L'ADDIO

A noi resta la sua grande lezione

Domenico Mennitti

Non ricordo quando ho incontrato per la prima volta Beppe Niccolai. L'episodio più lontano nel tempo, del quale conservo la memoria, risale al Congresso del 1963 che celebrammo a Roma e si concluse con l'abbandono del palazzo dell'Eur da parte della corrente di «Rinnovamento» che faceva capo a Giorgio Almirante.

A curare il servizio d'ordine erano state chiamate le «camicie verdi», un gruppo di attivisti prevalentemente romani, legati ad Arturo Michelini. Erano giovanotti aitanti, che interpretavano il loro compito con qualche esuberanza. Uno come Beppe certi comportamenti non poteva tollerarli. E, difatti, non li tollerò. Eravamo diretti nel primo pomeriggio a riprendere i lavori, quando mi accorsi di un tafferuglio (poi ce ne furono tanti) scoppiato a pochi metri di distanza. Mi riferirono che ad accendere il fuoco era stato un pisano, Niccolai, che aveva investito quei «tutori dell'ordine» troppo zelanti e faziosi.

Di lui ho sempre questa immagine: un insofferente. Non solo verso il sopruso, la prepotenza, la sopraffazione; anche verso il conformismo, la mediocrità, la tranquillità. Era un combattente della vita, che si sentiva stimolato a non fermarsi mai.

Alla fermezza, alla durezza, talvolta alla cattiveria di certe affermazioni pesanti anche sul piano personale, contrapponeva la disponibilità a ridiscutere tutto. Sembra una contraddizione, addirittura una superficialità nell'esprimere giudizi. Ed invece l'apertura a capire (e magari a ricredersi) testimonia la sua grande onestà intellettuale, la capacità di non rinchiudersi mai in presuntuose certezze.

Si spiegano così gli amori e gli odi profondi, ugualmente intensi, alternati nel tempo verso la stessa persona, che hanno segnato la sua vita. Diceva e scriveva d'istinto le cose che in quel momento pensava. E disse e scrisse l'opposto quando ebbe modificato pensieri, giudizi, valutazioni.

Tanto ha fatto con grande slancio, con partecipazione densa di ricerca, coinvolgendo affetti e sentimenti, sconvolgendo rapporti. Cercava la verità sugli eventi e sulle persone. Spesso, quando ritenne di averla trovata, ne rimase atterrito e gridò alla delusione.

Nessuno può dire quanto e quando obiettivamente sia stato nel torto e nella ragione: ma è certo che non nascose mai alla coscienza ed alla conoscenza del prossimo una soltanto delle scoperte che gli capitò di fare lungo il travagliato cammino della vita.

Non so se amò il partito come strumento organizzativo, con regole da rispettare. Amò sicuramente il mondo che nel partito si riflette: i giovani che lo popolano, le speranze che lo animano, le sofferenze che lo hanno temprato come carattere collettivo ed individuale. Aveva una inclinazione malinconica, che forse era il retaggio della prigionia affrontata con virile coscienza di vinto. E dei vinti infatti volle essere la voce. Di questa tendenza però faceva di tutto per liberarsi, almeno per non trasmetterla agli altri. Dotato di grande intelligenza politica, sapeva che il messaggio per l'avvenire doveva fondarsi sulla visione ottimistica della vita.

Per anni ha interpretato un ruolo gladiatorio, fustigando i costumi, aggredendo situazioni ed uomini. Da tempo però provava fastidio per la «politica gridata», per le affermazioni tronfie e definitive. Mi confessò che oggi non avrebbe ripetuto una rubrica come «Rosso e Nero», che non riteneva adeguata ad una fase di dialogo, di sforzo per comprendere le ragioni degli altri.

Due costanti tuttavia emergono nette in tanto travaglio: la prima riguarda il sentimento della Nazione e la unicità della storia; la seconda investe la lotta contro quello che egli definiva il «partito americano», la filosofia dell'economia come destino, della caduta dei valori.

Sono temi al centro del dibattito politico attuale, che testimoniano come Beppe è stato immerso nel suo tempo, radicato nelle proprie idee e capace di cogliere tutto quanto di nuovo si annunziava e si manifestava.

Noi raccogliamo questo messaggio, lo interpretiamo come ammonimento a non adagiarci mai, a non considerare definitive analisi e proposte. Beppe ci ha insegnato che la politica è lotta, è divenire, è sacrificio, sofferenza, gioia, speranza. È la capacità di rialzarsi dopo essere caduti. Di tendere la mano all'avversario dopo averlo colpito o dopo essere stato colpito da lui. È amore e odio, convergenza e contrapposizione. È polemica. È la forza di capire e di non pensare mai di aver capito tutto e per sempre.

Non dimenticherò Beppe Niccolai non solo perché gli ho voluto bene, soprattutto perché dovrei dimenticare questo affascinante modo di essere soggetto di politica.

Beppe lo è stato, certamente. A noi resta la sua grande lezione.

Domenico Mennitti

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