da "Tabularasa" (http://tabularasa.altervista.org),
gennaio 1993
Fascio e martello
«Non è importante la vita.
Importante è ciò che si fa della vita»: la frase è di quelle che suggestionano e
che sembrano fatte apposta per dare alimento alla rabbia dei duri e puri. Ed è
infatti la massima scolpita su una testata, "Tabularasa", le cui pagine sono un
appello alla mobilitazione permanente di tutti gli inquieti, gli scontenti, gli
spiriti liberi vogliosi di aggredire il presente a suon di polemiche e di verità
scomode sbattute in faccia.
La frase è di Beppe Niccolai, pisano, deputato missino per due legislature,
animatore di una opposizione interna che, se non piaceva a Fini, era considerata
con una certa diffidenza anche da Rauti: il fatto è che Niccolai voleva
ripercorrere da cima a fondo la storia del partito dal '46 in poi, voleva
ridiscuterne tutte le scelte politiche -da quella della Destra nazionale,
presentabile nei salotti buoni dell'anticomunismo moderato, a quella di certo
estremismo barricadiero, talora allevato in vitro o, quanto meno, fatto crescere
dai servizi segreti-, voleva alzare la bandiera di un fascismo nazional-popolare
o, se si preferisce, di un socialismo tricolore capace di ricucire lo strappo
del '14. E cioè la lacerante separazione di Mussolini dai compagni, nel nome
dell'Italia e dell'Intervento: due miti d'azione che per il futuro Duce dovevano
essere strappati di bocca al nazionalismo reazionario.
Niccolai credeva a Sansepolcro e a Salò, e aveva preso l'abitudine di chiudere i
suoi discorsi con l'immagine di Nicola (anzi, di Nicolino) Bombacci che, da
comunista fuori dai ranghi, se ne va a morire al Nord sotto le insegne di
Mussolini. Per Niccolai, l'anima del fascismo non era di Destra; e se l'errore
fatale di Mussolini era stato quello di stringer compromessi con ambienti
(monarchia e industriali, chiesa ed esercito ecc.) che poi lo avevano pugnalato
alle spalle, quello del MSI si era rivelato una replica dell'antico strabismo:
estremismo parolaio ridondante di retorica patriottica, di valori dello spirito
e di smanie rivoluzionarie e, nei fatti, anticomunismo becero, filisteismo
piccolo-borghese, appiattimento atlantista vanamente smentito dagli slogan sull'Europa-Terza
Forza, bassi servizi resi alla DC e al composito fronte del qualunquismo
benpensante.
Niccolai aveva dei ben precisi punti di riferimento politico-culturale: in
particolare, la battaglia del giovane fascismo non conformista sulle riviste
selvagge degli Anni Venti e Trenta, con un occhio di riguardo per un eretico
come Berto Ricci, fondatore, nel gennaio del '31, di un mensile di battaglie
come "L'Universale".
Fiorentino d'Oltrarno, professore di matematica, uomo dall'intelletto limpido e
dai costumi sobri, Ricci era stato un anarchico prima di convertirsi al verbo
mussoliniano. E dietro la conversione c'era l'idea di un fascismo che facesse
davvero la rivoluzione sociale che non era riuscita alla Sinistra. Per i
reazionari, i burocrati e gli opportunisti non doveva esserci posto: il
fascismo, il suo diritto al potere -e, perché no? all'Impero-, se lo conquistava
svecchiando, lottando contro il capitalismo e la mentalità borghese e pretaiola,
mettendo in crisi il sistema di Versailles, fondato sulla taccagneria e
l'ipocrisia dei paesi ricchi. Il fascismo imperiale non doveva aver nulla a che
fare col rapace colonialismo sfruttatore: universalità doveva essere civiltà
aperta e generosa. E per niente timorosa di trasgredire o di scandalizzare:
perché ad esempio non riconoscere al bolscevismo la forza di un elemento
dirompente contro «l'Europa della pace ladra, antitaliana e antiumana»?
"L'Universale" -che allevò una covata di fascisti destinati ad avere storie
diverse: Indro Montanelli e Ottone Rosai, Romano Bilenchi e Diano Brocchi,
Edgardo Sulis e Camillo Pellizzi- ebbe alterne vicende. A Mussolini quei giovani
intemperanti non dispiacevano ma non ignorava che spesso le esigenze della
politica rendono scomodi i puri di spirito: durante la guerra d'Etiopia
— Berto intanto è partito volontario
— il giornale, detestato da un bel po' di gerarchi, viene dunque chiuso
d'autorità. Dalle ceneri verranno fuori solo appelli, speranze e testimonianze
ora appassionate, ora disincantate; dei vecchi collaboratori, ognuno farà la sua
guerra e nel dopoguerra se ne andrà per la propria strada (Bilenchi tra i
comunisti, Montanelli tra i conservatori scettici, Brocchi tra i sindacalisti
della CISNaL...).
Berto, convinto di dover essere coerente fino in fondo con la sua scelta,
partirà volontario per l'Africa nel '40. È qui che morirà, a Bir Gandula, sotto
un mitragliamento aereo inglese.
Non sappiamo con esattezza quando Niccolai abbia scoperto Ricci. Certamente,
qualcosa di questa esperienza sapeva quando negli anni Cinquanta, ex-prigioniero
non cooperatore, internato nel campo di concentramento di Hereford nel Texas,
ebbe contatti col comunista Bilenchi che, seguendo la strategia dell'attenzione
togliattiana, si occupava sul "Nuovo Corriere" delle esperienze dei
repubblichini in buona fede, da accogliere sotto le insegne della falce e
martello.
