PRESIDENTE - L'ordine del giorno reca il seguito della
discussione di mozioni e dello svolgimento di interpellanze e di interrogazioni
sull'armamento della polizia in occasione di manifestazioni politiche, sindacali
e studentesche.
È iscritto a parlare l'onorevole Giuseppe Niccolai. Ne ha facoltà.
NICCOLAI GIUSEPPE - Signor
Presidente, onorevoli colleghi, onorevole ministro, pur riconoscendo -e chi può
essere di parere contrario?- che una società dove la polizia altro compito non
abbia se non quello di aiutare per strada i vecchi cadenti a non cadere sotto le
auto sarebbe una cosa desiderabile, è giusto -mi domando- davanti a quel che
accade, davanti alle esperienze che noi tutti facciamo, davanti a questa società
così conformata e che sprizza violenza da tutti i suoi pori, cominciare, per
curare il male della violenza, a disarmare la polizia? Non vi pare che così
facendo rischiamo un po' tutti di curare inutilmente la manifestazione esteriore
del male senza cercare l'origine dello stesso, senza andare a vedere dove la
vistosa manifestazione cutanea prende forza e virulenza?
La polizia, si argomenta, risulta arcaica nei metodi, nei mezzi, nella mentalità
con cui è diretta: onde occorre un'opera di risanamento. Ma, di grazia, questa
polizia non sbarca né da Marte né da un altro continente. Non è un corpo
estraneo, ma è un prodotto della classe dirigente. È stata inquadrata da De
Gasperi e da Scelba, se la sono cresciuta durante venti anni i governi
democratici. Essa risulta perciò la logica espressione dello Stato che dovrebbe
difendere: inadeguata nei compiti che le sono assegnati, come del resto il
sistema rappresentativo e come i partiti sui quali lo Stato dovrebbe reggersi.
C'è forse qualcuno qui dentro che crede e pensa che, disarmando la polizia, gli
agitatori, i teppisti deporranno sassi, bastoni, sbarre di ferro, bottiglie
Molotov, vetriolo, acido muriatico ed altro? Sarebbe questa l'opera di
persuasione per cui i dinamitardi, che seminano in tutto il paese bombe e
panico, si acqueterebbero e per cui la contestazione dai binari violenti in cui
è incanalata si avvierebbe sul retto sentiero del dibattito e del confronto
democratico?
Coloro i quali, dinanzi ad episodi di violenza come quello di Battipaglia e i
tanti altri che esplodono nel paese, pensano che ad essi si possa porre rimedio
disarmando la polizia, senza accorgersene si mettono nella medesima posizione
concettuale di coloro che hanno rimproverato al ministro Restivo, nella sua
relazione alla Camera sui tragici fatti di Battipaglia, di essersi fermato in
superficie, di avere fatto un discorso con mentalità poliziesca, di essersi
limitato a leggere un « mattinale » di questura. L'accusa al ministro Restivo di
non avere umanamente e socialmente ragionato sulle cose si ritorce proprio su
coloro che, non riuscendo, come dice l'onorevole Sullo, ad avere il coraggio di
esaminare senza pietà verso sé stessi come stanno veramente le cose, scaricano
sulla testa delle forze di polizia errori, forse delitti, che sono, che
appartengono e che provengono dal seno stesso della classe dirigente politica
del nostro paese.
Siamo perciò nella migliore delle ipotesi sul piano dell'utopia e della
demagogia, nella peggiore delle ipotesi su quello della malafede e della
menzogna. Sappiamo tutti benissimo -ed è bene parlar chiaro- che il giorno in
cui il Parlamento, tanto per citare un istituto consacrato, non fosse più
difeso, come oggi, da reparti armati di truppa, verrebbe sicuramente contestato
e la contestazione non farebbe certo distinzione tra i fautori del disarmo e i
contrari, tra l'onorevole Luzzatto e l'onorevole Restivo.
Che accade dunque? Dove sta il male? Qual è l'esatta diagnosi che possa condurci
alla terapia giusta e non a quella superficiale ed errata che ritiene di
risolvere tutto disarmando le forze di polizia?
Poniamo alcuni interrogativi. Che significato può avere disarmare la polizia in
uno Stato che nella sua sostanza è ancora a pezzi come nel 1945 e poggia sulle
macerie degli istituti dei regimi che lo hanno preceduto? Che senso ha disarmare
la polizia quando i nostri codici, civile e penale, sono improntati per metà al
codice Zanardelli e per l'altra metà a quello di Alfredo Rocco? Che significato
può avere pretendere di dare alle forze di polizia una nuova mentalità quando
l'università, la scuola sono sbriciolate, sfatte, moralmente decrepite, se è
vero come è vero (e cito un episodio marginale), che vi sono insegnanti di
scuola media che dall'alto della cattedra, sui giornali di istituto, avallano le
positive esperienze giovanili fatte con l'acido lisergico e con la droga?
