Ringraziamo il ricercatore Andrea
Biscàro e l'on. Angela Napoli per aver reso possibile la pubblicazione
della Relazione.
Riteniamo fare cosa gradita dando la possibilità di scaricarla in formato Word (.doc)
e PDF (.pdf)
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relazione in formato .doc pag. 47 - 358 KB Relazione Antimafia |
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A completamento della Relazione vi sono n. 6 Allegati..
Allegato 1 (pdf 1400 KB) "Rapporto Nester" |
Allegato 2 (pdf 1070 KB)dichiarazioni on. A. Gunnella |
Allegato 3 (pdf 860 KB) estratto da "Nuova Repubblica" |
Allegato 4 (pdf 865 KB) dichiarazioni sen. G. Verzotto |
Allegato 5 (pdf 3050 KB) Relazione sen G. Alessi |
Allegato 6 (pdf 580 KB) lettera Ministro Finanze B. Visentini |
Senato della Repubblica - Camera dei Deputati
LEGISLATURA VI - DISEGNI DI LEGGE E RELAZIONI - DOCUMENTI
Parte Terza
(Relazione del deputato Giuseppe Niccolai)
1. - Il caso Rimi e la degenerazione della classe politica.
Fra le carte di Giolitti fu trovata la nobile lettera con la quale il Ministro delle finanze Rosano, prima di suicidarsi, presentava al Presidente del Consiglio le proprie dimissioni, in quanto accusato di essersi servito, come avvocato, della propria influenza di deputato per far rilasciare dal domicilio coatto un suo difeso. Poco dopo il Ministro delle finanze si uccideva.
Fra le carte della Commissione di inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia un voluminoso fascicolo del Ministero di grazia e giustizia, Direzione generale Istituti di prevenzione e di pena, corredato di ben 69 documenti (Doc. 732) dove il Ministro di grazia e giustizia Reale e i sottosegretari di Stato Pellicani, Dell'Andrò e Pennacchini, contro ogni norma di legge e con il rischio evidente di incrementare l'attività mafiosa, come si evince dalla lettera del Centro nazionale di coordinamento delle operazioni di polizia criminale in data 27 maggio 1971 a firma del Capo della polizia Vicari, che si pubblica alla pagina seguente, adoperarono tutta la loro influenza di Ministri di Stato perchè gli «ergastolani» Rimi Vincenzo e Rimi Filippo restassero insieme nello stesso carcere e in stabilimenti di pena della Sicilia. La vicenda, resa nota sia pure marginalmente da polemiche di stampa in merito alla richiesta e mancata pubblicazione del fascicolo in seno alla Commissione antimafia, non ha commosso alcuno. Nessuno si è ucciso.
Abbiamo dato inizio a questa relazione con un riferimento ad un ministro, a tre sottosegretari, perché riteniamo che gli italiani, in tema di inchieste sulla mafia, siano stanchi di ascoltare e leggere i soliti trattati a sfondo sociologico che accertano il male, cioè l'esistenza della mafia, ne denunciano le cause, ma in quanto a responsabilità effettive, identificate o identificabili, con tanto di nome e cognome, zero via zero.
Questa relazione vuole rompere con la tradizione. Al relatore non interessa tanto la colpa, quanto i colpevoli; quei colpevoli che, dato il momento politico che viviamo, hanno insperate possibilità, oggi come non mai, di defilarsi dietro i compiacenti archi costituzionali, le maggioranze aperte, le grandi coalizioni, i compromessi storici, i fronti antifascisti, tutto l'armamentario di quella ingegneria pseudo-costituzionale che se sulla facciata sventola le bandiere della democrazia, della libertà, della pulizia morale, dietro, nelle sue intime fibre, è impastata di sordità morale e di silenzio corruttore.
Non meravigli che questa relazione si apra con il «caso Rimi». Esso consente di affrontare, non solo una vicenda di mafia, i cui contorni, per le polemiche suscitate, sono ben noti alla pubblica opinione, ma soprattutto il «caso Rimi» ci da la possibilità di evidenziare altri due aspetti fondamentali che investono, al tempo stesso, il problema di fondo scaturito da tredici anni di indagine della Commissione, e cioè che non si tratta di mettere indiscriminatamente sotto processo la Sicilia, bensì la degenerazione della classe politica nazionale, degenerazione (ecco il secondo aspetto) che ha condizionato la stessa Commissione, la sua vita, i suoi moduli operativi, il suo comportamento. E tanto è stata condizionata che l'opera sua può definirsi la più sconcertante delle opere incompiute.
Fateci caso: nessun episodio di rilievo, specie quelli impastati di morte e di sangue, è stato portato a termine dalla Commissione antimafia. Discorsi iniziati tanti, conclusi nessuno. Ne cito alcuni: il caso Giuliano, il caso Mattei, il caso De Mauro, il caso Scaglione. L'Antimafia è solerte nell'iniziare le indagini ma, al tempo stesso, è indolente quando si tratta di concludere. Tutto a metà, tutto sospeso. È il suo capolavoro.
Perché?
Ascoltate Cattanei: «Il paralizzante ricatto fra i partiti», la degenerazione clientelare, diciamolo pure, mafiosa della classe politica italiana. E che la degenerazione della classe politica sia il dato principale da cui partire per capire qualcosa del fenomeno della mafia lo confermano proprio quei commissari che, alla vigilia della chiusura dei lavori della Commissione (seduta del 10 dicembre 1975), perché dalla relazione del Presidente senatore Luigi Carraro siano tolte alcune pagine riguardanti un «personaggio» a loro caro sono venuti a sostenere che la degenerazione partitocratica è un tema che con la mafia non c'entra, non accorgendosi che, così comportandosi, danno il colpo di grazia al rapporto fra mafia e politica che, fin dall'inizio della costituzione della Commissione, è stato il terreno minato sul quale far saltare la verità o meglio per affossarla. E fa veramente sensazione che a sostenere questa tesi, in seno alla Commissione antimafia, siano i rappresentanti di uno schieramento politico che, durante l'aspra polemica fra Commissione e Magistratura, polemica poi sfociata alla Corte costituzionale, sono stati assertori della consegna alla Magistratura, di tutta la documentazione in possesso dell'Antimafia. «Senza guardare in faccia a nessuno», dissero. Ora, alla fine dei lavori, proprio perché guardano le facce dei singoli personaggi messi in vetrina, grazie ai documenti in possesso della Commissione, intendono selezionare la documentazione secondo incredibili concetti di parte e intimano al Presidente senatore Carraro, come vedremo più avanti, di depennare dalla relazione personaggi e episodi che, proprio sul terreno della degenerazione politica, rappresentano «casi da manuale» por comprendere come questa «degenerazione» sia il concime ideale sul quale la mafia cresce e prospera. E quanto sia penoso questo comportamento lo dimostra il fatto che, per trovare diversivi dinanzi alla pubblica opinione, che potrebbe accusarli di aver tradito il mandato ricevuto dal Parlamento di far esplodere la verità a qualunque costo, vanno a parare nel comodo rifugio nel quale oggi si trovano le più spericolate assoluzioni, quello (c'è da trattenere il riso!) delle collusioni fra mafia e trame nere (poteva mancare?) argomento sul quale, per dovere di informazione prima e diletto poi, per sbugiardamelo a cui vengono sottoposti i portatori di simili tesi, riteniamo opportuno, citare, in nota, brani di significative dichiarazioni rilasciate alla Commissione (1).
Ma andiamo per ordine.
2. - I moduli operativi del Presidente Cattanei.
Il 4 ottobre 1968 il deputato Cattanei veniva chiamato alla Presidenza della Commissione al posto del senatore Pafundi. La gestione Pafundi lasciava dietro di sé, per la mancata pubblicazione della documentazione acquisita e della relazione conclusiva, una scia di vigorose polemiche. L'onorevole Cattanei, 37 anni, deputato di prima nomina, per la prima volta nella storia del Parlamento italiano, sale alla Presidenza di una Commissione di tale importanza, la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia.
Le pesanti responsabilità, i gravi compiti che ha dinanzi, le polemiche mai sopite, non Io attardano. È carico di propositi e di vigore. «Mi bruciano le mani dalla voglia di fare», dirà.
Con lui l'Ufficio di Presidenza si chiamerà Consiglio di Presidenza, con lui l'impostazione dell'inchiesta portata avanti dalla gestione Pafundi viene interamente rielaborata, con lui la stessa legge istitutiva dell'inchiesta viene nuovamente interpretata. La Commissione: non tanto un freddo e distaccato organo amministrativo con compiti di semplice formulazione di proposte legislative, ma organo capace, non solo di illuminare e orientare i pubblici poteri, quanto l'intera collettività nazionale, stimolandola a reagire contro il fenomeno della mafia, soprattutto sul piano morale e civico. Questo il muovo modulo operativo. Ma quale è, e di che tipo, la verifica che ricaviamo quando andiamo a vedere i risultati che scaturiscono dai nuovi modelli operativi?
Il relatore non può non definirli negativi. Infatti, i nuovi moduli operativi dell'onorevole Cattanei, sui quali aveva già avuto modo di esprimere il suo profondo dissenso l'onorevole Nicosia, in particolare sul cosiddetto Consiglio di Presidenza, non solo, alla prova dei fatti, deludono, ma in pratica diventano strumenti grazie ai quali la pubblica opinione italiana, anziché essere chiamata a prendere coscienza del problema della mafia, ne viene emarginata, e si arriva al caso limite di servirsi del Consiglio di Presidenza per affogarvi episodi di rilievo che avrebbero dovuto quanto meno interessare, se non direttamente la pubblica opinione, perlomeno la Commissione nel suo plenum. Non solo quindi con i nuovi moduli operativi non si informa la pubblica opinione, ma addirittura la stessa Commissione.
Si veda, a tale proposito, il «caso Rimi» (e non è il solo). Nella seduta della Commissione del 16 dicembre 1971, discutendosi il «caso Rimi», l'onorevole Azzaro ebbe modo di dire: «un altro aspetto fondamentale che vorrei sottolineare è che la mafia passa attraverso i partiti. È questa una constatazione che dovrebbe essere sufficiente per unificare effettivamente ogni sforzo, per vedere di arrivare a delle conclusioni che possano riguardare il Paese e i suoi interessi. Infatti, non dobbiamo dimenticare che ci troviamo in presenza dell'assessore socialdemocratico, del Vitellaro, della Giunta socialcomunista di Alcamo, del signor Wilfredo Vitalone, democristiano. Qui c'è tutto un complesso di uomini che utilizzano i partiti e che devono essere opportunamente isolati e colpiti, perché altrimenti anche il valore politico dei partiti verrebbe ad essere vilipeso e screditato presso la pubblica opinione e di conseguenza anche il compito di questa Commissione».
D'accordo, ma l'analisi di Azzaro, sul «caso Rimi alla Regione Lazio», è incompleta. Infatti, nel rosario dei nomi da lui elencato, mancano il ministro di grazia e giustizia Reale, i sottosegretari alla giustizia Pellicani, Dell'Andrò e Pennacchini, i senatori Corrao e Cifarelli, l'alto magistrato Lo Schiavo.
Il relatore denunciava in Aula alla Camera, in occasione della discussione del bilancio interno, la presenza di un voluminoso fascicolo riguardante la detenzione dei Rimi presso il Ministero di grazia e giustizia.
A tale proposito vale riportare come sul caso si espresse, nel corso della seduta del 16 settembre 1971, il Presidente onorevole Cattanei (2).
«Dai fascicoli personali del Ministero di grazia e giustizia riguardanti i detenuti Rimi Vincenzo e Filippo, acquisiti dalla Commissione, si rileva che hanno sollecitato il trasferimento degli stessi dal carcere giudiziario di Perugia ad un istituto di detenzione dislocato in Sicilia, o che hanno avanzato premure per prorogare la loro contemporanea permanenza nel luogo di detenzione le seguenti personalità o funzionari: dottor Salvatore Tigano, capo della segreteria del sottosegretario alla Giustizia, onorevole Renato Dell'Andrò: 29 aprile 1969 (3) - «vive premure» (si ignora da parte di chi) «perché i Rimi rimangano insieme a Perugia», 27 maggio 1969 (sempre da parte del Tigano) «premure perché siano trasferiti insieme a Favignana» (4), 30 giugno 1969 «premure perché, se non fosse possibile lasciarli insieme, il Vincenzo sia destinato a Ragusa o Favignana e il Filippo a Favignana o a Noto» (5); il 6 ottobre 1969 «vive premure per assecondare l'aspirazione del Rimi ad essere trasferito a Ragusa od altro istituto qualsiasi, purché insieme» (6); 12 gennaio 1970 «rinnovate, vivissime premure» (si ignora sempre da parte di chi siano pervenute al sottosegretario) «perché Rimi Filippo sia trasferito anche temporaneamente, da Noto a Ragusa» (7). Ed in questa data è disposto -in via del tutto eccezionale- il trasferimento provvisorio per un mese (sottolineo «provvisorio per un mese» perché in seguito vedremo che fine faccia questo provvedimento). Altro intervento del dottor Filippo Romani, capo della segreteria del sottosegretariato alla Giustizia onorevole Michele Pellicani: 27 giugno 1970 «l'onorevole sottosegretario gradirebbe che tale autorizzazione fosse prorogata almeno di altri due mesi» (8). La permanenza a Ragusa di Rimi Filippo è stata ulteriormente prorogata di due mesi, come richiesto: questa è la risposta della direzione generale degli istituti di prevenzione o di pena.
«Il dottor Mario Bergesio, segretario particolare del Ministro di grazia e giustizia, onorevole Reale, il 31 ottobre scrive: «pervengono vivissime premure all'onorevole Ministro perché Rimi Filippo ottenga una ulteriore proroga della sua permanenza a Ragusa» (9). Tale proroga è stata concessa sino al 10 gennaio 1971: continuano le proroghe. Il 23 novembre 1970 (10), sempre da parte del Ministro Reale, nuovo intervento, su sollecitazione, a mezzo lettera, del senatore Michele Cifarelli. Il dottor Sabato Visco, capo della segreteria del ministro di Grazia e giustizia, onorevole Reale, il 6 agosto 1970: perché si esamini «benevolmente la possibilità di prorogare ulteriormente la permanenza di Rimi Filippo nel carcere di Ragusa»: (11) ha ottenuto, a seguito di questo nuovo intervento, la proroga di un altro mese, e cioè fino al 21 settembre 1970.
«Il 10 dicembre 1970 sempre il capo della segreteria del ministro Reale rivolge ancora pressanti richieste perché la ritraduzione del Rimi Filippo sia eseguita il 30 gennaio 1971, anziché il 10 gennaio (12). Il dottor Folino (13) (non si sa bene che qualifica avesse nell'ambito del Ministero) rivolge una segnalazione per il trasferimento a Favignana dei Rimi per la visita della rispettiva moglie e madre. Il senatore avvocato Ludovico Corrao chiede che il detenuto Rimi Filippo, in carcere a Ragusa, rimanga ancora a Ragusa (14).
«La permanenza a Ragusa è ulteriormente prorogata, a seguito di questo intervento, di due mesi (15).
«Dottor Quiligotti, capo della segreteria del sottosegretario alla Grazia e giustizia onorevole Pennacchini: 2 maggio 1970, «È stata vivamente segnalata all'onorevole sottosegretario l'aspirazione del Rimi Vincenzo perché il figlio Filippo rimanga a Ragusa (16).
«Si risponde in quell'epoca: impossibilità di aderire alla richiesta. La permanenza del Rimi è stata comunque prorogata fino al 21 giugno 1970, su segnalazione dell'onorevole senatore Ludovico Corrao (v. nota 14). Il 25 maggio 1971, sempre il dottor Quiligotti: «L'onorevole sottosegretario è stato ancora vivamente interessato in favore del signor Rimi Filippo, il quale chiede di essere restituito al carcere di Ragusa, dove è detenuto il padre» (17). Esito negativo a questa raccomandazione per particolari motivi di opportunità. 2 ottobre 1970, il senatore Michele Cifarelli, ancora al ministro onorevole Reale «per un'intensa preghiera fattami dal repubblicano dottor Vincenzo Renda, sindaco di Vita..., i Rimi vorrebbero continuare ad essere detenuti insieme nel carcere di Ragusa» (18).
«L'onorevole professor Oronzo Reale, Ministro di grazia e giustizia, il 30 gennaio 1971 risponde. «Per disposizione dell'onorevole Ministro, resa nota dal dottor Visco, vengono impartite disposizioni poiché Rioni Filippo rimanga a Ragusa fino al 15 febbraio 1971 (19).
«Poi, l'intervento del dottor Giuseppe Guido Lo Schiavo (20): rivolge vive premure al dottor Pietro Manca, perché Rimi Filippo rimanga a Ragusa ancora un mese. La proroga è stata concessa fino al 28 febbraio 1971: ecco dove si è giunti dalla prima proroga di un mese!
«Poi, sempre Lo Schiavo rinnova vive premure perché la proroga sia ulteriormente concessa: il Rimi è stato invece provvisoriamente trasferito al centro clinico delle carceri giudiziarie di Messina per ulteriori accertamenti cimici, cure e proposte (21). Devo precisare che, da parte della Commissione sono in corso accertamenti precisi per conoscere, oltre a quanto già emerge dal fascicolo ponderoso in nostro possesso del Ministero di Grazia e giustizia, da parte di chi sia il (ministro Oronzo Reale che gli altri (hanno ricevuto sollecitazioni: sappiamo che vi è stato un intervento diretto di Cifarelli e uno di Corrao, ma da parte di chi Reale ed i sottosegretari hanno ricevuto sollecitazioni perché ai due Rimi venissero concessi questi favori?
«Questi chiarimenti saranno in nostro possesso, spero, la prossima settimana». Da non dimenticare che gli atti contenuti nel fascicolo, documentano ulteriori interessamenti del ministro Reale (22) nonché del Sottosegretario Michele Pellicani (23).
Inutile dire che i chiarimenti richiesti dall'onorevole Cattanei, non sono mai giunti.
Ora desta meraviglia che il senatore Cifarelli, che ha sostituito nella Commissione antimafia il senatore Pinto chiamato ad incarichi di governo, l'unica volta che si presenta in Commissione (3 dicembre 1975) rilasci una sorprendente dichiarazione alla quale risponde da par suo Angelo Nicosia (10 dicembre 1975) (24).
Affidiamo al giudizio del Parlamento, e della pubblica opinione, la documentazione. Al relatore preme solo evidenziare come il senatore Cifarelli, al pari di quei commissari che, nella foga di salvare qualche testa sono venuti sostenendo che la degenerazione della classe politica (tema ricorrente nelle polemiche lamalfiane) non ha nulla a che fare con la mafia, si trovi del tutto in contrasto con il suo collega Pinto che il 18 ottobre 1973, sulla «Voce Repubblicana», sotto il titolo «antimafia alla resa dei conti», giustificava le sue mancate dimissioni per le sue continue assenze dai lavori della Commissione solo perché «aspettava che fossero aperti gli archivi nei quali», aggiungeva «c'è quanto basta per fare saltare innumerevoli teste e per mettere in chiaro le attività mafiose in tutti i campi, compresi i rapporti fra mafia e politica».
È proprio strano questo mondo politico! Promette le rivelazioni più sensazionali, vuole fare saltare la Santa Barbara, ma quando la verità, sia pure timidamente, fa capolino, eccolo saltare su a prospettare le giustificazioni più strane, come quella che «la degenerazione partitocratica non ha nulla a che fare con la mafia», o che «essendo io pugliese non è possibile che sia contagiato di mafia» o che «di certi documenti non è possibile servirsi perché la maggioranza ha detto di no!».
E gli archivi, con le carte compromettenti, si vogliono chiusi, sotto chiave. E guai a chi obietta!
3. - Il Vice Presidente del Senato e Giuseppe Mangiapane.
Nei nuovi moduli operativi della gestione Cattanei, un altro episodio che sta, pur nella sua gravita oggettiva, fra il patetico e il comico.
Fra le intercettazioni telefoniche operate per il rintraccio di Luciano Leggio, queste due conversazioni nella trascrizione effettuata a cura della Commissione.
Tanina. Pronto chi parla?
Donna. Buongiorno. Qui segreteria del senatore Gatto.
Tanina. Pronto?
Donna. Per cortesia, il signor Mangiapane Giuseppe, per il senatore Gatto.
Tanina. Il senatore Gatto? Senta non è in casa.
Donna. Vuole essere così cortese da dirgli…
Tanina. Sì, quando viene le faccio telefonare.
Donna. Ma dove si potrebbe trovare adesso?
Tanina. Adesso credo sia per la strada (fra sé: il senatore Gatto)!… Senta un po'... se lei mi da il numero di telefono...
Donna. Pronto, senta, lo richiamerà all'ora di pranzo, la richiamerà il senatore all'ora di pranzo.
Tanina. Sì, verso la una e mezza.
Donna. Sì, verso la una e trenta, d'accordo, grazie.
Tanina. Arrivederla.
Uomo. Pronto.
2° uomo. Peppino?
Peppino. Chi parla?
Sen. Gatto. Sono Simone Gatto.
Peppino. Ah, Simone, come mai?
Sen. Gatto. Ti telefonavo per dirti che ho parlato con Pietro e con la moglie di Pietro, e ti volevo proporre una cosa. Se ci potessimo vedere domani nella mattinata.
Peppino. Quando vuoi. Sinceramente sono, non dico lieto di questo incontro, per questa occasione, ma sono lieto per vederti, anche per vederci, quando vuoi Simone.
Sen. Gatto. Fino a che ora ci si può parlare?
Peppino. Senti, io alle dieci posso essere libero. Alle 10, perché alle 9,30 ho un appuntamento all'ufficio.
Sen. Gatto. Benissimo. Alle 10... 10,30 io sono lì. Vieni al Senato, cerca di me e ti accompagneranno.
Peppino. Lasciami il passi, allora. Sen. Gatto. Da qualsiasi ingresso. Peppino. Va bene.
Sen. Gatto. Ciao Peppino.
Peppino. Arrivederci.
Le conversazioni portano la data del 6 marzo 1970. Il senatore Simone Gatto, che fa parte nel marzo 1970 della Commissione fin dalla sua costituzione, ne è segretario. Per dovere di obiettività ci corre l'obbligo di riportare la lettera che il senatore Simone Gatto, Vice Presidente del Senato, venuto a conoscenza delle intercettazioni che lo riguardavano, trasmise al Presidente della Commissione onorevole Cattanei. Eccone il testo:
Caro Presidente,
stamani il dr. Pompei, per incarico da te ricevuto, mi ha fatto presente che in una registrazione effettuata sul telefono del ragioniere Mangiapane, è compresa una chiamata alla mia segreteria ed una breve conversazione tra me e il sopradetto.
Ritengo doveroso da parte mia chiarire il motivo. Nel marzo dello scorso anno, a Trapani, la moglie di un avvocato, mio caro e vecchio amico, mi faceva presente la sua non lieta situazione familiare che da qualche tempo era turbata da contrasti e da dissensi causati soprattutto da incauti investimenti finanziari o da una presunta relazione extraconiugale del marito. La signora mi informava in proposito che qualche tempo prima ne aveva parlato con il ragioniere Mangiapane (in occasione di un breve soggiorno di quest'ultimo a Trapani) e che lo stesso aveva avuto con il marito, che conosceva sin dall'infanzia, un colloquio riservato, sul cui contenuto sapeva solo che il Mangiapane si era informato sulla reale portata dei fatti e aveva esortato il marito a troncare ogni rapporto con la persona che era alla origine della incresciosa situazione. Dopo di ciò la signora mi pregava di volermi informare, al mio ritorno a Roma, dal Mangiapane sul contenuto del colloquio avuto con il marito o di voler fare anch'io, su tale base, i passi che avrei ritenuto più efficaci per eliminare le cause che turbavano i rapporti familiari.
A tal fine ho cercato di mettermi in contatto con il ragionier Mangiapane e gli ho dato appuntamento presso il mio studio al Senato insieme con altra persona da molto tempo in rapporti di affettuosa amicizia con l'avvocato di cui sopra e con me. Avute da Mangiapane le richieste informazioni, sono intervenuto a mia volta e, dopo qualche tempo, ho appreso che, non senza difficoltà, la situazione si era normalizzata.
Ritengo di dover aggiungere che conosco il ragionier Mangiapane sin da quando entrambi studiavamo a Trapani. In seguito ci siamo incontrati di rado, quasi sempre a Trapani, salvo un paio di volte durante il mio mandato parlamentare, a Roma.
Sino al settembre scorso non sono stato a conoscenza che il nome del ragionier Mangiapane fosse in qualche modo collegato con indagini su attività mafiose. Nel corso della discussione sulla relazione riguardante i primi accertamenti sul caso Rimi, il collega onorevole Azzaro, intervenendo in seduta plenaria, accennò esplicitamente ad una registrazione sul telefono intestato ad un non meglio specificato Mangiapane Giuseppe, da cui si evincevano rapporti assidui con Frank Coppola e altri elementi mafiosi.
Terminata la seduta, recatomi con altri colleghi nella stanza della segreteria, ho chiesto al dottor Pompei e all'onorevole Azzaro se la persona citata da quest'ultimo avesse il titolo di ragioniere e qualche procedimento risultasse a suo carico. Aggiunsi che motivo della mia richiesta era il fatto della mia conoscenza con un ragioniere Mangiapane, cognome peraltro molto raro fra i residenti a Roma. Mi venne allora escluso dal capitano Valentini (presente nella stanza) che si trattasse di una persona munita del titolo di ragioniere, né mi fu precisato quale procedimento risultasse a suo carico. Dopo qualche giorno l'affermazione fu corretta nel senso che si trattava proprio del ragionier Mangiapane Giuseppe, con ufficio commerciale in Roma, via Savoia.
Della mia conoscenza dello stesso ho riparlato nei giorni seguenti con i colleghi Azzaro, Malagugini, Della Briotta.
Mi considero, naturalmente, a disposizione, sia della Presidenza, che del gruppo di indagine per ulteriori chiarimenti che si rendano necessari.
Con i più cordiali saluti. Firmato Simone Gatto.
Qualcuno obietterà, leggendo le giustificazioni del senatore Gatto e valutando i contorni della vicenda, che di episodi del genere possono restare vittime tutti e, quindi, è puro scandalismo evidenziare nel drammatico quadro della mafia vicende del genere. Può essere, ma allora perché compiacersi, quando in episodi di questo tipo sono caduti uomini della statura di Vittorio Emanuele Orlando, al punto di farne oggetto di memoria perfino nella relazione conclusiva? Perché il caso di Vittorio Emanuele Orlando, sorpreso in corrispondenza con Francesco Coppola, viene portato sul piatto d'argento della relazione finale e servito alla pubblica opinione, mentre il caso del Vice Presidente del Senato Simone Gatto, sorpreso al telefono con Giuseppe Mangiapane, figura non certo minore nel gotha dei mafiosi, viene affogato nel solito Consiglio di Presidenza (158ª riunione del 9 novembre 1971) perché, secondo il Presidente Cattanei, il senatore Gatto Simone ha fornito esaurienti spiegazioni.
Il senatore Zuccaia, nella sua relazione incentrata sul traffico degli stupefacenti e i rapporti fra mafia e gangsterismo americano, definisce Giuseppe Mangiapane «uomo di rispetto» della organizzazione mafiosa dedita al traffico di droga (p. 413).
Un'ultima considerazione, di ordine politico e morale al tempo stesso: che sarebbe accaduto se all'altro capo del filo, con cui era collegato Mangiapane Giuseppe, nelle severe aule del Senato della Repubblica Italiana, fosse stato un altro uomo di diversa colorazione politica da quella che distingue il senatore Simone Gatto?
4. - Il sindaco di Milano Aldo Aniasi nelle conversazioni telefoniche di Jalongo.
Fra le trascrizioni effettuate a cura della Commissione, questa conversazione. Sono le ore 15,10 del 2 febbraio 1970. Tunetti chiama al telefono Jalongo:
Tunetti. Io sono, telefono sempre dal Ministero, certe cose non te le posso dire, ti volevo chiedere, tu hai tambur battente?
