L'ADDIO
"Si, Beppe Niccolai, Cominciamo da dodici!" Antonio Carli Ricordi, Beppe, che cosa scrivevi su "L'Eco (n° 7, del 15.9.1988), riferendoti agli anziani del nostro Movimento? Oggi, quel tuo richiamo al loro dovere («Avete piantato la vigna. Consentite ai giovani di vendemmiare!») lo dobbiamo rivolgere a tutti noi. Dobbiamo compiere «... il gesto più difficile, più amaro, più doloroso, ma che lascia il segno benefico: quello di non pensare più ad incarichi elettivi, dentro e fuori dal partito, dai più alti ai più marginali. Per continuare a servire ci sono gli incarichi di servizio». Sarà dura continuare, ma cercheremo di proseguire la tua opera. Non abbiamo la tua volontà, ma tenteremo di avere almeno la tua decisione; non possediamo la tua umanità, ma vedremo di corroborarla con la notevole sensibilità che possiede ognuno di noi; potremmo forse avere il dominio di noi stessi, sì da usare comprensione nei confronti di alcuni camerati, però, Beppe, tu ci conosci, non saremo mai in grado di praticarlo perché non possediamo la tua infinita bontà. Un tratto caratteriale, il nostro, che talvolta invidiavi, ed altre, ci rimproveravi. Ma mai un invito a correggerci, perché -tu dicevi- esso è una sorta di libertà, seppur eccessiva, che marca e distingue l’uomo dalla generale uniformità. Sarà difficile, Beppe. Ma, con te accanto, ci faremo forti del tuo esempio. Che sbatteremo in faccia a tutti, come scriveva il tuo, il nostro Berto Ricci, per «... muover l'aria ... spander vivacità e mobilità, rompere la muraglia delle marmotte, degli impalati consenzienti, dei musi duri, dei commedianti dell'ideale». Rileggeremo assiduamente i tuoi scritti. In ogni momento delle nostre non più esaltanti giornate, in qualsiasi nostro gesto, in qualsiasi conversazione, sentiremo viva, materiale, la tua presenza. Anche per rimediare, in parte all'esasperante tormento, allo stillicidio di tristezza da quando ci manchi. Sei a noi vicino, certo. Il rabbioso impotente vano risentimento contro l’imponderabile ci induce, però, ad un'amara e dolorosa constatazione: tu che ti angustiavi delle sofferenze altrui; che, quando uno di noi se ne andava, ti preoccupavi di sapere in quale stato avesse lasciata la propria famiglia, ora chiediti: «Come ho lasciato la mia Comunità?». Lo sai bene, Beppe: l'uomo, per naturale predisposizione, si costringe all'oblio. Non vuole soffrire. Passa oltre. «Manca la "religio", ciò che lega, che fa stare insieme». Molti, fra coloro che ti si dichiaravano amici, e sicuramente lo erano, costretti dal fato a pensare di avere costruito un bel sogno, per cui, ora, il brutto risveglio li può portare a dubitare sull'avveramento delle loro tanto attese aspirazioni etiche e morali, passeranno oltre. Non per pochezza o per disaffezione. Forse, perché, si sentiranno in qualche modo traditi nelle speranze che essi riponevano in te. Non come «capo» (sappiamo quanto aborrivi questo termine), ma come punto di riferimento; come amico al quale aggrapparsi nei momenti di maggior sconforto; come esempio da additare. Oggi da seguire, è vero, ma anche gli amici più cari diranno: «Per chi?». Possiamo contraddirli: per non avere la sensazione di avere gettato al vento oltre quarant'anni della nostra vita di servizio; per non vederci compatire dai nostri figli; perché le tue, le nostre idee, sono vincenti, anche se noi, avanti con gli anni, non potremo avere la soddisfazione di vederle finalmente realizzate. Continuerà la nostra missione. Per averti vicino, Beppe. Per non dare una ulteriore delusione agli amici che abbiamo in ogni parte di questa nostra martoriata Italia; e sono più di quanti, fino a ieri, potessimo mai immaginare di avere. A loro, ci rivolgiamo, acché esprimano il loro pensiero collaborando al «fogliaccio». Affinché la tua voce, Beppe, che fino a tempi quasi recenti si voleva isolata, diventi un coro prorompente in grado di «riunire almeno in parte il meglio dell'Italia pensante e scrivente, scartando senza pietà la molta gramigna». L'accesso a questo «fogliaccio» sarà vietato a chi va alla questua di seggiole elargite dal sistema; ai «notabili» incartapecoriti; ai portavoce dei piccoli poteriati; alle mummie, eternamente sorridenti, che trasudano molliccia ipocrisia da ogni poro, sino a renderla evidente sul collo bisunto; ai piccoli borghesi rifatti sbadatamente ammarrati sulle nostre sponde. Ai moderati, ai prudenti, alle teste chine. Ci demmo una massima, ricordi? La scrivemmo su L'Eco: «Stai attenta ai suoi occhi e a come stringe la mano». Tu l'hai vista, Beppe, la scritta che campeggia nella nostra sede versiliese: «Questo partito non ha bisogno di "strateghi", di "intellettuali" né, tanto meno, di "gente che conta". Necessita solo di persone che, in umiltà, sappiano far bene ciò che è possibile fare». Non faremo grandi cose e, quelle piccole, forse non le faremo neppure bene. Ci imbroglieranno perfino e cadremo, anche, in molti tranelli. Gli eterni perdenti? Non lo crediamo. Vinti? Indubbiamente. Lo fummo da adolescenti, scappando di casa per entrare nei ranghi della Repubblica Sociale. Ma non abbiamo mai firmato armistizi o trattati di pace. Siamo ancora dei ragazzacci. Con i capelli bianchi. Antonio Carli |