L'onorevole Riccardo Lombardi ha parlato di sconsacrare la polizia; di smettere
di considerare la contusione riportata da un poliziotto o da un carabiniere non
una lesione fisica, ma addirittura una sconsacrazione e una bestemmia; è una
mentalità borbonica, è una mentalità che va vinta e superata, ha detto
l'onorevole Lombardi. E ci pare che si sia molto avanti su questa strada
tracciata dall'onorevole Lombardi. «Se vedi un poliziotto ferito, finiscilo», è
una delle frasi che maggiormente vediamo raffigurate nelle aule universitario
preda della contestazione.
Sconsacrare la polizia! Non ve ne è più bisogno. Pelloux e Giolitti la
difendevano anche quando sbagliava, ma gli attuali reggitori del potere
trasformano prima le forze di polizia in bersaglio nazionale, le abbandonano
alle aggressioni non solo verbali, e ne fanno poi il capro espiatorio dei loro
errori, per non dire di peggio.
Ecco chi scatena la violenza, chi è responsabile di quanto accade, chi scatena
l'anarchia e il caos entro il quale i commandos della contestazione si
organizzano e attentano. Nessuna responsabilità è da attribuire, ad esempio, a
un Governo che non abbia più unità di comando ai vertici della cosa pubblica,
che tiri avanti alla giornata, non più in forza di un programma politico, ma
recependo quotidianamente i problemi da risolvere, che hanno una loro priorità
solo in rapporto alla loro virulenza e violenza? Responsabili le forze di
polizia, responsabili gli estremisti di destra e di sinistra? Chi, se non il
Governo, ha sancito il principio -e lo ha sancito nelle università- che per aver
giustizia occorre ricorrere alla violenza? Perché, se questo è concesso alla
massa studentesca, deve essere impedito ai lavoratori o agli altri cittadini?
Ma, in questo caso, chi sono i «cinesi» della situazione? E se la violenza, per
volontà del Governo, è l'unica arma valida dal punto di vista rivendicativo, che
senso ha parlare di programmazione e di investimenti produttivi, se tutto è
lasciato al caso, alle contrapposizioni violente e agli ordigni esplosivi? Che
ci stanno a fare i vari organi della programmazione se, come chiedono i
socialisti, si deve dar vita ad un comitato interministeriale per le situazioni
di emergenza e le calamità sociali, con il compito di seguire i casi più gravi e
di apprestare le misure necessarie?
Si affoga nel ridicolo. Cinque bombe a Battipaglia, sei a Palermo: corriamo a
Palermo, dove ne è scoppiala una di più, e provvediamo. Stanziamo miliardi per
Palermo, perché lì sono scoppiate sei bombe anziché le cinque di Battipaglia. Ma
che deve pensare, signor Presidente e onorevoli colleghi, il cittadino, di un
Governo che ragiona in tal modo ed è sorretto da partiti che vogliono il
contrario di tutto quello che dal Governo gli stessi partiti promettono? Chi è
l'apprendista stregone della violenza? La polizia? Quando non esiste più una
politica del Governo, è fatale che il cittadino, sia soldato o no, di fronte al
pericolo si trovi costretto ad agire istintivamente, autonomamente e a soggetto.
Proviamo a supporre, per assurdo, che tutti i disordini siano provocati, come
afferma l'onorevole Piccoli, da una strana congiura di estremisti di destra e di
sinistra. E con questo? Questi estremisti da dove vengono? Non sono forse un
prodotto delle nostre famiglie, della nostra società? O, se vi piace, una specie
di tossina sviluppata e alimentata dal sistema?
Ecco il punto: proviamo a domandarci perché il sistema produca a ritmi sempre
più crescenti tali manifestazioni di furore. È l'esame di coscienza al quale si
richiamava l'onorevole Sullo nel suo intervento sui fatti di Battipaglia e che
tutti, pur girandoci intorno, sfuggiamo: perché mai dei ragazzi, invece di
andare a ballare, alla partita o con la ragazza, se la prendono con la polizia,
rovesciano macchine, minacciano di linciaggio l'onorevole Avolio, leticano con
il sindaco di Bologna, l'ex-repubblichino Fanti, contestano il convegno
dell'ANPI di Torino, fanno a botte con i partigiani a Milano, fischiano
l'onorevole Rumor all'inaugurazione del monumento alla Resistenza a Udine? E
perché lo Stato, il Governo, con la sua organizzazione che pure costa diverse
migliaia di miliardi, non riesce a contenerli, non ci prova nemmeno, e non sa
più assicurare un minimo di convivenza civile? Tutta colpa degli estremisti?
Si dice: sono organizzati, ricevono soldi dall'estero. Sarà anche vero; ma anche
il bilancio dello Stato italiano gronda in tutte le direzioni e in molte tasche;
non direte che gli estremisti ne abbiano di più. Sembra che perfino gli
americani spendano dei soldi in Italia, ma dove vanno questi soldi? E con quali
risultati? Anche le forze di polizia in Italia hanno o dovrebbero avere un
addestramento o delle tecniche. Non. direte che sanno solo lasciarsi prendere
dal panico e ammazzare le donne alle finestre! Questi sono semmai i risultati
del modo in cui voi del Governo, voi 83 fra ministri e sottosegretari, le
impiegate. Non facciamo, per carità, degli estremisti un alibi all'inesistenza
dello Stato, alla impossibilità strutturale di difendere un sistema come questo!