Jalongo. Sì.
Tunetti. Un'impresa isoritta sull'albo nazionale degli appaltatori?
Jalongo. Sì.
Tunetti. Per un importo non inferiore a cinque miliardi?
Jalongo. Da cinque miliardi ce l'ho.
Tunetti. Ecco! A me mi serve allora il certificato di iscrizione perché tu me lo consegneresti stasera quando.
Jalongo. Eh già, mi vuoi far parlare?
Tunetti. No, fammi finire a me.
Jalongo. Ecco!
Tunetti. Perché non è una cosa che posso mandare alle lunghe, perché questi stasera o domani mattina vedono il certificato di iscrizione, vedono di che impresa si tratta, chiamano l'impresa, la portano sui lavori e gli fanno vedere i capitolati speciali di appalti, non gli fanno fare i ribassi glielo danno a prezzo base d'asta e concludono entro brevissimo tempo, perché ci sono pochissimi giorni a disposizione, se no è un affare che parte per altri lidi, capisci?
Jalongo. Ho capito.
Tunetti. Lo fanno tramite gli amici miei.
Jalongo. Va bene, io oggi mi guardo tra le tante, io ne avevo quattro o cinque iscritte, cinque e una.
Tunetti. In costo illimitato.
Jalongo. In costo illimitato, la devo guardare, devo fare una telefonata no?
Tunetti. Sì.
Jalongo. Per vedere quali sono gli impegni eccetera, eccetera, e in giornata stessa io, massimo domani io penso di essere in possesso del certificato.
Tunetti. Ecco!
Jalongo. Va bene?
Tunetti. Di solito le imprese, di certificati ne ritirano dieci, quindici, venti.
Jalongo. Sì, lo so, ne ho fatti tanti io, sì.
Tunetti. Li tengono sempre a disposizione.
Jalongo. Sì, stammi a sentire, i lavori che importi sono?
Tunetti. Cinque miliardi, un lavoro per l'iscrizione non inferiore a cinque miliardi.
Jalongo. Sì.
Tunetti. Capito?
Jalongo. Sì.
Tunetti. Perché è un lavoro di importo non inferiore ai cinque miliardi.
Jalongo. D'accordo!
Tunetti. È di cinque miliardi.
Jalongo. Cosa serissima eh!
Tunetti. Sì, sì, sono strade del Sud, tu mi capisci.
Jalongo. Va bene.
Tunetti. Capito?
Jalongo. D'accordo!
Tunetti. Che altro ti devo dire? Oh, loro voglio il 13.
Jalongo. Va bene, questo poi.
Tunetti. Compreso il ribasso base d'asta.
Jalongo. Mi hai detto che lo vuole fare senza ribasso, cioè base d'asta e basta!
Tunetti. Tutto compreso! Loro chiedono questo e gli danno il lavoro senza poi fare ulteriori ribassi sui lavori.
Jalongo. Ho capito, base d'asta più il prezzo.
Tunetti. No, no, no, no più il 13! Loro con il 13 prendono il lavoro così com'è, senza fare ulteriori ribassi.
Jalongo. Se prendono la base d'asta, su questa base d'asta devono calcolare il 13 da dare sotto banco.
Tunetti. No, il lavoro supponi, di solito si fa no, 13 per, per esempio il lavoro è cinque miliardi no?
Jalongo. Sì.
Tunetti. Tu devi presentare però te lo dico io, dicono queste persone, su cinque miliardi deve presentare una offerta, è vero?
Jalongo. Sì.
Tunetti. Il ribasso per esempio del 7 per cento dell'8 per cento.
Jalongo. Sì.
Tunetti. E allora calcolano loro il 13 più il 7.
Jalongo. Sì.
Tunetti. Diventa il 18.
Jalongo. Ecco, è quello che dicevo io!
Tunetti. Invece in questo caso la somma del 13.
Jalongo. Rimane 13.
Tunetti. L'uno e l'altro! Quindi lì bisogna che ci carica almeno l'1 per cento per noi.
Jalongo. Va bene.
Tunetti. E te la vedi tu.
Jalongo. Va bene.
Tunetti. A me devi presentare l'impresa col 13 e con il certificato, cioè prima il certificato.
Jalongo. E poi.
Tunetti. Loro guardano chi è e poi facciamo tutta l'operazione.
Jalongo. D'accordo!
Tunetti. Se potessi avere il certificato entro stasera o domani mattina presto sarebbe tutto fatto.
Jalongo. Va bene.
Tunetti. Va bene?
Jalongo. Ti ringrazio.
Tunetti. Agli ordini!
Jalongo Ci vediamo dopo.
Tunetti. Va bene.
Jalongo. Sempre ai tuoi!
Tunetti. Ciao.
Jalongo. Ciao.
Il 5 febbraio 1970, alle ore 7,42, Jalongo telefona a Placido Tunetti:
Jalongo. Ieri sera sono riuscito anche con Nino ad acciuffare Aniasi.
Placido. Sì, ma già mi ha telefonato lui, mi ha informato un po' di tutto.
Jalongo. Te l'ha detto che l'ho messo alle corde, sì?
Placido. Sì.
Jalongo. L'ho inchiodato perché prima ha parlato, questo, Jalongo è come se tu oggi mi parlassi di un ... dico no, no. L'ho fatto prima parlare, poi piano piano l'ho scardinato; quando è stato alla fine si è scoperto, logicamente è quello che noi temevamo eh!
Placido. Eh?
Jalongo. È quello che noi abbiamo pensato, io e te.
Placido. Cioè?
Jalongo. E cioè che lui ha capito che stamattina doveva venire da solo e che noi avevamo le spalle coperte da qui, hai capito?
Placido. Sì, ma dice appunto, dice non ha l'appoggio per ...
Jalongo. Non ha d'appoggio per Rimi e poi ha avuto praticamente sentore che in questi ultimi giorni tra Bruno e Giacomo c'è un'acredine terribile, lo sai, sì? Tu l'hai saputo?
Placido. Sì, è un pezzo che ...
Jalongo. Ma in questi ultimi tempi specialmente. Addirittura pare che nemmeno si parlino.
Placido. Sì, sì, lo so.
Jalongo. Quindi bisogna prendere un'altra via perché quando è alla fine mi ha detto... e io gli ho detto no, a me Aniasi non mi deve raccontare le trottole perché prima di tutto spiegami quali sono i motivi o occasioni giuridici dove... procuratore della Repubblica, dice come se esiste una denunzia? Che c'entra questo dico, questo non inficia per niente, perché noi abbiamo presentato nei termini delle osservazioni che il consiglio comunale poteva accettare o respingere, quindi è sul piano giuridico che noi stiamo discutendo, le nostre osservazioni sono qualificabili ad un giudizio, noi bisogna usarle come sentenza, dice sì, questo è vero, dice sul piano tecnico no, sul piano tecnico la soluzione resta sempre uguale perché anche (la centralinista interrompe dicendo che per il «750726» c'è un'urbana urgente).
Jalongo. Senti Placido.
Placido. È per te.
Jalongo. Che me ne frega! Dunque, dice sul piano tecnico, ma sul piano tecnico ti do io la soluzione, dice no, la soluzione l'avevamo trovata anche con «Edigli», Edigli però mi ha detto... che lui al segretario gli vota contro.
Placido. No, Edigli mi ha detto, ti faccio avere l'influenza.
Jalongo. No, però lui dice a noi ha detto così, così e così, quindi io proprio l'ho scardinato in tutto, poi per scegliere il presidente lui... sarebbe disposto a prospettare questa cosa, no, io ti garantisco questo, questo e questo, quando è alla fine mi si è trascinato, mi ha preso sottobraccio e si è trattenuto più di quello che si voleva trattenere, dieci minuti a chiacchierare, va bene? Ha detto, senti quando è alla fine tu vedi la via... vedi altre vie, fai quello che devi fare, perché io in questo momento posso assicurare il mio voto e quello di altri tre, quattro consiglieri amici miei eccetera, al resto dovete provvedere voi, hai capito come stanno le cose?
Placido. Ho capito sì, appunto lo sapevo che ci voleva la copertura. Quando lui ho visto che l'abbandonava Edigli, ti ricordi quella volta.
Jalongo. E già! Non l'aveva visto Edigli?
Placido. Sì, Edigli dopo, insomma!
Jalongo. Quindi il lavoro che c'è da fare adesso Placido non è questione che qui mancano i 15, 20, 30 in più, mi spiego no?
Placido. E lo so, ma chi li conosce, lì bisognerebbe fare un lavoro.
Jalongo. Però io.
Placido. Ci vorrebbe un'altra cosa.
Jalongo. Io sono del parere che uno.
Placido. Io ho parlato con Nino.
Jalongo. Eh?
Placido. Secondo me, dicevo questa mattina ad Epiro.
Jalongo. Eh?
Placido. Bisognerebbe conoscere bene.
Jalongo. Il nominativo di tutti.
Placido. No, a parte questo i dirigenti della federazione.
Jalongo. C'è Natali poi no?
Placido. Alla federazione di Milano c'è un «itico». Tramite i suoi compagni di partito.
Jalongo. C'è Natali lì no?
Placido. Be', è lui che deve fare questo, deve fare quello.
Jalongo. Magari dobbiamo fare un lavoro di cesello in attesa... Magari anche quel disgraziato di Nino perché lui non vuole interferire qua e Ia perché deve... Nino, tanto lui ce l'ha in mano qualche cosa.
Placido. Lui ha sì, ma.
Jalongo. Sì, ma lo stesso obiettivo, lo stesso Placido occorre che veda se tante volte abbiamo un riconoscimento anche del... documentato.
Placido. Comunque.
Jalongo. Comunque il nostro pensiero è di farli lo stesso no? A margine s'intende, ma noi dobbiamo manovrare il grosso e il grosso possiamo manovrarlo con un'azione in offerta come ti ho detto prima sapendo come me ha parlato Fogli e poi ne ha parlato Aniasi ancora ieri sera.
Placido. Capisci, se allora uno se il segretario della federazione chiama i suoi consiglieri di partito.
Jalongo. Sì.
Placido. Che l'ha messi lui a fare i consiglieri.
Jalongo. Naturale!
Placido. E gli dice guardi c'è da fare questa operazione per la federazione e allora, e allora.
Jalongo. Naturale!
Placido. La cosa è fatta.
Jalongo. Naturale!
Placido. Ripeto non lo conosco, lo conosco di vista, so che ha il panzone, è alto e lungo.
Jalongo. Sì, sì, lo avrai visto... con me.
Placido. Lo avevo visto anche altre volte.
Jalongo. Anche al comitato no?
Placido. Eh?
Jalongo. Anche al comitato no?
Placido. Appunto dico, l'ho visto lì con altre, non so chi lo conosce bene e chi possa fare questo tipo di...
Jalongo. È logico che qui, noi da Roma dobbiamo muovere, muovere anche qualcuno oltre a Bruno e a qualche altro perché del resto se noi, non so, ci inserissimo nell'operazione stessa per evitare non so delle rogne, per avere un po' di comprensione, di aiuto politico eccetera, quindi da qualche maggiorente della direzione quello pure servirà per qualcuno, non è mica uno sconosciuto, mi spiego? Non può ottenere niente lui, gli altri logicamente avere riduzione, però bisogna fare un piano strategico molto intelligente perché appena ha la possibilità ad ogni minuto mi viene a raccontare appena mi ha visto: Jalongo mi doveva informare di quelle cose... Più grandi qua e là. Io l'ho fatto prima sfogare no? Poi ho detto no, no Aniasi a me un discorso così non lo puoi fare, tu mi devi dire perché non è possibile in questi termini, perché non è possibile in questi termini ed io ti rispondo, poi io non l'ho voluto nemmeno strapazzare quando lui ha toccato un punto molto delicato di cui tu conosci i retroscena, ti ricordi «Casellari» eccetera. E mille altre operazioni che abbiamo fatto perché si doveva favorire un tale qui.
Placido. Sì.
Jalongo. E questa l'ha fatta lui personalmente, hai capito?
Placido. Sì.
Jalongo. L'ha fatta proprio lui, io ho i termini, ma adesso non tocchiamo quell'argomento, sai perché si sono fatte delle zone residenziali? Io no, non ti ho chiesto zona residenziale, ti ho chiesto zona disco che si possono fare so, perché sono previste poi dal nostro piano regolatore, che si possono fare sia dei capannoni industriali per gli autotrasportatori, sia le casette con un minimo di un metro per un metro (non si capisce) allora avete capito, io vi posso dare soltanto qua e là perché io non ho, gli ho detto quindi vedete voi come credete però... quei tre o quattro amici ci penso io, al resto dovete provvedere voi, hai capito? Allora? Che fai?
Placido. Chi dovrebbe provvedere?
Jalongo. E va bene, io li posso illuminare, a te ti potrei dire, guarda Placido, si dovrebbe fare questa manovra così, al resto ci pensi tu, perché la voce del... è tua mica è mia.
Placido. Si potrebbe fare insieme.
Jalongo. Questo senz'altro, se noi, non so, lo facessimo parlare con lui vuole essere qualificato e definito come uomo di partito, insomma, e lo merita perché è un grandissimo esponente. È stato segretario nazionale confederale della CGIL, è stato vice capo di gabinetto insieme... di Nenni, ha un precedente di partigiano qua e là, insomma un attivismo politico l'ha dimostrato in tutti i sensi e fattivo. È amministratore delegato della banca, è uno dei capi della Montedison, insomma è un elemento che non credo che si trovino delle contrarietà per poterlo qualificare no?... Deve avere, magari, chiama anche coso, non so, quello che tiene le funzioni di Garofalo nel partito, non so chi è che sta vicino a Mancini, perché lui, lui vuole questo avvicinamento a Mancini, proprio espressamente, a Giacomo ha detto, lui non ha parlato né di De Martino, a Giacomo ecco!
Placido. (Non si sente).
Jalongo. Lui è un elemento validissimo Placido, ma tu lo sai, a Roma hanno una ventina di magazzini con decine di migliaia di dipendenti, nel Lazio quanti ne hanno, anche come Vassalli eccetera, è un nome che può essere utile, ti pare no?
Placido. (Non si sente) anche Landolfi, vediamo se è possibile.
Jalongo. Anche Landolfi, tutti, chi tira le redini nell'azienda io non lo so, conosco tutti quelli che tu mi presenti, ma quali sono i loro veri poteri.
Placido. No, chi sta vicino a Giacomo è Landolfi.
Jalongo. È Landolfi. Embè ogni tanto questo ritorno in auge è cosa strana, ma.
Placido. Va bene, vediamo un po' se si può fare qualche cosa.
Jalongo. A che ora vieni giù?
Placido. Guarda, io alle dieci ho un appuntamento con coso lì, con l'assessore, con Frajese.
Jalongo. Frajese, sì.
La terza conversazione telefonica come s'è detto, ha per interlocutori Italo Jalongo e Silvana Colella, allora segretaria di Jalongo e con lui convivente m un lussuoso appartamento di sei locali in via Salandra 5, a Roma. Anche qui, durante la conversazione, il nome di Aldo Aniasi, socialista e sindaco di Milano, ricorre con frequenza.
Silvana. Ieri sera che hai fatto poi?
Jalongo. Ieri sera ho parlato con Aniasi.
Silvana. Ah sì? Allora è stato utile il...
Jalongo. Andare giù?
Silvana. Eh!
Jalongo. Sì, Aniasi, Fogli e c'era anche Poletti, il capo delle pubbliche relazioni della stampa, quello che ho incontrato a Milano no?... di bagordi. Ho avuto una discussione accesa e violenta con Aniasi poi mi ha abbracciato, qua e là. Voleva sostenere, no, ma (parla di questo Jalongo come se dovessi parlare di ... quello, ma tu nemmeno mi hai accennato qual'era, io l'ho fatto sfogare e poi l'ho preso in giro io no? Poi ho risposto io. Epiro, Epiro è rimasto terrorizzato.
Silvana. Lo credo!
Jalongo. Terrorizzato proprio, insomma alla fine mi ha dovuto dare ragione, dice è una cosa inattesa io ho dovuto assumere questa posizione perché non imi sentivo le spalle protette dal partito in quanto alcuni dei nostri mi davano contro, e allora puoi immaginare, ce l'aveva verso Tunetti, verso Epiro, verso tutti gli altri, dice ammazza che figlio di una mignotta che sei... dice poi mi sento stanco.
Silvana. Ah, era stanco?
Jalongo. Ha detto, sei un figlio di puttana.
Silvana. (Non si sente).
Jalongo. Ma che c'entra questo discorso, eh no, tu mi vuoi far credere che questa è la morte di questo.
Silvana. Tu gli dovevi dire, ma che ti frega…
Jalongo. Mi devi dire i motivi giuridici (non si capisce) all'ultimo è dovuto crollare per forza, perché dico a me mi servono i riscontri che ho cacciato... a Tunetti, Epiro, a me mi devi dare i termini (risata) alla fine questo si è impressionato, andare avanti in questo lavoro, quei quattro, cinque, quanti siete, per il resto provvedete voi... va bene?
Aniasi è Aldo Aniasi, sindaco di Milano; Giacomo è l'onorevole Giacomo Mancini, Ministro dei lavori pubblici del tempo; Bruno è Bruno Somaschini, membro del Comitato centrale del PSI, allora segretario particolare dell'onorevole Mancini; Epiro è Antonino Epiro, segretario dell'onorevole avvocato Giuliano Vassalli; Natali è Antonio Natali, ex-segretario della Federazione milanese del PSI, Presidente della Metropolitana, membro del Comitato centrale del PSI; Landolfi è Antonio Landolfi, membro della Segreteria nazionale del PSI; Frajese è il professor Antonello Frajese, al tempo della telefonata fra Jalongo e Tunetti, assessore al Comune di Roma; il «grandissimo esponente» che Jalongo e Tunetti nominano soltanto attraverso le sue cariche (segretario confederale della CGIL, vice capo di gabinetto di Nenni) è il dottor Gino Sferza; infine, Placido Tunetti, l'uomo con cui Jalongo conversa, passando in rassegna lo stato maggiore del PSI, era, al tempo della intercettazione, segretario del nucleo aziendale socialista al Ministero dei lavori pubblici, membro del comitato direttivo della Federazione romana del PSI.
È cosa risaputa: le vicende relative a Italo Jalongo, collegate al «caso Rimi» alla Regione Lazio, hanno fatto saltare parecchie teste, alcune di rilievo come quella del Procuratore generale presso la Corte d'Appello di Roma, Carmelo Spagnuolo. Altri hanno pagato o stanno pagando: Romolo Pietroni il magistrato, consulente della Commissione; il magistrato Vitalone sotto giudizio del Consiglio Superiore della Magistratura; uomini politici, funzionari. Indenne è rimasto lo stato maggiore del PSI, con alla testa il sindaco di Milano Aniasi Perché?
Perché quello che Cattanei temeva («L'antimafia non si farà paralizzare dall'equilibrio dei ricatti che, secondo qualcuno, si sarebbe stabilito fra i partiti», al giornale "La Stampa" 22 dicembre 1970) e che escludeva si sarebbe verificato, purtroppo (e i fatti che riportiamo lo dimostrano) è accaduto. Quando il caso ha voluto che la vicenda Rimi-Jadongo approdasse anche a Milano, il paralizzante equilibrio dei ricatti fra i partiti ha chiuso la sua morsa e il silenzio è sceso sulle compromettenti carte della Commissione.
Quanto di recente è accaduto nell'aula del Senato della Repubblica (11 dicembre 1975) protagonista da un lato il senatore Corrao, difensore di Verzotto, e dall'altro il PCI (nelle cui liste Corrao è stato eletto), è la riprova che il «paralizzante equilibrio dei ricatti» investe tutti i partiti e che le stesse vicende, nel bene e nel male, della Commissione antimafia, entrano nel «paralizzante» accordo che, in Sicilia, è stato di recente concluso fra il PCI e i cosiddetti partiti dell'arco costituzionale.
Il senatore Corrao si ribella e rivela episodi sui quali la stessa Commissione antimafia non ha voluto andare a fondo. Infatti solo l'11 dicembre 1975, la Commissione apprende che il senatore Corrao, dopo aver saputo dal senatore Verzotto circostanze particolarmente significative sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, ne ha riferito al magistrato.
Nelle carte dell'Antimafia il caso De Mauro è un discorso iniziato ma non concluso. Perché?
Nelle carte dell'Antimafia il caso di Enrico Mattei, presidente dell'ENI, è un discorso iniziato ma non concluso. Perché?
Nelle carte dell'Antimafia la morte del procuratore Scaglione è un discorso iniziato ma non concluso. Perché?
Nelle carte dell'Antimafia la pugnalata, che per poco non costa da vita ad Angelo Nìcosia, è un discorso iniziato ma non concluso. Perché?
Si potrebbe continuare. Ora, ecco spuntare in Sicilia l'accordo di vertice fra il PCI e l'arco costituzionale, ma la verità non fa un passo avanti. Anzi.
Non cadono teste nel paniere dell'Antimafia. Le teste si salvano sotto l'arco costituzionale. E il sasso in bocca è per Lodovico Corrao. Perché?
Ce lo dice Verzotto ("Europeo" 23 maggio 1975): «Centinaia di milioni, grazie a Sindona sono finiti al ministro Andreotti, al ministro Colombo e al senatore Fanfani».
L'accordo «conciliare» soffoca ogni cosa, soprattutto la verità.
5. - Il caso Fagone
La Commissione, subito dopo la cattura di Luciano Leggio, ha voluto acquisire tutti gli elementi utili a rilevare la consistenza patrimoniale del Leggio e delle persone a lui collegate. Fra le notizie raccolte dalla Commissione la più interessante è l'acquisto da parte di Leggio Maria Antonia, sorella di Leggio Luciano, di un fondo di Ha 101.03.70 con fabbricato rurale, in località Corleone, per il prezzo dichiarato di 35 milioni. Per il resto, le indagini sulla consistenza del patrimonio di Leggio o risultano negative, o evidenziano, anche nelle parsone a lui collegate compresa Parenzan Lucia (convivente con Leggio Luciano), un giro modesto di denaro.
Le robuste fortune di personaggi siciliani fegati alla politica corate Verzotto, come Giordano, come Savino Fagone, fanno impallidire le fortune economiche dai più noti mafiosi. È un aspetto inquietante anche perché il Parlamento, fra le misure che dovrà prendere contro la mafia e i mafiosi, non potrà non prendere quelle per colpire i patrimoni sospetti, soprattutto quelli sorti dal nulla.
Si da il caso ora che fra le carte della Commissione svetti, in tema di fortune sorte dal nulla, quella di Savino Fagone, ieri (1963) dipendente dell'ERAS a 45.000 lire al mese, poi assessore ai lavori pubblici e all'industria e al commercio alla Regione (siciliana, oggi deputato nazionale, con una fortuna economica che la Procura generale presso la Corte di appello di Catania, Finanza e Carabinieri valutano concordemente definendola da miliardario.
1963-1970: da nullatenente a miliardario. In sette anni.
Ma il «caso» Fagone, proprio allo scadere dei lavori della Commissione è venuto ad assumere aspetti politici e di costume di enorme interesse per il Parlamento e per la pubblica opinione.
Si da infatti il caso che nella relazione del Presidente senatore Luigi Carraro, del «caso» se ne parlasse (capitolo terzo: mafia urbana, pagine 263 e 263-bis). E in questi termini:
«Si è inoltre rilevato che esiste un enorme divario tra le richieste e le assegnazioni di credito, con la conseguenza che in questo spazio finiscono con l'operare amicizie, raccomandazioni, favoritismi e in definitiva interventi di natura mafiosa. Non sono infatti mancati casi di concessione di credito su garanzie generiche a persone notoriamente mafiose, come Mariano Licari; e più in generale la gestione bancaria sembrava svolgersi, in altre occasioni, in contrasto con l'interesse degli istituti di credito ed in deroga alle disposizioni vigenti, legittimando il sospetto di illeciti favoritismi nei confronti di noti personaggi ritenuti mafiosi, così come ad esempio è avvenuto riguardo a Francesco Vassallo, la cui fortuna cominciò proprio con la concessione, probabilmente irregolare, di una cospicua apertura di credito. Una situazione in cento senso analoga si e verificata anche per Savino Fagone, inizialmente impiegato dell'ERAS, con uno stipendio mensile di 45.000 lire, e quindi eletto nel 1963 deputato dell'Assemblea regionale e poi assessore, prima ai lavori pubblici e successivamente all'industria e commercio. Nel 1966, la Cassa di Risparmio Vittorio Emanuele accordò a Fagone un mutuo di 260 milioni di lire, per permettergli di completare il prezzo di acquisto di un fondo di notevole estensione e per fargli eseguire opere di miglioramento sulle terre acquistate; nel 1968, lo stesso istituto gli concesse un nuovo mutuo di 157 milioni e successivamente i prestiti si susseguirono a ritmo serrato fino a raggiungere la somma di oltre un miliardo e mezzo di lire. Sono cifre da capogiro, che legittimano seri dubbi circa la generosità manifestata dagli istituti bancari nel concedere a Fagone mutui così cospicui e senza nemmeno pretendere garanzie reali corrispondenti; ciò tanto più che di norma le banche siciliane si mostrano molto caute nell'erogazione del credito, ed è stata una triste esperienza della Commissione accertare come la povera gente e soprattutto i contadini siano spesso costretti a ricorrere, per fare fronte a esigenze elementari di vita, a prestiti esigui, di 2.000 o 5.000 lire, sottoponendosi a condizioni talora esose par la restituzione dal danaro. È vero che Fagone, a differenza di questi poveri cittadini, aveva nel 1970 un patrimonio valutato sul miliardo e mezzo di lire, ma è dubbio che, in occasione del primo mutuo di 260 milioni, avesse già un patrimonio sufficiente a garantirlo; così come è probabile che, se fosse rimasto un semplice impiegato dell'ERAS, non avrebbe ottenuto tanti crediti e nemmeno avrebbe avuto la possibilità di costruirsi una fortuna così imponente».
Tali affermazioni non sono piaciute ai membri socialisti dalla Commissione i quali, in data 13 novembre 1975, hanno inviato al presidente Carraro la lettera che segue:
«Con stupore abbiamo constatato che nella seconda stesura dalla bozza di relazione da lei presentata alla Commissione per la approvazione è stato aggiunto un pezzo riguardante un deputato socialista in carica, sul quale si era già soffermato il senatore Bertela, nella sua relazione "mafia e poteri pubblici", ora non più in discussione perchè assorbita in larga parte nel documento da lei predisposto.
«La relazione Bertola, fra gli altri casi definiti "emblematici", citava anche quello di un ex-consigliere regionale, oggi deputato al Parlamento, il quale, a detta del relatore, da umile impiegato dell'ERAS a 45.000 lire al mese, ricorrendo al credito presso la Cassa per il Mezzogiorno, era divenuto miliardario con la complicità sospetta degli organi di credito locali.
«La bozza da lei predisposta in secondo stesura riprende tale argomento e, con ben studiate contrapposizioni (tanto più sottili se si considera che la persona interessata alla vicenda è di parte socialista), rileva che in quella vicenda si riassumerebbe "emblematicamente" un sistema di gestione del credito in Sicilia che, mentre da un lato consentirebbe imponenti operazioni di accumulo, ipoteticamente mafiose, a favore di alti personaggi, avrebbe per contro negato ai più umili, e particolarmente ai disoccupati, financo il modesto sussidio creditizio di alcune migliaia di lire.
«Dobbiamo, per omaggio alla verità e non per solidarietà di parte, esprimere la nostra più viva protesta e respingere con energia l'inserimento di questo argomento (che appare suggerito da intenzioni strumentali) che nulla ha a che fare con la mafia e che, oltre tutto, non ha alcun fondamento obiettivo.
«E valga il vero!
