Gennaro Malgieri
Neppure l'aggravarsi, della malattia, la scorsa settimana, che alla fine
d'agosto l'aveva improvvisamente colpito, ci aveva fatto disperare di
rivedere Beppe Niccolai guarito tra di noi. La vita, spesso, si nutre
d'illusione. La morte ristabilisce dolorosamente lo stato delle cose e
pure le illusioni fa naufragare nell'immenso mare della condizione
umana. Cosi Beppe Niccolai non s'è più ripreso; se n'è andato senza
salutarci, senza lasciarci alcun messaggio se non quello della sua
intera esemplare esistenza.
«Leggendo» dentro la vita di Beppe, come ci abitueremo a fare ora che
non c'è più, s'incontra un mondo. Quello dei «vinti», essenzialmente,
ricco di tutti gli umori, gli ardori, le angosce, i tormenti, la
generosità di chi lo ha nutrito d'una passione dirompente come quella
che animava Niccolai, una passione italiana e fascista. Ma l'essere
dalla «parte sbagliata» per lui non volle mai dire rancore, faziosità,
spirito di vendetta. È stato un pacificatore, Niccolai, e la sua Italia
voleva che somigliasse quanto più possibile a quella vagheggiata da
Mussolini e da Berto Ricci, un'Italia «barbara» dotata di una propria
fisionomia culturale, civile, politica, proiettata con il suo destino
nel gioco delle grandi nazioni per esercitarvi il suo ruolo.
Le lunghe pedalate
Il nazionalismo di Niccolai, tuttavia, non è mai stato sciovinismo.
Egli, da intellettuale e da politico, non ha mai messo i paraocchi, non
ha mai assunto l'atteggiamento tipico dei piccoli nazionalisti con il
tic della xenofobia: è stato un uomo aperto, profondamente consapevole
di essere italiano, ma non per questo chiuso al mondo, a tutte le
esperienze ed a tutte le curiosità che gli derivavano dall'essere
strettamele a contatto con la mutevole realtà contemporanea. Piaceva ai
giovani anche per questo suo formidabile vitalismo che sul piano
strettamente personale estrinsecava in un'attività sportiva davvero
rimarchevole per la sua età.
In gioventù aveva praticato il calcio con qualche successo giocando
perfino nella prima squadra del Pisa; abbandonato il football, aveva
continuato a praticare, si può dire fino all'ultimo, il ciclismo ed il
motociclismo. Nel luglio scorso fu proprio una brutta caduta dalla
motocicletta che gli fece cominciare a salire il calvario che solo alle
otto di ieri mattina ha avuto termine.
Scoprii Niccolai sportivo all'inizio degli anni Settanta a Pisa. Non lo
conoscevo di persona, ma lo ammiravo come tenace oppositore al
conformismo social-comunista che imperava nelle sue contrade. Un giorno
lo vidi sfrecciare sulla via Celcesana aggomitolato sulla sua bicicletta
da corsa, mentre io arrancavo con la mia. Un amico che pedalava accanto
a me disse: «Quello è Niccolai, pensa si diverte a cronometrarsi». Aveva
infatti uno strumento al collo che somigliava ad una sveglia. Da allora
lo vidi su tutte le strade più impervie del Pisano e della Luccchesia;
mai, per rispetto, provai ad affiancarmi a lui, oltretutto temendo di
non reggere il suo «passo». Quando anni dopo gli confessai questa mia
debolezza, rise di cuore e, con l'arguzia tipica del toscano, mi domandò
se non l'avessi fatto anche per non essere battuto da chi all'epoca gli
era lontano quanto a riferimenti ideologici e concezione politica pur
nell'ambito di uno stesso mondo.
Scrivere di Beppe Niccolai è come annodare i fili di un ideale romanzo
nel quale i ricordi personali s'intrecciano alla sua vita pubblica, un
grande libro nel quale trovano posto piccoli frammenti d'umanità e
grandi fatti politici e morali. Non è facile mettere ordine, vale
comunque la pena provarci.
Niccolai nacque a Pisa il 26 novembre 1920 e respirò fin da bambino nel
clima umanistico di casa sua, grazie soprattutto al padre, preside di
liceo e provveditore agli studi. Nella grande biblioteca paterna si
formò una coscienza politica e divenne fascista. Laureato in
giurisprudenza, militante nelle organizzazioni giovanili fasciste,
Niccolai con grande coerenza sposò il pensiero e l'azione e fu
volontario di guerra in Africa Settentrionale dove si distinse per
coraggio e valore.
Prigioniero di guerra
Prigioniero «non collaboratore» in Africa e negli Stati Uniti, nel
«fascist criminal camp» di Hereford, rientrò in Italia nel febbraio
1946.
L'impatto con la Patria devastata fu traumatico, ma indusse il giovane
reduce a raccogliere l'orgoglio della sua fede e della sua disperazione,
al pari di tanti altri vinti, schierarsi, accanto ai camerati scampati
alle forche partigiane, ai tribunali popolari, alle vendette dei neo-
democratici, alle galere antifasciste, all'esilio e all'epurazione, nel
nuovo partito della rinascita nazionale, nel MSI di Romualdi, Michelini
ed Almirante,
In Toscana Niccolai divenne uno dei principali punti di riferimento del
MSI, che animò con grande sprezzo del pericolo, incurante del linciaggio
morale al quale veniva sistematicamente sottoposto, fiero della sua
scelta e partecipe di un processo di pacificazione tra gli italiani che
nel terroristico clima dell'epoca gli procurò tanti nemici ma pure
tantissimi estimatori tra gli avversari in buona fede.