Non si mantiene l'ordine. L'ordine va creato. Bisogna prima costruire la
Repubblica, poi si potrà difenderla. 25 aprile 1969: sono passati 24 anni
dall'aprile 1945: quante parole! Però, anno zero: non c'è nulla di rispettabile
e di difendibile in questo sistema. Bisogna ricominciare daccapo.
Intanto non sarà male individuare i veri focolai della violenza. Cerchiamo di
elencarli. Ci dica, signor ministro: semina o no violenza una classe politica
quando prende impegni, formula promesse, e poi non le mantiene, anzi addirittura
le tradisce? E ci dica, signor ministro: semina o no violenza una classe
politica che, suonando la grancassa pubblicitaria della stampa, annuncia a
titoli vistosi grosse cifre di spesa pubblica, una girandola di miliardi, e poi
il cittadino resta in baracche umide dove si muore lentamente di tubercolosi? Se
l'ira esplode, è colpa della polizia? Ci dica, signor ministro: semina o no
violenza una classe politica, espressa nei partiti, che a parole è santa e
illuminata, ma nei fatti guazza nel privilegio e lascia mano libera allo
sfruttamento morale che è peggiore di quello fisico? Ci dica, signor ministro:
semina o no violenza una classe politica impastata di rinvii, di ritardi, di
impotenza, i cui esponenti, mentre le «tabacchine» di Battipaglia si alzano alle
4 e tornano dal lavoro alle 22, arrivano in quelle zone con la Mercedes da 5
milioni? Ci dica, signor ministro: semina o no violenza una classe politica che
si è tutta arricchita, che non sa più dare collettivamente grandi esempi, ma sa
dare solo cattivi esempi? Dovunque c'è intrigo, imbroglio, malversazione,
corruzione, inganno, là si trovano sempre immancabilmente le sue impronte
digitali. Colpa della polizia?
Le fabbriche chiudono e si trasferiscono; l'agricoltura langue; la spesa
pubblica, vistosamente annunciata attraverso grandi titoli di stampa, si
realizza fra mille inceppi e con notevole ritardo; così il muro della tensione,
dell'ira sorda ed incontrollata cresce e lo Stato finisce col diventare il
simbolo dell'oppressione, le istituzioni una beffa. La classe politica viene
scambiata per una consorteria di venditori di fumo e di speranze. Dobbiamo
dircelo con estrema onestà: è la politica che ha fatto fallimento. Non sono
parole mie, sono parole dell'onorevole Scalia, latitante oggi da questo
dibattito.
Ma perché, dopo un così esatto e crudo esame di coscienza, buttare la croce
addosso agli estremisti da una parte e alla polizia dall'altra?
Occupiamoci un po' più di un altro tipo di violenza, quella morale che è
peggiore di quella fisica. Nella seduta del 16 aprile l'onorevole Cacciatore, a
sostegno delle sue tesi, ci lesse un atto di accusa di un magistrato contro la
polizia, atto di accusa riportato dalla rivista "Il Ponte". Ci fu uno scambio di
battute tra me e l'onorevole Cacciatore. La rivista "Il Ponte" la conosciamo
tutti; si stampa a Firenze, fu fondata da Piero Calamandrei, uno dei più
autorevoli relatori, per conto del guardasigilli Dino Grandi, dei codici del
1940. L'atto di accusa di quel giudice è pesante, gravissimo, crudo. È un
magistrato che punta l'indice accusatore contro la polizia. E va bene! Ma il suo
nome, la sua firma, sempre sulla rivista "Il Ponte", onorevole ministro, la
troviamo anche in calce all'appello-sottoscrizione che la stessa rivista
promuove per Aldo Braibanti, qualificato come il profeta e l'apostolo di una
nuova società nella quale l'ordine dovrà essere mutuato dalle formiche e l'amore
perfetto potrà essere raggiunto solo attraverso l'omosessualità. È da sinistra
che viene questo riconoscimento, il quale fa il paio con quello rilasciato al
bandito Cavallero, paragonato, come tutti sanno, dall'avvocato difensore, al
guerrigliero vietcong (che paragone ignobile!), nel suo assalto al benessere del
triangolo industriale.
Io mi chiedo: quando tali tossine si fanno liberamente circolare nel paese, si è
consapevoli o no di alimentare il processo di metastasi che corrode questa
società? Chi semina vento, se l'apologia della violenza, del crimine, del vizio
parte dalle severe aule delle corti d'assise, dai banchi parlamentari, dal seno
stesso della magistratura? Ecco il sistema!
Perché meravigliarsi poi se in una umida fossa scavata nella rena si raccatta il
corpo di un tredicenne, Ermanno Lavorini, massacrato da un ragazzo di 16 anni,
in omaggio all'ordine mutuato dalle formiche e all'ansia di riscossa che anima
gli omosessuali?