«La vicenda in questione fu sollevata avanti la Commissione antimafia, nel corso della passata legislatura, da una lettera anonima la cui paternità, peraltro, era apparsa subito ben chiara ai commissari di allora, i quali, per scrupolo, vollero comunque dare corso ad accertamenti. Presa visione delle risultanze delle indagini, l'Ufficio di Presidenza della Commissione ritenne di dover archiviare la pratica perché in ogni caso rifletteva situazioni e fatti che nulla avevano a che fare con l'inchiesta affidata alla Commissione. In tal senso si pronunciarono, per gli altri, il presidente Cattanei, l'onorevole Li Causi e il senatore Vincenzo Gatto, allora vice segretario nazionale del PSIUP (tutti esponenti di forze politiche diverse dal PSI), oltre al rappresentante del Gruppo socialista onorevole Della Briotta.
«Una rapida consultazione di queste persone confermerebbe la nostra asserzione e consentirebbe di sopperire ad una carenza di verbalizzazione che, se fatta, avrebbe evitato non solo l'equivoco, ma anche l'errore di una assurda ripresa dell'argomento (avrebbe inoltre risparmiato a noi il compito di esporre, per riparare a tale errore, questi argomenti di confutazione che l'interessato non ha mai potuto offrire di persona in quanto non fu mai interrogato).
«La persona di cui è causa, entrata giovanissima in politica, appartiene ad una famiglia di coltivatori agiati che, in quanto possidenti terrieri, poterono con quei redditi avviare il figlio agli studi universitari fino alla laurea. Terminati gli studi, l'interessato si impiegò presso l'ERAS ma, nello stesso tempo, mantenne l'originaria vocazione familiare all'imprenditorialità agricola avviando in proprio una azienda che, secondo i suoi progetti e come poi in effetti venne a risultare, costituisce un esempio «pilota» di impresa agricola gestita con i più moderni e con le più avanzate e razionali tecniche di coltivazione.
«Da ciò il ricorso non al credito ordinario, ma alle leggi che prevedevano e prevedono, attraverso il Ministero dell'agricoltura e la Cassa del Mezzogiorno, interventi di sostegno per promuovere la costituzione di tale impresa e il miglioramento fondiario e strutturale delle aziende agricole: leggi n. 1960 del 1928, n. 910 del 1966 e n. 646 del 1950.
«Va subito detto che il mutuo originario erogato nel 1966, in parte per l'acquisto del fondo e in parte per l'esecuzione di opere e infrastrutture (così come vuole la legge) venne addirittura garantito, al di là delle stesse previsioni di legge con una ipoteca accesa non soltanto sul fondo acquistato, ma anche sul fondo di proprietà della famiglia di origine, valutato in 40 milioni.
Gli altri successivi mutui (che il senatore Bertola ha elencato in numero superiore al vero perché ha confuso, come d'altra parte gli stessi rapporti della polizia giudiziaria, i decreti di preventiva approvazione con gli atti erogativi) furono tutti approvati, in conformità alle leggi che ne prevedono la concessione, su presentazione dei progetti di opere e di interventi di trasformazione (sistemazione idraulica, impianto di colture specializzate, costruzione di stalle e razionali infrastrutture di elevato pregio e costo) e furono erogati, sempre in conformità alle leggi, soltanto ad opere realizzate, collaudate e verificate da apposita commissione.
«L'accrescimento patrimoniale derivato alla persona beneficiaria dei mutui, quindi, non era e non poteva essere che l'effetto necessitato della corretta utilizzazione dei fondi ottenuti per realizzare quelle opere. Nessuna meraviglia, dunque, se la capacità imprenditoriale di un agricoltore ha raggiunto proprio quei risultati che le leggi di sostegno sopra richiamate intendevano promuovere!
«Stupisce poi che non si sia avvertito che le provvidenze agrarie cui ha fatto ricorso l'interessato a termini di legge nulla hanno in comune con la politica del credito; gli enti erogatori dei mutui deliberati dal Ministero dell'agricoltura (o dall'assessorato di competenza a livello regionale) e dalla Cassa per il Mezzogiorno non hanno alcuna autonomia di giudizio essendo essi vincolati a specifiche convenzioni come enti periferici ed esecutivi. Ciò avviene sia in Sicilia che in tutta Italia, dove casi di accelerato sviluppo di singole aziende agricole per ripetuti interventi finanziari di sostegno sono normali e frequenti; anche data la specifica necessità di intensificare gli aiuti al Mezzogiorno e alla Sicilia in particolare, in questa ultima ragione è ben più giustificata la pluralità delle operazioni di sostegno.
«Quanto ai rilievi sul finanziamento ottenuto dall'interessato per la ricerca, captazione e distribuzione di acqua irrigua poi assegnata in concessione perpetua a centinaia di agricoltori della plaga catanese, è superfluo rilevare che si è trattato di meritoria opera di risanamento di una vastissima zona; in tale operazione l'interessato ha profuso anche capitali propri che, su un piano di valutazione puramente economicistico, non sono neppure stati ammortizzati per intero. Non è dubbio, comunque, che la realizzazione di una vasta rete irrigua ha portato a rilevanti miglioramenti fondiari, all'aumento della produttività e delle capacità di reddito di famiglie dirette coltivatrici.
«Ne consegue, a nostro avviso:
che l'incremento patrimoniale dell'imprenditore agricolo è esso stesso la più evidente conferma della validità e dell'efficacia delle sovvenzioni preventivamente approvate dagli enti pubblici interessati e poi erogate dagli istituti di credito locali come organi esecutivi periferici;
che le operazioni di credito alle quali si è ricorsi nel caso in esame nulla hanno a che vedere con le determinazioni dei consigli di amministrazione o dei funzionari di quegli istituti di credito (nel caso la Cassa di Risparmio Vittorio Emanuele) che, si dice nella bozza di relazione del Presidente, negavano, a fronte di cospicui finanziamenti disposti a favore di alti personaggi, financo il modesto prestito di poche migliaia di lire a favore di lavoratori disoccupati;
che nell'episodio inserito nella relazione come dato emblematico di una supposta interferenza mafiosa nel settore del credito non vi è assolutamente nulla che possa invece collegarsi con la problematica della mafia;
che quanto forma oggetto di così negativa valutazione a carico della persona che ha beneficiato delle sovvenzioni di legge non ha in sé nulla di anormale e di non conforme alla lettera e alla sostanza della normativa che istituiva e regolava le sovvenzioni stesse.
«L'aver inserito fatti ed episodi del tutto estranei al settore del credito in Sicilia per evidenziarne una sua collusione con ambienti mafiosi denuncia dunque leggerezza e superficialità, ed esporrebbe la Commissione a severe critiche qualora non si provvedesse alla eliminazione di tali affermazioni, restituendo in tal modo credibilità alla relazione ed eliminando nel contempo un atto di ingiustizia verso l'interessato e verso la forza politica in cui esso milita.
«Infine, non crediamo sia stato un atteggiamento corretto quello di avere inserito nella bozza di relazione fatti collegati ad una persona che non è mai stata sentita dalla Commissione e che non ha perciò potuto esporre, a sua discolpa, i chiarimenti specificativi che abbiamo invece, sommariamente e parzialmente, dovuto offrire noi commissari per riportare alla obiettività interpretazioni travisanti di gravissima ed inaccettabile portata politica.
«Chiediamo pertanto, signor Presidente, che ella voglia farsi interprete di questa nostra formale istanza e, rimediando ad un macroscopico errore, eliminare dalla relazione la parte di cui si è trattato, allegando inoltre, agli atti relativi all'episodio e alla persona di cui si tratta, la presente nostra comunicazione.
Tanto dovevamo. Con ossequio».
Firmato Manlio Vineis - Michele Zuccalà - Silvano Signori.
La lettera, dopo aver provocato in Commissione un breve dibattito, portava la Commissione stessa alla decisione di raccogliere sulla vicenda "banche - Savino Fagone", altra documentazione. E così è stato fatto.
Ci risulta che il Presidente senatore Luigi Carraro stralcerà dalla sua relazione il caso Fagone.
In base a quali motivazioni?
Il relatore è propenso a credere che motivazioni esclusivamente politiche costringano il presidente Carraro a depennare quello che in precedenza aveva scritto, ma dato che siamo in tema di giudizi morali, che riguardano il decoro di un personaggio politico, ritengo mio dovere mettere nella condizione il Parlamento, e la pubblica opinione, non solo di «sapere» ma di dare un giudizio sereno fornendo la documentazione raccolta.
I commissari socialisti sostengono che la vicenda Fagone è regolare, che si è sviluppata e ha preso corpo rispettando le leggi che riguardano il credito agrario, che l'episodio è di ordinaria amministrazione. Il relatore intende fornire ai difensori e agli accusatori di Savino Fagone (non si dimentichi che la vicenda è esplosa fin dal 1968 con accuse pubbliche e di estrema durezza, dentro e fuori il PSI) il racconto della storia dei mutui e altre provvidenze concesse a Savino Fagone, da quando, eletto deputato regionale nel 1963, era stato subito chiamato a dirigere l'assessorato dei lavori pubblici prima e quello dell'industria e commercio poi.
Ed ecco il racconto.
Storia del primo mutuo
Se nel 1963, all'atto della sua elezione a deputato regionale, il dottor Savino Fagone risulta un quasi nullatenente (nel 1962 effettua vendite per un valore accertato di lire 18.000), come risulta dalla documentazione agli atti della Commissione (25), non è detto che la fantasia gli faccia difetto.
Infatti, nel 1965 la sua attenzione di uomo amante della terra si posa su un fondo in località Milisinni, sito in agro di Catania, e subito pensa di trasformarlo, parte in aranceto e parte in pascolo per allevamento di capi bovini.
Non gli fanno velo le difficoltà che di solito trovano, in Sicilia, coloro che, dedicandosi ai campi, hanno bisogno di ricorrere al credito (vedi Sylos Labini: "Problemi dell'economia siciliana", il capitolo: "credito e usura in Sicilia"). E nel gennaio 1966 chiede alla Cassa centrale di Risparmio di Palermo V. E. un mutuo agrario di 350 milioni della durata di 20 anni.
La perizia del fondo non si fa attendere come accade ai comuni mortali. Infatti, il 14 febbraio 1966 il dottor Rizzo, tecnico della predetta Cassa di Risparmio, l'ha già compilata: a L. 1 milione 250 mila per ettaro il terreno, e a L. 2 milioni 500 mila per ettaro quando saranno ultimate e collaudate le opere di miglioria: totale valore del fondo circa 400 milioni.
Il 1° luglio 1966 la Cassa di Risparmio concede il mutuo di 260 milioni all'8 per cento, da destinare per 110 milioni «in un'unica soluzione ad integrazione del prezzo di acquisto del fondo» e per 150 milioni alla realizzazione delle opere di miglioramento agrario. (Si può pensare che al proprietario del terreno siano stati in effetti pagati anche meno di 110 milioni ma questo non lo sa neppure il fisco!).
Il 29 agosto 1966 l'atto di mutuo viene perfezionato e la Cassa di Risparmio di Palermo iscrive sul fondo rivalutato a L. 375 milioni ipoteca di primo grado per un importo complessivo di 452 milioni 400 mila, però il mutuatario si impegna a decurtare il predetto mutuo con i contributi concessi dallo Stato per le migliorie fino alla concorrenza di 90.000.000 di lire.
Si è detto all'inizio come al dottor Savino Fagone non faccia difetto la fantasia. Infatti, con decreto 17 luglio 1967 la Cassa del Mezzogiorno concede al dottor Fagone, su un primo stralcio di opere eseguite per lire 148.910.000, un sussidio pari al 45 per cento e cioè lire 67.009.500 e di 56.128.500 e così complessivamente per 129.547.260 sulle opere di miglioramento agrario, eseguite (contabilizzate) per 297.378.000.
Con le predette concessioni di sussidi la Cassa del Mezzogiorno concede altresì al dottor Fagone la facoltà di contrarre mutui, a valere «sui prefati provvedimenti» al tasso del 3 per cento, per un importo non superiore al 53 per cento delle opere eseguite (297.378.000) e cioè per 157.610.340.
Storia del secondo mutuo
Il dottor Fagone, nelle ventiquattro ore dalla avvenuta concessione del secondo decreto della Cassa del Mezzogiorno che avviene il 6 novembre 1967 (evidentemente la Cassa del Mezzogiorno comunica con il dottor Fagone con strumenti diversi da quelli delle poste repubblicane), chiede in data 8 novembre 1967 alla Cassa di Risparmio di Palermo il secondo mutuo di lire 157.610.000, e in data 11 gennaio 1968 il servizio di credito agrario della predetta Cassa chiede la prevista approvazione alla Cassa del Mezzogiorno.
Non c'è tempo da perdere. Nel Paese del disservizio le pratiche di Savino Fagone hanno una accelerazione incredibile ed impensabile. Infatti, la Cassa del Mezzogiorno, che di solito non è molto sollecita nello sbrigare le pratiche dei comuni cittadini meridionali, il 24 gennaio 1968, cioè nello spazio di soli 15 giorni dalla richiesta della Cassa, da il suo assenso e, solerzia nella solerzia, il Consiglio di amministrazione della Cassa di Risparmio, non volendo evidentemente essere da meno, approva nello stesso giorno, cioè il 24 gennaio 1968, l'istanza per la concessione del mutuo avanzata dal dottor Savino Fagone.
Inutile dire che alla stessa viva sollecitudine si ricorre nel sottoporre la pratica alla commissione di sconto (22 gennaio 1968) e nell'inviarla all'organo di vigilanza (25 gennaio 1968), organo di vigilanza che ne prende atto in data 13 febbraio 1968 con nota 19379. E due giorni dopo, cioè il 14 febbraio 1968, viene stipulato l'atto preliminare del mutuo estinguibile in dieci anni al tasso del 3 per cento ai sensi della legge 26 giugno 1965, n. 717.
Ed ecco le successive sequenze:
In data 24 giugno 1968 la 1ª somministrazione di lire … 78.805.000
In data 24 giugno 1968 la 2ª somministrazione di lire … 47.283.000
In data 9 ottobre 1968 la 3ª somministrazione di lire … 15.000.000
In data 19 maggio 1970 saldo lire 14.541.000
L. 155.629.000
Con il ricavato di tale mutuo e con il contributo in conto capitale di 129.547.260 ricevuto, come sopra detto, dalla Cassa del Mezzogiorno, il dottor Fagone provvede ad estinguere il 5 marzo 1970 il primo mutuo contratto con la Cassa di risparmio di Palermo.
A garanzia del predetto nuovo mutuo, elevato a 175.768.400 per capitalizzazione interesse di ammortamento, la Cassa di Risparmio di Palermo iscrive ipoteca sul fondo per 276.000.000.
N.B. - Alla data del 2 dicembre 1975 risultano insolute le rate dal 1° luglio 1973 (n. 5 x 10.237.760) per un totale di 51.188.800, perché il dottor Fagone ha chiesto la postergazione ai sensi dell'articolo 17-sexies della legge 23 marzo 1973, n. 36, ma di ciò parleremo più avanti.
Storia del terzo mutuo
Contestualmente alle operazioni descritte, l'infaticabile dottor Savino Fagone da inizio ad altre operazioni che si concretizzano, in data 16 ottobre 1968, nella richiesta, sempre alla Cassa di Risparmio di Palermo, di un mutuo di miglioramento agrario di 92.840.000 da estinguere in trent'anni con il concorso dello Stato nel pagamento degli interessi nella misura del 6,50 per cento ai sensi della legge 5 luglio 1928, n. 1760, e della legge 27 ottobre 1966, n. 910.
Qui l'assessore all'industria e commercio della Regione siciliana dottor Savino Fagone prudentemente si è già messo in tasca, fin dal 19 settembre 1968, il previsto assenso del suo collega che regge l'assessorato agricoltura e foreste della Regione siciliana.
Ed a questo punto entrano in campo i consulenti della Cassa di Risparmio, i professori Amedeo Casabone e Carmelo Schifano e il dottor Pietro Ferrotti. Il loro parere sul valore dell'azienda del dottor Savino Fagone è decisivo perché la Cassa, in data 7 marzo 1969, dia il suo nullaosta all'operazione, operazione che, perfezionata il 26 dello stesso mese, portava l'assessore all'industria e commercio della Regione siciliana a ritirare:
il 7 agosto 1969 … 46.420.000
il 10 dicembre 1969 … 46.420.000
e ciò (fatene caso!) sulla base di un certificato di collaudo in data 3 dicembre 1969 dell'assessorato agricoltura e foreste della Regione siciliana, episodio questo che dimostra due cose, e cioè che Savino Fagone riesce ad incassare ancor prima che il collaudo venga eseguito e che le opere di miglioramento agrario, per cui il Fagone incassa, vengono eseguite dal marzo al novembre 1969, cioè in otto mesi!
Nessun commento, se non notare che a garanzia del predetto mutuo di 92.840.000 la Cassa di Risparmio di Palermo iscrive altra ipoteca sul fondo Milisinni di lire 162 milioni 950 mila.
N.B. - Alla data del 1° dicembre 1975 il dottor Fagone non ha pagato le rate di ammortamento dal 1° gennaio 1973 (4.362.521 per 3) per complessivi 13.087.563, avendo chiesto la postergazione ai sensi dell'articolo 17-sexies della legge 23 marzo 1973, n. 36, di cui vedremo più avanti.
Storia del quarto mutuo
Ma il dottor Fagone, data la vitalità e la fantasia che lo distinguono e lo animano, non può fermarsi qui.
Davvero innamorato della terra e in particolare del suo fondo, non ancora soddisfatto di aver su «quel» fondo eseguito opere di miglioria per 297.378.000 (1967) e per 92.840.000 (1968), in data 15 ottobre 1969 chiede alla Cassa di Risparmio di Palermo un altro mutuo di 151.068.000 lire per eseguire sullo stesso fondo opere di bonifica di competenza privata per un importo di 251.781.000 lire approvate dalla Cassa per il Mezzogiorno, con perfetta sintonia, con decreto in data 16 luglio 1969.
E, in data 9 gennaio 1970, la Cassa di Risparmio concede il mutuo di 151.068.000 e il dottor Fagone incassa:
il 5 marzo 1970 … L. 75.534.000;
il 17 settembre 1971… L. 72.466.000 a saldo
e la Cassa di Risparmio di Palermo a garanzia di detto mutuo iscrive sul «prezioso fondo» di Milisinni altra ipoteca di lire 264.500.000.
N.B. - Alla data del 1° dicembre 1975 il dottor Fagone non aveva pagato le rate dal 1° luglio 1974 (9.414.684x3) per complessive 28.244.052, avendo anche per queste rate chiesto la postergazione di cui all'articolo 17-sexies della legge 23 marzo 1973, n. 36, di cui più avanti parleremo.
Storia del quinto mutuo
Finita? Ma che volete dire, siamo appena all'inizio! Infatti, il dottor Fagone il 5 marzo 1970 ha appena finito di incassare parte del quarto mutuo che, eccolo trionfante, prodursi nell'affondo decisivo e chiedere, il 2 marzo 1970 alla Cassa di Risparmio di Palermo un mutuo di 1.271.154.000 (un miliardoduecentosettantunomilionicentocinquantaquattromila) per operazioni di credito agrario a lungo termine ai sensi dell'articolo 16 della legge 27 ottobre 1966, n. 910 al tasso del 9 per cento con il concorso dello Stato in ragione dell'8,50 per cento, cioè allo 0,50 per cento.
Ed anche in questo clamoroso caso la tecnica da manuale che cerchiamo di illustrare nella vicenda rispetta la solita regola. Infatti, il dottor Fagone che, non lo si dimentichi, è assessore all'industria e commercio della Regione siciliana, quando si rivolge alla Cassa di Risparmio di Palermo ha già in tasca da due giorni (decreto 6/1871 del 28 febbraio 1970) l'assenso all'operazione dell'assessorato regionale agricoltura e foreste della Regione siciliana.
Ed ora le sequenze delle operazioni: 30 luglio 1970: il Consiglio di amministrazione della Cassa di Risparmio di Palermo delibera favorevolmente e concede a Savino Fagone, dopo aver fatto valutare il fondo ai propri tecnici (valore accertato: 1.013.000.000) un mutuo di 1.271.907.000, cioè di importo superiore al valore del fondo. Ma non è finita. Tale concessione viene subordinata al parere di una consulenza del professor Carmelo Schifani. Questa viene data il 3 agosto 1970 e nello stesso giorno si provvede a stipulare l'atto e la Cassa di Risparmio paga:
il 6 agosto 1970 lire 635.577.000 (evidentemente senza aver eseguito neppure una... lira di lavoro!);
il 2 aprile 1971 lire 381.346.000 (in base al primo stato di avanzamento dei lavori);
il 25 novembre 1971 lire 226.984.000 (sulla base del collaudo),
totale riscosso dal dottor Fagone lire 1.243.907.000.
Il tutto con la benedizione dei certificati (per lavori eseguiti) e «per collaudo» dell'assessorato regionale agricoltura e foreste della Regione siciliana.
Da non dimenticare: 1.243.907.000 allo 0.50 per cento per trent'anni.
Osservazioni finali
È stato citato l'articolo 16 della legge 27 ottobre 1966, n. 910. La legge parla di opere ben motivate di ammodernamento, di ristrutturazione, eccetera. La domanda, davanti alla vicenda che raccontiamo, è d'obbligo. Ma se nei due anni precedenti erano state eseguite opere di miglioramento per ben 641.999.000 (vedi contributi Cassa per il Mezzogiorno ed i mutui nn. 3 e 4), quali «specialissime» opere furono mai eseguite al prezioso fondo per un importo di almeno altri due miliardi? (Si tenga presente che il mutuo non poteva essere che del 60 per cento delle opere eseguite).
Seconda osservazione: quante rate dell'ultimo mutuo, alla fine del 1975, risultano non estinte? Il dottor Fagone ha chiesto anche per queste la postergazione.
Postergazione. In ordine a quale motivazione? La legge parla di provvidenze a favore delle popolazioni dei comuni della Sicilia colpiti dalle alluvioni del dicembre 1972 e del gennaio 1973. Ma quando mai il preziosissimo fondo di Milisinni, di proprietà del Fagone, è stato colpito da alluvioni? Se così fosse stato, è mai possibile che il dottor Fagone avrebbe lasciato cadere la propizia occasione di chiedere e moltiplicare le provvidenze in atto per le zone alluvionate?
E poi l'articolo 17 citato prevede solo un concorso nel pagamento degli interessi conseguenti al differimento delle rate dei mutui di miglioramento fondiario. Ora quelli del dottor Fagone non hanno tutti questa destinazione. E così è, perché la Cassa di Risparmio di Palermo non provvede ad agire contro il dottor Fagone, per farsi pagare le rate scadute?
In conclusione, risulta che il dottor Fagone, per l'acquisto e la valorizzazione del suo fondo nell'agro di Catania, ha contratto i seguenti mutui:
1° mutuo il 1° luglio 1966 di L. 260.000.000 che ha estinto nel 1970 con il contributo ricevuto in capitale e per migliorie eseguite (129.547.260) e con il 2° mutuo
2° mutuo il 22 gennaio 1968 |
175.768.400 |
in 10 anni |
20.475.520 |
L. 276 milioni |
3° mutuo il 7 marzo 1969 |
92.840.000 |
in 30 anni |
4.362.521 |
L. 162 milioni |
4° mutuo l'11 febbraio 1970 |
162.637.000 |
in 10 anni |
18.829.368 |
L. 264 milioni |
5° mutuo il 3 agosto 1970 |
1.243.907.000 |
in 30 anni |
45.000.000 (?) |
L. 2 miliardi (?) |
|
1.675.152.400 |
|
88.667.409 |
L. 2.702 milioni |
A questo punto la domanda di rito: ma quanto valeva alla fine del 1971 questo fondo dalle zolle d'oro? Ecco:
prezzo del terreno (ha. 160 x 1.250.000) |
200.000.000 |
migliorie riconosciute e pagate dalla Cassa del Mezzogiorno per lire 129.547.260 |
297.378.000 |
3° mutuo per miglioramento agrario |
92.840.000 |
4° mutuo per opere fond. private |
251.781.000 |
totale all'I 1 febbraio 1970 |
841.999.000 |
Però al 30 luglio 1970 l'ufficio tecnico della Cassa di Risparmio e il professor Carmelo Schifani lo hanno valutato a 1.013.000.000, tanto che l'assessorato agricoltura e foreste della Regione ha autorizzato il 5° mutuo per lire 1.243.907.000; quindi al 25 novembre 1971, da opere eseguite il fondo non poteva valere meno di lire 2.256.907.000.
Il che significa che se il dottor Rizzo tecnico della Cassa di Risparmio di Palermo affermava che, ad opere di migliorie eseguite, il fondo poteva valere circa 400.000.000 nel corso di quattro anni il dottor Fagone avrebbe eseguito opere di miglioramento per almeno 2.000.000.000.
Si ha invece la convinzione, per non dire la certezza, che le opere eseguite non valevano tanto (quando sono state contabilizzate) e non valgono neppure oggi, con la intervenuta svalutazione del 1971, che dette opere di miglioramento sono state valutate, una prima volta, per lire 279.378.000 ai fini dei contributi della Cassa per il Mezzogiorno e che le stesse opere sono poi state comprese come opere finanziate con i successivi mutui (secondo più terzo più quarto mutuo) e che tutte quante le opere, fino a quel punto eseguite, sono state di nuovo conteggiate ai fini delle erogazioni ottenute sul mutuo di lire 1.243.907.000.
E, per smontare una tale fondata convinzione, non ci sarebbe stato che un mezzo:
1) fare accertare da tecnici diversi dal dottor Rizzo, professori Casaboni e Schifani e dottor Ferrotti e dall'ufficio tecnico della Cassa di Risparmio di Palermo, la natura delle migliorie apportate al fondo ed il loro valore ai prezzi correnti nella zona alla fine del 1971;
2) fare accertare quanto vale oggi il prezioso fondo e se è tale da garantire davvero i crediti della Cassa di Risparmio di Palermo;
3) infine, se l'azienda può realizzare una rendita tale da coprire il gravame annuo di lire 150.700.760 come assicura il perito professor Guerrieri.
Ho scritto «non ci sarebbe stato che un mezzo». Perché? Perché la Commissione antimafia, dalla Democrazia Cristiana al Partito Comunista ha, non solo lasciato dormire per anni questo caso clamoroso, poi, trovatoselo fra le mani, lo ha sotterrato perché così hanno voluto i socialisti. E fa davvero sensazione leggere nella relazione dei commissari del Partito comunista le difese di Savino Fagone in un momento in cui si chiede la soppressione di «quella» Cassa del Mezzogiorno che dello scandalo Fagone è protagonista prima. Ed ecco che la verità, in un altro caso di rapporti tra mafia clientelare e politica, viene affossata.
Mi corre l'obbligo di ricordare che la documentazione su riportata si limita a fare la storia dei mutui. Nulla dice del fatto che Savino Fagone nel 1963, anno della sua prima elezione a deputato regionale, possedeva tre unità edilizie di modestissimo valore e ha. 5,50 di terreno di coltura mista (nel 1962 Savino Fagone aveva effettuato vendite per un valore accertato di lire diciottomila). Il documento tace sull'attività che il Fagone, contestualmente ai mutui che otteneva con la procedura che abbiamo visto, svolgeva acquistando appartamenti, autovetture (10 automobili, dalla Jaguar alla 500); vendendo acqua per irrigazione ai contadini (reddito mensile: 400.000 lire); acquistando motoscafi da diporto. Il documento tace che Savino Fagone fino al 1969 non presenta la dichiarazione unica dei redditi e che nel 1969, omettendo di dichiarare tutti gli immobili di sua proprietà, indica solo emolumenti percepiti dall'ESA (Editori stampatori associati - s.p.a. di Palermo) per lire 960.000.
