da "L'Italia settimanale", anno II, n° 5 del 3 febbraio 1993
Fascio e martello
Mario
Bernardi Guardi
«Non è importante la vita. Importante è ciò che
si fa della vita»: la frase è di quelle che suggestionano e che sembrano fatte
apposta per dare alimento alla rabbia dei duri e puri. Ed è infatti la massima
scolpita su una testata,
"Tabularasa", le cui pagine sono un appello alla
mobilitazione permanente di tutti gli inquieti, gli scontenti, gli spiriti
liberi vogliosi di aggredire il presente a suon di polemiche e di verità scomode
sbattute in faccia.
La frase è di Beppe Niccolai, pisano,
deputato missino per due legislature, animatore di una opposizione interna che,
se non piaceva a Fini, era considerata con una certa diffidenza anche da Rauti:
il fatto è che Niccolai voleva ripercorrere da cima a fondo la storia del
partito dal '46 in poi, voleva ridiscuterne tutte le scelte politiche -da quella
della Destra nazionale, presentabile nei salotti buoni dell'anticomunismo
moderato, a quella di certo estremismo barricadiero, talora allevato in vitro o,
quanto meno, fatto crescere dai servizi segreti-, voleva alzare la bandiera di
un fascismo nazional-popolare o, se si preferisce, di un socialismo tricolore
capace di ricucire lo strappo del '14. E cioè la lacerante separazione di
Mussolini dai compagni, nel nome dell'Italia e dell'Intervento: due miti
d'azione che per il futuro Duce dovevano essere strappati di bocca al
nazionalismo reazionario.
Niccolai credeva a Sansepolcro e a Salò,
e aveva preso l'abitudine di chiudere i suoi discorsi con l'immagine di Nicola
(anzi, di Nicolino) Bombacci che, da comunista fuori dai ranghi, se ne va a
morire al Nord sotto le insegne di Mussolini. Per Niccolai, l'anima del fascismo
non era di Destra; e se l'errore fatale di Mussolini era stato quello di
stringer compromessi con ambienti (monarchia e industriali, chiesa ed esercito
ecc.) che poi lo avevano pugnalato alle spalle, quello del MSI si era rivelato
una replica dell'antico strabismo: estremismo parolaio ridondante di retorica
patriottica, di valori dello spirito e di smanie rivoluzionarie e, nei fatti,
anticomunismo becero, filisteismo piccolo-borghese, appiattimento atlantista
vanamente smentito dagli slogan sull'Europa-Terza Forza, bassi servizi resi alla
DC e al composito fronte del qualunquismo benpensante.
Niccolai aveva dei ben precisi punti di riferimento politico-culturale: in
particolare, la battaglia del giovane fascismo non conformista sulle riviste
selvagge degli Anni Venti e Trenta, con un occhio di riguardo per un eretico
come Berto Ricci, fondatore, nel gennaio del '31, di un mensile di battaglie
come "L'Universale".
Fiorentino d'Oltrarno, professore di matematica, uomo dall'intelletto limpido e
dai costumi sobri, Ricci era stato un anarchico prima di convertirsi al verbo
mussoliniano. E dietro la conversione c'era l'idea di un fascismo che facesse
davvero la rivoluzione sociale che non era riuscita alla Sinistra. Per i
reazionari, i burocrati e gli opportunisti non doveva esserci posto: il
fascismo, il suo diritto al potere -e, perché no? all'Impero-, se lo conquistava
svecchiando, lottando contro il capitalismo e la mentalità borghese e pretaiola,
mettendo in crisi il sistema di Versailles, fondato sulla taccagneria e
l'ipocrisia dei paesi ricchi. Il fascismo imperiale non doveva aver nulla a che
fare col rapace colonialismo sfruttatore: universalità doveva essere civiltà
aperta e generosa. E per niente timorosa di trasgredire o di scandalizzare:
perché ad esempio non riconoscere al bolscevismo la forza di un elemento
dirompente contro «l'Europa della pace ladra, antitaliana e antiumana»?