E questo sarebbe socialismo? Quando mai la classe politica si è soffermata sulla
violenza che gronda dalle edicole di giornali, dal cinematografo, dalla
televisione, dai grandi pannelli pubblicitari? "Dio li fa, io li ammazzo", è il
titolo di un film. Massacrano, avvelenandoli, i nostri figli. Ma guai a toccare
ciò: "Il Ponte", la sinistra non lo permetterebbero.
E questo sarebbe l'insegnamento di Marx, di Lenin e di Gramsci? Per me questo è
il più grave delitto che la sinistra italiana abbia commesso contro la nazione,
contro lo Stato e contro il popolo. È il delitto degli intellettuali borghesi
che stanno al vertice del partito comunista e che hanno avuto la meglio sul
filone popolare e nazionale che nel 1945 Togliatti cercò di portare alla guida
del partito. Chi se non il partito comunista ha avallato, pur di far numero, pur
di evitare l'isolamento, tutte le deviazioni di una falsa cultura tipica della
degenerazione borghese che ha caricato di violenza come non mai la società
italiana? Non c'è stata turpitudine della pseudo-intellettualità borghese che
non abbia trovato una difesa, un sostegno presso il partito comunista e i suoi
organi ufficiali ed ufficiosi. Nessuno è stato tramite più efficace per
infettare il mondo operaio con quella che i vecchi rivoluzionari come Marx, come
Proudhon, come Sorel, come Lenin -che in fatto di costume professavano le
medesime idee dei curati- chiamavano la lebbra borghese: quel misto di oscenità,
di ateismo e di immoralismo.
Non è questa certo la società esaltata e difesa -lo riconosco- in Russia, in
Cina, in Romania, paesi che, comunque si vogliano giudicare sul piano politico,
restano sul piano del costume di un rigore morale ineccepibile. Non è Luchino
Visconti l'eroe dell'Unione Sovietica, è Gagarin; non sono lo stupro ed il
delitto lo esempio che le giovani generazioni sovietiche vengono chiamate ad
imitare: sono l'impegno, il sacrificio, la dedizione del soldato Gagarin.
[Commenti all'estrema sinistra]
Di questa violenza dunque che circola indisturbata nel nostro paese, che trasuda
da tutti i pori della nostra società, chi sono i responsabili e i padri? E se
proprio il discorso sulle responsabilità che sono nostre non vogliamo farlo per
pigrizia o vigliaccheria, non importa, vogliamo per lo meno occuparcene un po'?
E se questa violenza è accertata, viva, prospera e all'angolo della strada, è
giusto, producente e morale ritenere che possa essere disarmata disarmando le
forze di polizia?
[Interruzioni dei deputati Reichlin e Almirante]
Ieri l'onorevole Luzzatto -e dobbiamo essergliene grati- ci ha fatto in ordine
cronologico la storia delle leggi relative all'ordine pubblico. È partito di
lontano per arrivare fino a noi. Ci ha ricordato il testo unico delle leggi di
pubblica sicurezza, testo «dittatoriale», che prevede l'uso delle armi per il
passaggio clandestino di frontiera (si tratta di contrabbando) previa
intimazione e sparo in aria. Ci ha ricordato il regio decreto 18 giugno 1931, n.
787, articolo 181, che prevede l'uso delle armi da parte dell'agente di custodia
contro chi tenti l'evasione dal carcere. Ci ha inoltre ricordato l'articolo 19
del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, che stabilisce che nessuno in luogo
pubblico può portare armi. Qui l'onorevole Luzzatto si è fermato e, sgomento (si
tratta di una legge del 1931, non poteva essere altro che sgomento), ha
affermato: è evidente che in base a questa norma del 1931 nessuno, nemmeno gli
appartenenti alle forze di pubblica sicurezza, potrebbe portare armi in luogo
pubblico.
Se queste sono le disposizioni che riguardano l'uso delle armi da fuoco da parte
delle forze di polizia, in base a che cosa si usano allora le armi in Italia,
armi che hanno causato la morte -argomenta l'onorevole Luzzatto- dal 1947 al
1969 di più di cento cittadini?