6. - Il Credito: il caso Miallo
Così il Presidente senatore Luigi Carraro, subito dopo aver descritto nell'ordine le vicende di Savino Fagone, di Domenico La Caverà, di Vito Guarrasi e di Graziano Verzotto: «Le vicende e gli episodi ora narrati non sembrano, almeno in apparenza, collegati con il mondo della mafia, ma al di là di queste, resta il fatto che è stato proprio nel parassitismo e nel clientelismo programmato, in una parola nel sistema del malgoverno, di sprechi, di strumentalizzazione delle stesse istituzioni, e quindi in definitiva nel comportamento di certe persone che hanno trovato terreno favorevole e nuovo alimento il costume e la presenza mafiose.
«Se è vero che lo Stato accentratore e poliziesco ha avuto la sua parte nelle origini della mafia, è altrettanto certo che uno Stato che eleva a regola la dilapidazione del patrimonio nazionale a favore dei ceti privilegiati, e che si presenta a una popolazione che vive ancora in pesanti ristrettezze economiche, con le ricchezze sfacciate e di incerta provenienza di alcuni suoi rappresentanti, non è meno colpevole della sopravvivenza della mafia, appunto perché mentre favorisce pericolose collusioni e illecite connivenze, dissuade i cittadini da quell'attiva collaborazione con l'apparato pubblico, che potrebbe essere un fattore decisivo per la liberazione e il riscatto del popolo siciliano».
Siamo d'accordo, ma dobbiamo amaramente constatare che la vicenda Fagone, emblematica per le considerazioni morali svolte dal Presidente senatore Carraro, non fa più parte, perché depennata, dalla relazione finale della maggioranza.
E questo perché (udite, udite!) i commissari socialisti, nell'istante in cui chiedevano di colpire la raccomandazione come veicolo di corruzione, pretendevano lo stralcio del caso Fagone dalla relazione del senatore Carraro.
Nella relazione di maggioranza queste considerazioni: «Gli episodi accennati dimostrano come un costume tipicamente mafioso ha caratterizzato tutto il sistema del credito. Sono stati frequenti i casi di finanziamenti concessi per la mediazione di personaggi in qualche modo collegati con il mondo della mafia, così come non sono mancanti le ingenti fortune patrimoniali costruite sulla degenerazione e sui difetti del sistema bancario. Una legge bancaria, nata in un clima e in tempi diversi e diretta a sostenere certi gruppi di pressione, si è rivelata inadeguata nel dopoguerra alle esigenze del mercato creditizio e ha favorito la formazione in Sicilia di una costellazione inverosimile di istituti bancari, non dissimile, pur nella diversità delle opinioni, da quelle sulla quale, negli ultimi anni, ha costruito il suo impero Michele Sindona». (26)
Michele Sindona, Graziano Verzotto, Aristide Gunnella, Pietro Giordano: un altro capitolo si apre, avendo alle spalle altri due personaggi che, fino a poco fa, apparivano molto sfuocati nell'ottica della Commissione: Vito Guarrasi e Domenico La Cavera.
Di questi «personaggi» non ci si può limitare a riportare il curriculum della propria vita. Troppo semplice, non ci aiuta a capire. Innanzitutto è da rilevare come questi personaggi siano legati ad un medesimo filo, come una medesima logica li guidi, come non esistano «spaccati» particolari, ma come, dietro ai loro atti e comportamenti, ci sia una strategia comune: la lotta per il potere e come da questa lotta, sconvolgente, drammatica e sanguinosa, la mafia modelli, via via, i propri moduli operativi. Non si può comprendere nulla della mafia se non si ha il coraggio di mettere la mente e le mani in quella «lotta del potere» che è il vero focolaio del fenomeno mafioso fin dallo sbarco alleato in Sicilia.
Nella seduta della Commissione del 25 novembre 1970, Giuseppe D'Angelo, allora segretario regionale della Democrazia cristiana, già Presidente della Giunta regionale siciliana, da tutti considerato un galantuomo, ebbe modo di dire: «se non diciamo qual è la mafia in Sicilia, chi ha rappresentato in questi anni l'intermediazione parassitaria nell'economia siciliana, chi ha travolto il bilancio della Regione in imprese folli, se non troviamo i cervelli, se non li classifichiamo, se non li collochiamo nella storia e nella vita politica della Sicilia, allora non avremo trovato la mafia; avremo cercato collusioni rispetto a qualcosa che non abbiamo saputo trovare».
Siamo al punto dolente. Giuseppe D'Angelo, a parere del relatore, pone, in tema di mafia, il problema centrale, di cui già facevamo cenno all'inizio di questa relazione, e cioè che sarebbe assurdo ed immorale al tempo stesso che, mettendo sotto processo la Sicilia, dimenticassimo l'imputato numero uno: la classe politica, le sue degenerazioni partitocratiche.
7. - Vito Guarrasi e il PCI
Ora, non si può capire Graziano Verzotto e la sua corte se lasciamo nella penombra, come si è fatto fino agli ultimi mesi, la figura di Vito Guarrasi, di Domenico La Cavera e dell'avvocato Calogero Cipolla. Non si può capire nulla, nemmeno della vicenda «Giuliano», costellata di episodi che puntualmente ritroveremo, a scadenze fisse, nella vita della Repubblica italiana, senza spiegare il caso Guarrasi. Dirò di più: è il caso Guarrasi che ci da la possibilità di evidenziare come nasce la Repubblica italiana, quali ne siano gli elementi costitutivi, quella Repubblica che oggi, per dirla con Leonardo Sciascia, è tutta «sicilianizzata». «Siamo tutti siciliani, e non solo in Italia», afferma lo scrittore de "Il Contesto".
Vito Guarrasi: l'onorevole Emanuele Macaluso, come primo firmatario presenta il 30 maggio 1974 (sommario Camera dei deputati n. 250) la seguente interrogazione: «I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell'interno, per conoscere il suo pensiero in ordine alle dichiarazioni rese dal questore Mangano nel corso di un confronto giudiziario svoltasi con il noto mafioso Frank Coppola, davanti alla Corte d'Assise di Palermo e riprese e ribadite in successive dichiarazioni fatte dallo stesso Mangano al settimanale "l'Espresso".
In particolare gli interroganti chiedono di sapere:
1) se il Ministro era a conoscenza delle rivelazioni fatte dal Mangano;
2) per quali ragioni il Mangano ha taciuto le notizie che dice di avere ottenuto dal «confidente» Coppola agli organi dello Stato che svolgevano le inchieste giudiziarie sui gravi casi a cui egli ha fatto riferimento;
3) per quali motivi il questore della Repubblica italiana, Angelo Mangano, che dice di conoscere la «testa di serpente» che, dalla liberazione in poi, ha pilotato la mafia siciliana e ha ordinato i più efferati delitti consumati in questi anni in Sicilia, non ha agito per assicurare alla giustizia questo personaggio;
4) considerati i comportamenti attuali e passati del questore Mangano, per quali ragioni il Ministro non ha provveduto ad allontanarlo dal corpo di Pubblica sicurezza e di denunciarlo all'Autorità giudiziaria».
L'autorevolezza dell'interrogante (l'onorevole Emanuele Macaluso è molto addentro alle cose siciliane); l'oggetto dell'interrogazione; la richiesta di risposta orale all'interrogazione (fatta, cioè, per non avere risposta); la condanna del questore Mangano senza attenuanti; i rapporti che, specie al tempo del governo Milazzo, ci sono stati fra Guarrasi e l'onorevole Macaluso (Felice Chilanti nel suo "Chi è Milazzo", edizione Parenti, 1959, cita Emanuele Macaluso facente parte del nuovo gruppo di potere che con Milazzo, Alessi, La Caverà e Li Causi, pilota la situazione che in Sicilia si è venuta a creare con la scissione democristiana); la parte che l'onorevole Macaluso ha avuto nelle vicende delle miniere di zolfo (vedi le perizie circa la consistenza patrimoniale delle miniere di zolfo che dovevano essere pubblicizzate), sono fatti che balzano troppo vivi per non portarci ad esaminare il caso e a sindacare quel Consiglio di Presidenza, messo su dall'onorevole Cattanei che, trovatosi dinanzi alle vicende raccolte dall'interrogazione, in cui, al solito, la lotta per il potere fa da sfondo alla mafia, ha preferito defilarsi, prendendo qualche timido provvedimento che è rimasto senza seguito, come la nota del 13 ottobre 1971 che si riporta, dimenticata fra le carte della Commissione:
«Il Consiglio di Presidenza effettuerà dei passi ufficiali presso l'ENI allo scopo di conoscere quale sia esattamente il ruolo e le funzioni attribuite all'avvocato Vito Guarrasi nell'ambito dell'attività dell'Ente di Stato in Sicilia».
Questa informativa era doverosa portarla in fondo quantomeno perché, a chi la formulava e ai componenti il Consiglio di Presidenza, era noto che il Presidente dell'ENI, poche ore prima di partire dalla Sicilia con l'aereo che doveva cadere vicino Milano, aveva preso impegno con Giuseppe D'Angelo di rimuovere Guarrasi da ogni incarico. (27)
Vito Guarrasi si trova sempre nei luoghi giusti con le persone giuste nei momenti che decidono le svolte. C'è un rapporto (archivio del Dipartimento di Stato di Washington) del console generale americano di Palermo Alfred T. Nester che, indirizzato il 27 novembre 1944 al Segretario di Stato, porta come oggetto:
"Formation of group favoring autonomy of Sicily under direction of Mafia" (v. allegato 1).
Il Nester racconta ai suoi superiori come il problema del separatismo fosse stato discusso a tavolino tra alti ufficiali americani e personalità dell'isola che venivano così elencate: Calogero Vizzini, Virgilio Nasi, Calogero Volpe, Vito Fodera e Vito Guarrasi.
L'8 settembre 1943, Vito Guarrasi è ad Algeri dove si è recato, in missione segreta, con la Commissione italiana presso di Comando delle Forze alleate. Il rapporto del 28 marzo 1971 agli atti della Commissione (contenuto nel documento 858 che sarà successivamente pubblicato alla stregua dei criteri generali fissati dalla Commissione) nota: «Non appaiono tuttavia ben definiti né la sua presenza nella équipe di alti e qualificati ufficiali che trattarono la resa dell'Italia né il ruolo da lui avuto se si considera che l'allora capitano Guarrasi era un semplice ufficiale di complemento del servizio automobilistico». C'è un particolare che illumina: la presenza ad Algeri di un ufficiale di ordinanza del generale Castellano (siciliano) che trattò la resa a Cassabile: Galvano Lanza Branciforti di Trabia, amico del Guarrasi.
Il rapporto citato continua:
«Mentre Galvano Lanza e Vito Guarrasi partecipavano alle trattative di armistizio, don Calogero Vizzini da Villalba, amministratore del feudo Polizzello di proprietà dei Lanza ... svolgeva a livello tattico attività di preparazione dello sbarco degli alleati in Sicilia».
Fermiamoci un momento per alcuni brevi considerazioni che, del resto, scaturiscono dai fatti e dai documenti. Lo sbarco degli alleati: c'è già chi lo prepara militarmente, e c'è già chi, intendendo far valere l'aiuto che da allo sbarco, lavora perché quello «sbarco» porti con sé un certo sbocco politico, non certo rivoluzionario, ma conservatore, sbocco che di poi pervaderà di sé, malgrado la Resistenza, tutta la vita della Repubblica italiana.
Quando Li Causi afferma che la mafia in Italia è elemento costitutivo del potere, dice cosa esatta, solo che non spinge l'analisi ai motivi veri per i quali la mafia è divenuta uno degli assi portanti della vita politica.
Non è questa la sede per approfondire il discorso, discorso che lascio per ora alla pubblicistica di avanguardia; fatto sta che, nel lontano 1943, quando la Sicilia stava per essere invasa dalle truppe angloamericane, c'era già chi predisponeva tutti i giuochi con una visione gattopardesca delle cose che lascia di stucco.
Nessun moto popolare dal basso, ma una gestione sapiente del separatismo, della ribellione prima e dell'autonomia poi, per salvare e triplicare in un secondo tempo i consistenti patrimoni che stavano dietro coloro che ad Algeri e a Cassibile trattano la resa con gli americani, americani che, per facilitare il colloquio, si portano con sé il fior fiore del gangsterismo nord-americano, di origine mafiosa.
L'operazione ha dell'incredibile appena si rifletta al fatto che «i gruppi di potere» che fin dal 1943 mettono radici in Sicilia sono gli stessi che, in prosieguo di tempo, gestiranno il potere nell'Isola e non solo nell'Isola.
Nel medesimo rapporto è detto che:
«Guarrasi e Lanza da allora costituirono un binomio costante fino all'epoca attuale, che caratterizzerà uno dei più interessanti gruppi di potere economico siciliani». Il Guarrasi è sì legato ad ambienti monarchico-liberali facenti capo ai Lanza di Trabia, ma fin dal 2 ottobre 1947 è socio fondatore e consigliere di una società cooperativa per azione «La Voce della Sicilia» (atto del notaio palermitano Tanteri Guglielmo del 2 ottobre 1947) avente la durata di 100 anni con lo scopo. «procurare i beni e i servizi atti a promuovere e sostenere tutte le iniziative culturali e ricreative che elevino il livello morale e sociale dei soci e del popolo italiano».
Fra i soci, insieme a Vito Guarrasi:
Del Bosco Antonino - funzionario del Banco di Sicilia;
Tosato Teodoro - attivista del PCI e in quel tempo segretario provinciale della PIOM;
Triolo avvocato Manfredi - PSI;
D'Agata avvocato Fausto - deputato regionale del PCI;
Di Mauro Luigi - ex-deputato nazionale per il PCI e attualmente segretario regionale del sindacato dei minatori;
Gestino Francesco - sindacalista (PSDI);
Pusateri Francesco - titolare di un pastificio a Termini Imerese ritenuto un opportunista e già amico del capomafia Panzeca Giuseppe (deceduto);
Lo Presti Concetto - sindacalista (PCI);
Di Cara Pietro - sindacalista (PCI);
Di Pasquale Pancrazio - capo gruppo del PCI all'Assemblea regionale siciliana;
Saladino Giuliana - ex-segretaria di redazione del quotidiano «L'Ora»;
Cimino Marcello - marito della suindicata giornalista (PCI);
Macaluso Emanuele - segretario regionale CGIL, deputato nazionale per il PCI;
Gervasi professor Ettore - insegnante al liceo Meli di Palermo;
Speciale dottor Giuseppe - giornalista, deputato nazionale per il PCI;
Cipolla dottor Nicolò - senatore per il PCI;
Mare Gina - ex-deputato all'Assemblea regionale siciliana per il PCI;
Asturi Guglielmo - impiegato, anarchico del PCI;
Russo professor Salvatore - ex-senatore per il PCI, insegnante al liceo Umberto I di Palermo;
Cipolla Calogero - (PCI).
Non si dimentichi quest'ultimo nome. Rispunterà di vivissima luce nella vicenda Verzotto-Sindona.
L'elencazione delle società alle quali egli è stato o è interessato (prosegue il rapporto citato) e dei relativi soci è da sola sufficiente per dimostrare come il Guarrasi ha esteso ed estende i suoi interventi a tutti i settori del mondo finanziario ed industriale siciliano:
* consigliere di amministrazione dal 7 luglio 1948 al 19 ottobre 1964 della società "Val Salso - società mineraria" costituita per la coltivazione di miniere in Sicilia e per l'industria e il commercio di prodotti e sottoprodotti dello zolfo;
* consigliere di amministrazione della società per azioni "L'Ora", proprietaria dell'omonimo giornale di Palermo, e della società immobiliare "L'Ora" interessata alla costruzione e attivazione d'uno stabilimento tipografico;
* azionista della società "A. Zagara", costituita per promuovere ed incrementare il turismo in Sicilia;
* socio fondatore e consigliere di amministrazione della società "Palumberi e Sciadabba", interessata al commercio di medicinali ed affini;
* azionista della società "Val Nairo", costituita per la coltivazione di nuove miniere di zolfo nell'amministrazione della Regione siciliana;
* socio fondatore e poi presidente del consiglio di amministrazione della società "Megar", interessata ad operazioni di investimento e di commercio mobiliare e immobiliare;
* consigliere di amministrazione della società "Frigor-Sicula", costituita per la costruzione e la gestione di uno stabilimento frigorifero;
* presidente del consiglio di amministrazione della società "Capo Zafferano", per l'esercizio di attività turistiche e affini;
* azionista della società "Adelkam", costituita per l'impianto in Sicilia di uno stabilimento per la produzione e la lavorazione nel campo della viticoltura;
* consigliere di amministrazione della società "Copresa", interessata all'impianto e all'esercizio di stabilimenti industriali per la produzione di manufatti, cementi, eccetera;
* presidente del consiglio di amministrazione della società "Butera", costituita per la costruzione di case;
* consigliere di amministrazione della società "Astera", diretta a promuovere ed incrementare il turismo in Sicilia;
* consigliere di amministrazione della società "Anic-Gela", costituita per la lavorazione in Sicilia degli idrocarburi e dei derivati;
* presidente del consiglio di amministrazione della società "SO.SI.MI" (società siciliana mineraria), interessata alla costruzione e all'esercizio di impianti e stabilimenti per l'estrazione e la trasformazione di sostanze minerali;
* consigliere di amministrazione della società "RA.SPE.ME.", costituita per l'assunzione di rappresentanze per la vendita di medicinali e affini;
* azionista della società immobiliare "Adelkam";
* socio fondatore e poi presidente del consiglio di amministrazione della società assicuratrice "Compagnia Mediterranea di Sicurtà";
* vice presidente e membro del comitato esecutivo della società "Immobiliare Mediterranea" e vicepresidente della società "Garlati", anch'essa interessata a iniziative edilizie;
* consigliere di amministrazione della società "S.O.M.I.S.", interessata alla ricerca e allo sfruttamento in Sicilia di giacimenti di idrocarburi liquidi e gassosi;
* azionista e consigliere di amministrazione fino al 23 settembre 1952 della società "Palermo Calcio", messa in liquidazione nel 1960;
* socio fondatore della società "SO.CHI.MI.SI.", costituita per la riorganizzazione e la verticalizzazione dell'industria zolfiera siciliana;
* socio fondatore della società "Aeolica", costituita per promuovere e incrementare il turismo in Sicilia;
* consigliere di amministrazione della società "SAGET", interessata alla gestione di tonnare, all'esercizio della pesca e del commercio del pesce;
* consigliere di amministrazione della società "La Voce di Sicilia", diretta a promuovere e sostenere iniziative culturali e ricreative;
* consigliere di amministrazione e vicepresidente della società per l'acquisto e la vendita di terreni fabbricati "Viviere di Lentini";
* consigliere di amministrazione delle società immobiliari "Leoforte", "Benso" e "Piraino".
Nel febbraio 1955, il dottor Giovanni Carbone da Castelvetrano, residente a Palermo, consigliere delegato del quotidiano "L'Ora", commercialista, e il dottor Antonio Cascio di Castellamare, procuratore legale, costituiscono la S.p.A. "Mediterranea Immobiliare" con un capitale iniziale di un milione, costituito da 100 azioni da 10.000 lire ciascuna, 50 del dottor Carbone e 50 del dottor Cascio.
Questa società, di cui Guarrasi è stato presidente e poi vicepresidente, con decisione del 10 maggio 1955 si ampliò con l'apporto di 99.000 azioni al portatore da 10.000 lire ciascuna della "Compagnia mediterranea assicurazioni".
Sia la "Compagnia mediterranea assicurazioni", sia la "Mediterranea immobiliare", chiusero la loro attività con il fallimento, la prima nel 1963, la seconda nel 1965.
Il Guarrasi è stato condannato a quattro anni per bancarotta fraudolenta il 10 luglio 1971 dalla 1ª sezione penale del Tribunale di Roma. Invano cercherete le notizie sui giornali. Non ne fa cenno nemmeno "L'Ora" di Palermo.
Si legge ancora nello stesso rapporto:
«L'avvocato Guarrasi ha curato gli interessi di alcune note famiglie patrizie palermitane che hanno venduto immobili ad alcune società delle quali il Guarrasi è stato socio e consigliere ...».
«... si è occupato dell'acquisto di terreni in vista di future speculazioni che prevedono convenienti realizzazioni dopo la emanazione delle leggi sui comprensori turistici del 1965 e dal 1967...».
Quale significato dare alla difesa del Guarrasi, prendendo a pretesto Mangano, da parte dell'onorevole Emanuele Macaluso? Perché sono in molti coloro che, anche all'interno della Commissione, si sono rifiutati di vedere, nelle vicende dell'avvocato Guarrasi, quel filo ininterrotto dalla «liberazione» ad oggi che caratterizza la gestione del potere nella vita siciliana?
Sciascia afferma che non capiremo nulla della mafia se non ricostruiremo, pezzo per pezzo, la vicenda mineraria, la vicenda delle preistoriche miniere baronali siciliane, dominio incontrastato dei capimafia Vizzini, Di Cristina ed altri; Sciascia dice che non capiremo nulla della mafia se non ricostruiremo l'operazione grazie alla quale, attraverso il via a strumenti legislativi ed organismi finanziari predisposti, si sono trasferite sul capitale pubblico le «preistoriche miniere baronali» e altre iniziative spregiudicate e fallimentari.
La SOFIS. Da chi è ideata? A che cosa serve? Chi è che viene nominato dal Presidente Milazzo, Segretario generale del piano quinquennale per la ricostruzione della Sicilia?
Vito Guarrasi: decreto 28 novembre 1958.
E che significa quella nomina se non la delega a trattare tutti gli affari economici e finanziari riguardanti la Sicilia?
Chi, se non Guarrasi, chiama Graziano Verzotto all'EMS?
Chi istituisce, se non Vito Guarrasi, la carica di direttore generale della So.Fi.S.?
E chi indica, come direttore generale della So.Fi.S., Vito Guarrasi? L'ingegner Domenico La Caverà.
Domenico La Caverà: si sostiene, anche nella relazione di maggioranza che, grosso modo, l'esplodere delinquenziale della lotta per l'accaparramento dei suoli edificabili in Palermo, lotta che vede per protagonisti bande di mafiosi che si massacrano a vicenda, risale al 1960.
Non siamo di questo parere; nel 1960 i giuochi urbanistici erano già stati fatti. 1946: l'ingegner Domenico La Caverà è assessore ai lavori pubblici del comune di Palermo ed è proprio in quei giorni che le aree edificabili di Palermo subiscono convenienti rivalutazioni.
In una lettera inviata alla Commissione il 26 novembre 1975, l'ingegner Domenico La Caverà, lamentandosi del profilo redatto nella relazione del Presidente Carraro (oh, segretezza degli atti della Commissione!), scrive che per quanto riguarda il periodo in cui ricoprì la carica di assessore ai lavori pubblici al Comune di Palermo (1946), altro non fece che rendere operante il piano di ricostruzione redatto dall'avvocato Mistretta del PCI, assessore ai lavori pubblici della Giunta allora in carica per nomina del CLN, e che da detto piano «veniva personalmente e gravemente danneggiato». Non smentisce però altre parti della relazione Carraro. È muto sulla vicenda raccontata nella relazione relativa al Cotonificio siciliano, è muto sulle attività della società AIR, non fiata soprattutto sulla vicenda legata alla legge regionale che prevedeva un finanziamento di 12 miliardi agli industriali minerari, legge che oltre La Caverà vide l'inventiva e l'impegno dell'avvocato Vito Guarrasi.
Ma il «gioiello» del Guarrasi resta la legge 13 marzo 1959, n. 4, che istituisce il fondo di rotazione per le industrie minerarie presso il Banco di Sicilia, con una dotazione iniziale di 12 miliardi; fondo che prende in carico (articolo 5) tutti i debiti residui dei mutui già concessi dalla sezione di credito del Banco di Sicilia a norma di alcune leggi precedenti. Cioè si trasferiscono dal Banco di Sicilia alla Regione parecchi miliardi di crediti inesigibili, riguardanti in gran parte la gestione della miniera (ma guarda chi ritorna!) Trabia Talarita dei Lanza. Non trovano posto, ed è una lacuna grave, fra i documenti in possesso della Commissione le perizie economico contabili, grazie alle quali la Regione si avventurerà nell'operazione dalle miniere, perizie in cui i legami fra baroni e partiti proletari troverebbero verifiche e puntuali conferme.
8 - L'Ente minerario e Aristide Gunnella.
SO.CHI.MI.SI, una collegata dell'EMS, Presidente Graziano Verzotto, già consigliere delegato Aristide Gonnella, revisore dei conti Vito Guarrasi.
Sono note le vicende della SO.CHI.MI.SI in relazione all'assunzione di noti mafiosi alla vigilia delle elezioni politiche del 1968 da parte dell'allora consigliere delegato (oggi sottosegretario alle partecipazioni statali) Aristide Gunnella (28), mafiosi, tra l'altro, fortemente indiziati nel dramma del giornalista De Mauro. "L'Unità", a suo tempo, quando le maggioranze «aperte» non esistevano, ha raccontato tutte le fasi di queste assunzioni, grazie alle quali Aristide Gunnella e Graziano Verzotto sono stati ascoltati dalla Commissione (vedi allegato 2).
Meno note altre vicende. Fa spicco fra queste quella riguardante lo stabilimento della SCAI a Mazara del Vallo, e l'acquisto, sempre da parte della SO.CHI.MI.SI, della miniera "Cozzo Disi", «la migliore dell'isola sotto ogni punto», così come ebbe a dire il dottor Aristide Gunnella, oggi sottosegretario di Stato, al Consiglio di amministrazione della SO.CHI.MI.SI il 19 settembre 1965.
Ebbene lo stabilimento della SCAI costruito dalla "Keller siciliana" (preventivo: 300 milioni) quando la "Garbato" di Milano ne richiedeva ottanta, è costato, a lavori ultimati, 800 milioni. Non è mai entrato in funzione. È un ferro vecchio e dentro la vicenda amici e parenti del sottosegretario di Stato che, oltre risultare venditore del terreno sul quale la SCAI insiste (il comune di Mazara del Vallo offriva gratis il terreno, ma l'offerta venne rifiutata), vengono assunti e liquidati dalla SCAI, senza che mai abbiano lavorato.
Miniere "Cozzo Disi". Dagli atti della Commissione può rilevarsi come all'avvocato Vito Guarrasi si debba una delle più spregiudicate operazioni in merito alla pubblicizzazione delle miniere di zolfo. Infatti, mentre per tutte le altre concessioni zolfifere viene dichiarata la decadenza dei titolari privati che, gravati di debiti, non sono più in grado di far fronte alla coltivazione delle miniere, nel corso della concessione mineraria "Cozzo Disi»" S.p.A. si è proceduto, inizialmente all'acquisto della maggioranza delle azioni e quindi alla cogestione della Società e poi alla fusione mediante incorporazione della "Cozzo Disi" nella SO.CHI.MI.SI, sulla base delle rispettive situazioni patrimoniali appositamente redatte.
Il costo di tale operazione, uscita dalla mente di Vito Guarrasi e con la «mano» di Aristide Gunnella, originariamente valutata in 80 (ottanta) milioni di lire, ha raggiunto alla fine la cifra di qualche miliardo di lire.
Con d'acquisizione, infatti, non solo i titolari della concessione (i Perrier) hanno potuto scorporare tutte le attività patrimoniali e le attrezzature delle miniere che sarebbero state forzosamente trasferite con la pronuncia di decadenza, ma stabilirono anche che la SO.CHI.MI.SI si sarebbe accollata tutte le sopravvenienze che, facile previsione, si sono dimostrate tutte passive.
Operazioni simili avvengono senza che alcuno sia andato in galera, in una zona dove vi sono contadini che, per tirare innanzi, chiedono alle banche 5.000 lire di prestito!
Può meravigliare allora che intorno a queste operazioni, così come testimoniano i documenti in possesso della Commissione, circolino mafiosi come Tanino Filippone, grande elettore nel 1968 dell'allora consigliere delegato della SO.CHI.MI.SI?
Ogni settore della vita siciliana è controllato spietatamente. Mazara del Vallo: è tutto sotto controllo: il pesce, il carburante, l'acqua, i contributi della Cassa del Mezzogiorno, i permessi di pesca nelle acque tunisine, il riscatto del peschereccio sequestrato.
