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"Proposta", Anno III, n° 3 - 4, maggio - agosto 1988

Almirante. La retorica dei vinti fu il suo miracolo

Beppe Niccolai

Un tempo lontano, lontanissimo. Quaranta anni fa. Quando, usciti dall'immane disastro della guerra perduta dopo la grande «esaltazione» mussoliniana, c'era l'inderogabile necessità di trovare il linguaggio giusto, per ridare una voce ai vinti. E questa voce non poteva più avere gli accenti, i toni del ventennio. La retorica «da Palazzo Venezia» avrebbe significato il suicidio definitivo. Avrebbe significato ridicolizzare tutto, compreso Mussolini.

 

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Qualcuno ci tentò. Edmondo Cione, antifascista, il discepolo prediletto (o' «vaccariello» dicevano gli amici, cioè il vitellino che segue sempre la mucca) di Benedetto Croce, precipitato in quella incredibile e indescrivibile esperienza della RSI, in quei suoi fermenti che videro mescolarsi ed esaltarsi temperamenti diversi, da quelli liberali, anarchici, comunisti, socialisti, finito accanto a Mussolini e nel MSI nel 1946, tentò, nel 1948, la scalata, da Napoli, al seggio parlamentare di Montecitorio. E, come accade quando la febbre elettorale colpisce, per avere qualche voto in più dai «nostalgici», ricorse, lui di formazione intellettuale antifascista, all'eloquio proprio del ventennio e, in un suo comizio rimasto celebre, uscì con la frase, per cui «le quadrate Legioni di Roma avrebbero di nuovo marciato sulla quarta sponda». Non lo avesse mai fatto! Ci furono sì, immancabili, le reazioni irate degli antifascisti, ma quelle dei missini non furono da meno. Una sollevazione generale. A Cione gli furono dette di tutti i colori. Tu ci ridicolizzi! Tu non ti rendi conto che cosa sia, per noi, quel passato! La tua non è fierezza nazionale, è retorica da quattro soldi! Non permetterti più di parlare quel linguaggio! E per un posto in parlamento!

 

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Allora il MSI era «costituzionalmente» diverso da quello odierno. Tornavamo dalla guerra perduta. Dalla guerra civile. Dalla prigionia. Portavamo con noi esperienze drammatiche terribili. Fra le altre questa: come la retorica delle parole, non confortate dai fatti, fosse stata fra le cause dell'impreparazione che ci aveva portato al disastro. La RSI e il filo spinato erano state due Scuole di autocritica feroce, di esame di coscienza spietato, verso noi stessi. Lo aveva cominciato Mussolini quell'esame di coscienza, quando, a Salò, si era spogliato di tutti i gradi, di tutti i lustrini, di tutte le greche, ed aveva indossato la nuda divisa di un Soldato. E con il celeberrimo libro "Il tempo del bastone e della carota" aveva smitizzato se stesso, raccontando agli Italiani, la vicenda Badoglio. «Badoglio era un generale inetto, traditore, io lo sapevo fin dal 1926, eppure, Italiani, io, Mussolini, gli ho affidato i posti più alti nella gerarchia statuale. Più colpevole di lui sono io, Mussolini!». Questa l'autocritica di Benito Mussolini, condotta in pubblico, davanti alla nazione insanguinata e divisa, scritta da lui stesso!

 

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Ebbene quelle «esperienze» le avevamo nel sangue quando, quaranta anni fa, mettemmo su il MSI. E guai alla retorica, guai a chi, per arrivare ai «meglio posti», si fosse azzardato ad utilizzare un linguaggio, un tono, certa ridicola imitazione mascellare! Il MSI non lo avrebbe consentito, soprattutto perché le sofferenze che gli avevano dato vita provenivano proprio da quell'esame di coscienza collettivo che era poi il giuramento che tanti combattenti avevano fatto con se stessi, quando la guerra era in atto: «Quando torneremo faremo i conti, anche con il fascismo, che ci ha dato scarpe di cartone, generali inetti, fucili inservibili, ordini suicidi, che ci ha fatto morire massacrati sui monti della Grecia e sconfitti in Africa!».