Dai testi «dittatoriali» l'onorevole Luzzatto è passato a quelli democratici. E
qui le sorprese non mancano. Ha citato il regolamento del 28 ottobre 1948 (e
non, come ha tenuto a precisare, del 1922), che portava questa intestazione:
"Raccolta di norme legislative e regolamentari ad uso delle scuole di polizia",
stampato nel 1966 dalla casa editrice Universale. L'onorevole Luzzatto si è
soffermato su alcune di queste norme democratiche. Dal mucchio ha preso il caso
dei perturbatori disarmati. Come vengono trattati dal regolamento democratico
questi perturbatori disarmati? «Le truppe impiegheranno fucili e pistole o
fucili automatici e armi similari, purché messi in posizione tale da sparare
colpi singoli». A questo punto l'onorevole Luzzatto si è chiesto: ma, almeno, la
procedura dell'articolo 18 e seguenti della legge fascista di pubblica sicurezza
(sciarpa tricolore, tre squilli di tromba, intimazione) è richiamata? Niente, ha
detto l'onorevole Luzzatto. Il regolamento del 28 ottobre 1948 (e non del 1922),
regolamento democratico, innova tutto e lo onorevole Luzzatto ha citato
l'articolo 293 di esso: «È facoltà dei comandanti di reparto ordinare sotto la
loro responsabilità che la truppa si rechi sul luogo dell'impiego con le armi
cariche ...», e, in base all'articolo 295, riuscita vana l'intimazione, si
procede senz'altro all'uso di «autoblindo e carri armati dei vari tipi che siano
particolarmente adatti a tale compito». Articolo 296, sempre del testo
democratico: «II comandante del reparto può senz'altro» quindi senza ricorrere
alla procedura prevista dal testo unico (il testo dittatoriale: fascia
tricolore, tre squilli di tromba, eccetera) «dopo rapida e serena valutazione
della situazione, dare ordine, di aprire il fuoco. Decide quali armi... devono
essere impiegate; ... regola la condotta del fuoco del reparto... Il fuoco dovrà
essere diretto contro gli individui che appaiono più pericolosi... Mirare al più
pericoloso, a colui che inciti alla violenza e possibilmente al capo». Se c'è
uno di noi, ha detto tutto tremante l'onorevole Luzzatto, è fatta, è finita,
diventiamo il bersaglio preferito.
È triste morire in base a norme nate dal grembo della rinascente democrazia (nel
1948) e ribadite nel 1966, in pieno centrosinistra; le avesse stampate per lo
meno l'onorevole Tambroni: no, le hanno ristampate nel 1966, in pieno Governo
con Pietruccio Nenni ministro degli esteri.
Questo, ha commentato l'onorevole Luzzatto, è il regolamento autorizzato dal
ministro Pacciardi il 28 ottobre non del 1922, ma del 1948. Dal regolamento,
l'onorevole Luzzatto è passato a commentare la circolare n. 400 del 1950: stessi
concetti e stesse istruzioni. Al n. 16 di questa circolare del 1950 è detto che
l'azione di chi è chiamato a restaurare l'ordine deve essere sempre più rigorosa
di quella svolta da chi l'ordine ha turbato. «Dove andiamo», ha commentato
Luzzatto, «con lo stato di necessità dell'articolo 54 del codice penale»
(fascista, aggiungo io), «con la proporzione fra offesa e difesa dell'articolo
52 del codice penale» (sempre fascista, aggiungo io)? Al n. 20 della citata
circolare democratica è detto: «II fuoco sarà diretto contro gli elementi più
facinorosi ...». Ecco, ha commentato l'onorevole Luzzatto, è vietato dalle norme
democratiche il fuoco di intimidazione; «in aria non si deve sparare, mentre
quelle tali leggi di cui prima parlavo» (devo tradurre: leggi fasciste)
«prescrivono di sparare per aria per l'evaso, per il contrabbandiere... Due
volte si doveva sparare in aria, prima di sparare all'uomo; qui, invece, sparare
in aria -dice Luzzatto- è vietato».
Questo è nei documenti del 1948, del 1950 e in quelli, ristampati, del 1966. E
si dice che i rivoluzionari manchino del tutto del senso dell'umorismo. Ieri
sera, infatti, un illustre esponente della sinistra, facendo la storia di queste
norme fasciste e democratiche relative all'ordine pubblico, ce ne ha dato una
illuminante prova, sfiorando in molti punti, evidentemente senza accorgersene,
la vera e propria apologia del regime. Ha detto tutte queste cose senza
arrossire dalla vergogna e -non c'è dubbio- era in perfettissima buona fede.
E veniamo un po' ad altri testi. L'onorevole Franchi questa mattina ha fatto
molte citazioni da questi testi. C'è, per esempio, un libretto dal titolo: "La
guerriglia in Italia - Documenti della resistenza militare italiana". È stato
elaborato dal senatore Pietro Secchia. Pare un libro storico, retrospettivo,
appartenente al passato. Sfogliamolo. Tra le istruzioni che Giuseppe Mazzini e
Giuseppe Garibaldi davano ai patrioti di allora in tema di guerriglia, fra il
decalogo del partigiano, fra le circolari del Comitato volontari della libertà,
c'è una parte centrale dedicata con ampi particolari a tutte le tecniche più
moderne, non solo per condurre una vera e propria azione di guerra, ma azioni di
sabotaggio, singole, collettive, di guerriglia, in strada, in fabbrica, in
città, nelle caserme. C'è tutto sull'attentato, sul sabotaggio, sul colpo di
mano, sull'imboscata, sul blocco, sulla preparazione e sull'addestramento. È
tutto materiale facile da trovare, non c'è bisogno -come ha fatto l'onorevole
Luzzatto- di andare alla biblioteca Alessandrina per trovare quel libro con le
norme democratiche: ne sono piene tutte le librerie, è alla portata di tutti.