Ma la trasformazione di Ricci in una vera e propria bandiera, Niccolai la fece
all'inizio dell'Ottanta, allorché il MSI cominciò a stargli sempre più stretto e
l'esigenza di un rinnovamento parve imporre un nome-mito dalla grande capacità
fascinatrice. È più o meno intorno a questi anni che il forte desiderio
niccolaiano di ripensare tutta l'esperienza del MSI, con un furore di verità che
arrivasse fino al punto di «farsi male» si incontra con analoghi ardori
polemici. Sono quelli del gruppo che si riconosce ne "l'Eco della Versilia", un
mensile diretto da Antonio Carli, esponente viareggino del MSI, toscanaccio con
nelle vene una bella provvista di sangue ellenico da parte di madre, combattente
volontario nella RSI a dodici anni e mezzo e temperamento da giacobino per
rigore morale: è da anni che denuncia scandali nella amministrazione locale e
mette alla gogna politici dalle mani tutt'altro che pulite.
Insieme a Carli, Niccolai -che ha diretto per molto tempo a Pisa un foglio di
protesta contro il malcostume, battezzato "Il Machiavelli"- parte lancia in
resta contro tutte le nomenclature, compresa, ovviamente, quella missina, che, o
disfano l'Italia, o si rivelano incapaci di progetti politici ad ampio respiro
che sappiano rifarla, ricomponendo il tessuto nazionale al di là della retorica.
Il fatto che il MSI sia stato e, in parte, sia tuttora ghettizzato non gli
toglie, strillano Niccolai e Carli, la sua bella dose di responsabilità per il
marasma in cui viviamo. "L'Eco della Versilia" manda in bestia non poca gente:
chi sono -ci si chiede- questi tipi che catoneggiano, che, dopo averle prese dai
comunisti (ma le hanno restituite con tutti gli interessi) negli anni di piombo,
adesso si dicono al di là della Destra e della Sinistra, che ce l'hanno a morte
con gli yankees di fuori e con quelli di casa, che magari si ostinano a trovare
un'epica parafascista in certi scritti di Pasolini o in certi film dei fratelli
Taviani piuttosto che nella memorialistica nostalgica?
Gli amici de "l'Eco", comunque, cominciano a trovarsi in tutta Italia, militino
o meno nel MSI, si riconoscano o meno nelle polemiche attivate da Niccolai e
Carli: ci sono Giano Accame e Domenico Mennitti, Umberto Croppi e Peppe Nanni,
Adolfo Urso e Beniamino Donnici, Gianni Benvenuti e Ulderico Nisticò, Gaetano
Catalano e Altero Matteoli. E tanti altri: spiriti diversi, disposti anche ad
accapigliarsi tra loro, ma accomunati dall'anticonformismo.
Nel 1984, al XIV Congresso nazionale del MSI, la mozione "Segnali dì vita"
propone tesi politiche che costituiscono un inventario di tutti gli errori (e
gli orrori) della Destra nazionale, un appello a fare i conti con il passato, un
progetto di rifondazione politica. Il carisma di Niccolai attira consensi più di
quanto non avvenga per le sue tesi: ad ogni modo, per qualche anno, la covata
toscana si fa sentire, eccome!, anche se Beppe non vuole compiere l'atto estremo
che molti gli suggeriscono: rompere col MSI, dar vita a un nuovo movimento -o ad
un centro studi- che rielabori criticamente la lezione del Fascismo (ma non tema
di problematizzare anche quella della Resistenza), per contribuire al
chiarimento del paesaggio politico italiano, dove è giusto che ci sia una Destra
non fascista con un proprio spazio e un organismo politico nazionalpopolare con
un suo preciso profilo. Ci sarebbe stato questo terremoto se Niccolai fosse
restato in vita?
È difficile dirlo. Dopo la sua morte, nell'ottobre del 1989, molte cose sono
cambiate, molto sta cambiando. È caduto il muro di Berlino, è crollato il
socialismo reale, si è infranto il bipolarismo USA-URSS col trionfo del
mondialismo yankee, c'è stata la Guerra del Golfo: come avrebbe reagito Niccolai
di fronte a questi eventi epocali!
Quelli della covata, quasi tutti saddamisti durante la guerra USA-Iraq, quasi
tutti usciti dal MSI o perché delusi della segreteria Rauti o per
incompatibilità con la segreteria Fini (al quale però non possono non tributare
un riconoscimento per i successi politici ed elettorali), non hanno rinunciato a
uno spazio dove dibattere. Finita la stagione de "l'Eco", "Tabularasa" è nata
dai loro disincanti, dai loro risentimenti, dalle loro disperate speranze.
Anche se Carli si lamenta: «A tre anni dalla sua scomparsa, per molti Beppe non
è mai esistito [...] A ricordarlo siamo rimasti, sì e no, una decina [...] Fosse
rimasto vivo la «sinistra» avrebbe potuto trovare in lui un punto di
riferimento, un coagulo [...] Beppe era un uomo che doveva vivere nel tempo dei
giusti», "Tabularasa" è una presenza vitale. Ogni mese ci si può incontrare lì
con battitori liberi e variamente litigiosi (c'è chi freme, chi strepita e chi
ama far bruciare gli altri a fuoco lento) come Accame, Buttafuoco, Croppi, Lanna,
Nanni, Donnici, Enrico e Antonio Landolfi, Signorelli, Vito Errico, Tosca,
Benvenuti, Granata ecc.
Cosa hanno in comune, oltre la
voglia di discutere senza paraocchi e pregiudizi? Certamente una cosa
importante: la passione italiana. Quella che Ricci trasmise a Niccolai.
Quella che fece scrivere
all'americano Pound, in gabbia a Coltano: «Credo quia absurdum / credo
nell'Italia e nella sua impossibile rinascita».
Mario
Bernardi Guardi
da "L'Italia
settimanale"
anno II, n° 5 del 3 febbraio 1993 |