da
"II Giornate", 13 novembre 1997
Viaggio a Cannobio, dove
nel '44 il futuro Nobel combatte i partigiani con le camicie nere della
Folgore
«Camerata
Dario Fo, vieni a chiederci scusa»
Gli anziani cittadini
di Cannobio
non hanno
dimenticato
la presenza
dell'attore
tra le camicie nere
che occuparono
la zona
Cannobio
(Verbania)
Dal nostro inviato Gabriele Villa
È l'ora dei calici a Cannobio.
Il rosso va via che è un piacere nella cantina Ferro e i brindisi si sprecano: a Tizio,
a Caio, anche a Fo, al premio Nobel Dario Fo, azzarda un giovanottone
che ha tutta l'aria di buttarsi sulla sbronza intellettuale. Colpo di
scena: i calici restano in parcheggio sul bancone e il Luigione,
pantaloni di fustagno, camicia agri-scozzese a scacchi, baffi a
manubrio, parla per tutti. «No, a Fo proprio no. Dovremmo fargliela al
contrario la festa qui a Cannobio, deve chiederci scusa per ciò
che ha fatto».
Il Luigione avrà più
o meno la stessa età di Dario Fo, come tanti altri habitué
della cantina Ferro che
è
un po' il semaforo dove tutta la Cannobio di
una certa età
si ferma quotidianamente.
Questa storia delle scuse che Dario Fo
dovrebbe fare a Cannobio e a tutta l'ex Repubblica dell'Ossola è un tema
ricorrente
da queste parti. Basta andarci a
Cannobio. Basta rovinarsi le suole delle scarpe camminando sui ciottoli
di via Sasso Carmine, ascoltare le chiacchiere della gente alla taverna
dell'hotel Pironi, al bar Porto e in mille altri posti che, se non
tutti, almeno una parte dei 5.500 abitanti di Cannobio frequentano.
Anche il sindaco di Cannobio, Giuseppe
Albertella, ha sentito parlare di questa storia delle scuse
che Dario Fo dovrebbe fare a
questo «ridente
paesino» come si leggeva sulle guide turistiche di
qualche anno fa, affacciato sul
lago Maggiore. Ma lui, il sindaco, per sua stessa ammissione i bar di
Cannobio li «frequenta
poco».
Si ricorda «distrattamente»,
sempre per sua stessa ammissione, degli articoli sulla faccenda comparsi
sui giornali locali, e si sforza di tener lontano dal Palazzo municipale
qualsiasi
potenziale ballon d'essai che
possa incrinare quella che lui definisce
«una
situazione politica assolutamente tranquilla».
In verità
«il
caso Fo»
è
stato recentemente ricostruito nei
dettagli da un meticoloso ricercatore di Ascona, in Svizzera, Raphael
Reus, che sta approfondendo con i suoi studi l'aspetto nazifascista
della resistenza nel Verbano-Cusio-Ossola. Leggendo alcuni dei documenti
che Reus ci ha consegnato, è
possibile farsi un'idea della rioccupazione di Cannobio e dintorni da
parte delle formazioni della Repubblica di Salò:
primi giorni di settembre del 1944, per intenderci.
Eccoci al dunque: tra gli uomini della
Folgore, arrivati in zona seguendo la litoranea da Verbania, c'era
all'epoca anche il giovane Dario Fo. Quegli uomini avevano un solo,
preciso compito:
radere al suolo la Repubblica partigiana
dell'Ossola. Per questo motivo una delle prime offensive aveva preso il
via
proprio da Cannobio trascinata dalle truppe fasciste e tedesche che,
attraverso la Val Vigezzo, avevano poi occupato Domodossola.
La cronaca di quei giorni, riportata
alla luce dallo studioso elvetico, ci regala anche un'altra curiosità:
con Dario Fo giunse da Luino
nello stesso periodo in quegli stessi luoghi, dopo una breve traversata
del lago Maggiore, un giovanissimo ufficiale
della Guardia Nazionale
Repubblicana, appena uscito trionfalmente con la miglior votazione tra
gli allievi del suo gruppo dal corso di formazione: Enrico Maria
Salerno. Vedete come è sempre stato piccolo il mondo?
Ma torniamo a Dario Fo. Che il premio
Nobel si trovasse non per turismo in quei luoghi nei giorni della caduta
della Repubblica ossolana, si evince anche da un articolo pubblicato
nel 1979 sul mensile "Resistenza Unita" che ha documentato il soggiorno
di Fo nel collegio Rosmini di Domodossola il 14 ottobre assieme ai para
della Folgore. A questo punto si impone un'ulteriore precisazione: il
passato di Dario Fo non è un mistero per nessuno. Se ne discusse
peraltro ampiamente ventanni fa in un'aula di tribunale a Varese nel
corso di un processo per diffamazione intentato da Fo contro un
giornalista. Fo aveva inizialmente negato con ostinazione il suo
«nero»
passato ma poi, dinanzi alla sfilata di ex camerati e un'ampia
documentazione fotografica, era stato costretto ad ammettere la verità.
Le sue parole furono, stando ai giornali
di quel tempo, più
o meno queste: «L'ho
fatto per motivi di famiglia perché
mio padre era capostazione a Luino e avrebbe rischiato grosso se non mi
fossi arruolato tra i repubblichini».
Una figuraccia o, per dirla come la direbbe lui, un mistero buffo.
Non credo ci sia nulla di disonorevole
nell'essere figlio di un capostazione. Anch'io lo sono, e
guarda caso anche mio padre era
capostazione a Luino in quell'epoca, collega di papa Fo. Ricordo che per
mio padre che lo aveva conosciuto, Dario Fo era sempre stato soltanto un
bimbetto irrequieto e un po' picchiatello.
Questa
è
dunque la vera storia, che in molti già
conoscevano, di un tale Dario Fo che con
gli anni
e con l'oblio sarebbe diventato
l'instancabile giullare della sinistra che oggi tutti quasi applaudono.
E questo è
il motivo per
cui la gente di Cannobio, gli ex-partigiani, e quelli che frequentano
quei bar e quelle piazze
che il sindaco di Cannobio non
frequenta, ce l'ha con Dario Fo.
Vogliono le scuse i cannobini, e forse
hanno tutte le ragioni per pretenderle anche se il ruolo di Dario Fo
nella rioccupazione dell'Ossola, come si capisce sfogliando le
carte di Reus, sarebbe stato
marginale. Vogliono pubbliche scuse, magari sotto forma di una pubblica
confessione-spettacolo che dimostri, possibilmente prima
dell'«incoronazione» di
Stoccolma del 10 dicembre, che anche i
premi Nobel sono uomini come gli altri. Sprovvisti di coerenza e
sincerità.
Gabriele Villa |