Cerchiamo il capitolo sulla guerriglia. Non occupiamoci della guerriglia
collegata a normali operazioni di guerra, ma vediamo un po' la guerriglia
collegata ad azioni di pace. «La guerriglia -è scritto- non è mai fine a se
stessa; si propone sempre di favorire, direttamente o indirettamente, la
riuscita dell'azione politica interna o esterna, che dovrà portare o
all'insurrezione generale o all'intervento armato straniero per la conquista del
potere. Organizzata in tempo di pace, la guerriglia può tendere a logorare la
organizzazione civile e militare esistente, a creare una situazione locale atta
a giustificare l'intervento armato dello straniero, ad agevolare la penetrazione
delle forze di quest'ultimo». E ancora: «Organizzata in pace o in guerra per
provocare la caduta di un determinato regime politico o la sostituzione di
questo con un altro, portata già sul piano della guerra civile, la guerriglia
può prefiggersi di: minare il morale delle forze regolari; ledere il prestigio
del Governo, sottraendo alla sua autorità il controllo delle forze armate;
estendere ed approfondire sempre di più il movimento in tutto il territorio
nazionale e in tutti gli strati della popolazione, in modo da accelerare il
processo di disintegrazione delle forze e dei poteri governativi; guadagnare il
favore delle masse, sempre disposte a tollerare il più forte e, in ultima
analisi, a proteggerlo e a seguirlo».
E ascoltate questa descrizione di una caserma dei carabinieri: «Le costruzioni
delle caserme dei carabinieri, anche le recenti, peccano di una eccessiva
fiducia nella stabilità del regime. Esse sono delle semplici case, senza nessuna
particolare architettura difensiva. Esse non hanno niente di militare. Attaccare
una caserma dei carabinieri significa attaccare una casa. Ma anche l'attacco di
una casa non è un fatto semplice, se quelli che la occupano sono prevenuti e
intendono difenderla con le armi. I dirigenti locali devono conoscere la
situazione interna e il servizio di vigilanza che viene esercitato di giorno e
di notte».
Direte: sono documenti storici, cose superate, diletto di chi si occupa di studi
militari. Può essere, ma a noi pare che con il pretesto della documentazione
storica si diano istruzioni ben precise, nette, vive e attuali ai militanti. È
un manuale da tenere in tasca per tutti gli scopi e per ogni evenienza, e che
porta la firma del senatore Secchia. Questo fiorire di studi sulla guerriglia è
strano; ne sono piene tutte le librerie. Chi va a caccia (come si fa da tutte le
parti politiche) di documenti segreti, perché non si ferma su questo strano
fenomeno, su questo incredibile successo librario, senza precedenti? C'è tutto,
dalla guerriglia a come si preparano le bombe Molotov.
Si argomenta: là dove il costume democratico è profondamente penetrato nelle
istituzioni, i cittadini rispettano la polizia e, a sua volta, la polizia
rispetta i cittadini e in essi confida, sentendosi responsabile della loro
sicurezza e assistita dalla loro fiducia.
Ma nell'affermare questo concetto, bello in verità, come si legge nel disegno di
legge di iniziativa del senatore Fenoaltea, tendente a togliere le armi da fuoco
alla polizia, si danno della polizia questi giudizi: «In Italia la polizia non è
né amata né rispettata, ma soltanto temuta: temuta dagli onesti». «In Italia la
polizia perseguita gli oppositori del Governo, non i criminali». «II funzionario
di polizia si trasforma spesso da ottimo padre di famiglia, venuta l'occasione,
in un essere incapace di ragionare e pronto a macchiarsi di sangue».
E che immagine ci ha dato ieri sera l'onorevole Luzzatto degli agenti di
polizia? Feroci e cretini, «uomini dissociati».
Si insiste: perché rinunciare a cambiare? perché non creare un nuovo costume? È
inutile aspettare una situazione in cui la violenza sia bandita, perché se così
fosse non ci sarebbe più bisogno della polizia. Cominciamo, e cominciamo col
disarmare la polizia.
Potrebbe apparire un discorso convincente. Ma chi, in coscienza, può affermare
che nel clima odierno di violenza generalizzata che esplode dappertutto e non
solo in senso fisico, che è nelle cose, nella stampa, che entra violentemente in
casa attraverso la televisione, che squassa famiglie, corrompe ragazzi
tredicenni, che è racchiusa, terribile -sono d'accordo con l'oratore che mi ha
preceduto- in questa società dei consumi, per cui il denaro è tutto (e la via
più breve per averlo è la rapina alla banca o al vicino ufficio postale); chi
può affermare, in coscienza, che il primo provvedimento da prendere è quello di
punire la polizia, mandandola ad operare dotata di scacciacani?
Parliamoci con franchezza: dall'estrema sinistra alla sinistra democristiana uno
e ben determinato è l'intento, al di là delle belle parole sulla funzione dei
tutori della legge: punire la polizia, punire l'arma dei carabinieri.