A Mazara del Vallo non comanda lo Stato, comanda l'Associazione liberi armatori. Fa il bello e il cattivo tempo. Mafiosamente.
Nessuno protesta. La gestione mafiosa del porto di Mazara del Vallo è protetta dalla bandiera di uno schieramento politico in cui è scritto: moralizzazione della vita pubblica. Tutta l'Italia, esterrefatta, ha assistito alla celebrazione in Genova del Congresso nazionale del partito della moralizzazione della vita pubblica, dove, onde difendere l'... onorabilità dei mafiosi di Mazara del Vallo, si è preferito licenziare, in malo modo, i «probiviri» che di quei mafiosi chiedevano l'espulsione (vedi allegato 3).
9. - Graziano Verzotto e Calogero Cipolla.
Il caso Verzotto. L'ex-senatore Graziano Verzotto è ascoltato dalla Commissione il 23 marzo 1971 (vedi allegato 4). Le domande vertono sull'Ente Minerario, specie sulla SO.CHI.MI.SI, una collegata dell'EMS., specializzatasi oltre che nella dilapidazione del denaro pubblico, in assunzioni di mafiosi di grido che Polizia e Carabinieri collegano al dramma del giornalista De Mauro. Scrive Enzo Biagi su "Il Corriere della Sera" (20 marzo 1975): «Graziano Verzotto è un tipico personaggio dei nostri tempi. Comincia da partigiano e finisce ricercato: non dai tedeschi ma dai Carabinieri».
In quanto ricercato e in quanto fuggito nel Libano, la Commissione non ha potuto ascoltarlo in merito ai suoi rapporti con il banchiere Sindona, banchiere che l'Interpol statunitense, nel novembre 1967, segnalava alla polizia italiana come probabile intermediario nel traffico di droga fra l'Italia e gli Stati Uniti. Fra le carte della Commissione la storia di una finanziaria, la GEFI (Generale finanziaria S.p.A.); costituita il 13 dicembre 1971, per atti del notaio Adele Ricevuti di Milano, via Durini 9. La GEFI, nata con un capitale di un milione, appena due mesi dopo (febbraio del 1972), aumenta il capitale a due miliardi e mezzo e acquista il pacchetto azionario di maggioranza dell'ex-Banca Loria, poi Banco di Milano (29).
Nell'operazione due episodi:
nel consiglio di amministrazione della GEFI compare l'avvocato Calogero Cipolla di Agrigento, fratello del senatore Nicolò Cipolla, consigliere di amministrazione della Società editrice "L'Ora" di Palermo, uomo di fiducia di Amerigo Terenzi, Presidente dell'Editrice Rinnovamento, proprietaria di "Paese Sera". Non si dimentichi che l'avvocato Calogero Pasquale lo abbiamo trovato, insieme a Vito Guarrasi, nella cooperativa "La Voce della Sicilia", costituita nel 1947.
Secondo episodio: nel consiglio di amministrazione dell'ex-Banca Loria, poi Banco di Milano, figura con il 28 aprile 1972, due mesi dopo l'acquisto del Banco da parte della GEFI, il senatore Graziano Verzotto.
Di che matura sono queste colleganze?
Non anticipo nulla. Voglio offrire alla meditazione del Parlamento elementi che ben difficilmente potranno essere rintracciati in altre relazioni.
Abbiamo riferito della lettera del senatore Corrao che, dimettendosi da senatore della Repubblica, denuncia di essere stato pesantemente condizionato dal dottor Occhetto, segretario regionale del PCI, il quale lo avrebbe minacciato di «distruggerlo politicamente» se non avesse abbandonato la difesa del Presidente dell'Ente minerario, il senatore democristiano Graziano Verzotto, latitante in Libano per i fondi neri versati nelle banche di Sindona. Non è da dimenticare che il senatore Lodovico Corrao è uno dei personaggi di primo piano che, insieme a Vito Guarrasi, Domenico La Caverà, Emanuele Macaluso, caratterizzano il gruppo di potere che gestisce il periodo milazziano.
Ora, prepotentemente, entra in scena un altro personaggio che pur comparendo, fin dal 1946, in significative vicende, era rimasto alquanto defilato: l'avvocato Calogero Cipolla, fratello del senatore; avvocato che, come sopra si è detto, troviamo nel Consiglio di amministrazione di quella GEFI (30) che il 12 marzo 1975 viene messa in liquidazione per la impossibilità di conseguire l'oggetto sociale. Infatti, afferma il verbale dell'assemblea dei soci del 12 marzo 1975 (Repertorio n. 21165, notaio Adele Ricevuti in Milano), «la residua attività di lire 2.025.000.000 (duemiliardiventicinquemilioni) è congelata a tempo indeterminato e per un ammontare imprecisato sul tono (sic!) deposito vincolato che potrebbe rivelarsi anche ridotto a zero ad termine della procedura di liquidazione coatta del Banco stesso, del quale oggi si apprende dalla stampa la notizia del dichiarato stato di insolvenza».
La domanda è d'obbligo: l'avvocato Calogero Cipolla non è uomo da poco: è Presidente del Consiglio di amministrazione del giornale "L'Ora»" di Palermo. Che significa la sua presenza in una società finanziaria legata allo scandalo Sindona-Verzotto-Ente minerario?
10 - Il caso Vaselli, la fondazione Mormino e il giornale "L'Ora".
Torna una «costante» sulla quale, come suo costume, la Commissione antimafia ha disinvoltamente sorvolato: e cioè che ai vertici del mondo finanziario siciliano, dove si fanno le operazioni di potere che contano, la presenza di personaggi legati o vicini al mondo comunista è d'obbligo, come è d'obbligo la presenza «comunista» tutte le volte che vengono portate a compimento operazioni in cui sono in giuoco interessi di miliardi, valga per tutte il rinnovo, un anno prima della scadenza del contratto, dalla convenzione con la ditta Vaselli per l'appalto del servizio di nettezza urbana della città di Palermo, o quello relative alle esattorie.
La relazione del PCI si guarda bene dal trattare questi argomenti. Ripara sulla vicenda Cassina, ma tace su Vaselli. Perché? Perché se se ne fosse occupata avrebbe dovuto soffermarsi diffusamente su quanto il PCI, in quella non pulita vicenda, fu protagonista (31).
Dagli appalti alle banche: la costante si ripresenta (Fondazione Mormino del Banco di Sicilia, sentenza di rinvio a giudizio di Bazan) (32) così nell'operazione «carniere di zolfo» (Sciascia: «non capiremo nulla della mafia se non faremo luce su questa vicenda»), così nel clamoroso episodio Sindona-Verzotto-Ente minerario. E non è forse vero che se si vuole sapere qualcosa sulla «fine» di De Mauro, di Enrico Mattei, di Scaglione, occorre rifarsi, come punto di riferimento, all'Ente minerario?
Al Parlamento, dunque, fare quello che alla Commissione antimafia è stato impedito di fare.
11. - Le ricchezze dei politici.
Ci tornano alla memoria le parole pronunciate dal pubblico ministero Aldo Rizzo nella causa Ciancimino-Vicari il 23 maggio
1971: «Noi sappiamo bene le difficoltà in cui opera la Commissione antimafia, e le abbiamo noi stessi. Ma certe collusioni ci sono state perché non è possibile spadroneggiare su una città e su un'isola senza la compiacente inerzia di chi è preposto alla pubblica amministrazione. Per questo auspichiamo che si sappia finalmente tutta la verità sul fenomeno della mafia, ma anche su quei politici che invece di pensare alla dilagante inarrestabile miseria del popolo siciliano si sono occupati soltanto delle loro ricchezze».
Quanto costa la villa di Pietro Giordano, direttore generale dell'EMS, personaggio della sinistra palermitana, colto, insieme a Verzotto, a ritirare fondi neri nelle banche di Sindona?
In giro si fanno tre cifre: 400 milioni, 800 milioni e, recentemente, un miliardo. Solo il terreno, in una zona centralissima a pochi metri dal mare, detta i Valdesi, può essere costato 150 milioni.
All'esterno ci sono alberi giganteschi, un giardino pensile, una piscina; all'interno montacarichi e ascensori, inceneritore dei rifiuti, marchingegni elettronici, 15 apparecchi telefonici. La chiamano la villa dello sceicco di Mondello.
Ora, quando in Sicilia si vanno a classificare certi patrimoni della manovalanza mafiosa e si dimentica Pietro Giordano, direttore generale dell'EMS e la sua villa, cioè si dimenticano le case che in Sicilia fanno gridare di rabbia e che invitano, davanti alla dilagante e generale miseria (come dice il magistrato Rizzo), alla ribellione, la più cruda; quando si riempiono le relazioni di nomi di manovali del crimine, dimenticando i focolai che il crimine fa esplodere, significa voler arrivare a conclusioni morbide, asettiche, generiche e, quindi, fallimentari in relazione ai compiti che il Parlamento, con l'inchiesta, ha affidato alla Commissione.
12. - Regione ed Enti locali.
L'autogoverno: nella relazione (v. all. 5) sugli Enti locali che il senatore Giuseppe Alessi ha redatto, si trovano queste parole:
«Compito nostro e di stabilire e di rispondere alla domanda se l'ordinamento degli Enti locali in Sicilia e il loro funzionamento incidano tanto positivamente sul costume da agevolare l'affrancamento delle coscienze; o se invece, per deficienze organiche, tali strutture politiche e amministrative consentano alla mala pianta della mafia di stabilirsi, o peggio di prosperare».
Ancora. «Il relatore è convinto che la vera seria battaglia contro la mafia non si esaurisce nella repressione dei crimini mafiosi, ma si combatte sradicando dalla prassi sociale e dalla coscienza popolare il credito per il metodo mafioso».
Metodo mafioso. E di che cosa si sono serviti, se non del metodo mafioso, coloro che in Sicilia, sulla pelle del popolo, hanno riempito il proprio portafoglio? E la partitocrazia di quale metodo, se non di quello mafioso, si è servita per agguantare potere e ancora potere?
Il senatore Giuseppe Alessi, dopo avere elencati la somma dei poteri accentrati nella Regione, «centro di potere di prima grandezza nel mondo finanziario, economico, sociale e politico», così conclude il capitolo "La Regione e il fenomeno della mafia".
«Il potere regionale si è rivelato così esteso ed intenso che la conquista del Governo o la partecipazione ad esso costituisce, ormai, per i partiti e per i gruppi di persone e di interessi di maggiore rilievo, il momento decisivo per il loro dominio e od il loro declino nell'Isola».
E continua: «Le deviazioni nella lotta politica, nella politica amministrativa, e persino nella politica economica; i ricorrenti compromessi, fondati su equilibri dimostratisi sempre più instabili, appunto per il flusso e riflusso economico della pratica quotidiana; il fluido congregarsi e il rapido disgregarsi delle alleanze politiche; l'alterazione del rapporto democratico funzionale tra maggioranza ed opposizione parlamentare e politica in genere, volti come sono tutti gli schieramenti, all'acquisto del potere ed al suo esercizio, direttamente o indirettamente, attraverso il sottogoverno; gli incontri più inverosimili, le alleanze più imprevedibili e politicamente più ingiustificate. Terreno, come è facile comprendere, fertile al consolidarsi di un costume fatto di malizie, di finzioni, di illegittime influenze, (i singoli, in qualche caso, vi aggiungono la sopraffazione ed il ricatto) quel clima, appunto che con il regime autonomistico si voleva stroncare. In tale stato di cose prospera psicologicamente la mentalità mafiosa, per l'accertata ed accettata prevalenza della ragion di fatto sulla ragione di diritto, dello scetticismo sul disinteresse, dei paradossi sulla ragione, della morale del successo (che sana e ratifica l'insolente illegalità) sulla competizione legalitaria che, per voler praticare le regole democratiche, è sconfitta. Alterati i valori storici, demologici, etici e politici dell'autonomia, gli uomini o i «gruppi» volitivamente «decisi», appena conquistano il potere effettivo -nei partiti o nei gruppi parlamentari-, agevolmente muovono e manovrano la figura degli operatori ufficiali. Questo è humus fecondo per il consolidarsi e l'estendersi del mondo etico, psicologico e sociale proprio della mafia; la quale, poi, oltre ai motivi anzidetti, mette all'attivo del suo ascendente anche un altro aspetto della vita amministrativa della Regione: la discrezionalità eccessiva nell'esercizio delle sue funzioni ed il susseguente asservimento burocratico del corpo impiegatizio».
C'è poi il capitolo "Scandali e costume" con un'analisi del Milazzismo che la relazione non può ignorare. È una cruda storia che va coraggiosamente riportata, a dimostrazione delle tesi che modestamente mi permetto di portare avanti e di sottolineare -ricavandola d'altra parte dai fatti- e cioè che è la degenerazione della classe politica il veicolo di infezione del male, compreso quello mafioso, e che i più duri colpi al prestigio della Regione, al principio dell'autogoverno, vengono proprio dai satrapi politici, come l'episodio Corrao, Santalco, Marraro, ricordati così vivamente da Alessi illuminano senza ombra di dubbio.
Commenta il relatore: «Non che tutta la Sicilia sia rimasta indifferente a tali episodi, anzi l'animo degli onesti ne ha molto sofferto e si è rivoltato; ma in un senso purtroppo diverso da quello che occorrerebbe alla rinascita; e cioè, non già intervenendo nella lotta attivamente per concorrere ad una riforma delle situazioni, alla sostituzione degli indegni, ma con una specie di "gattopardismo", cioè con un ulteriore distacco politico, improntato alla convinzione della inutilità di ogni sforzo diretto a modificare il corso».
Sugli Enti locali, la relazione del senatore Giuseppe Alessi, per conto del Comitato, non è meno cruda. C'è una osservazione che vale la pena di sottolineare, ed è quella che, spesso, sotto la bandiera dell'operazione sociale (le famose istanze delle masse), provvedimenti come acquisti, espropri, municipalizzazioni e regionalizzazioni, piuttosto che essere «subìti» dai privati, vengono dagli stessi sollecitati, sì che sono caduti m sospetto quelli che li hanno ottenuti dall'Amministrazione forestale, dall'EMS, dall'ERAS, dall'AST. Tali operazioni hanno impegnato decine di miliardi, con perdite incalcolabili e pesi di esercizio enormi. Non ha torto il sociologo Ferrarotti a scrivere che esiste una maniera «tutta mafiosa» di dirigere le imprese economiche.
13. - L'ERAS.
Accenno all'ERAS: quando nel 1955 un comitato presieduto dal Presidente del Consiglio di giustizia amministrativa pose mano alla riorganizzazione del personale, in base alla sistemazione giuridica, cosa trovò? Che laureati in agraria avevano percepito stipendi simbolici, del tutto inferiori a quelli che percepiva il personale tecnicamente squalificato costituito da una «turba» che ogni mattina faceva la fila dinanzi alla sede dell'Ente solo per apporre la firma di presenza e quindi andare via non avendo né funzioni né tavoli di lavoro. Intere famiglie vi erano collocate come per ricevere una assistenza generica in denaro, uno stuolo di studenti universitari riceveva dall'ERAS a titolo di stipendio e di indennità quanto gli abbisognava per pagare la pensione e frequentare l'Università. Un nugolo di consulenti tecnici, di assistenti legali, circa cento, di maestri e così via, completano il quadro.
I nuovi Enti insistono nella scandalosa pratica lamentata. L'Ente minerario siciliano distribuisce stipendi vistosi ad impiegati assunti con criteri politici. In meno di un lustro ha disperso cospicui capitali di dotazione, sicché ha dovuto chiedere all'Assemblea regionale di averli reintegrati.
14. - La So.Fi.S.
Dall'ERAS alla SOFIS. Ascoltiamo quello che scrive il senatore Alessi, primo Presidente della Regione siciliana, Presidente del secondo governo regionale (1955-1957), assessore agli Enti locali (1951-1955), Presidente della Regione nella terza legislatura, Presidente (eletto all'unanimità) dell'Assemblea regionale siciliana nel 1957.
«Il discorso sulla So.Fi.S. meriterebbe di essere più diffuso e particolare, non per la gestione riguardata in sé medesima (che riporta l'argomento alla competenza di altro Comitato della nostra Commissione, soprattutto per Ia politica dei depositi bancari, nella quale non furono estranee la pressione e l'interferenza di interessi mafiosi) bensì per i riflessi che nella sua organizzazione e nel suo esercizio hanno avuto gli interessi di partito e per la capacità di influenza e di determinazioni che lo stesso Ente, a sua volta, ha dimostrato di poter esercitare noi giuoco politico regionale.
a) La Regione volle dare alla So.Fi.S. una struttura privatistica per assicurarle un maggior dinamismo imprenditoriale e contrattuale; ma questa si avvalse di tale struttura per sfuggire alle gravi sanzioni penali protettive del pubblico denaro.
La So.Fi.S. si è dimostrata una miracolosa panacea di affaristico ricovero di imprese cadute in coma, non per salvarle, essendo già obiettivamente fallite, ma con il sicuro effetto di riversare sulla Regione le perdite aziendali, salvando proprietari ed amministratori.
b) Gli scandali burocratici, economici e finanziari della So.Fi.S. sono stati gravi e numerosi; tutta la stampa se ne è diffusamente occupata.
«L'Assemblea regionale siciliana aprì una inchiesta le cui vicende sembravano averle dato capacità istruttoria ed energia di giudizio. Ma dopo lo sforzo istruttorio, generativo di accese illusioni, l'argomento si è chiuso con la creazione dell'ESPI e cioè di un ente pubblico in sostituzione della So.Fi.S.
«La risoluzione dell'Assemblea regionale è, però, indicativa del suo stato d'animo: munire di protezione penale qualificata (articoli 314 e seguenti e 476 e seguenti del codice penale) l'attività futura degli amministratori e dei funzionari dell'Ente finanziario regionale.
«Ciò non dimeno, è da rilevare che la Regione, pur essendo la soda di assoluta maggioranza della So.Fi.S., non ha lasciato traccia di un solo intervento diretto a stroncare le rovinose iniziative protezionistiche, dolorosamente dilapidatone del pubblico denaro, gli arbitri interni, il giuoco amministrativo sulle società collegate, gli stipendi e le indennità agli impiegati; tutta una congerie di fatti la cui tolleranza è spiegabile soltanto ammettendo che l'organo di controllo è esso stesso l'autore o cooperatore di quella dilapidazione, avendo avuto maneggio negli affari della So.Fi.S., con l'implicazione di tutti i gruppi politici. E quando si dice "gruppi", si intende sottolineare che si tratta tanto delle varie maggioranze quanto delle varie opposizioni a mano a mano formatesi e ricostituitesi».
Quando Giuseppe Alessi riferiva queste cose si era nel febbraio 1968.
Non c'è traccia fra le carte della Commissione, che pure veniva messa a conoscenza di «reati» gravi, di un suo intervento, nemmeno a livello informativo, presso le autorità competenti.
La Commissione, come suo costume, incassa meravigliosamente, ma non reagisce. Sempre più stancamente procede a collezionare rapporti.
Dall'intervento di Giuseppe Alessi allo scandalo Verzotto passano quasi otto anni.
Il mondo politico non può giustificarsi dicendo che non sapeva. Sapeva. Da anni; ma ha lasciato fare. Col metodo mafioso.
Giudichi il Parlamento.
Poco fa abbiamo ascoltato Giuseppe Alessi affermare che l'organo di controllo è stato, in Sicilia, esso stesso «autore e cooperatore della dilapidazione del denaro pubblico».
15. - La Corte dei conti in Sicilia.
Nella seduta del 22 luglio 1971, di Consiglio di Presidenza, ascoltò Amindore Ambrosetti, funzionario dalla Regione, senza farne relazione al plenum della Commissione. Citiamo testualmente:
Ambrosetti: «C'è un dato elementare: centinaia di migliaia sono i provvedimenti illegittimi esaminati dall'amministrazione regionale e tutti recano il timbro della Corte dei conti. Ci si chiede se questo timbro della Corte dei conti non finisca con l'essere un passaporto per rendere formalmente legale ciò che sostanzialmente è illecito».
«Tutto si svolge sul piano dell'amicizia e del rapporto personale e se a qualcuno ripugna questo tipo di rapporto in quanto gli appare incivile, viene isolato e allora tra Corte e membri del Governo si formano legami. Questo assessore non potrà muovere niente se non accetterà di fare alcune cose come fa comodo a chi sta alla Corte dei conti».
«Ho avuto modo di denunciare circa 700 milioni di danni erariali alle Terme di Sciacca con la connivenza di un presidente di sezione della Corte dei conti che era presidente del collegio dei revisori. Che controllo ci può essere quando questa gente garantisce con la propria firma, dando un crisma di legalità ad atti palesemente illegittimi, a bilanci addirittura falsi che si ripetono per venti anni?» Nel 1965 ordinammo per fare un esempio, prosegue Ambrosetti, la demolizione di un attico del Vassallo; l'ordine di demolizione venne firmato da un assessore democristiano; fu dato ordine al comune, di cui sindaco era Lima, di demolire; sei solleciti (ogni sollecito ha un prezzo in Sicilia, dice Ambrosetti), le gare per trovare una ditta che demolisse andarono tutte deserte: nessuno se la sentì. È un atto eroico vivere a Palermo per un funzionario che fa il suo dovere. Un anno fa venne all'esame dell'Assemblea un disegno di legge presentato dal Governo regionale: nessun gettone ai funzionari chiamati nelle Commissioni. (l'importo dei gettoni in Sicilia va dai quattro ai dieci milioni l'anno). Una velina della Corte dei conti così decise, dopo essersi riunita in via ufficiosa: la norma non vale per coloro che erano già stati nominati all'atto dell'entrata in vigore della legge, ma per coloro che lo sarebbero stati in futuro e sempre che non fossero state le stesse persone.
16. - Ugo La Malfa.
Lasciamo alla meditazione del Parlamento e della pubblica opinione queste ultime considerazioni dal dottor Amindore Ambrosetti, considerazioni che chiamano in causa un personaggio che, sul tema della moralizzazione pubblica, fa molto parlare di sé: l'onorevole Ugo La Malfa.
Presidente. Certo. Vi sono altri particolari o altri episodi che ritiene di poterci indicare?
Ambrosetti. Io le posso indicare un episodio, ma non riguarda la Corte dai conti. È molto delicato e grave ed ha lasciato anche a me d'amaro in bocca. Ho letto la prima relazione della Commissione che riguardava la magistratura di Palermo, e dopo averla letta -non è che prima non avessi fiducia nella Commissione, l'ho sempre avuta, perché queste cose piano piano finiscono col modificare e in ogni modo alimentano, irrobustiscono un'istanza morale notevole- sono stato confortato, visto che si era messo il dito sulla piaga, perché ripeto non me la prendo con i partiti, con gli uomini politici. Sono una persona abbastanza intelligente da capire dove è che il meccanismo è malato.
Presidente. L'episodio qual è?
Ambrosetti. Sono stato in un certo periodo a dirigere l'ufficio studi e programmazione dell'assessorato al turismo: fui chiamato a quell'ufficio dal repubblicano Natoli col quale eravamo amici; un giorno venni a conoscenza che era stato già magistrato un decreto per un finanziamento di 5 milioni ad una scuola che non esisteva e siccome sia il capo del servizio che io facevamo parte come iscritti di quella sezione di partito repubblicano dove si sarebbero dovute svolgere queste scuole che non si svolgevano, preoccupati che quello era il capo servizio ed io ero l'addetto al settore pagandogli questi soldi era chiaro che chiunque avrebbe potuto pensare che eravamo complici. Perché è chiaro, che in una sezione di partito anche se uno non ci va, si presume che ci vada, che ci sia una scuola con alunni, professori, preside con tutta una certa organizzazione. Sicché fummo irritati da questo fatto e con il funzionario che era il vice direttore generale per l'assessorato tentammo di far ritirare la domanda di finanziamento e tentammo le vie brevi per evitare, ma vedendo che insistevano siamo andati a fare una ispezione ed abbiamo redatto un regolare verbale. Questa scuola non c'era e quindi abbiamo provocato la revoca del decreto.
Di questa cosa io ed il vice direttore generale ne parlammo con l'assessore, il quale fece finta di non capire; a questo punto scrivemmo all'onorevole La Malfa sperando che lui così lontano dalle cose siciliane ci desse una mano su questo punto.
Il fatto era piuttosto brutto, anche perchè nell'assessorato molti funzionari conoscevano la situazione.
Purtroppo dobbiamo dire che è stato come se avessimo scritto al muro. Ora questo che significato può avere?
Pure io sono un uomo colto, mi posso mettere a parlare di economia, sulla bilancia dello Stato se è da raddrizzare o meno; volendo, con buona dose di volontà, leggendo qualche libro si può anche fare.
Presidente. Se su questi altri particolari ella ci potesse inviare anche in modo informale un appunto le saremmo grati.
Ambrosetti. Metterò senz'altro a disposizione della Presidenza i documenti in mio possesso, tra cui anche una lettera pubblicata sul giornale "L'Ora"».
C'è anche un documento molto grave ed è quello del vice direttore generale inviato all'onorevole La Malfa che dice: «Caro segretario, per aver cercato di tutelare il partito (perché in definitiva questo era il discorso) mi è stato tolto il posto che ricoprivo».
17. - Le esattorie.
Sempre in tema di «episodi» chiarificatori del male, c'è la discussione che, in tema di esattorie, avvenne in Commissione il 26 luglio 1964. Anche allora fu relatore Giuseppe Alessi.
Ascoltiamolo:
«Ma il tema della riscossione delle imposte, in Sicilia, è assai più scottante. Nella cancelleria commerciale del Tribunale di Palermo mi si dice sia stato depositato il verbale di seduta del consiglio di amministrazione della "Sigert", una società di riscossione dei tributi diretti, nella quale il consiglio di amministrazione avrebbe deliberato di mettere le riserve di bilancio ed il fondo di rappresentanza a disposizione di un comitato esecutivo speciale, perché li usi, senza obbligo di rendiconto, per contrastare l'iniziativa legislativa in corso all'Assemblea regionale per la creazione di un Ente regionale di riscossione e per appoggiare un disegno di legge di altri gruppi avente per oggetto la proroga per dieci anni di tutte le gestioni esattoriali.
«Caro Spezzano, questa volta c'è il notaio!
«Permettetemi di rievocare l'ultima seduta dell'Assemblea regionale, cui ebbi l'onore di partecipare.
«Ricordo un giovane collega sindacalista, salito alla tribuna: l'onorevole Grimaldi. In modo concitato ed irrefrenabile accusava il Governo e la maggioranza ed anche la sinistra per l'avvenuta approvazione della legge di proroga, che egli non esitava a qualificare vergognosa per l'Assemblea. La legge di proroga era stata votata contemporaneamente al ritiro, da parte della sinistra, del disegno di legge istitutivo dell'Ente regionale per le riscossioni. Il fatto è assai grave e desidero che dalla mia comunicazione rimanga espresso richiamo a verbale. A distanza di tempo, ora che mi è stata resa nota la delibera "Sigert", l'angoscia dell'onorevole Grimaldi mi si è fatta chiara. Dunque, c'è stata una società, la quale ostentatamente mette mano alla riserva, nomina un comitato speciale in vista delle sedute dell'Assemblea regionale siciliana, perché esso comitato possa adoperarsi in favore dell'iniziativa di proroga e possa favorire il ritiro del disegno di legge istitutivo di un organismo regionale di riscossione! E tutto ciò senza obbligo di rendiconto agli azionisti!
«Io sono stato sempre contrario all'Ente regionale di riscossione; ho sostenuto anche delle battaglie contro tale iniziativa. Ma se avessi presentato quel disegno di legge, non lo avrei certamente ritirato! Quel disegno di legge risulterebbe dunque ritirato contemporaneamente alla presentazione del disegno di legge di proroga decennale delle gestioni esattoriali. Non possiamo continuare a tormentarci sui singoli episodi dell'amministrazione di un Comune e poi nascondere le cose grosse sotto l'ala della ragione politica. Chiedo che si proceda ad una seria indagine.
