Caro Antonio,
mi hai chiesto un ricordo di Beppe. Te lo do subito, perché
se stessi a pensarci troppo, se mi mettessi lì a filtrare e a ricostruire,
farei della letteratura. E invece voglio, in qualche modo, testimoniare. Bene,
ti confesso una cosa che non ho mai detto a nessuno. Da bimbo, mi capitavano tra
le mani immagini di Mussolini, di quello dei trionfi gloriosi e di quello della
speranza piegata ma non schiantata. Guardavo, con curiosità. E in quella faccia
sentivo qualcosa di così profondamente, dignitosamente virile e paterno che mi
commuovevo. Ci vedevo l'autorità autorevole e la confidenza non appiccicosa,
non mielosa, ma cordiale, dell'uomo che ha creduto e che crede, che ha imparato
ad attraversare la sofferenza e a guardarla senza piagnucolare, che è capace di
insegnare perché è stato a scuola dalla storia e dalla vita, e questo gli ha
dato la capacità di osservare in alto e in profondità, amando il prossimo suo,
anche quello meno prossimo e meno suo. Ecco la paternità di Mussolini, quella
che io ci vedevo, soprattutto nell'uomo della Repubblica Sociale, inutilmente
gloriosa, gloriosamente inutile quanto si voglia.
Beppe Niccolai era figlio di quello sguardo. Che si era ancor
più incupito e intenerito, si era fatto più confidente e più disilluso, più
amaro ma ancora più aperto al futuro (e al suo prossimo e all'Italia), più
umano, dopo aver attraversato quarant'anni di antifascismo e di ripensamento del
fascismo.
Io ho nel cuore Beppe e il suo sguardo, e non potrò mai
dimenticarlo, in qualunque destino io, troppo maledettamente intellettuale,
troppo poco vocato al combattimento, debba inciampare.