Questo intento trasuda dagli interventi, dagli scritti, dalle proposte di legge
presentate. Cito un solo particolare: all'articolo 15 della proposta di legge
dell'onorevole Foschi (che parlerà dopo di me) ed altri sul disarmo della
polizia è fatto obbligo di dare agli agenti e ai carabinieri, ben visibile, un
numero di matricola: quel numero di matricola che hanno rifiutato i
ferrotranvieri e i netturbini, rivendicando il diritto di essere considerati
uomini e non cifre; quel numero di matricola che è stato tolto, per analoghe
ragioni di dignità umana, all'indumento del galeotto, dovrebbe fare la sua
comparsa sulla divisa di cittadini solo perché, invece di aggreppiarsi, a forza
di raccomandazioni, nella burocrazia del partito e del parastato, hanno deciso
di dedicare se stessi al servizio di una società che, il più delle volte, gli
scarica addosso i suoi errori e i suoi delitti, in un compito faticoso, arduo,
rischioso e pagato con stipendi e salari di fame.
No, non ci sentiamo di aderire a simili richieste. Il problema non è nel
disarmare o no la polizia. Il problema consiste nel creare e favorire un clima
in cui i tutori dell'ordine possano operare con senso di responsabilità e di
misura. Ma questo è compito nostro, è compito della classe politica, che è la
prima responsabile delle tossine che avvelenano la vita del paese, del clima di
intimidazione che scuote la nostra terra.
Ma il problema politico della vicenda in che consiste? Qual è la vera morale che
si può ricavare da questo dibattito che, come la montagna, signor ministro -ella
ne è convinto-partorirà il solito topolino?
Onorevole ministro, non si dolga se faccio un breve elenco delle ingiurie di cui
ella fu gratificato nelle sedute del 15 e 16 aprile, durante la discussione sui
fatti di Battipaglia. Mi servono per ricavare la morale (come nelle favole di
Esopo) di questa vicenda. Le traggo da un settimanale, ma le ho controllate sul
testo stenografico dei lavori della Camera.
L'onorevole Geravolo l'ha gratificata di «Ipocrita!». L'onorevole Giuliano
Pajetta le ha detto: ella è «più in basso di Scelba! Se ne vada da quel posto!».
L'onorevole Bronzuto ha usato queste espressioni: «Assassini!» - «È una versione
menzognera!» - «Che buffonata è questa!». L'onorevole Piscitello: «Questo è un
incitamento all'assassinio». Il Presidente del Consiglio, a sua volta, è stato
interrotto, tra gli altri, dagli onorevoli Bronzuto e D'Alema, rispettivamente,
con queste espressioni: «Ecco chi da l'ordine di sparare!» - «Questa è
vigliaccheria politica».
E poi, onorevole ministro? Che cosa è accaduto dopo così sanguinose ingiurie che
la montagna comunista ha versato e vomitato su di lei, sul Governo e
sull'onorevole Rumor? Vi ricordate? Si è alzato l'onorevole Almirante e ha
detto: verifichiamo la maggioranza, vediamo un po' se tutto è in ordine, se
tutto quello che hanno affermato il Presidente del Consiglio e il ministro
dell'interno rappresenta il pensiero di tutta la maggioranza.
Che ha fatto la montagna comunista, così feroce, così dura, così prepotentemente
irata contro la versione che il Governo dava dei fatti di Battipaglia? Sono
stati zitti. Acqua in bocca. Non hanno fiatato. La voce l'avevano tutta perduta
nel dare dello sbirro e dell'assassino al Governo pochi momenti prima. E per che
cosa? Poveri morti di Battipaglia! I fiori che la sinistra vi ha portato sono
tutti carichi di vento e di parole, e dietro non c'è nulla, o meglio, c'è la
volontà di salvare la maggioranza di Governo.
E così è stato. Era allora che si doveva verificare quella maggioranza, non
oggi, che ha avuto il tempo di mettere il toppino sulle discrasie e sui
contrasti. Ed ecco che su "l'Unità" appare il furente discorso dell'onorevole
Gian Carlo Pajetta, riservato agli sciocchi che ci credono. Nella sostanza, la
maggioranza è tolta dai guai, salvata dai comunisti e dai socialproletari. Per
che cosa? Non lo sappiamo. Qualche maligno parla di Cassa per il mezzogiorno, di
acquedotto delle Puglie, ma io non ci credo. Ad ogni modo, vedremo.
Ecco la morale, ecco la commedia che il paese intuisce e respinge. Litigano,
urlano, fanno (sempre meno) a botte, ma poi sono tutti d'accordo e se
l'intendono.
Poveri morti di Battipaglia! Poveri dimostranti! Povere plebi meridionali!
Poveri agenti dell'ordine! Povera polizia! Sono loro i «capri espiatori» di una
turpe commedia, che si recita qui dentro con parole truccate.
E la commedia continua: non c'è il 1° maggio? E i sindacalisti che ci stanno a
fare? Non hanno i sindacalisti di tutte le tinte, ma in particolare quelli
democristiani e socialisti, alcuna responsabilità nel fallimento della politica
meridionalistica? Temono che i lavoratori dicano loro: ci avete ingannati,
sfruttati. Per tanti anni. Ci buttate allo sbaraglio in piazza contro altri
lavoratori (in grigioverde). Perché lo fate, quando dai vostri alti seggi
parlamentari, addirittura di Governo, potreste aiutarci concretamente? Perché
non fate questo, signori sindacalisti? Porse perché non avete più prestigio né
autorità nel trattare con il Governo, perché siete parlamentari, perché siete
inseriti nel sottogoverno, nel parastato, nella «mangianza» sindacale e
parasindacale, che è più grassa del sottogoverno politico? Che fate?