"L'Universale" -che allevò una covata di fascisti destinati ad avere storie
diverse: Indro Montanelli e Ottone Rosai, Romano Bilenchi e Diano Brocchi,
Edgardo Sulis e Camillo Pellizzi- ebbe alterne vicende. A Mussolini quei giovani
intemperanti non dispiacevano ma non ignorava che spesso le esigenze della
politica rendono scomodi i puri di spirito: durante la guerra d'Etiopia
— Berto intanto è partito volontario
— il giornale, detestato da un bel po' di gerarchi, viene dunque chiuso
d'autorità. Dalle ceneri verranno fuori solo appelli, speranze e testimonianze
ora appassionate, ora disincantate; dei vecchi collaboratori, ognuno farà la sua
guerra e nel dopoguerra se ne andrà per la propria strada (Bilenchi tra i
comunisti, Montanelli tra i conservatori scettici, Brocchi tra i sindacalisti
della CISNaL...).
Berto, convinto di dover essere coerente fino in fondo con la sua scelta,
partirà volontario per l'Africa nel '40. È qui che morirà, a Bir Gandula, sotto
un mitragliamento aereo inglese.
Non sappiamo con esattezza quando
Niccolai abbia scoperto Ricci. Certamente, qualcosa di questa esperienza sapeva
quando negli anni Cinquanta, ex-prigioniero non-cooperatore, internato nel campo
di concentramento di Hereford nel Texas, ebbe contatti col comunista Bilenchi
che, seguendo la strategia dell'attenzione togliattiana, si occupava sul "Nuovo
Corriere" delle esperienze dei repubblichini in buona fede, da accogliere sotto
le insegne della falce e martello.
Ma la trasformazione di Ricci in una vera e propria bandiera, Niccolai la fece
all'inizio dell'Ottanta, allorché il MSI cominciò a stargli sempre più stretto e
l'esigenza di un rinnovamento parve imporre un nome-mito dalla grande capacità
fascinatrice. È più o meno intorno a questi anni che il forte desiderio
niccolaiano di ripensare tutta l'esperienza del MSI, con un furore di verità che
arrivasse fino al punto di «farsi male» si incontra con analoghi ardori
polemici. Sono quelli del gruppo che si riconosce ne "l'Eco della
Versilia", un mensile diretto da Antonio Carli, esponente viareggino del MSI,
toscanaccio con nelle vene una bella provvista di sangue ellenico da parte di
madre, combattente volontario nella RSI a dodici anni e mezzo e temperamento da
giacobino per rigore morale: è da anni che denuncia scandali nella
amministrazione locale e mette alla gogna politici dalle mani tutt'altro che
pulite.
Insieme a Carli, Niccolai -che ha
diretto per molto tempo a Pisa un foglio di protesta contro il malcostume,
battezzato "Il Machiavelli"- parte lancia in resta contro tutte le nomenclature,
compresa, ovviamente, quella missina, che, o disfano l'Italia, o si rivelano
incapaci di progetti politici ad ampio respiro che sappiano rifarla,
ricomponendo il tessuto nazionale al di là della retorica.
Il fatto che il MSI sia stato e, in
parte, sia tuttora ghettizzato non gli toglie, strillano Niccolai e Carli, la
sua bella dose di responsabilità per il marasma in cui viviamo. "L'Eco
della Versilia" manda in bestia non poca gente: chi sono -ci si chiede- questi
tipi che catoneggiano, che, dopo averle prese dai comunisti (ma le hanno
restituite con tutti gli interessi) negli anni di piombo, adesso si dicono al di
là della Destra e della Sinistra, che ce l'hanno a morte con gli yankees di
fuori e con quelli di casa, che magari si ostinano a trovare un'epica
parafascista in certi scritti di Pasolini o in certi film dei fratelli Taviani
piuttosto che nella memorialistica nostalgica?