«La materia è scottante, perché il giuoco è di miliardi e può dare vita, prosperità a partiti, a correnti politiche, a gruppi di persone. Non vorrei che noi andassimo cacciando i passerotti, lasciando indisturbate le aquile rapaci».
Giuseppe Alessi era esplicito: chi ha ritirato quel disegno di legge regionale per la pubblicizzazione delle esattorie (interessi di miliardi) votando, contestualmente, l'ulteriore proroga di dieci anni per le esattorie private ha preso soldi (33).
Quando Alessi pronuncia queste parole corre il 26 giugno 1964. Che accade? Nulla: la Commissione prende atto, ma non decide. Passano gli anni e i miliardi, tramite le esattorie, continuano a ruotare dalle tasche della povera gente nelle mani di pochi. Il 7 luglio 1975 Corleo Luigi, il cui genero occupa un posto di primo piano nel gotha delle potenti esattorie, viene sequestrato nella zona di Salemi. Da allora non se ne sa più nulla. È vecchio. Voci affermano che sia stato abbandonato al suo destino. Alcuni lo fanno già morto. Intanto si raccatta qualche morto sfregiato dalla lupara. Gli intenditori dicono che si tratta di individui che la sanno lunga sul rapimento.
L'Antimafia non ci ha fatto caso.
18. - Il caso Gullotti e Caruso Giacomo.
Come, del resto, sull'altro sequestro di Caruso Antonio, avvenuto il 24 febbraio 1971 nella zona di Salemi. Si da il caso che Caruso Antonio, oltre ad essere parente stretto del capomafia Torretta Pietro, sia figlio di quel Caruso Giacomo, industriale, venuto dal nulla, con una fortuna oggi da miliardario. Le sue attività spaziano dall'agricoltura all'edilizia, al commercio delle auto, alla pesca oceanica, al marmo (34).
In questa ultima attività, di recente, ha portato a termine, essendo ministro delle partecipazioni statali Gullotti Nino (35), una ingegnosa operazione per la quale, rilevando in un primo tempo le migliori cave di marmo della Montecatini Edison in località Carrara e Forte dei Marmi (Lucca), e strumentalizzando poi sapientemente scioperi e uomini politici, ha concluso, con l'attiva partecipazione dell'EGAM, un lucroso affare di miliardi.
La tecnica non è nuova. Non sappiamo se, contestualmente, anche lo Stato italiano (che ha elevato il Caruso al cavalierato del Lavoro) abbia fatto buoni affari dagli affari del Caruso. Sappiamo solo che, anche in questa vicenda, il preoccupante fascicolo raccolto dalla Commissione su questo «interessante» personaggio che, fra l'altro, affidava ai noti mafiosi Plaia Francesco e Plaia Diego la gestione del suo autosalone di Castellamare del Golfo, è rimasto inevaso.
Pratica non conclusa vecchia storia.
19. - Salvatore Lima.
Fra le carte della Commissione (Doc. 737 v. allegato 5) c'è quella che riguarda la società cooperativa a responsabilità limitata Banca popolare di Palermo. Soci: Citarda Benedetto, arrestato per associazione a delinquere a sfondo mafioso; Blandi Salvatore, pregiudicato; Di Trapani Nicolò, pregiudicato; Presti Filippo Giovanni, mafioso. Altri soci: Terrasi Alfredo, presidente della Camera di commercio di Palermo, Amoroso Gaetano, assessore comunale di Palermo; Borsellino Castellana Guido, presidente Ente Fiera del Mediterraneo, assessore regionale, consigliere comunale di Palermo; Lima Salvatore, deputato; Pecoraro Antonino, senatore. E vi risparmio colorite illazioni sulle reali attività di questa cooperativa. Il 3 marzo 1964 il Presidente della Commissione, senatore Pafundi -ne abbiamo parlato qui- indirizzò all'onorevole Giuseppe D'Angelo, allora Presidente della Giunta, una lettera (36) nella quale, a seguito di una decisione della Commissione, in data 18 marzo 1964, si chiedeva, in ordine ad episodi inquietanti, alcuni dei quali criminosi, la sospensione dell'incarico di commissario straordinario pressi l'ERAS del dottor Salvatore Lima, che fu sindaco -dice la lettera- di Palermo nell'epoca in cui vennero compiute le illegalità sopraindicate.
Nei riguardi dell'onorevole Lima Salvatore, una delle aquile rapaci per stare al linguaggio del senatore Alessi, non si ricordano (ad eccezione della lettera citata dal senatore Pafundi) provvedimenti particolari della Commissione, nemmeno quello, e ciò ci sembra grave, di trovare il tempo, in tredici anni, di ascoltarlo. Anzi, a tale riguardo, ci corre l'obbligo di ricordare e di sottolineare come la Commissione, nel silenzio di tutti, abbia respinto la proposta avanzata dal relatore di questa relazione tendente, durante le more di una crisi di Governo, a fare dei passi ufficiali perché il Presidente dal Consiglio incaricato escludesse dalla rosa dei «papabili» chi, con le sue vicende, popola gli archivi dell'Antimafia (37).
20. - Lima e la sinistra socialista.
Ma, a proposito dell'onorevole Lima, non possiamo non ricordare la violenta campagna che fu scatenata quando Giuseppe D'Angelo era Presidente della Regione. D'Angelo fu costretto ad andarsene in relazione a quella battaglia «moralizzatrice» contro Lima. Ma che dire di quello che avvenne dopo, per cui i «moralizzatori», che avevano chiesto ed ottenuto la testa di Lima, con costui sindaco, e insieme a Giancimino assessore ai Lavori pubblici, si spartivano le spoglie del Comune di Palermo, designando come assessore all'urbanistica Anselmo Guaraci della sinistra socialista?
Ha ragione D'Angelo a dire:
«Qui dobbiamo stare attenti, perché ci sono partiti politici i quali ritengono di avere dei poteri carismatici, per cui se io sono mafioso e sono d'accordo con lei, senatore Iannuzzi (e dico "con lei" perché in questo momento è il mio interlocutore) io sono un gran galantuomo, ma se io per caso, ugualmente mafioso, non sono d'accordo con lei, ma sono d'accordo con un altro, ad esempio con l'onorevole Nicosia, allora io sono mafioso. Ora, la mafia è qualcosa che è e non è nello stesso tempo a seconda delle collocazioni e delle posizioni politiche di ciascuno di noi. Questa è un'altra stortura che dobbiamo correggere perchè deforma la mentalità e deforma soprattutto il costume».
Non stortura, ma metodo mafioso.
Il relatore si rende perfettamente conto di avere dato alle note che precedono un taglio insolito, grazie al quale dal «magma» della mafia non salta fuori la solita «manovalanza» sulla quale sono stati versati fiumi di inchiostro, scritti, trattati di sapore scientifico, pamphlet a sfondo polemico e romanzato, girati innumerevoli metri di pellicola cinematografica. Sulla manovalanza si sa tutto.
21. - Partiti politici e mafia.
Il taglio di queste note va in tutt'altra direzione. Per rendersene conto basita dare un'occhiata ai personaggi sui quali, facendo parlare i fatti, si vuole portane l'attenzione del Parlamento. Sono personaggi in gran parte nuovi ai cultori e agli esperti del fenomeno della mafia, ai politici, alla pubblica opinione. Ma non solo i personaggi. Lo stesso «terreno» che viene individuato dal relatore come intelaiatura sulla quale la mafia prospera, con metodi e strumenti del tutto sconosciuti alla vecchia «organizzazione» è un terreno, lo si riconoscerà, che finora o è stato ignorato, o, prudentemente, lo si è tenuto emarginato nel contesto del grande fenomeno delinquenziale; con ciò, a parere di chi scrive, precludendosi, coscienti o no, la via per capire qualcosa di quello che accade, non solo in Sicilia, ma su tutta l'area della Nazione.
Il relatore ha voluto, con le sue modeste note, mettere in luce una cosa e cioè che sarebbe, oltre che ingeneroso, ingiusto mettere alla sbarra la Sicilia, quando il fenomeno della mafia si è talmente dilatato da essere divenuto, per dirla con Li Causi, uno dei cardini sul quale ruota il potere in Italia (e non solo in Italia). Se colpevole è la Sicilia lo è, cosa ricorrente nella sua storia, nel fatto di avere anticipato di molti anni di volto dell'Italia di oggi.
La pubblica opinione si è (rumorosamente lamentata delle lungaggini della Commissione, dei suoi bizantinismi, delle sue indecisioni, delle sue brusche impennate e delle sue altrettanto «repentine cadute. Si è perfino scritto, e a chiare note, che all'interno della stessa Commissione operava la mafia; e si è voluto dar corpo a quest'accusa, non solo quando all'interno della Commissione sono esplosi contrasti polemici par la presenza di qualche commissario che nelle «carte» dell'Antimafia era abbondantemente registrato, ma anche quando, con sapienti e teleguidati dosaggi, sui quali i partiti si guardavano bene dal dare gli opportuni e doverosi chiarimenti, venivano sostituiti nella Commissione senatori e deputati. A tale proposito se sarebbe «interessante» sapere i veri motivi per i quali l'onorevole Scalfaro lasciò la Commissione il 17 aprile 1964, altrettanto interessante sarebbe conoscere il perché il PCI ha voluto (si faccia caso, nel clima del compromesso storico) che la Commissione chiudesse i suoi lavori senza la presenza di un uomo che, nella lotta alla mafia tradizionale, ha avuto un ruolo non secondario: il senatore Li Causi Girolamo.
Nelle invettive della pubblica opinione contro la Commissione c'è un fondo di verità, ma anche qui il discorso deve essere chiaro e fatto fino in fondo. Infatti, sarebbe una perdita di tempo andare a cercare il centro operativo di tali manovre nella manovalanza della mafia. Non sta la o «stato maggiore» che porta avanti operazioni del genere. Lo «stato maggiore», diciamolo con aperta chiarezza, opera dal di dentro dei partiti politici. O si prende, coraggiosamente, atto di ciò, o della mafia non capiremo nulla.
Chi, in tutti questi anni, ha fatto da freno perché la verità non venisse fuori, non è stato Leggio, sono stati quei «politici» che sapevano che dietro Leggio si sarebbero trovati, non solo persone al di sopra di ogni sospetto, ma i fili giusti per arrivare alle vere e autentiche motivazioni di tanti atti delinquenziali, grazie ai quali si sono costruite ricchezze da capogiro. Ed è di secondaria importanza andare alla ricerca del filo che potrebbe collegare Leggio con i personaggi al di sopra di ogni sospetto. Non è questa la ricerca giusta. Quello che conta è rilevare, mettere in luce come siano proprio i personaggi al di sopra di ogni sospetto, con il loro comportamento, con i loro atti, con i loro pessimi esempi, esaltanti l'arbitrio, d'arroganza e la prepotenza, la corruzione, a concimare quel terreno sul quale i vari Leggio, non solo prosperano, ma da cui traggono perfino le motivazioni morali delle loro azioni delittuose.
Non sembri marginale l'episodio che raccontiamo. È il 13 agosto 1974. A Parlamento chiuso (gli uscieri sono in ferie), la Commissione parlamentare per il parere al Governo sulle norme delegate relative alla riforma tributaria, Commissione detta dei «trenta», affronta, in un'aula del palazzo (deserto, è Ferragosto) di Montecitorio, la questione della sopravvivenza, nel quadro della riforma tributaria, delle esattorie. Relatore: il senatore Mazzei Luigi.
La discussione dura fino a notte inoltrata, ha toni accesi, soprattutto sulla richiesta, caldeggiata dalle esattorie, per cui l'aggio da assegnare alle esattorie, se doveva avere un minimo stabilito, non doveva, per quanto riguarda il massimo, avere alcun limite. Non si dimentichi che l'aggio concesso ai concessionari delle esattorie è in Sicilia del 10 per cento, di fronte a quello nazionale mediamente del 3 per cento.
Sono affari di miliardi. Non si dimentichi che le società a cui fanno capo le esattorie, anche in altre parti d'Italia, hanno radici siciliane. Non si dimentichino le «stigmate» che caratterizzano coloro che fanno parte dei consigli di amministrazione delle esattorie siciliane.
Cosa accadde quella sera di agosto del 1974 nel deserto Palazzo di Montecitorio?
Accade un fatto insolito che, lì per lì, non trovò giustificazione, e cioè che coloro che sostenevano la tesi dell'aggio massimo, cara alle esattorie, parlavano a voce spiegata, come se dovessero farsi intendere da persone lontane dall'Aula in cui la Commissione dei trenta era riunita Così era. Infatti, poco dopo, fuori della porta della Commissione (nel Palazzo di Montecitorio, qualcuno prese spavento!) furono sorprese alcune persone che origliavano. Furono allontanate.
La tesi dell'aggio massimo risultò perdente per un voto. La divisione del voto passo attraverso gli stessi gruppi politici. Il senatore Mazzei presentò le dimissioni dalla Commissione.
Chi scrive ha chiesto al Ministero delle finanze (il verbalizzante dei lavori dalla Commissione dei trenta) i verbali di «quella» riunione. C'è voluto più di un anno par averli. Grazie all'interessamento diretto, di cui gli diamo volentieri atto, del ministro delle finanze Visentini. (v. all. 6)
Si è citato questo episodio per ribadire un convincimento che per lo scrivente è certezza, e cioè che la battaglia contro la mafia si combatte sul fronte dei partiti, debellando prima l'omertà, o meglio, l'equilibrio dei ricatti che si è stabilito fra i partiti, per poi passare, con mezzi rigorosi, e alla piena luce del sole, alla pulizia interna, senza la quale, per dirla con Leonardo Sciascia, grazie al canale putrescente delle correnti partitocratiche, «si darà sempre il caso che l'uomo politico di statura europea, moderno, di idee avanzate, ritenuto, in Italia e fuori, capace di guidare le sorti del governo e dello Stato, in Sicilia risulti di fatto il più efficiente protettore degli uomini politici indiziati di mafia, o addirittura, della mafia».
Il relatore ha voluto, con le sue modeste note, tentare di dimostrare come, sotto il manto dell'autonomia siciliana, si sia compiuta e realizzata, grazie alla degenerazione partitocratica, e con mano sapiente, la più gigantesca operazione di conservazione di tipo reazionario che la storia dell'Italia ricordi, e come quel disegno di conservazione, nato sulle coste dell'Algeria, l'8 settembre 1943, abbia improntato di sé tutte le vicende della Repubblica italiana.
Il relatore ha voluto, con le sue modeste note, sottolineare come la «pubblicizzazione» delle attività economiche in Sicilia, portata avanti in nome dell'autonomia e del progresso, sia stata, in realtà, un'abile e programmata operazione gattopardesca, grazie alla quale si sono regalati (complici: partiti, sindacati, baronie agrarie) alla «società» rami secchi e ingenti debiti, facendo fare al contempo, ai latifondisti e ai vecchi proprietari delle miniere, in nome dell'8 settembre, affari di miliardi, alle spalle dell'umile e povero popolo di Sicilia.
Se su questa analisi, scaturente dai «fatti», il Parlamento concorda (non si è trattato di rivoluzione, ma di reazione e della più bella acqua!), a parere del relatore non sarebbe difficile procedere, senza farsi sommergere e paralizzare dalle grida di coloro che si fanno scudo dell'autonomia, spesso per difendere interessi non puliti, ad una revisione dello Statuto dalla Regione siciliana, revisione che punti a tagliare le unghie (quanto aguzze!) della partitocrazia, con l'eliminare per prima cosa, il Governo di assemblea (le iniziative più aberranti sono avvenute con unità improvvisate, senza alcuna motivazione politica), stabilendo una separazione netta fra l'Esecutivo e di Legislativo, puntando ad emarginare quell'instabilità politica, fonte di privilegi e arbitri inenarrabili, e sui quali si innestano, fisiologicamente, i fenomeni delinquenziali della mafia.
E per sottrarre l'Esecutivo alla mannaia assembleare e alle manovre ricattatorie delle clientele fameliche e delinquenziali, dentro e fuori il Palazzo dai Normanni, far sì che sia il Presidente della Regione a nominare gli assessori, scegliendoli fra i tecnici più apprezzati della pubblica amministrazione, o tra gli stessi deputati, a condizione però che essi decadano dal mandato parlamentare.
Da ciò una diversa struttura della Giunta: gli assessorati devono cessare di considerarsi dei ministeri, completamente autonomi dal Presidente della Regione, ma sentirsi ed essere dei delegati del Presidente; il Segretario generale, non come oggi il segretario della Presidenza, ma svolgere la sua vigilanza su tutto il personale della Regione. In definitiva: una l'amministrazione; uno il bilancio, uno il corpo dei dipendenti, una da responsabilità politica e amministrativa.
Così dicasi dell'Alta Corte par la Sicilia. Occorre vincere vecchie remore e vecchi rancori. Occorre procedere a un chiaro e franco confronto fra lo Stato e la Regione siciliana, ad un riesame degli articoli dello Statuto (dal 24 al 30), in modo che l'Alta Corte possa nascere ed operare in armonia con la Costituzione repubblicana. Così dicasi per l'articolo 20 dello Statuto che deve essere attuato in modo che fra lo Stato e il Governo regionale non vi siano antitesi di sorta; cosi dicasi per il decentramento che, in Sicilia, è tutto da attuarsi, in quanto la Regione siciliana accentra in se tutte le facoltà amministrative ed esecutive senza lasciare spazio a Comuni, Province, accentramento che ha dato luogo allo strapotere di alcune cosche burocratiche, fonte di attività non sempre lecite; così dicasi della «giungla» delle retribuzioni e della normativa che regolano, all'interno della Regione, la vita dei dipendenti, assunti senza concorso, premiati, non per la loro onestà e competenza, ma per la loro fedeltà a questa o quella «cosca», per cui ai fedelissimi della partitocrazia si danno stipendi e liquidazioni favolose, e agli esclusi l'amaro calice delle discriminazioni, e tutto ciò con effetti devastanti sulla «coscienza popolare» che vede svettare in alto coloro che si inchinano e ubbidiscono ai Don Rodrigo dell'apparato pubblico, situazione questa che crea un terreno, una coltura quanto mai propizia all'infiltrazione mafiosa.
Il relatore ha voluto, sommariamente, accennare a qualche riforma della Pubblica amministrazione, soprattutto perché la degenerazione partitocratica ha come arena dei suoi movimenti questo terreno. Nulla varrebbero le più raffinate e sofisticate misure di prevenzione contro la manovalanza mafiosa se si lasciasse indisturbato il terreno principe sul quale la mafia si alimenta in continuazione: il terreno pubblico. L'intreccio poi del settore pubblico con l'apparato economico fa il resto, e le note di questa relazione avrebbero mancato del tutto al loro scopo se avessero fallito nel dimostrare che i Leggio, i Frank Coppola, i Torretta, i Mangiapane, se sono l'aspetto più evidenziato della mafia, i presupposti della sua esistenza e della sua virulenza si trovano altrove, in particolare là dove il potere politico (così come si è esercitato in questi anni in Italia) e il potere economico (non meno responsabile del collasso della società italiana), con i loro comportamenti da rapina, concimano quella mentalità che fa dire, sprezzantemente, al mafioso che «se costoro sono lo Stato, lo Stato, essendo in mano a banditi che depredano i più poveri e più indifesi, non solo va combattuto, ma è legittimo, è doveroso farlo, anche con i mezzi più spietati».
In che cosa si differenzia un Leggio da un Verzotto «X», se non che finché ci saranno i Verzotto, anche i Leggio continueranno a prosperare?
È crudo quanto scrivo, ma se non si prende coscienza di questo, la battaglia contro la mafia è perduta.
Inesorabile pulizia. Rigore massimo. Senza guardare in faccia a nessuno. Nemmeno a tabù che, ai giorni nostri, vanno per la maggiore: partiti, sindacati, feudi economici, baronie varie.
Non un corale e troppo comodo processo alla società siciliana, ma volontà e capacità della classe politica di recidere, in modo netto, i collegamenti tra mafia e potere, tutta la rete di complicità e connivenze che involge partiti, sindacati, la Regione, gli Enti locali, centri di potere finanziario nell'Isola e fuori dell'Isola.
Il 22 dicembre 1970, in un'intervista con l'allora Presidente della Commissione Cattanei, il giornalista pose, sulla fine, questa domanda: «La classe politica avrà il coraggio di operare su se stessa; di incidere sulla propria carne?». Cattanei, scrive il giornalista, allarga le braccia: «Non lo so. So soltanto che sarà una delle occasioni più importanti per controllare se la classe politica italiana è ancora viva».
Siamo d'accordo: l'occasione è storica ed è decisiva. Siamo appesi ad un filo. Con le proposte dovremo dimostrare la capacità, soprattutto il coraggio, di saper incidere nelle proprie carni di classe dirigente. Ciò non lo ha saputo fare la Commissione antimafia in tredici anni. Mi auguro che il Parlamento trovi il coraggio di farlo. Altrimenti tutto è stato davvero inutile.
Giuseppe Niccolai
NOTE:
(1) Nel corso del sopralluogo effettuato a Palermo nei giorni 16, 17, 18 e 19 dicembre 1974, alla Commissione furono, tra l'altro, rese queste dichiarazioni:
Rovelli Salvatore, colonnello comandante la Legione dei Carabinieri di Palermo.
«Non è invece, finora, emerso alcun possibile collegamento tra la mafia e le trame nere, né in ordine ai sequestri di persona, né in ordine ad altri crimini e attività illecite, e ciò forse si spiega col fatto che ancora oggi non sono pochi i mafiosi che manifestano risentimento verso la repressione operata nei loro confronti dal passato regime e con la determinante considerazione che la mafia, tradizionalmente o per opportunismo, è sempre legata ai centri di potere e non a quelli ipotetici o futuribili.
«Del pari non sono finora emersi collegamenti tra il noto Micalizio ed elementi mafiosi.
«Circa gli arresti operati a La Spezia di alcuni individui indicati dalla stampa quali mafiosi in collegamento con le trame nere, è da dire che Nicola Ruisi di Alcamo, pregiudicato per pascolo abusivo, furto aggravato, diserzione militare, violenza e resistenza alla forza pubblica, detenzione, fabbricazione, porto abusivo di armi e materie esplodenti, minacce gravi, insubordinazione con violenze, nel 1970, ai sensi dell'articolo 2 della legge 31 maggio 1965, ebbe irrogata, quale indiziato mafioso, dal Tribunale di Trapani le misure della sorveglianza speciale di Pubblica sicurezza per anni due, con divieto di soggiorno in Sicilia.
«In base a quanto appurato, trattasi di individuo senza scrupoli proclive alle delazioni, piuttosto ambiguo e disponibile come, peraltro, si evince dal fatto che nel 1970 egli trasportava e deteneva per evidenti fini illeciti nei locali del cinema Marconi di Alcamo materiale esplosivo. Data la personalità del soggetto l'episodio di La Spezia non è da considerarsi indicativo e non è da escludere altresì che l'esplosivo trovato in suo possesso sia stato trasportato di iniziativa, o su commissione, anche per fini estorsivi.
«Si è a sottolineare, a questo punto, che le indagini sinora esperite sulla anonima sequestri non hanno, in alcun modo, fatto emergere possibili collegamenti tra l'organizzazione mafiosa e le trame nere e, pur non potendo escludere che singoli mafiosi possono anche gravitare verso movimenti o partiti di destra, è certo che l'organizzazione mafiosa, nella sua quasi totalità, continua a fornire ogni appoggio elettorale ai partiti al potere. A ciò si aggiunge che gli incrementi patrimoniali di quanti identificati compartecipi dei vari sequestri mafiosi, fanno ritenere che le somme estorte siano state ripartite, a diversi livelli, nell'ambito dell'organizzazione stessa e non destinate ad altri fini».
(18 dicembre 1974)
Fratantonio dottor Mario, Giudice istruttore presso il Tribunale di Palermo.
«L'idea di un collegamento tra i sequestri di persona e trame eversive e più specificamente tra mafiosi e trame nere non trova alcun conforto nell'attuale esperienza giudiziaria palermitana. Essa appare suggestiva e seducente soprattutto perché la mafia non è nuova nell'inserimento a movimenti politici, protesa, come è sempre stata, alla conquista di nuove leve di potere. Tuttavia appare in questa sede prematuro esprimere un giudizio soprattutto perché mancano qui precise conoscenze sulle attività delle trame eversive, mentre le indagini da me svolte, nell'ampio quadro dell'inchiesta sul sequestro del giornalista Mauro de Mauro, non hanno fino ad oggi evidenziato alcun concreto elemento a sostegno delle notizie di stampa, secondo cui il giornalista sarebbe scomparso sulla scia delle trame nere che si preparavano al preteso golpe del dicembre 1970».
(17 dicembre 1974)
Migliorini dottor Domenico, Questore di Palermo.
«Palermo è stata inoltre interessata, nel corso delle relative istruttorie, per le trame nere e per le azioni considerate eversive, ma ciò, prevalentemente per lo status dei noti Pomar e Mioalizio e per i più o meno fondati sospetti che Leggio o la mafia abbiano fornito killers o abbiano, comunque, «riciclizzato» gli ingenti capitali provenienti da più gravi reati e specialmente dai sequestri di persona.
«Sino ad oggi la Questura non ha individuato veri e propri collegamenti tra mafia e Leggio ed i menzionati Pomar e Micalizio e, pur perdurando tal genere di accertamenti, non si va per ora al di là di ipotesi e sospetti.
«Da La Spezia non sono pervenuti alla Questura di Palermo elementi o dati dai quali sia poi scaturita certezza che nessi e collegamenti si siano ivi verificati tra soggetti mafiosi e cosiddette "trame nere"».
(17 dicembre 1974)
Immordino dottor Vincenzo, Questore di Trapani.
«Nulla è dato riscontrare, in provincia di Trapani, in ordine ad un collegamento fra ambienti mafiosi e trame nere.
«L'arresto a La Spezia del mafioso alcamese Ruisi Nicola non può essere assunto ad indice di un rapporto fra la mafia trapanese e gruppi eversivi in quanto il Ruisi, che peraltro in Alcamo era stato vicino a gruppi politici di opposte tendenze, è da considerare un elemento di infimo ordine nella gerarchia mafiosa e, nel caso in esame, sostanzialmente un apprezzolato trafficante di esplosivo».
(17 dicembre 1974)
Guerrasio dottor Luigi, Questore di Caltanissetta.
«Non si è avuto modo di sospettare eventuali collusioni tra trame nere e mafia. Infatti, soltanto tre giovani, già appartenenti al disciolto movimento politico extraparlamentare di estrema destra «ordine nuovo» sono in atto sotto procedimento penale solo per avere aderito al movimento stesso».
Pizzillo dottor Giovanni, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo.
«Nessuna considerazione è dato esprimere, trattandosi di fatti che non rientrano nella sfera di conoscenza diretta di questo Ufficio, in ordine a possibili collegamenti di elementi mafiosi con le trame nere e in genere con eventuali disegni eversivi, giacché in nessuno dei casi venuti a cognizione di questa Autorità giudiziaria si sono evidenziati riscontri inequivocabili di intrecci o di interessi fra mafia e organizzazioni eversive, ciò evidentemente a livello locale».
(17 dicembre 1974)
Lumia dottor Giuseppe, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trapani.
«Può invece escludersi, allo stato, un collegamento della mafia con le trame nere. A giudizio degli organi di polizia, l'arresto alla Spezia dell'alcamese Ruisi Nicola, implicato in tali trame, non sembra indicativo, trattandosi di un pregiudicato disponibile ad ogni impresa criminosa, e non qualificabile ideologicamente»
(17 dicembre 1974)
Forlenza dottor Demetrio, Procuratore generale presso la Corte di appello di Caltanissetta.
«Non risultano connivenze di elementi di questa zona con le trame nere».
(17 dicembre 1974)
Buscemi dottor Ugo, Procuratore generale presso la Corte d'appello di Catania.