Convinto che la buona battaglia dovesse appoggiarsi ad un foglio, ad un
giornale, Niccolai fondò negli anni Cinquanta il quindicinale “Il
Machiavelli” al dichiarato scopo di fare opera di moralizzazione
politica nella sua Pisa e di contribuire al rafforzamento di quel fronte
degli Italiani ostili alla partitocrazia, all'uso spregiudicato della
cosa pubblica da parte dei centri di potere, all'imbastardimento
culturale proveniente dai nuovi colonialisti d'Oltreoceano. In una
regione difficile, nella quale chiunque si proclamava fascista era
costretto a sopportare prevaricazioni d'ogni genere, Niccolai s'impose
all'ammirazione di tutti e nel 1968 la stima dei suoi conterranei lo
portò a Montecitorio dove restò anche la successiva legislatura
segnalandosi in mille battaglie che sarebbe impossibile riportare qui,
sia pure in sintesi. Come membro delle commissioni Lavori pubblici e
Difesa e come relatore di minoranza alla Commissione antimafia, Niccolai
si segnalò al più vasto mondo politico italiano, giacché quello di
partito ormai lo conosceva assai bene, per onestà, intelligenza,
lungimiranza e cultura. Le stesse doti che come dirigente ebbe modo di
far emergere nel Movimento Sociale Italiano dove per lunghi anni fu
collaboratore apprezzato e fidato di Giorgio Almirante.
Verso la fine degli anni Settanta qualcosa tra Niccolai ed il leader
missino si ruppe politicamente. Il primo passò all'opposizione. Nel XIV
Congresso espose quasi solitariamente il proprio punto di vista sul
rinnovamento del Partito ed al XV incarnò l'anima della componente
capeggiata dall'on. Domenico Mennitti.
A viso aperto
Niccolai ha combattuto la sua battaglia sempre a viso aperto e mai per
sostenere posizioni di potere personali. È stato trasgressivo in ogni
occasione, proiettato nella comprensione delle nuove dinamiche politiche
e sociali che si muovevano nella società civile. Ma ha pure in ogni
occasione sostenuto una quasi personale campagna moralizzatrice contro
il malcostume diffuso nella società politica: ne sono esempi i numerosi
interventi sul nostro giornale, da «Rosso e nero» a «Duello al sole».
Anche attraverso gli interventi giornalistici, Niccolai non ha avuto
altra ambizione che quella di contribuire ad un'impresa estremamente
ardua ed affascinante: ricomporre l'unità morale e politica degli
italiani. In un'intervista che gli feci nel novembre del 1984 in merito
alla riscoperta del suo e nostro caro Berto Ricci, mi disse che
riproporre la figura del grande fiorentino ha un solo significato «che
la rivoluzione italiana (di caratteri e di volontà) sarà tale solo se
riuscirà a costruire un nuovo tipo di italiano». Ricci era per Niccolai
l'esempio da proporre soprattutto alle nuove generazioni e non senza
ragione. Concludendo un discorso sulla sua figura, cinque anni fa,
Niccolai disse: «A Berto Ricci, uomo nuovo di Mussolini, in questa
Italia vecchia, senza respiro storico, senza speranza, rendiamo omaggio
noi, soffrendo per non essere stati pari al suo insegnamento di vita, al
suo messaggio».
Prima di tutto la verità
Berto Ricci, ma anche Mussolini. L'altro punto di riferimento della vita
politica -e non solo politica- di Niccolai. In uno dei suoi discorsi per
il centenario mussoliniano osservò: «Certo è che qualsiasi seria
interpretazione dei futuri destini d'Italia, della sua dignità, se
nazione vorremmo essere e non gente, dovrà prendere le mosse, avrà il
suo punto d'appoggio, nella sua opera, nell'opera dell'antico socialista
di Predappio. È lui che, per primo nel mondo, innalza la bandiera
antibolscevica, anticipando di sessantanni quello che oggi tutti dicono
dei socialismi reali».
«E lo hanno appeso ai ganci di Piazzale Loreto per questo, per ciò che è
il suo merito: avere anticipato la crisi del mondo moderno, e averne
dettato le possibili soluzioni. Tanto che l'abbandonata bandiera
antibolscevica è stata risollevata oggi, nel mondo, dall'impero degli
Stati Uniti d'America».
«Si, -concludeva con forza e convinzione- l'Italia riprenderà il suo
cammino il giorno in cui tutti gli italiani avranno, fino in fondo, nel
bene e nel male, capito Benito Mussolini, e sentiranno l'orgoglio di
rivendicare, davanti al mondo, la sua opera».
Beppe Niccolai ha compiuto la sua opera attraversando questo tempo con
grande dignità. Lo ricorderanno in molti, giovani ed anziani, amici,
camerati ed avversari, fascisti ed antifascisti. II suo cammino di uomo
e di politico resterà d'esempio; la sua virtù è stata soprattutto una:
aver detto sempre la verità.
Gennaro Malgieri |