditizio italiano, la Banca d’Italia
autorizzerà, in Svizzera, ai diretti interessati, il rimborso del denaro. I
nomi? Carli li conosce (e non solo lui!) ma: acqua in bocca.
Proprio mentre più proterve erano le grida di regime contro la magistratura
-ritenuta colpevole di aver affermato il principio che la legge è uguale per
tutti (e quindi anche per i vertici della Banca d’Italia!)- veniva pubblicato
l’elenco dei nuovi sottosegretari dello sfiduciato governo: Marina Mercantile:
Ciampaglia Alberto (accusato di stato di corruzione per atto contrario ai doveri
d’ufficio - autorizzazione a procedere non concessa ); Finanze: Giuseppe Amadei
(durante una perquisizione negli uffici dell’ITALCASSE vengono trovati documenti
sufficienti per incriminarlo di corruzione aggravata e frode di natura fiscale
per favorire i petrolieri - autorizzazione a procedere non concessa);
Partecipazioni statali: Aristide Gunnella (risparmiamo ai lettori le molte
pagine che la Commissione antimafia ha dedicato a questo personaggio); agli
Interni con delega per sovrintendere all’Arma dei Carabinieri: Antonino
Occhipinti (consultando il volume 4 tomo 3 pag. 1232 si legge: documenti
allegati alla relazione conclusiva della Commissione antimafia: “a titolo di
esemplificazione si citano, sia pure per gli anni decorsi, gli stretti legami di
amicizia ed i rapporti da tutti rilevati ed esistenti tra il mafioso Catanzaro
Vincenzo e l’assessore regionale Occhipinti Antonino” f.to Legione Carabinieri
di Palermo).
Nel frattempo la Camera discute come salvare il disastro del Cavaliere del
Lavoro “Rovelli”, cioè una abbuffata di denaro pubblico che ha raggiunto ormai
la cifra di cinquemila miliardi ed ha provocato ben 10.000 disoccupati. (pensate
che il famoso scandalo Lockheed verteva su di una tangente di un miliardo!).
Ma nessuno ne vuol parlare, meno di
tutti i comunisti che, come al solito, fanno da copertura alla peggiore DC,
contentandosi in cambio del silenzio -afferma pubblicamente Niccolai- «di
entrare nei consigli di amministrazione delle banche meridionali».
La nuova legge che si discute in parlamento, istituisce una vera e propria
«tassa chimica» a carico di tutti gli italiani. La “vicenda Rovelli” si
trascinerà poi per anni, e a pagare saranno come sempre gli italiani.
La serie degli scandali è continuata e continua inarrestabile, sempre con il
sistema dell’intreccio finanza, politica, mafia, affari; a pagare il solito
pantalone e, particolarmente, i risparmiatori. La filosofia assolutoria che ha
caratterizzato queste vicende, la ritroviamo nelle parole dell’On.le De Cinque,
autorevole membro a suo tempo della Commissione delle autorizzazioni a
procedere: «Il cercare e ricevere finanziamenti per il proprio partito (si badi
bene, imbrogliando e rapinando denaro pubblico attraverso le banche che si
amministrano - ndr) finisce per far parte dell’attività specifica di un uomo
politico, per il quale scatta l’immunità» (e, quindi, l’impunità!).
Come si può vedere, nulla è cambiato negli anni sotto il sole di questa
repubblica nata dalla sconfitta militare.
Stelvio Dal
Piaz
dal sito "Rinascita"
(http://www.rinascita.info)
martedì 4 ottobre 2005
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