Per non essere accusati, ecco questo dibattito. È un alibi; serve affinchè il 1°
maggio, ingannando tutti e tutto, abbiano la possibilità di parlare del «disarmo
della polizia», dei poveri «morti di Battipaglia», come tappe sicure per un
prossimo, luminoso progresso di pace, di prosperità e di serenità.
È una turpe commedia. È una commedia che chiama la violenza, onorevole ministro.
L'onorata divisa del soldato non c'entra. È la meno onorata divisa del politico,
che è chiamata in causa. E a ragione. O ritenete, riteniamo tutti quanti di
farla franca? Non illudetevi e non illudiamoci. Non riuscirà questo turpe
giuoco. Non è la piccola politica di corridoio, dei trucchetti dei comunicati
ambivalenti, del dire «sì» alla capitolazione ai comunisti, nella sostanza, e
poi, nella forma, far parlare, in termini duri, l'onorevole Simonacci o altri.
Questo è ingannare, non è governare. Anche i morti di Battipaglia sono ora
diventati «mercato» congressuale. È cosa ignobile. E ignobile è il silenzio
della sinistra democristiana. È violenza questa, signor ministro. E si continua
a far tutto per burla. Non ce ne può venir nulla di buono.
Ho ascoltato ieri -debbo dire- con religiosa attenzione l'intervento
dell'onorevole Malagodi. È un maestro, è un uomo stimolante, un logico, un
ragionatore. In quel discorso tutto pareva incasellato al posto giusto. Vi è una
definizione di Longanesi che si attaglia con efficacia al caso. «Benedetto Croce
-scrisse Longanesi- è come un orologio svizzero: non avanza né arretra». Lo
stesso si poteva dire del discorso di ieri sera dell'onorevole Malagodi: un
orologio svizzero, perfetto, bello, un manuale; non arretra e non avanza. Pareva
così; ed io ci ho posato sopra nuovamente lo sguardo stamattina. Era la
costruzione troppo perfetta, che mi rendeva perplesso e mi stuccava. Credo di
non avere avuto tutti i torti nel rimeditare il discorso dell'onorevole
Malagodi. Era così: in quel discorso non una parola, non un cenno di
autocritica.
In quest'aula anche ora si è citata una data fatidica; non il 25 aprile 1945, ma
il luglio 1960 rimbalza da tutte le parti. L'onorevole Malagodi, che di quella
data fu il protagonista, non ama ricordarla, è roba passata. Ci fu allora un
Presidente del Consiglio che, tornato in sella soprattutto grazie allo aiuto
dell'onorevole Malagodi, disse, commentando episodi di violenza per cui oltre
100 carabinieri ed agenti erano finiti all'ospedale, che quei cittadini avevano
difeso «come potevano e come sapevano» i loro diritti.
Luglio 1960, aprile 1969. Chi può dar torto ai cittadini di oggi che, come
possono e come sanno, cioè con le bombe, con i bastoni, con la violenza,
difendono i loro diritti di uniformarsi alla vecchia direttiva del Presidente
del Consiglio del 1960, data fatidica della democrazia italiana? Non ha nulla da
rimproverarsi al riguardo -ecco, noi ci domandiamo- l'onorevole Malagodi? Se si
vuole capire qualcosa della situazione di oggi è là che occorre tornare, al
luglio 1960. La resa psicologica del Governo di cui parla l'onorevole Malagodi
ha una data ben precisa: luglio 1960.
Ieri l'onorevole Malagodi ha concluso il suo intervento con una citazione,
facendo riferimento ad una espressione in uso nell'America latina. Anch'io
voglio del pari terminare con una citazione, che riguarda il luglio 1960 e che
traggo dal libro dell'antifascista Mario Vinciguerra: "II fascismo visto da un
solitario", il quale, nel commentare i fatti di Genova del luglio 1960, afferma:
«Si dice: sono stati i grandi ricordi che ci hanno messo al di sopra dei casi
politici contingenti. Bene, ma se miravate in alto, perché vi siete mescolati
alla marmaglia, perché non avete organizzato con altro intento e con altra
disciplina qualche cosa che dovesse accostarsi ad un rito, non ad una scena
delinquenziale? Alla sera i lugubri rottami di piazza De Ferrari in Genova non
facevano offesa ai congressisti mancati, ma alle pure memorie di Gramsci, di
Gobetti, di Giacomo Matteottì e Giovanni Amendola, di Duccio Galimberti e Lauro
De Bosis, e altri e altri».
Onorevole Malagodi, ecco l'interrogativo: perché vi siete mescolati alla
marmaglia?
[Applausi a destra - Congratulazioni]