 

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È esistito questo MSI. Basta sfogliare "Rosso e Nero" di Giovannini, "Rivolta Ideale" di Tonelli, "Rataplan" di Tripodi, "Asso di Bastoni" di Caporilli, "Merlo Giallo" di Giannini, "Candido" di Guareschi, "Meridiano d'Italia" di De Agazio, per citare solo i maggiori. Quando ci si avvicina a questi vecchi «fogli» vengono le vertigini, al confronto con i fogli che circolano adesso. Si misura la diversa temperie di due epoche, quella del 1946 e quella, ahimé, del 1988.

Quaranta anni fa ci si accapigliava. In pubblico. Con polemiche feroci sulle idee, sui propositi, sui comportamenti. Fino a spellarci. I panni non si lavavano in famiglia, ma davanti a tutti. Senza alcuna tema.

Fu un periodo di passioni animate e faziose, di vita stentata fra le rovine della sconfitta ed il faticoso impegno collettivo della ricostruzione.

Sì, impegno collettivo. Per ricostruire l'Italia. E talmente lo sentivamo quell'impegno che, in mezzo alla persecuzione, noi i vinti, fummo capaci di guardare anche ai nostri errori di fondo, di farci carico, anche noi, della sconfitta. Non scaricando il tutto sul comodo alibi del tradimento. E trovando il linguaggio adatto per comunicare a tutti gli Italiani che, messi a terra con la sconfitta, erano nelle condizioni più difficili per capire chi, vinto, gli voleva ancora parlare di destino dell'Italia, di fierezza nazionale, di rinascita spirituale e politica.

 

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E qui sta il capolavoro di Giorgio Almirante: l'aver trovato lui il linguaggio scorrevole, umano, familiare, grazie al quale era di nuovo possibile parlare di «Patria» agli Italiani. La retorica dei vinti è opera sua. E non è cosa da poco. È di fondamentale importanza. Senza quel linguaggio i vinti non avrebbero saputo esprimersi in questa Italia, e sarebbero stati vinti per sempre.

Ho usato l'espressione: la retorica dei vinti. Questa retorica sarebbe stata un disastro se si fosse dipanata sui toni e i ritmi del ventennio. Saremmo stati, come ho scritto, ridicolizzati. Non si parlerebbe più di noi, se non come vecchi residui di una storia mummificata. Roba da museo.

È stato Almirante a trovare i temi giusti, il tono per farsi ascoltare. Nelle piazze, in Parlamento.

È il suo merito, il suo miracolo. Tanto è vero che quando se ne è voluto scostare da quel linguaggio, è cominciato il declino.

 

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E dopo? E dopo che c'è? Ci sono altri miracoli? La sua vita tutta perfetta?

Gli sono stato vicino, forse come nessun altro. Sarei ingiusto se dicessi che mi sono politicamente costruito senza di lui o contro di lui. Un'intera generazione del MSI è cresciuta intorno a lui. Ma non gli posso, in questo momento, mancare di rispetto, mentendo. D'altra parte non ho scritto forse che senza di Lui il MSI non avrebbe avuto possibilità di farsi ascoltare? O non è questo il massimo dei riconoscimenti?

 

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Detto questo, i suoi limiti. L'amore sfrenato che aveva per se stesso, la coscienza in lui fortemente radicata che il MSI fosse lui e basta, e in questa coscienza l'aver misurato i propri collaboratori per cui, nella comunità, si sono privilegiati i cortigiani anziché i caratteri: l'aver, sempre nella consapevolezza di essere il più bravo, smussato se non ucciso il dibattito e il confronto, che sono le condizioni per formare coscienze e classi dirigenti; questa sua distanza dalla Comunità, per cui la politica, anziché costruita collegialmente, nasceva dall'inventiva, dalla bravura, dalla impareggiabile maestria propria e di nessun altro, tutto ciò lascia un'eredità pesante, e con la quale il MSI deve ancora misurarsi.

 

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Lui se ne è andato. Lascia una propaganda. Non è questa una diminuzione se a questa «propaganda» si è riconosciuto di aver dato una voce ai vinti. Ma con la propaganda, e senza di Lui, non c'è molta strada da fare. La sua dipartita impone la costruzione di una politica, di un progetto. Sarebbe assurdo, e sommamente ingiusto, dire che questa politica va costruita contro di Lui. Certo è che, nel costruirla, occorre tenere presente che cosa Almirante è stato. Nella vita di ognuno di noi, nella vita della Comunità. Punto di riferimento? Senz'altro. Nel bene e nel male. Io intendo onorarlo così. Per me è vivo. E con lui bisogna fare ancora i conti.

Beppe Niccolai

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