«Non può parlarsi, per il distretto, dell'esistenza di trame nere preoccupanti. I pochi casi di criminalità diretta a perseguire finalità proprie del disciolto PNF verificatisi, hanno manifestamente caratteri di criminalità locale e comunque non appare possibile collegarli in alcun modo alla mafia».
(16 dicembre 1974)
Ridola dottor Riccardo, Procuratore generale presso la Corte d'appello di Messina.
«Anche dalle recenti cronache relative alle cosiddette trame nere non risulta che sia emersa una qualsiasi relazione fra soggetti della malavita locale e le operazioni di carattere eversivo che sarebbero state concertate o attuate in altre parti del territorio nazionale».
(16 dicembre 1974)
(2) Il quale, nel frattempo, aveva disposto la acquisizione del fascicolo concernente i Rimi col seguente telegramma:
«Riferimento intervento onorevole Niccolai seduta Camera deputati ventidue luglio corrente prego trasmettere cortese sollecitudine fascicoli relativi at noti detenuti Rimi Vincenzo et figlio Filippo. Stop - Cattanei Presidente Commissione Antimafia».
(3) Roma, 29 aprile 1969.
Appunto per il signor Direttore generale degli Istituti di prevenzione e pena.
Vengono rivolte vive premure perché i detenuti Vincenzo e Filippo Rimi, rispettivamente padre e figlio, non siano separati. I predetti sono attualmente ristretti a Perugia, in attesa del ricorso per Cassazione. Si prega esaminare con favorevole intendimento la possibilità di accogliere la richiesta, fornendo cortesi, urgenti notizie in merito,
(Salvatore Tigano)
(4) Roma, 27 maggio 1969.
Appunto per il signor Direttore generale degli Istituti di prevenzione e pena.
Con riferimento alla risposta in data 13 maggio scorso, Prot. n. 2669 61/4 Compl., vengono rivolte premure perché i detenuti Vincenzo e Filippo Rimi siano trasferiti insieme da Perugia a Favignana per avvicinamento alla famiglia. Si prega esaminare con favorevole intendimento la possibilità di accogliere la richiesta, fornendo cortesi urgenti notizie in merito.
(Salvatore Tigano)
(5) Roma, 30 giugno 1969.
Appunto per il signor Direttore generale degli Istituti di prevenzione e pena.
Con riferimento alla risposta in data 13 maggio scorso, Prot. n. 2669 61/4 Compl., e facendo seguito all'appunto p. n. del 27 maggio scorso, vengono rivolte premure perché, se non fosse possibile lasciare insieme i detenuti Rimi Vincenzo e Filippo, sia destinato il Vincenzo, se riconosciuto minorato fisico, a Ragusa o, se sano, a Favignana ed il Filippo a Favignana o Noto. Si prega esaminare la richiesta con favorevole intendimento, fornendo cortesi, urgenti notizie in merito.
(Salvatore Tigano)
(6) Roma, 6 ottobre 1969.
Appunto per il signor Direttore generale degli Istituti di prevenzione e pena.
Vengono rivolte vive premure perché i detenuti Vincenzo e Filippo Rimi, rispettivamente padre e figlio, non siano separati. I predetti sono attualmente ristretti a Perugia ed aspirano ad essere trasferiti a Ragusa o ad altro istituto qualsiasi, ma insieme. Si prega esaminare con favorevole intendimento la possibilità di accogliere la richiesta, fornendo cortesi, urgenti notizie in merito.
(Salvatore Tigano)
(7) Roma, 12 gennaio 1970.
Appunto per il signor Direttore generale degli Istituti di prevenzione e pena.
Con riferimento alla risposta in data 21 ottobre scorso, vengono rinnovate vivissime premure perché il detenuto Rimi Filippo sia trasferito da Noto a Ragusa. La richiesta è motivata dalla particolare condizione di salute del padre del Rimi, Vincenzo, ristretto a Ragusa, che ha particolare bisogno di assistenza soprattutto affettiva, che può dargli solo il figlio. Si prega pertanto di voler esaminare con favorevole intendimento la possibilità di disporre il trasferimento, anche temporaneamente, del Rimi Filippo a Ragusa, fornendo cortesi urgenti notizie in merito.
(Salvatore Tigano)
(8) Roma, 27 giugno 1970. Caro Margariti,
i detenuti Rimi Vincenzo e figlio Filippo, ergastolani, attualmente ristretti nel carcere di Ragusa, sezione minorati fisici, non possono più stare insieme a causa di una menomazione fisica del padre. Attualmente sono stati autorizzati a rimanere insieme, in Ragusa, sino al 21 giugno u. s. L'onorevole Sottosegretario gradirebbe che tale autorizzazione fosse prorogata almeno di altri due mesi. Ti ringrazio per le notizie che vorrai darmi e cordialmente ti saluto.
(Filippo Romani)
(9) Roma, li 31 ottobre 1970.
Appunto per S. E il dottor Pietro Manca - Direttore generale degli Istituti di prevenzione e pena.
Il detenuto Filippo Rimi, ristretto nelle carceri giudiziarie di Ragusa, aspira ad ottenere un'ulteriore proroga alla sua permanenza nel suddetto carcere. Poiché in favore del predetto pervengono vivissime premure all'onorevole Ministro, La prego di voler cortesemente esaminare la possibilità di soddisfare tale aspirazione. Nel ringraziarla, le porgo deferenti ossequi.
(Mario Bergesio)
(10) Roma, 23 novembre 1970.
Oggetto: onorevole senatore Michele Citare]li -Lettera in favore dei detenuti Rimi Vincenzo e Filippo.
Alla direzione generale Istituti di prevenzione e pena - Sede.
Si invia -con preghiera di restituzione- la lettera del senatore indicato in oggetto, allo scopo di acquisire e trasmettere tutte le notizie utili alla risposta dell'onorevole Ministro, anche su quanto è stato possibile fare per i detenuti segnalati.
p. Il Capo di Gabinetto f.to illegg.
(11) Si prega di voler esaminare benevolmente la possibilità di prorogare ulteriormente la permanenza del detenuto Rimi Filippo nel carcere giudiziario di Ragusa. Saranno gradite cortesi notizie al riguardo. 6 agosto 1970
Il Capo della Segreteria (Sabato Visco)
(12) Appunto. Su pressante richiesta del dottor Sabato Visco, ho telefonato, oggi, al direttore delle carceri giudiziarie di Ragusa -dottor Mauro- dando disposizioni al predetto direttore perché la ritraduzione del detenuto Filippo Rimi, attualmente ristretto in dette carceri, per la casa di reclusione di Noto sia eseguita il 30 gennaio 1971 anziché il 10 gennaio dello steso anno. Atti.
Roma, 10 dicembre 1970.
(13) Roma, 27 giugno 1969. Collega Folino -.
Detenuti Rimi (Vincenzo - Filippo - da Alcamo [Trapani]) già condannati entrambi definitivamente all'ergastolo. Sono a Perugia. Mandarli a Favignana per visitare la rispettiva moglie e madre. Un saluto.
f.to illegg.
(14) Appunto per il signor Capo della Segreteria.
In riferimento alla segnalazione dell'onorevole senatore Corrao, si comunica che con provvedimento in corso la permanenza del detenuto Rimi Filippo nelle carceri giudiziarie di Ragusa è stata ulteriormente prorogata di mesi due.
Roma, 21 aprile 1970.
Il Direttore dell'ufficio III F.to Margariti
(15) Si comunica che non è possibile disporre che il detenuto sano Filippo Rimi rimanga definitivamente assegnato nelle Carceri giudiziarie di Ragusa -nella cui annessa sezione per minorati fisici è ristretto il padre Vincenzo- sia perché è prassi costante di questa Direzione generale non destinare, per ovvii motivi, nello stesso istituto detenuti congiunti o correi e sia perché osta, a norma dell'articolo 26 del vigente Regolamento penitenziario, la pena alla quale lo stesso è stato condannato (ergastolo). Su segnalazione dell'onorevole senatore avvocato Ludovico Corrao la permanenza del Rimi Filippo nell'istituto di Ragusa è stata prorogata sino al 21 giugno 1970.
15 maggio 1970
Il Direttore generale f.to P. Manca
(16) È stata vivamente segnalata all'onorevole Sottosegretario l'aspirazione di Rimi Vincenzo detenuto nelle carceri di Ragusa, intesa ad ottenere che al figlio Rimi Filippo, anch'egli detenuto, sia permesso di rimanere nello stesso carcere. Si prega fornire cortesi notizie al riguardo.
2 maggio 1970
Il Capo della Segreteria F.to Dr. A. Quiligotti
(17) Roma, lì 25 maggio 1971.
Appunto per S. E. il Direttore generale degli Istituti di prevenzione e di pena - Sede.
L'onorevole Sottosegretario è stato vivamente interessato in favore del signor Rimi Filippo, detenuto nel carcere di Ragusa e attualmente a Messina per accertamenti (è stato accertato che è inabile), il quale chiede di essere restituito al carcere di Ragusa, dove è detenuto il padre, anch'egli inabile. Si gradiranno notizie in merito.
(Angelo Quiligotti)
(18) Roma, Palazzo Madama, 2 ottobre 1970.
Carissimo, consentimi, te ne prego, un appello al tuo diretto esame della seguente segnalazione, che è frutto di una intensa preghiera fattami dal repubblicano dottor Vincenzo Renda, da tanti anni sindaco di Vita, in provincia di Trapani. Si tratta di Rimi Vincenzo e Filippo, che vorrebbero continuare ad essere detenuti insieme nel carcere di Ragusa. I due predetti sono padre e figlio ed attendono la decisione del loro ricorso alla Cassazione, avverso sentenza di condanna all'ergastolo per omicidio. Dovrebbero essere ristretti in una casa penale. Il padre, Rimi Vincenzo, è malato, onde pare che debba essere collocato in un centro giudiziario con sezione per minorati fisici. Il figlio, Rimi Filippo, assiste suo padre e perciò fa viva preghiera per rimanere nel carcere di Ragusa e non essere trasferito alla casa penale di Noto. Vi sono state finora delle proroghe, concesse per ragioni umanitarie. Consentimi di insistere affinchè un tuo provvedimento di ulteriore proroga della detenzione per entrambi a Ragusa sopravvenga, ispirato agli stessi intenti umanitari. Grazie! Scusami per il disturbo che così ti procuro. Cordiali saluti
F. Michele Cifarelli
A S. E. onorevole professor Oronzo Reale - Ministro segretario di Stato per la grazia e giustizia - Roma, Via Arenula, 70.
(19) Si tratta in realtà di una comunicazione del dottor Margariti al Direttore delle carceri di Ragusa.
Appunto
Per disposizione dell'onorevole Ministro, resa nota dal dottor Visco, ho telefonato, oggi, al direttore delle Carceri giudiziarie di Ragusa, al quale ho impartito disposizioni perché il detenuto Filippo Rimi rimanga ancora nel suddetto istituto fino al 15 febbraio 1971. i Cane. Grasselli - Prendere nota. Roma, 30 gennaio 1971.
(F.to illegg.)
(20) Roma, 3 febbraio 1971.
Caro Lo Schiavo, in relazione alle vive premure da te rivoltemi, sono lieto di comunicarti che, con provvedimento in corso ed in via del tutto eccezionale, ho disposto che il detenuto Filippo Rimi rimanga nelle Carceri giudiziarie di Ragusa fino al 28 febbraio corrente. Con molti cordiali saluti.
(F.to Pietro Manca)
A S. E. il dottor Giuseppe Guido Lo Schiavo Via Varrone, 9 - 00193 Roma
(21) Roma, 17 marzo 1971.
Caro Lo Schiavo, in relazione alle rinnovate vive premure da te rivoltemi, ti comunico che, con provvedimento in corso, è stato disposto -su parere dell'Ispettore generale sanitario di questo Ministero- il trasferimento provvisorio del detenuto Filippo Rimi al Centro clinico delle Carceri giudiziarie di Messina per ulteriori accertamenti clinici, cure e proposte. All'esito degli accertamenti suddetti ti comunicherò i provvedimenti che saranno adottati. Con molti cordiali saluti.
F.to Manca
A S.E. dottor Giuseppe Guido Lo Schiavo, Via Varrone, 9 00193 Roma
(22) Roma, 12 novembre 1970.
Appunto per il signor Segretario particolare dell'onorevole Ministro.
In riferimento all'appunto sopraindicato si comunica che, con provvedimento in corso, in via del tutto eccezionale, la permanenza del detenuto Filippo Rimi nelle Carceri giudiziarie di Ragusa è stata ulteriormente prorogata sino al 10 gennaio 1971.
Il Direttore generale (F.to Manca)
(23) Roma, 1° luglio 1970
Appunto per il signor Capo della Segreteria dell'onorevole Sottosegretario di Stato dottor Michele Pellicani. In riferimento alla richiesta di cui alla lettera sopraindicata, si comunica che, con provvedimento in corso, la permanenza del detenuto Filippo Rimi nelle Carceri giudiziarie di Ragusa è stata ulteriormente prorogata di mesi due, come richiesto.
Il Direttore dell'Ufficio III F.to Margariti
(24) La dichiarazione del senatore Cifarelli, dietro sua esplicita richiesta viene pubblicata contestualmente alla presente relazione, il testo della risposta del deputato Nicosia è il seguente:
Nicosia: Signor Presidente, io desidero intervenire sul processo verbale per la parte che riguarda la questione personale sollevata dal senatore Cifarelli, a cui ha risposto sia la Signoria vostra che l'onorevole Niccolai. Io in quella sede avevo chiesto di parlare, non per intervenire sul fatto personale, ma per una affermazione che il senatore Cifarelli aveva fatto nel corso del suo intervento. E io la riprendo qui, se lei mi permette, perché rimanga anche a verbale che il senatore Cifarelli ha precisato di non essere nato nella nobile terra di Sicilia, ma che, essendo pugliese, alcune cose non potevano essere a sua conoscenza.
Io reagisco anche per la motivazione che ne ha dato successivamente, perché il senatore Cifarelli prima di tutto è senatore della Repubblica e non può distinguere, come senatore della Repubblica, il territorio nazionale secondo un criterio addirittura di inquinamento mafioso nella vita politica, così come egli ha fatto. Perché il senatore Cifarelli, pur essendo pugliese, sa che i legami che legano la Sicilia al resto del territorio nazionale sono talmente ampi e di portata talmente importante nella storia che non si possono limitare al dato di fatto di un collegio senatoriale.
Il senatore Cifarelli appartiene alla terra pugliese, dove c'è anche qualche città fondata addirittura, nel periodo di Federico II, dai saraceni. Non voglio neanche fare dei riferimenti a tutti i collegamenti culturali, storici e sociali sviluppatisi per lunghi anni sotto lo stesso impero di Carlo V. Non voglio soffermarmi sulla storia che la jettatura sarebbe a Napoli e che i siciliani, solo perché nascono in Sicilia, possono conoscere, essi soli, le famiglie mafiose. Io potrei anche far inorridire il senatore Bertola dicendo che ci sono delle zone della Sicilia dove le inflessioni dialettali, secondo quanto dice il Devoto, sono di pertinenza, addirittura di derivazione, piemontese.
Follieri. Derivano dai piemontesi che sono venuti a liberarvi.
Nicosia. No, perché c'erano prima. Io soltanto faccio presente al senatore Cifarelli che queste distinzioni, specialmente per un senatore della Repubblica eletto in un collegio siciliano, non possono valere.
Io mi aspettavo però dal senatore Cifarelli una precisazione più particolareggiata sui rapporti che, come senatore della Repubblica, ha avuto nel suo collegio elettorale. Questo era di sua pertinenza e poteva chiarirci tante cose; anche perché il sindaco che egli ha citato, e che nel testo stenografico non vedo indicato (Cifarelli ha precisato: «il sindaco di Vita»), credo che non appartenga neanche al collegio senatoriale di Marsala. Il senatore Cifarelli è stato eletto senatore della Repubblica nel collegio di Marsala, Trapani e Pantelleria.
È che la connessione elettorale tra il sindaco di Vita e il senatore Cifarelli è del tutto estranea. Ma il senatore Cifarelli si occupava molto degli interventi della Cassa per il Mezzogiorno, quindi conosce non soltanto il suo collegio particolare Marsala-Trapani-Pantelleria, ma credo che conosca anche altre zone della Sicilia. Ma il problema che io desidero rilevare è un altro. Ecco perché la questione è rilevante. Il senatore Cifarelli ha precisato che la raccomandazione è venuta da un sindaco e soltanto i siciliani che conoscono certe famiglie possono discriminare tra mafiosi e non mafiosi. Vuoi dire che il sindaco, nel raccomandare a lui la particolare pratica di cui si è occupato il senatore Cifarelli, non ha saputo discriminare, o meglio addirittura avrebbe fatto finta di non conoscere chi raccomandava; e questo è un elemento molto importante ai fini di una valutazione di come la mafia riesce a sfruttare le amicizie nei rapporti politici. Il discorso è tutto qui.
Signor Presidente, io mi aspettavo che il senatore Cifarelli venisse qui ad affermare chiaramente che il sindaco che ha raccomandato ha la grande responsabilità di avere segnalato un personaggio che lei stesso ha ritenuto di non essere famoso né come Marcantonio Colonna, né come Romagnosi. Però si da il caso che il sindaco di Vita faccia parte del collegio senatoriale del senatore Corrao, perché i due senatori, il senatore Cifarelli e il senatore Corrao, non sono dello stesso Collegio; per cui rimane aperto tutto il significato politico di un rapporto che nasce da una base di mafia che va a finire fino al Ministro di grazia e giustizia, che in questo caso si chiama Oronzo Reale, ma s'è chiamato Oronzo Reale anche in altri casi per quanto riguarda certi interventi dei Ministero di grazia e giustizia in vicende di marsalesi o di zone comunque del collegio di Marsala-Trapani-Pantelleria.
Io questo volevo dire, signor Presidente, anche perché la Costituzione dice che quando si è eletti deputati o senatori si rappresenta tutta la Nazione, una discriminazione di qualsiasi tipo secondo l'orientamento regionale non vale, né può valere il fatto che il senatore Cifarelli sia nato in Puglia per essere avulso da quella che è una realtà che vive anche in una parte limitata del territorio nazionale, ma si da il caso -e concludo, signor Presidente- che oltre al senatore Cifarelli ci sono altri pugliesi che operano in Sicilia. Io ne cito uno famosissimo: l'onorevole Fasino è pure pugliese ed è l'attuale presidente dell'Assemblea regionale siciliana. A quanto pare i pugliesi, secondo il retaggio antico -e non voglio minimamente offendere i pugliesi che sono carissimi amici e magnifici cittadini italiani- operano in Sicilia abbondantemente e da lungo tempo. Grazie, signor Presidente.
Presidente. Prendo atto delle sue dichiarazioni.
Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale s'intende approvato.
(25) Dagli accertamenti effettuati a richiesta della Commissione dal Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Catania risulta fra l'altro:
30926 del 6 ottobre 1962 - Vendite
Fagone Salvatore vende a Pinocchio Francesco, Ponte Paolo, Ponte Francesco e Nicoletti Giovanni, tutti da Palagonia, con atto notar Las Casas dell'11 settembre 1962, rep. n. 28196, un piccolo tratto di terreno esteso are 01, sito in territorio di Palagonia, contrada Vanchella, catastato all'articolo 2014, foglio 17, part. 38/b. Prezzo lire 8.000; 40148 del 24 dicembre 1962
Fagone Salvatore vende ad Altieri Gaetano da Palagonia con atto notar Musumeci del 26 novembre 1962, rep. 27691, 1/3 indiviso di un piccolo tratto di terreno esteso are 01.60, sito in contrada Morgia Trefauci del territorio di Palagonia, catastato foglio 15, part. 173/a. Prezzo lire 10.000.
(26) E valga a sostegno di queste affermazioni la vicenda davvero sconcertante, sia per le vaste proporzioni assunte in breve arco di tempo sia per le persone e gli enti in essa implicati, del cosiddetto «caso Miallo» documentato dagli atti in possesso della Commissione. Il fallimento del Miallo, titolare dell'omonima ditta esercente, a Marsala, il commercio all'ingrosso ed al minuto di materiale per l'edilizia, nonché quello della società Petrolifera Lilybetana, azienda di commercio di carburanti, e dei soci Pipitene Giuseppe, Asaro Antonino e Licari Mariano, hanno coinvolto tre aziende e undici persone tutte di Marsala.
«II giudice fallimentare e la curatela» -si legge nel doc. 402- «al termine di lunghi e laboriosi accertamenti, hanno potuto determinare lo stato passivo di Miallo Gaetano all'incirca in un miliardo di lire e quello di Pipitone Giuseppe, quale responsabile del dissesto della società Petrolifera Lilybetana, in 760 milioni circa».
«La gran parte delle passività di Miallo Gaetano, circa 700 milioni, grava su nove istituti di credito, con sedi in Trapani e Marsala, tra i quali appare maggiormente esposta la Banca del popolo di Trapani con crediti per 325 milioni di lire.
«Seguono nell'ordine, per somme varianti da un massimo di 150 milioni ad un minimo di 10 milioni: Banco di Sicilia di Marsala - Banca del Sud di Trapani (o di Marsala) - Banco di Roma di Trapani (o di Marsala) - Banca Agricola di Marsala - Banca del lavoro di Marsala - Banca agraria di Marsala - Banca commerciale italiana di Trapani e Banca sicula di Trapani.
«Se si tiene conto altresì della somma di oltre 400 milioni rappresentata da un giro fìttizio di assegni, (prosegue il documento citato), che Miallo ha instaurato, al momento del crollo finanziario, tra Banca del Popolo di Trapani e Banca del Lavoro di Trapani e che i due istituti si rivendicano ora reciprocamente, in moneta, l'ammontare dello stato passivo di Miallo sale da un miliardo ad un miliardo e mezzo circa, di cui oltre un miliardo sempre a danno di banche».
Infatti Miallo, si legge ancora nel doc. n. 402, «agendo in perfetta intesa con Pipitone Giuseppe, potè disporre, grazie a dirette relazioni con i dirigenti di istituti di credito, di ingenti somme di denaro, attingendo a due fonti di liquidità bancaria: la prima costituita da "giri" fittizi di assegni di c/c "triangolari" dall'una all'altra delle tre banche indicate; la seconda dallo sconto bancario di fittizie cambiali-tratte emesse nei confronti di amici compiacenti.
«Gli importi degli assegni di "giro" scoperti di depositi e della carta cambiaria scontata andarono gradatamente aumentando sino a raggiungere cifre di decine e decine di milioni di lire».
Da sottolineare che il caso di cui si parla accade nel 1964; come di consueto la Commissione lascia a metà la propria opera. Raccolte le notizie non va più oltre. Perché?
È convinzione del relatore che dietro il caso Miallo abbiano operato personaggi della politica nazionale e la riprova di quanto affermiamo è che la Commissione si è ben guardata di approfondire il particolare per cui ì due istituti bancari cercarono di contenerle lo scandalo riversandolo con il beneplacito di costoro, sui direttori. Laute liquidazioni dunque dietro le manovrate dimissioni.
In conclusione non è possibile che l'enorme giro finanziario avviato dal Miallo e compagni presso le tre banche sia potuto «passare» senza il beneplacito degli organi direttivi centrali degli istituti di credito. Il Miallo e compagni erano protetti. Ma da chi?
(27) Consiglio di Amministrazione "Anic-Gela": Enrico Mattei, Eugenio Cefis, Fornace Angelo, Girotta Raffaele, Guarrasi Vito.
(28) Si pubblica qui di seguito la lettera di assunzione alla SO.CHI.MI.SI. a firma di Aristide Gunnella, dei noto Giuseppe Di Cristiana.
(29) Dal suddetto documento si rileva:
A) Atto costitutivo della società:
II 13 dicembre 1971, per atto del notaio dottor Adele Ricevuti, fu costituita la società per azioni "GE.FI" (Generale Finanziaria società per azioni) con sede sociale in Milano, via Durini, n. 9.
* Oggetto sociale: operazioni finanziarie industriali e commerciali, mobiliari e immobiliari e altre previste dallo statuto.
* Soci costituenti: Iaia Cosimo ed Omelia Veronesi.
* Capitale sociale: lire 1.000.000, rappresentato da 1.000 azioni da lire 1.000 cadauna, assunto e sottoscritto dai due soci fondatori in ragione di lire 500.000 ciascuno.
* Durata della società: fino al 31 dicembre 2050.
* Amministratori (per il primo esercizio): dottor Valerio Ricci, Presidente, ragionier Ennio Fontana, signor Cosimo Viscuso, dottor Livio Orfani, avvocato Guido Scarpa, avvocato Calogero Cipolla.
* Collegio sindacale (per i primi tre esercizi): dottor Giulio Mosca, ragionier Morello Turroni, dottor Roberto Elefante.
* Sindaca effettivi e supplenti: dottor Bruno Filippi, dottor Adelmo Paganini.
Al predetto atto notarile sono allegati:
la ricevuta di versamento alla Banca d'Italia dei prescritti tre decimi del capitale sociale, pari a lire 300.000;
lo statuto della società.
B) Verbale di assemblea ordinaria e straordinaria della "GE.FI.".
Con atto del notaio, dottor Adele Ricevuti, il 12 maggio 1975, fu redatto, in seconda convocazione, il verbale di assemblea ordinaria e straordinaria della "GE.FI.".
Presenti all'assemblea:
* Consiglio di amministrazione: avvocato Guido Scarpa, presidente; signor Andrea Forti, consigliere; avvocato C. Camillo Scarselli, consigliere.
* Sindaci effettivi: dottor Giulio Mosca, presidente Consiglio sindacale; dottor Roberto Elefante.
* Azionisti aventi diritto al voto:
intestatari di n. 919.340 azioni ordinarie; intestatari di n. 97.900 azioni privilegiate, pari ad un importo di lire 1.017.240.000 del capitale sociale ammontante complessivamente a tre miliardi di lire.
Nel corso dell'assemblea fu data lettura della relazione del Consiglio di amministrazione al bilancio della società, della relazione del Collegio sindacale e del bilancio con il conto «Perdite e profitti».
Dai predetti documenti, allegati all'atto notarile, emerge sostanzialmente quanto segue:
perdita di esercizio della "GE.FI" di lire 1245.259.996, determinata dalle vicende del Banco di Milano, posto in liquidazione coatta amministrativa con decreto del Ministero del tesoro del 15 gennaio 1975;
vincolo del deposito di lire 2.025. 000.000 su richiesta della Banca d'Italia, a garanzia delle perdite della Banca Loria;
scioglimento di diritto della "GE.FI." per impossibilità di conseguire l'oggetto sociale, essendo andato perduto oltre un terzo del capitale ed essendo stata congelata a tempo indeterminato la residua attività di lire 2.025.000.000;
nomina di un liquidatore unico nella persona dell'avvocato Carlo Camillo Scarselli, con le più ampie facoltà;
affidamento per la tutela dei diritti della società al professar Cesare Grassetti.
(30) Che eleva il proprio capitale sociale da un milione a tre miliardi per acquistare il pacchetto azionario della Banca Loria poi Banco di Milano.
(31) Dalla deposizione resa dall'onorevole Alfonso Di Benedetto alla Commissione nella seduta del 6 maggio 1964: «Nel gennaio del 1959, dopo una crisi durata 90 giorni al comune di Palermo, io sono diventato assessore della polizia urbana Era stato già inserito nell'ordine del giorno prima della crisi il rinnovo dell'appalto con la Vaselli, anticipando la scadenza. L'appalto infatti sarebbe dovuto scadere l'anno successivo. Quando sono stato eletto io assessore fu riportato questo all'ordine del giorno ed io chiesi un certo tempo per poter esaminare questo capitolato d'appalto. Subito dopo averlo esaminato, feci delle dichiarazioni dicendo che non vedevo perché bisognava rinnovare il capitolato un anno prima. Si trattava di un capitolato sui generis, perché questa ditta era forse l'unica in Italia e nel mondo che non correva nessun rischio, nessuna alea, perché tutti i maggiori oneri derivanti da eventuali aumenti, dovevano essere pagati al Comune. Infatti, non so se la Commissione è a conoscenza di questo, allora fu stipulato un contratto per un miliardo e 650 milioni ed ora siamo arrivati a due miliardi e mezzo. Ci fu una presa di posizione allora della CGIL, che fece uno sciopero alle mie dichiarazioni politiche, quando sostenevo che non ritenevo di dover dare questo appalto e non vedevo i motivi per cui si dovesse anticipare di un anno il rinnovo dell'appalto stesso. La CGIL, ripeto, fece uno sciopero sostenendo due tesi, con una si diceva che si voleva dare l'appalto a Cassina e tra le due ditte preferivano allora la ditta Vaselli; con la seconda si diceva, che la ditta aveva assunto del personale perché con il nuovo capitolato aumentavano di zone e siccome non veniva applicato il nuovo capitolato queste persone facevano soltanto due o tre giorni di lavoro. Tutto questo è documentato.