Gli amici de "l'Eco", comunque,
cominciano a trovarsi in tutta Italia, militino o meno nel MSI, si riconoscano o
meno nelle polemiche attivate da Niccolai e Carli: ci sono Giano Accame e
Domenico Mennitti, Umberto Croppi e Peppe Nanni, Adolfo Urso e Beniamino
Donnici, Gianni Benvenuti e Ulderico Nisticò, Gaetano Catalano e Altero
Matteoli. E tanti altri: spiriti diversi, disposti anche ad accapigliarsi tra
loro, ma accomunati dall'anticonformismo.
Nel 1984, al XIV Congresso nazionale del MSI, la mozione "Segnali dì vita"
propone tesi politiche che costituiscono un inventario di tutti gli errori (e
gli orrori) della Destra nazionale, un appello a fare i conti con il passato, un
progetto di rifondazione politica. Il
carisma di Niccolai attira consensi più di quanto non avvenga per le sue tesi:
ad ogni modo, per qualche anno, la covata toscana si fa sentire, eccome!, anche
se Beppe non vuole compiere l'atto estremo che molti gli suggeriscono: rompere
col MSI, dar vita a un nuovo movimento -o ad un centro studi- che rielabori
criticamente la lezione del Fascismo (ma non tema di problematizzare anche
quella della Resistenza), per contribuire al chiarimento del paesaggio politico
italiano, dove è giusto che ci sia una Destra non fascista con un proprio spazio
e un organismo politico nazionalpopolare con un suo preciso profilo. Ci sarebbe
stato questo terremoto se Niccolai fosse restato in vita?
È difficile dirlo. Dopo la sua morte,
nell'ottobre del 1989, molte cose sono cambiate, molto sta cambiando. È caduto
il muro di Berlino, è crollato il socialismo reale, si è infranto il bipolarismo
USA-URSS col trionfo del mondialismo yankee, c'è stata la Guerra del Golfo: come
avrebbe reagito Niccolai di fronte a questi eventi epocali!
Quelli della covata, quasi tutti saddamisti durante la guerra USA-Iraq, quasi
tutti usciti dal MSI o perché delusi della segreteria Rauti o per
incompatibilità con la segreteria Fini (al quale però non possono non tributare
un riconoscimento per i successi politici ed elettorali), non hanno rinunciato a
uno spazio dove dibattere. Finita la stagione de "l'Eco",
"Tabularasa" è nata
dai loro disincanti, dai loro risentimenti, dalle loro disperate speranze.
Anche se Carli si lamenta: «A tre anni dalla sua scomparsa, per molti Beppe non
è mai esistito [...] A ricordarlo siamo rimasti, sì e no, una decina [...] Fosse
rimasto vivo la «sinistra» avrebbe potuto trovare in lui un punto di
riferimento, un coagulo [...] Beppe era
un uomo che doveva vivere nel tempo dei giusti»,
"Tabularasa" è una
presenza vitale. Ogni mese ci si può incontrare lì con battitori liberi e
variamente litigiosi (c'è chi freme, chi strepita e chi ama far bruciare gli
altri a fuoco lento) come Accame, Buttafuoco, Croppi, Lanna, Nanni, Donnici,
Enrico e Antonio Landolfi, Signorelli, Vito Errico, Tosca, Benvenuti, Granata
ecc.
Cosa hanno in comune, oltre la voglia di
discutere senza paraocchi e pregiudizi? Certamente una cosa importante: la
passione italiana. Quella che Ricci trasmise a Niccolai.
Quella che fece scrivere all'americano Pound, in gabbia a Coltano: «Credo quia
absurdum / credo nell'Italia e nella sua impossibile rinascita».
Mario
Bernardi Guardi
da "L'Italia settimanale", anno II,
n° 5 del 3 febbraio 1993
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