Devo dire che io trovai i verbali della Commissione che aveva esaminato il capitolato di appalto, quando non era ancora avvenuta la crisi ed era stato già inserito all'ordine del giorno e vidi le posizioni dei vari schieramenti politici.
Il Presidente della Commissione era -credo- l'attuale assessore Maggiore; tra i componenti della Commissione vi era Pio La Torre, che era segretario regionale della CGIL e capogruppo consiliare comunista al Consiglio comunale. E giustamente le parole inserite a verbale furono queste: tenuto conto che la maggioranza era orientata per dare l'appalto a trattativa privata e che non volevano fare né la municipalizzazione, né la gestione in economia, tenuto conto del potenziale economico -queste sono le testuali parole inserite a verbale- della Vaselli, che poteva consentire al Comune un pagamento dilazionato (perché credo che il debito sia circa di 3 miliardi), tenuto conto di tutte queste cose si orientavano per la ditta Vaselli, per il rinnovo cioè del capitolato d'appalto alla ditta Vaselli, anche per sistemare delle persone che facevano due o tre giorni lavorativi. Ed era una manovra strumentale della ditta appunto per avere capitolato di appalto.
Però, ci tu un dibattito al Consiglio comunale: io a quel capitolato d'appalto, che era già stato perfezionato, in quanto era stato già inserito all'ordine del giorno, apportai 32 modifiche, nella speranza che la ditta Vaselli, strozzata da queste nuove aggiunte, non accettasse.
Invece, con mio sommo stupore, non conoscendo la tecnicità dei servizi o come manipolano i servizi stessi, accettò il capitolato con un prezzo forfettario di 1 miliardo e 650 milioni.
Al Consiglio comunale ci fu battaglia e fu approvato -posso dire- all'unanimità, perché il Gruppo comunista si astenne. Fu dato così l'appalto alla ditta Vaselli».
(32) Nella sentenza di rinvio a giudizio si legge tra l'altro:
Zanatta Adele e Carbone Giovanni (capo XXXIX).
Si fa carico a costoro di avere concorso nel peculato commesso dal Bazan col concedere la somma di lire 16 milioni alla prima, quale presidente del consiglio di amministrazione del giornale "L'Ora" di Palermo, tramite il secondo, componente del predetto consiglio, a titolo di contributi e senza alcuna attinenza con la trattazione e definizione di operazioni bancarie.
È rimasto accertato che fra il gennaio ed il luglio 1963 la "Fondazione" emise 7 assegni circolari della Banca commerciale italiana all'ordine di tale "Tito Scarpa". Tali assegni, per complessivi 16 milioni, furono riscossi e quietanzati da Gianni Carbone: costui, interrogato, ha dichiarato che si era trattato di contributi a favore del giornale per «pubblicità redazionale» a seguito del noto procedimento Sfiar-Nioolay nel quale, allora, venne a trovarsi impegnato il Banco.
Il Bazan ha confermato tale circostanza.
Ora è noto che accanto alla cosiddetta «pubblicità tabellare», richiesta da enti pubblici e privati ad organi di stampa e che viene pagata di volta in volta in base all'estensione dell'inserto, esiste la cosiddetta «pubblicità redazionale» la quale consiste nello scrivere o nel non scrivere un articolo di stampa, ovvero nel coltivare o nel non coltivare una certa campagna di stampa. Tale forma di pubblicità viene pagata forfettariamente dall'ente in base a criteri contingenti e, comunque, imponderabili.
Ciò posto, poiché non v'è motivo di disattendere la concorde spiegazione fornita dal Bazan e dal Carbone, fermo restando che il fatto va considerato arbitrario ed illecito per quanto concerne il primo, non sembra che possa considerarsi costitutivo di reato per il secondo.
Questi, infatti, premesso che l'erogazione a quel fine non poteva apparirgli illecita in quanto giustificata da una prassi costante, ha dimostrato, a mezzo di una serie di giornali "L'Ora", di avere mantenuto l'impegno concordato.
Riguardo poi alla Zanatta Adele va precisato, in aggiunta alle argomentazioni esposte riguardo al Carbone e che, ovviamente, vanno estese anche a suo favore, che non potrebbe in ogni caso essere chiamata a rispondere dell'illecito per il fatto di essere presidente del consiglio di amministrazione del giornale giacché tale carica non comporta la titolarità dei rapporti amministrativi e commerciali del giornale stesso.
Per tali considerazioni entrambi gli imputati devono essere prosciolti dal reato loro contestato, la Zanatta per non avere commesso il fatto ed il Carbone perché il fatto non costituisce reato.
Carbone Giovanni (capo XLI).
Allo stesso Carbone si è fatto carico di concorso nel peculato ascritto al Bazan per avere costui distratto a suo favore la somma di lire 6.360.000 per un presunto incarico di consulenza.
Risulta in atti che in data 30 settembre 1960 il Bazan, nella qualità di Presidente della "Fondazione Mormino", inviò al Carbone una lettera con la quale gli comunicava che «questa Fondazione ha determinato di avvalersi della sua collaborazione per l'assolvimento dei propri compiti statutari. A tal fine le sarà corrisposta, a decorrere dal 1° ottobre 1960 una retribuzione mensile posticipata di lire 120.000».
A dimostrazione dell'attività pubblicistica da lui svolta egli ha presentato n. 49 fogli del giornale "L'Ora" portanti articoli riguardanti il Banco.
Senonchè, a parte che nessuno dei detti articoli risalita firmato dal Carbone, è facile rilevare che molti di essi trattano argomenti di pura cronaca, come l'apertura di un'agenzia, il concerto di un violinista al Circolo del Banco, la nomina del nuovo Consiglio di amministrazione, il sorteggio delle cartelle di credito fondiario, eccetera, mentre molte altre trattano del processo Sfiar Nicolay.
Tutte notizie, come è chiaro, riconducibili, e neppure per intero, alla «pubblicità redazionale» già pagata lautamente al giornale.
Non si riesce pertanto a vedere in che cosa si sia estrinsecata l'attività di «collaborazione per l'assolvimento dei compiti statutari» che, a termini della lettera d'incarico, avrebbe dovuto giustificare il non indifferente stipendio di lire 120.000 mensili.
Appare ragionevole ritenere che il Carbone, oltre alle vistose sovvenzioni a favore del giornale e che, in un certo senso, hanno trovato contropartita negli articoli suddetti, pretese un suo personale «contentino» che il Bazan, abituato com'era a tenersi buoni tutti coloro che in qualche modo potevano danneggiarlo, non esitò a concedere.
Il Carbone, pertanto, deve essere chiamato a rispondere del reato come sopra contestatogli.
Schimmenti Santo (Capo XLIV).
Risulta che allo Schimmenti fu concesso un contributo per la realizzazione del cinegiornale di attualità "Obiettivo".
La compiuta istruzione ha messo in luce che i cinegiornali come sopra finanziati furono per buona parte improntati alla trattazione di argomenti riguardanti la Sicilia ed, in particolare, problemi di cultura, arte, folklore, sport. Tanto è emerso chiaramente allorché sono stati visionati direttamente dall'ufficio presso gli studi di Cinecittà in Roma un buon numero di cinegiornali scelti a caso.
Ne deriva che il finanziamento, ferma restando la sua illecita per ciò che riguarda il Bazan, fu investito dallo Schimmenti secondo gli impegni assunti e in aderenza ai fini istituzionali della "Fondazione". Né, d'altra parte, può pensarsi, sia pure col beneficio del dubbio, come opinato dal PM, che lo Schimmenti avesse ragione di sospettare che si trattasse di un finanziamento arbitrario ed illecito, posto che egli non era tenuto a sapere i rapporti fra Banco e Fondazione e che l'attività da lui prestata era, palesemente, pertinente agli scopi della seconda.
Pertanto egli deve essere prosciolto perché il fatto non costituisce reato.
(33) Nel 1962, in vista della conferma degli esattori per il decennio 1964-1973, si ripresentano ancora una volta le due tesi in contrasto: quella dell'istituzione dell'Ente regionale di riscossione (disegni di legge nn. 81, 223 e 538) e quella del mantenimento dell'attuale sistema (disegno di legge n. 531).
Dai processi verbali delle sedute della Commissione legislativa "Finanza e Patrimonio", emerge la vivacità delle discussioni. La tesi a favore dell'ente pubblico risulta sostenuta particolarmente dall'onorevole Celi per i sindacalisti. In particolare l'onorevole Celi (DC) afferma che «il 66 per cento delle entrate siciliane fa capo ad un unico ente di riscossione (situazione quindi tipicamente monopolistica) e l'ammontare degli aggi di tale ente è di circa 2.300 milioni all'anno su circa 3.500 milioni di totale. Di fronte al 65 per cento delle entrate, tale Ente ha un carico di personale del 45 per cento (896 unità su 1.963) con una resa per unità di personale di lire 2.470.000 all'anno contro il 1.773.000 degli altri concessionari».
Nella riunione conclusiva, il presidente della Commissione onorevole M. Russo (PSI), sostiene la conciliabilità dei vari disegni di legge dato che l'ente pubblico è previsto «non come organo monopolizzatore, ma come strumento calmieratore che serve a rompere, in regime concorrenziale, alcune forme di organizzazione monopolistica che si sono manifestate nella riscossione dalle imposte dirette» e propone di sospendere l'esame dei disegni di legge relativi alla costituzione dell'Ente e di «procedere oltre nell'esame del disegno di legge concernente da conferma in carica degli esattori, in modo tale che lo stesso possa essere approvato il più sollecitamente possibile dall'Assemblea evitando così una possibile carenza di legislazione regionale in questo settore».
L'onorevole Ovazza (PCI) dichiara che le preferenze sue e dal suo gruppo vanno all'Ente regionale, ma che, se la Commissione decidesse in favore del disegno di legge sulle conferme, il gruppo dei deputati comunisti presenti in Commissione non voterebbe contro, ma si asterrebbe solo per evitare che si potesse verificare una carenza di legislazione regionale in questo settore, sempre che il problema della creazione dell'Ente non sia accantonato e l'assessore dia assicurazione che non procederà alle conferme se non di fronte a scadenze di termini indilazionabili. Tali assicurazioni sono date dal Presidente e dall'assessore.
L'onorevole Marnilo (USCS) dichiara di essere contrario all'Ente di riscossione per l'elevatezza dei costi che avrebbe comportato, ma anche alla semplice conferma degli esattori in carica; che voterà tuttavia a favore del disegno di legge governativo per consentire all'Assemblea un approfondito esame del problema.
L'onorevole Cali (DC) fa presente il desiderio delle rappresentanze sindacali di essere sentite prima del licenziamento del disegno di legge e si rammarica che la Commissione prosegua i lavori senza aspettare che l'assessore abbia fornito i dati richiesti nelle precedenti sedute; nega la necessità di licenziare urgentemente il disegno di legge perché in mancanza di norme regionali trovano applicazione quelle nazionali. Comunque ritiene inapplicabile il disegno di legge governativo perché prevede soltanto il parere facoltativo dei comuni, mentre per il testo unico del 1922 esso doveva essere vincolante; si fonda sulla media dei tributi del decennio 1954-1963 senza tener conto delle prossime scadenze di esenzioni regionali; non affronta il problema dei costi, ma determina il congelamento dell'aggio nella misura del 10 per cento; sii pone infine in posizione alternativa con l'istituzione dell'Ente, sicché il voto favorevole assume il significato di voto contrario a tale istituzione.
L'onorevole La Loggia (DC) ricorda che la legislazione regionale non può prescindere da quella nazionale, che prevede le esattorie e la loro conferma quando ne ricorrano le condizioni, ed esprime il parere che l'Ente regionale in posizione monopolistica finirebbe con il portare all'aumento dell'agio, mentre in regime concorrenziale potrebbe essere utile come organo di rottura di alcune posizioni monopolistiche. Propone quindi di licenziare il disegno di legge di iniziativa governativa e di lasciare pendente gli altri.
Votano a favore gli onorevoli: M. Russo (PSI), La Loggia (DC) e Marnilo (USCS); vota contro l'onorevole Gali (DC); si astengono gli onorevoli Nicastro e Ovazza (PCI).
Per una esatta valutazione del voto si rileva l'assenza degli onorevoli Bonfiglio (DC), Bosco (PSI) e Colajanni (PCI).
Nella discussione degli articoli è respinto l'emendamento dell'onorevole Celi, secondo cui per le conferme dalle esattorie deve applicarsi la legge nazionale; sono accolti invece quelli presentati dallo stesso, dall'onorevole Ovazza e dall'onorevole Russo, per i quali la conferma può essere accordata «su conforme motivato parere del Consiglio comunale e della rappresentanza consorziale». È accolto altresì l'emendamento Celi secondo cui nessuno può ottenere «un numero di esattorie, il cui carico complessivo di riscossione superi nell'anno 1962, le lire 20 miliardi».
È respinto invece, perché ritenuto di difficile applicazione, un emendamento dello stesso diretto al riferimento alla media nazionale dell'agio anziché a quella regionale. Senza ricordare gli altri emendamenti, di minore rilievo è da aggiungere che l'intero disegno di legge fu dalla Commissione approvato «a maggioranza» e che l'onorevole Celi non accettò l'invito a predisporre la relazione perché non condivideva l'impostazione generale del disegno di legge.
Questo fu portato in discussione nell'Assemblea il 14 dicembre 1962.
Gli onorevoli Celi e Grimaldi (DC) proposero una sospensiva motivandola con il mancato esame degli analoghi disegni di legge di iniziativa parlamentare e con le richieste di audizione presentate dalle organizzazioni sindacali.
La richiesta fu respinta perché l'onorevole D'Antoni, assessore alle finanze, fece presente l'urgenza del provvedimento in quanto con il 31 dicembre scadeva il termine utile da parte degli esattori per chiedere la conferma.
Nell'illustrare il provvedimento governativo, pose a confronto la situazione delle esattorie siciliane e di quelle della Lombardia (come se tutte le regioni italiane si trovassero nelle condizioni di questa); rilevo i maggiori oneri per il personale; sostenne la necessità di mantenere l'agio «almeno per questa volta» nel dieci per cento; propose di ripristinare il diritto alla conferma, trasformato in concessione discrezionale nel testo approvato dalla Commissione stessa; di sostituire con «sentito il parere» la formula «su conforme parere» approvata dalla Commissione stessa; di adottare la media regionale, molto più elevata, anziché quella nazionale. Non è il caso di confutare d vari motivi addotti: è sufficiente rilevare che tutte le modifiche, fatta eccezione per quella concernente il personale esattoriale (per la quale aveva tuttavia proposto un emendamento limitativo, successivamente ritirato), erano a favore degli esattori. Ciononostante, il provvedimento fu approvato nel testo governativo con qualche modifica di carattere tecnico, con 35 voti favorevoli e 27 contrari, dando così origine alla legge regionale 11 gennaio 1961, n. 8.
Per una maggiore comprensione del voto è da ricordare la composizione dell'Assemblea:
Gruppo |
Presenti |
Assenti |
Totale |
Assenze % |
|
|
|
|
|
DC |
28 |
6 |
34 |
17,65 |
PCI |
13 |
7 |
20 |
35 |
PSI |
4 |
7 |
11 |
63,64 |
MSI |
6 |
3 |
9 |
33,33 |
USCS |
5 |
3 |
8 |
37,5 |
PDI |
2 |
1 |
3 |
33,33 |
PLI |
1 |
1 |
2 |
50 |
PSDI |
1 |
- |
1 |
- |
Ind. Sin. |
1 |
- |
1 |
- |
Ind. Ds. |
1 |
- |
1 |
- |
|
|
|
|
|
Totale |
62 |
28 |
90 |
31,11 |
(34) Si legge a tale proposito nel Doc. 927 che Caruso Giacomo «nel 1970, risultava amministratore unico delle seguenti società:
a) Società per azioni "SICILMARMI" con sede legale ed amministrativa in Alcamo (Trapani) contrada Magazzinazzi e deposito in Pietrasanta (Lucca).
La Società, costituita in data 12 ottobre 1948, ha per oggetto l'estrazione e la lavorazione di marmi e loro derivati.
La maggior parte della produzione è destinata all'esportazione.
Nel periodo dicembre 1969 - febbraio 1970, gli operai della società effettuarono uno sciopero ad oltranza apparentemente per rivendicazioni sindacali, mia, di fatto, per non aver percepito dei contributi sociali concessi loro dalla Regione Siciliana a titolo di premio di produzione e di incentivazione».
«L'ultima verifica fiscale, eseguita dal Nucleo regionale pt di Palermo nei confronti dell'indicata impresa riguarda il periodo 1° gennaio 1970-23 ottobre 1972, e si è conclusa con i seguenti addebiti:
* i.g.e. evasa … L. 5.162.157
* imposta di bollo evasa … L. 9.738
* differenza tra i ricavi accertati
e dichiarati, per il biennio 1970-71… L. 4.284.832
* provvigioni corrisposte a rappresentanti segnalate agli uffici delle imposte dirette competenti, per il periodo 1970-72 … L. 25.400.081
b) Società per azioni "SICILGESSO" con sede legale ed amministrativa in Castellamare del Golfo (Trapani) e sede di fatto (ove è custodita tutta la documentazione) in Alcamo presso la "SICILMARMI".
L'azienda, costituita in data 16 marzo 1963, ha per oggetto l'estrazione e la lavorazione del gesso ed ha lo stabilimento con cave di gesso in Calatafimi (Trapani).
L'ultima verifica fiscale, eseguita dal Nucleo regionale pt di Palermo riguarda il periodo 24 ottobre 1967-23 ottobre 1972 e si è conclusa con l'accertamento delle seguenti irregolarità:
* i.g.e. evasa … L. 243.321
* i.g.e. irregolarmente versata … L. 15.532.612
* imposta di bollo evasa .... L. 2.098
* differenza tra i ricavi accertati e dichiarati, per il periodo 1969-71 … L. 15.063.772
e) Società per azioni "S.I.T.A.R." (Società Industriale Trapanese Autoveicoli Riparazioni) con sede legale in Castellammare del Golfo e sede amministrativa in Trapani.
Costituita in data 18 gennaio 1964, la società ha par oggetto l'industria automobilistica, la vendita di auto anche usate e di autoradio e l'esercizio della concessione ottenuta della FIAT.
Dispone di un lussuoso salone di esposizione e vendita in Trapani, via G. B. Fardella, n. 450; altri due autosaloni sano ubicati rispettivamente a Mazara del Vallo e a Castellamare del Golfo.
Quest'ultimo, prima gestito dal noto mafioso Plaia Francesco, figlio dell'altrettanto noto Plaia Diego, è poi passato sotto la direzione di tale Scandariato Angelo, persona molto influente anche sul piano politico.
L'ultima verifica fiscale, eseguita dal Gruppo di Trapani, che riguarda il periodo 1° ottobre 1967 21 ottobre 1972, ha permesso di accertare le seguenti irregolarità:
* i.g.e. evasa … L. 97.055
* imposta di bollo evasa … L. 33.310
* imposta di registro evasa … L. 1.989
d) Società per azioni "OCEANIA", Alcamo, centrata Magazzinazzi, presso la "SICILMARMI", ed avente per oggetto l'esercizio della pesca atlantica.
Tale società, costituita in data 5 febbraio 1963 e della quale il Caruso Giacomo fu amministratore fino al 4 agosto 1969, disponeva della motonave "Oceania Rosa" iscritta al n. 452 del Compartimento Marittimo di Trapani.
e) Società per azioni "Immobiliare Milo" con sede in Trapani, via Fardella, n. 450, avente per oggetto l'acquisto, la costruzione e la gestione di aree edificabili ed immobili.
È stata costituita in data 25 maggio 1954.
/) Società per azioni "Sicil Jrnbach Motori" con sede in Castellamare del Golfo, via Garibaldi, 82, avente per oggetto l'industria per la costruzione dei motori e le loro parti di ricambio.
«Di tale società, costituita in data 15 marzo 1963, il Caruso fu consigliere delegato a firma libera fino al 3 novembre 1964».
(35) Nel processo verbale della seduta del 29 aprile 1964, nel corso della quale Gullotti viene eletto Vice Presidente della Commissione, si legge: «II Presidente avverte che nella seduta odierna si procederà alla elezione di un Vice Presidente, in sostituzione del deputato Scalfaro. Il senatore Adamoli riferisce che, secondo voci, il Gruppo democristiano avrebbe candidato alla carica di Vice Presidente il deputato Gullotti. Ricorda una recente polemica giornalistica relativa ad una fotografia nella quale il deputato Gullotti apparirebbe accanto al noto mafioso Genco Russo. Di tale circostanza chiede conferma allo stesso deputato, alla cui sensibilità fa appello perché rinunci alla candidatura di Vice Presidente.
Il deputato Di Giannantonio, al quale si associa successivamente il senatore Militerni, ritiene inammissibile che si sollevino dubbi sulla dignità dei commissari e sul loro impegno ad assolvere tutti i compiti che la Commissione ad essi affida. Il deputato Gullotti dichiara di respingere categoricamente le insinuazioni implicite nelle parole del senatore Adamoli.
Il senatore Parai ritiene che ragioni di opportunità sconsiglierebbero di eleggere Vice Presidente un parlamentare siciliano, quale è il deputato Gullotti, della cui onestà non è possibile peraltro dubitare.
Il senatore Varaldo replica osservando che, al tempo in cui si costituiva la Commissione, fu proprio il Gruppo democratico cristiano a proporre che della Commissione stessa non facessero parte parlamentari siciliani: tale proposta fu però respinta da altri Gruppi tanto che il Vice Presidente in carica è siciliano.
Il Presidente, premesso che non è lecito mettere in discussione la dignità di nessuno dei componenti della Commissione, indice la votazione per l'elezione di un Vice Presidente...».
(36) Onorevole Presidente, con una prima relazione della Commissione, il 2° Gruppo per le indagini specifiche ha posto in evidenza, fra l'altro, le seguenti risultanze, derivanti dai documenti esistenti e dalle dichiarazioni delle persone interrogate durante il sopralluogo in Sicilia:
1) nel febbraio del 1962 sarebbe stata concessa un'indennità mensile ai Consiglieri provinciali, in difformità a precise disposizioni di legge, e tale indennità verrebbe tuttora corrisposta, nonostante che la Commissione provinciale di controllo avesse dichiarata la nullità della relativa deliberazione del Consiglio provinciale. Al fine di dare esecuzione a tale illegale deliberazione vi sarebbero state pressioni da parte dell'onorevole Gioia, del sindaco Lima e sarebbe poi stato tratto in inganno lo stesso Presidente Di Blasi al quale infine sarebbero state rivolte vive scuse;
2) sarebbe stata stipulata dal Comune una convenzione con l'appaltatore Vassallo, in difformità delle disposizioni del piano regolatore e con un procedimento quanto mai irregolare ed arbitrario. Risulterebbe, fra l'altro, dalla dichiarazione del Presidente Di Blasi che, chiusa la seduta nella quale la convenzione era stata annullata, il Vice Presidente professor Virga avrebbe fatto riaprire la seduta ed avrebbe ottenuta l'approvazione della convenzione compiendosi così un atto di evidente gravita;
3) la convenzione Cassina per la rinnovazione del contratto di manutenzione stradale del Comune di Palermo, deliberata dal Consiglio comunale, e poi dichiarata nulla per vizio di legittimità dalla Commissione di controllo, sarebbe stata nuovamente adottata dalla Giunta comunale e poi approvata dalla Commissione di controllo, nonostante l'opposizione dal Presidente Di Blasi.
Alle decisioni della Commissione di controllo per le convenzioni Vassallo e Cassina avrebbero partecipato con voto favorevole, i dottori Vinci, Ferrara e Bisagna, tutti e tre funzionari della Regione e, per alcuni di essi, non sarebbero stati estranei interessi personali, in quanto il Ferrara avrebbe così «agito perché aveva ottenuto o doveva ottenere l'assunzione di un certo Velci, fidanzato della figlia»; il Bisagna per ottenere l'assunzione del figlio; per di più il Bisagna sarebbe stato già denunziato come mafioso;
4) inoltre il suindicato Gruppo di indagine ha chiesto che siano allontanati dagli Uffici regionali tutti gli impiegati, i cui precedenti penali sono incompatibili con rapporti di pubblico impiego; ha proposto altresì sanzioni a carico di coloro che hanno disposto l'assunzione negli Uffici regionali di persone pregiudicate e di coloro che, avendone il dovere, hanno omesso di rilevare i precedenti penali negativi e di provvedere di conseguenza;
5) lo stesso Gruppo ha chiesto la sospensione dall'incarico di Commissario straordinario dell'ERAS del dottor Salvatore Lima, che fu Sindaco del Comune di Palermo nell'epoca in cui vennero compiute le illegalità sopra indicate.
Al riguardo del Lima è stata rinvenuta nel fascicolo di Angelo La Barbera una lettera indirizzata al Comando generale della Guardia di finanza, dalla quale risulterebbe che Angelo La Barbera ed il fratello Salvatore avrebbero svolto anche attività politica «interessandosi alle elezioni del Sindaco nel 1958 ed alla successiva protezione di Salvo Lima».
A seguito delle proposte del Gruppo di indagine, la Commissione, nella seduta del 18 corrente, ha deliberato di chiedere a lei chiarimenti verbali su quanto è indicato ai numeri 1), 2), 3), 4) e 5) della presente lettera; nell'occasione potrà fornire informazioni sui fatti, alcuni di notevole importanza, risultanti dalla relazione Bevivino, sciogliendo così la riserva fatta nel trasmettere la relazione stessa.
La prego pertanto di voler intervenire, qualora non vi siano motivi in contrario alla seduta che la Commissione terrà il 15 aprile p.v., ore 17,30 in Roma.
Nella fiducia della sua gradita adesione, la ringrazio e le porgo l'espressione della più viva considerazione.
(Senatore Donato Paifundi)
(37) Dal processo verbale della seduta del 13, marzo 1974:
«II deputato Giuseppe Niccolai chiede al Presidente di dare notizia alla Commissione della lettera che egli gli ha inviato il 4 marzo scorso, in modo che al processo verbale della seduta resti traccia della lettera medesima.
Il Presidente Carraro informa la Commissione che, effettivamente, il deputato Giuseppe Niccolai gli ha indirizzato in data 4 marzo 1974 una lettera con la quale gli chiedeva di fare un passo, nelle more della formazione del prossimo Governo, presso il Presidente del Senato e della Camera perché dal Governo stesso fossero escluse persone «di cui l'antimafia possiede inserti voluminosi ed inquietanti».
Il Presidente Carrara dichiara che, peraltro, egli non ha ritenuto di dare prima comunicazione alla Commissione del testo della lettera indirizzatagli dal deputato Giuseppe Niccolai, perché gli sembrava, dall'intero contesto di essa, che si trattasse di una comunicazione di carattere riservato e personale, precisando, comunque, che il problema sollevato dal deputato Giuseppe Niccolai sfugge manifestamente alla competenza della Commissione».
Ringraziamo il ricercatore Andrea Biscàro - http://www.ricercando.info - e l'on. Angela Napoli (AN)
per averci dato la possibilità di pubblicare questa Relazione.